
I femminicidi non possono essere la nostra quotidinaità
Pubblichiamo l’intervento di Maria Grazia Calandrone contenuto nel libro “Femminicidi d’onore. Dal processo Saman ai diritti negati delle donne” migranti
Sono nata il 9 maggio del 2003 nel villaggio rurale chiamato
Kalavai.
Qui le case hanno le porte di legno colorate di azzurro, affacciate su piccole strade di polvere. Siamo mischiati al bosco, al
vento, al sole, all’acqua dolce del piccolo lago, all’arsura della
sabbia, alle moto, alle biciclette. I colori leggeri delle facciate sono confusi con l’intonaco azzurro del cielo
che posa sulle tegole
e sulle foglie di palma come una cicogna gigantesca, un gigantesco uccello pigliamosche. Se piove, il cielo grigio
sembra un rapace con le ali aperte. E, sotto, l’arancione della
terra, i cerchi di fuoco nel tempio.
I bambini giocano a mosca cieca, corrono tra le case.
Le divinità li salvano dal morso degli scorpioni.
Nel 2013 mamma Alamelu muore. Non importa il perché, non
esiste un motivo per cui la mamma di una bambina di dieci anni
muoia. Basta così.
Io, mia sorella di nome Anandi e mio fratello, entrambi maggiori di me, restiamo con un padre alcolizzato che pochi mesi
1 Tra le otto e mezzanotte, è la storia di Nandhini – che rifiutò un matrimonio combinato proprio mentre si svolgeva – un monologo scritto per Terre des Hommes
per Stand Up For Girls, letto dall’autrice e dalla protagonista Nandhini presso la Fondazione Feltrinelli di Milano il 18 novembre 2019.
Tra le otto di sera e mezzanotte1
di Maria Grazia Calandrone
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dopo si risposa e va a vivere con la nuova moglie nella capitale,
sul mare, ci lascia lì come tre pianticelle che uno parte e smette
d’innaffiare.
Noi tre veniamo accolti dalla sorella di mamma, che ha già figli
suoi e in casa lavora solo il marito, come manovale, siamo poverissimi.
La prima a liberarci dal suo peso economico è mia sorella, che
si sposa a 17 anni, due anni più tardi.
Ancora due anni dopo, tocca a me. Ho 14 anni, ho appena
finito la nona classe e mia zia decide di darmi in sposa a un
uomo che ha il doppio dei miei anni. Io 14, lui 28. Quasi non lo
conosco. Supplico, piango. Niente. La zia risponde che non riesce più a mantenermi. Le amiche mi dicono di obbedire, che non
abbiamo scelta, è sempre stato così, è così per tutte, sarà sempre così.
Ma io sono innamorata.
Ho un sogno, una passione
più grande della mia vita.
Io sono innamorata di una cosa astratta. Come posso spiegarmi?
Amo i libri, lo studio. Come spiegare che non sono fatta per obbedire?
18 luglio 2017. Il matrimonio è fissato per l’indomani. È tutto
pronto.
Sono come quei tori spinti nell’arena durante il Jallikattu: ubriachi,
con le orecchie tagliate e il peperoncino negli occhi. Pazzi di paura.
Anch’io devo fare spettacolo. Un matrimonio indiano è fatto per
restare nella memoria. Domani.
Mi chiudo in camera, piango sui libri che devo abbandonare.
Neanche fossero il corpo di una madre, di un fidanzato. È così
che dev’essere.
Poi, lo sguardo mi cade su un foglietto a colori che mi hanno
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dato a scuola, destinato a noi ragazze. C’è scritto il numero di telefono di Childline 1098.
Non decido nemmeno, non posso dirmi consapevole: una forza
più grande della mia stessa volontà mi slancia verso il telefono.
Sto chiedendo aiuto. Sto denunciando chi mi ha cresciuta, sto
rinnegando la mia famiglia e la famiglia del mio promesso sposo,
sto rinnegando le mie tradizioni.
Mi sto ribellando alla miseria con tutta la forza della mia vita.
Mi rispondono che arriveranno a salvarmi. In un paio d’ore.
Esco dalla mia camera. Il mio viso è truccato, il corpo
decorato con henné e curcuma, ai lobi delle orecchie hanno agganciato orecchini, sulla fronte ho corone di perle, ho i polsi coperti di bracciali e mi hanno dipinta con ori e smalti. Ho fiori sulla testa, come il toro.
Sono le otto di sera. I riti casalinghi sono finiti.
Dobbiamo andare al tempio, dove mi aspetta la famiglia del
promesso sposo.
Camminiamo. Anzi: camminano e cammino. Due universi affiancati, incompatibili. Io e loro, io e tutti gli altri.
Immagina
di camminare pensando all’abbraccio di uno sconosciuto, che
tra poco ha il diritto di abbracciarti, perché tra poco gli apparterrai.
Per tutta la vita.
Immagina di camminare sapendo che non potrai più fare quello
che ami. Mai più.
Immagina di camminare sapendo che trascorrerai il resto della
vita a servire lo sconosciuto col quale sarai costretta a dormire, sapendo che sarai costretta ad accudire i suoi genitori come fossero
tuoi.
Sono il toro impazzito di dolore. Sono un’offerta, il risultato di
un accordo.
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Lo dice il Kamasukta, l’inno all’amore che reciteremo durante la
cerimonia nuziale: «Chi ha offerto questa ragazza, a chi è stata
offerta?».
I tamburi e il suono degli shanai portano fuori dal corpo il mio
cuore, fanno sentire a tutti un batticuore che sembra gioia ed è disperazione.
Il corteo, a vederlo passare, è colorato e concreto. Accade. Sta accadendo.
La bambina è completamente sola
in mezzo ai parenti che la sospingono. Completamente sola nel vociare.
Inala il rancido dei corpi anziani. La tradizione.
Tra la folla, vede la cugina col tic all’occhio. Forse vuole incoraggiarla a scappare.
Io non sono più io.
Gli adulti che dovevano proteggermi
sono uno stormo di uccelli crudeli
che offre la mia vita come se fosse sua. Ma la mia vita è sacra.
Siamo entrati nel tempio. Immagina l’odore dell’incenso che
brucia. Immagina gli smalti
e gli stucchi. Lo stormo colorato mi consegna.
Immagina le erbe, le frittatine
di patate, immagina l’odore del riso
e il ronzio delle mosche
sopra i contenitori di alluminio pieni
di pollo marinato e di formaggio, immagina lo spacco verticale
del peperoncino
tagliato per il lungo
come me, che sono già due, la viva
e la morta nell’acqua fredda.
Il rosso dei vestiti, le corone di fiori sono sangue e spine. La gioia
degli altri è una trafittura. Ai lati del tempio sono appese catenelle di
fiori e vetro. Nelle ciotole sono pronti il cocco e il latte. Non arriva
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nessuno a salvarmi. Non succede niente. Il matrimonio procede,
verso la mia fine.
I colori, le pance, le erbe, il latte, il riso, il rosso e l’oro, il fuoco.
I colori, le pance, le erbe, il latte, il riso, il rosso e l’oro, il fuoco.
Il sorriso di lui
come un grano d’incenso che mi consuma. Il profumo
porta via l’anima.
Io sono fatta di materiali resistenti, ma non credevo di dover
resistere alla mia fine.
Poi, finalmente, accade. Arrivano le jeep. Frenano, alzando
polvere.
Venti persone scendono concitate. Sono civili, sono polizia.
Cercano me.
Lo stormo mi spoglia dei gioielli e mi nasconde, mi chiede di
mentire. Io dico sì, faccio sì con la testa, ma poi esco correndo
e grido, fino a perdere la voce, che io
volevo solo studiare.
Rimango per settimane in una casa di accoglienza di Terre des
Hommes, fino a che sbrigano tutte le pratiche. Sono stordita, sono
come in un sogno, sono sola, completamente sola come chi è libero.
Tra le otto di sera e mezzanotte
la mia vita è diventata mia. Adesso frequento la dodicesima
classe, sono diventata mio malgrado una celebrità, il governo mi
ha dato pure 1.200 euro, studierò, combatterò per altre come me.
Compiendo il gesto di telefonare, ho sradicato la miseria della
mia sorte come un’erba malsana, ho fatto un viaggio nello spazio
e nel tempo. E altre lo faranno dietro me.
Siamo soggetti al tempo
e non siamo padroni di niente. Solo del poco tempo che abbiamo, che è la nostra vita.
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Lo studio ha salvato la mia vita. Anzi, di più: ha salvato la mia
libertà.
Ma io non vi ho traditi, io vi amo
come sempre, ma rimango in me stessa, nel mio cuore, fermo
come l’erba
che non si può schiacciare. Perché io non volevo passare invano,
in questa vita.