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3 / 2013
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Descrizione
La Corte Costituzionale conferma la legittimità dell'indennità di disoccupazione per gli apprendisti subordinata all'intervento della «bilateralità» La Cassazione e gli ambiti degli oneri probatori sul carattere ritorsivo del licenziamento Le conseguenze patrimoniali della «nuova» reintegra si applicano solo ai licenziamenti successivi alla riforma
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Prestazioni di vecchiaia – Residenza abituale in due Stati membri distinti –
Trattamento dei dati personali – Principi relativi alla qualità dei dati e alla legittimazione del trattamento
pensione di vecchiaia – Periodi di assicurazione rilevant
Politica sociale – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
Diritto di soggiorno dei cittadini di paesi terzi
1) La direttiva 2008/94/Ce si applica ai diritti degli ex lavoratoria prestazioni di vecchiaia di un regime previdenziale complementare istituito dal loro datore di lavoro. 2) L'art. 8 della direttiva 2008/94 deve essere interpretato nel senso che, al fine di determinare se uno Stato membro abbia adempiuto l'obbligo previsto da tale articolo, non possono essere prese in considerazione le prestazioni della pensione legale. 3) Affinché l'art. 8 della direttiva 2008/94 trovi applicazione, è sufficiente che il regime complementare di previdenza professionale non goda di una copertura finanziaria sufficiente alla data in cui il datore di lavoro si trova in stato di insolvenza e che, a causa della sua insolvenza, il datore di lavoro non disponga delle risorse necessarie per versare a tale regime contributi sufficienti per consentire l'erogazione integrale delle prestazioni dovute ai beneficiari. Non è necessario che questi ultimi dimostrino la sussistenza di altri fattori all'origine della perdita dei propri diritti a prestazioni di vecchiaia. 4) La direttiva 2008/94 deve essere interpretata nel senso che i provvedimenti adottati dall'Irlanda in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 25 gennaio 2007, Robins e a. (C-278/05), volti a tutelare gli interessi dei beneficiari dei regimi complementari di previdenza professionale, non soddisfano gli obblighi imposti da tale direttiva e che la situazione economica dello Stato membro interessato non configura una circostanza eccezionale che possa giustificare un minor livello di tutela degli interessi dei lavoratori per quanto riguarda i loro diritti a prestazioni di vecchiaia in base a un regime complementare di previdenza professionale. 5) La direttiva 2008/94 deve essere interpretata nel senso che il fatto che i provvedimenti adottati dall'Irlanda in seguito alla citata sentenza Robins e a. non abbiano avuto come risultato di consentire ai ricorrenti nel procedimento principale di percepire più del 49% del valore dei diritti a prestazioni di vecchiaia da essi maturati in base al regime complementare di previdenza professionale costituisce, di per sé, una violazione qualificata degli obblighi di tale Stato membro
Coniuge divorziato di un cittadino di uno Stato membro che ha lavorato in un altro Stato membro –
transfrontalieri
L'articolo 45 TfUe dev'essere interpretato nel senso cheosta a una normativa di un ente federato di uno Stato membro che impone a tutti i datori di lavoro che hanno la propria sede di gestione nel territorio di tale ente di redigere i contratti di lavoro a carattere transfrontaliero esclusivamente nella lingua ufficiale di tale ente federato, a pena di nullità di tali contratti, rilevata d'ufficio dal giudice.
insolvenza – garanzie per i crediti dei lavoratori
Pubblica amministrazione – Comparto università
Socio-lavoratore di cooperativa – Diritto all’indennità di disoccupazione – Sussistenza
Licenziamento oggettivo – Effettiva sussistenza – Requisito dimensionale
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Una dipendente di un'azienda commerciale con mansioni di addetta alla vendita, licenziata per soppressione del posto di lavoroa causa dell'impossibilità di sostenere gli oneri economici connessi all'impiego di due lavoratori subordinati, conveniva in giudizio il datore di lavoro per sentire dichiarare la illegittimità del comminato licenziamento. Il Tribunale di Chieti, nell'accogliere il ricorso, ha ritenuto come la società non avesse assolto all'onere probatorio posto a suo carico laddove la perdita di esercizio riportata nel bilancio prodotto dall'azienda era idonea a provare I'esistenza di una contingente situazione sfavorevole, ma non anche la necessità di procedere a una ristrutturazione aziendale con soppressione definitiva del posto di lavoro della dipendente. Inoltre, il bilancio prodotto dalla società resistente fotografava la situazione esistente al 31 dicembre 2009 quindi non idonea a provare la reale situazione in atto al momento del licenziamento avvenuto a settembre del 2010. Pertanto, ha affermato la illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Contratti a termine – Nullità – Sussistenza
Trasferimento di ramo di azienda – Requisiti –
Licenziamento collettivo – Criteri di scelta
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo per assenza ingiustificata in infortunio sul lavoro
Un lavoratore impugnava il licenziato subito per giustificato motivo soggettivo, con preavviso,per assenza dal lavoro asseritamente senza giustificazione durante un periodo di astensione dal lavoro cui era stato costretto per aver subito un infortunio sul lavoro e per non avere comunicato tempestivamente la prosecuzione dello stato di incapacità al lavoro. Il Tribunale adito accertava che mentre la contestazione inerente l'assenza ingiustificata dal lavoro era infondata poiché l'ultimo certificato attestava il «persistere» della malattia e che trattavasi quindi di certificazione di prolungamento senza interruzione dello stato di malattia pregresso, riteneva invece sussistente l'illecito disciplinare consistito nella omessa tempestiva comunicazione della prosecuzione dello stato di incapacità al lavoro, posto che era dovere del ricorrente, in applicazione dell'art. 2 del Ccnl Industria metalmeccanica applicato, avvertire l'azienda entro il primo giorno di assenza della prosecuzione della malattia, inviando entro due giorni il certificato medico, cosa che invece il lavoratore non aveva fatto. Il Tribunale riteneva tuttavia che l'illecito accertato, sotto il profilo della valutazione di gravità del comportamento addebitato, non era idoneo a integrare il concetto di giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ. e neppure di giustificato motivo oggettivo ex art. 2118 cod. civ., posto che il ricorrente non aveva mai avuto procedimenti disciplinari, né sanzioni precedenti al fatto in questione, e il fatto accertato, pur costituendo una violazione degli obblighi contrattuali del ricorrente, non aveva connotati di gravità tali da integrare il concetto di notevole o grave inadempimento, posto che si trattava di un mero ritardo di tre giorni della sola comunicazione della prosecuzione dello stato di incapacità lavorativa, stato peraltro sussistente. Da tale valutazione inerente la gravità del fatto il Tribunale ne traeva un'importante conseguenza relativa alla disciplina applicabile, ritenendo sussistere entrambe le fattispecie previste dal comma 4, dell'art. 18 legge n. 300/1970 come modificato, e disponendo quindi la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni mensili globali di fatto dovute e non corrisposte dal giorno del licenziamento al giorno della reintegra, con interessi e rivalutazione, dalla mora al saldo. Per quanto riguarda il fatto contestato, osservava che esso è diverso da quello accertato, dal momento che solo parte della contestazione disciplinare è fondata; per quanto riguarda l'ipotesi che «il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, secondo le previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari applicabili», il Tribunale osservava che gli artt. 9 e 10 del Ccnl di settore prevedono la sanzione del licenziamento unicamente per assenze ingiustificate superiori a gg. 4, da cui discende una previsione implicita di sanzioni conservative per illeciti disciplinari meno gravi e rilevanti, quale quello commesso dal lavoratore.
La richiesta di prestazioni lavorative estranee al contratto di appalto non determina una interposizione illecita di manodopera
Un dipendente di un'azienda che aveva reso servizi di pulimento in favore di un istituto di credito adiva il Tribunale di Napolial fine di vedere accertare la sussistenza di un'interposizione di manodopera a favore della società committente per effetto dell'assegnazione stabile del lavoratore a prestazioni di archivista estranee al contratto degli appaltatori. Il Tribunale di Napoli, ritenuta l'estraneità della prestazione resa dalle attività di pulimento appaltate alla società appaltatrice, dichiarava, con sentenza confermata parzialmente dalla Corte di Appello, la sussistenza di un rapporto di lavoro in capo all'istituto di credito. La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso di legittimità della società appaltante ha, tuttavia, affermato che lo svolgimento di prestazioni estranee al contratto di appalto non determina necessariamente la costituzione di un rapporto di lavoro in capo alla società che beneficia delle prestazioni. La Corte di Cassazione ha infatti precisato che, qualora il soggetto appaltante sia una impresa costituita in forma societaria, le sole attività negoziali materiali rilevanti sono quelle compiute dagli organi deputati a formare ed estrinsecare la volontà della società nonché a rendere imputabile alla medesima le attività compiute. In applicazione di tale principio la Corte di Cassazione ha quindi cassato la decisione dei giudici partenopei che limitandosi ad accertare che le prestazioni di archivista erano state effettuate dal lavoratore su richiesta di responsabili della filiale non aveva accertato l'ambito di competenza delle loro responsabilità e dei loro poteri.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Correttezza e buona fede
Reclamo – Compensazione spese nella precedente fase cautelare – Condanna in esito al reclamo
L’impresa non è obbligata a trattare con tutte le organizzazioni dei lavoratori
avoratrice madre – Licenziamento
Appalto di opere e servizi, responsabilità del committente
M. S. ha lavorato alle dipendenze di una società che aveva svolto attività di pulizia dei treni e delle stazioniper conto di Trenitalia fino al 7 febbraio 2010. Successivamente la datrice di lavoro è stata ammessa alla procedura di amministrazione straordinaria per le grandi imprese in crisi. Il lavoratore, non avendo ricevuto il pagamento delle competenze di fine rapporto ha agito in giudizio nei confronti della committente Trenitalia per ottenere il pagamento delle competenze di fine rapporto in forza dell'art. 29 d.lgs. 10 settembre 2003 n. 276 che nella dizione modificata da successivi interventi normativi, recita «In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti» e ottenuto sentenza favorevole. Prima di ottenere tale sentenza, aveva agito in giudizio contro l'appaltatore datore di lavoro per conseguire il riconoscimento di una superiore qualifica e delle conseguente differenze retributive, e la causa in data successiva alla decisione della suddetta controversia ha avuto esito favorevole e il lavoratore ha ottenuto la condanna della datrice di lavoro. Sulla base di tale pronuncia il lavoratore ha promosso nuovo giudizio nei confronti dell'appaltante per ottenere il pagamento da parte dello stesso delle differenze retributive riconosciute nei riguardi dell'appaltatore. L'appaltante si è costituito in giudizio sollevando numerose eccezioni che il Tribunale ha respinto accogliendo la domanda del lavoratore affermando: a) Quanto alla eccezione di improcedibilità della domanda per violazione del cd. principio di infrazionabilità , «le modalità di esercizio della pretesa non possono comportare il rigetto della domanda, se il diritto sostanziale con essa fatto valere esiste, ma debbono trovare sanzione nei rimedi specifici apprestati dalla legge processuale (artt. 90 e ss. cod. proc. civ.) per il caso di cd. abuso del processo». Ciò perché «l'abuso del mezzo processuale non può mai condurre al diniego della tutela giurisdizionale, altrimenti ledendosi il fondamentale diritto di cui all'art. 24 Cost.». b) Quanto alla eccezione di giudicato, se è vero che lo stesso copre il dedotto e deducibile, è altrettanto vero che ciò non può verificarsi laddove ' come nella fattispecie ' il ricorrente abbia espressamente identificato l'ambito di operatività del primo ricorso con una ampia salvezza di far valere in separata sede ogni altro diritto correlato al rapporto di lavoro diverso da quello espressamente esercitato. c) Quanto al termine di decadenza, esso deve intendersi osservato con la proposizione del ricorso e non già con la successiva notifica, cosà come ritenuto nella stessa materia del lavoro ad esempio in relazione alla proposizione dell'appello. d) Quanto alla prescrizione, la stessa deve ritenersi interrotta con il ricorso promosso nei confronti del debitore principale, a sua volta obbligato in solido con il committente imprenditore, secondo quanto codificato nell'art. 1310 cod. civ. e) Nemmeno è fondata la eccezione di improponibilità della domanda ex art. 52 secondo comma legge fallimentare «che sottopone tutti i crediti vantati da chiunque verso l'impresa in procedura alla verifica dei crediti secondo le prescrizioni della legge fallimentare e con l'esclusività del cd. rito concorsuale». Infatti il ricorrente fa valere «la propria pretesa non nei confronti dell'obbligata diretta, in amministrazione straordinaria», nei confronti della quale la sentenza era stata pronunciata quando ancora era in bonis, «ma nei riguardi di Trenitalia, obbligata solidale ex lege, rispetto alla quale non opera alcuna preclusione di natura concorsuale a essere convenuta in giudizio». D'altra parte è proprio in questa eventualità che «la responsabilità solidale ex art. 29 cit. manifesta tutta la propria ragion d'essere, che è quella di apprestare una speciale tutela ai crediti dei lavoratori dell'appaltatore, trasferendo, per scelta legislativa coerente con la scala dei valori assunti dalla Costituzione, come chiaramente evincibile già dal tenore dell'art. 41 ' e di incompetenza del Tribunale del Lavoro a favore del foro fallimentare, che non ha motivo di essere attivata, posto che la presente lite è stata instaurata verso un soggetto in bonis (Trenitalia)». f) Da ultimo «Ugualmente da respingersi sono i rilievi della convenuta secondo i quali il credito per cui agisce il sig. S. non sarebbe tutelato dall'art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 perché la copertura da esso data sarebbe riferibile ai soli elementi retributivi risultanti dalle scritture contabili: ma questa limitazione non è né nella lettera, né nello spirito della norma, che ha volutamente ampliato la tutela dei crediti di lavoro rispetto a quella assicurata dall'art. 1676 cod. civ., eliminando qualunque limitazione quantitativa alla responsabilità del committente (è stato rimosso il massimale rappresentato dal debito del committente verso l'appaltatore), e inoltre contrasta con il sistema generale di tutela dei crediti di lavoro, che prescinde dalle risultanze dei libri contabili; e quello per cui comunque la committente non dovrebbe pagare perché già escussa per importi largamente eccedenti quello del debito della stessa verso l'appaltatore tenuto conto della maggior ampiezza di tutela dell'art. 29 rispetto a quella dell'art. 1676 cod. civ.».
Contratti a termine – Mancata previsione della causale
È illegittima la procedura di mobilità laddove il datore non abbia portato avanti una effettiva consultazione con le rsa
obbligo di introdurre misure antirapina in capo all’azienda che effettua attività di sportello
Indennità di malattia per dializzati
I lavoratori che si sottopongono a trattamenti salvavita in dialisi non hanno diritto a che le giornate utilizzate per detti trattamenti siano scorporatedal periodo massimo di assenza dal lavoro per malattia indennizzabile. La Corte Costituzionale, con una sentenza che desta obiettivamente sconcerto (dati i valori in gioco), ha quindi rigettato la questione sottopostale dal Tribunale di Arezzo sostenendo, in definitiva, che l'intervento additivo chiesto alla Corte non fosse di sua competenza, essendo al contrario compito del legislatore scegliere le modalità attraverso le quali è possibile tutelare il diritto di lavoratori in situazioni di salute cosà gravi. Che la sentenza in commento si segnali in tutta la sua pericolosa negatività in relazione alla doverosa (ma dalla Corte denegata) tutela del nucleo essenziale del diritto alla salute, è testimoniato dal fatto che la Corte è pienamente cosciente della ferita che le disposizioni impugnate infliggono a tale diritto. Si leggano le seguenti testuali affermazioni: «In tale contesto, la tutela del lavoratore dializzato reclama una disciplina che individui il punto di equilibrio tra gli opposti interessi in gioco, attraverso un bilanciamento di valori, che ' salvo il successivo controllo di ragionevolezza nella sede dello scrutinio di costituzionalità ' spetta in via primaria al legislatore: l'opportunità del cui intervento va, comunque, particolarmente sottolineata nella presente materia, in cui viene in rilievo e rischia di risultare compromessa, nel suo nucleo minimo e irriducibile, la tutela del diritto alla salute del lavoratore. Il quale, ove non economicamente in grado di far fronte alla mancata erogazione dell'indennità sostitutiva della retribuzione, potrebbe vedersi costretto a rinunciare a sottoporsi a dialisi in giorni eccedenti il periodo massimo indennizzabile, ancorché sia indubitabile il carattere salvavita del predetto trattamento terapeutico». Con buona pace del lavoratore dializzato.
Inps e contributi di malattia
La Corte Costituzionale si è espressa in merito all'annosa questione della contribuzione di finanziamento della indennità di malattia,con particolare riferimento all'irripetibilità di quanto versato a tale titolo dai datori di lavoro che, in base a successivi interventi del legislatore, non vi erano più tenuti. La materia è disciplinata dall'art. 6 della legge n. 148 del 1943, il quale al secondo comma prevede che l'indennità di malattia non sia dovuta da parte dell'Inps ove tale trattamento economico sia corrisposto per legge o per contratto collettivo direttamente dal datore di lavoro. L'art. 20 del d.lgs. n. 112 del 2008 ha fornito una interpretazione autentica della disposizione sopra citata chiarendo che i datori di lavoro che corrispondono l'indennità di malattia non sono tenuti al versamento della relativa contribuzione all'Inps, ma che i contributi già versati non potevano essere restituiti. A tre anni di distanza, il legislatore modificava la disciplina in commento con il d.l. n. 98/2011, inserendo nel predetto art. 20 il comma 1-bis, che ha reintrodotto, a decorrere dal 1° maggio 2011, l'obbligo di contribuzione in capo ai datori di lavoro che corrispondono ai propri dipendenti l'indennità di malattia. Il medesimo decreto legge del 2011 ha modificato altresà l'ultimo periodo del primo comma dell'art. 20, affermando che i datori di lavoro che avevano versato la contribuzione di finanziamentodell'indennità di malattia prima del 1° maggio 2011 non avevano diritto alla sua restituzione da parte dell'Inps, nonostante fossero a ciò tenuti in base alla disciplina precedente. In base alla disciplina introdotta nel 2008 e modificata nel 2011, dunque, venivano indirettamente «premiati» i datori di lavoro che, pur essendovi tenuti, avevano omesso di versare la contribuzione di finanziamento dell'indennità di malattia all'Inps. Sulla base di tali rilievi muove la sentenza della Corte Costituzionale in commento, laddove ha rilevato la incostituzionalità del comma 1, ultimo periodo, dell'art. 20 del d.l. n. 112/2008, ribadendo il principio in base al quale sono illegittime, per violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, le norme che prevedono l'irripetibilità di quanto versato nel fondato convincimento di adempiere a una obbligazione in realtà inesistente.
Il programmista radiofonico dequalificato ha diritto al risarcimento del danno da determinarsi anche in via presuntiva
Una lavoratrice addetta per numerosi anni a un programma radiofonico culturale,in occasione di una riorganizzazione del palinsesto delle programmazioni veniva privata della mansione svolta. La dipendente, ottenuto il ripristino delle mansioni a seguito di un giudizio cautelare promosso innanzi al Tribunale di Roma, rifiutava ogni altra collocazione e veniva quindi adibita unilateralmente dall'azienda a un ruolo non conforme alla propria professionalità . Il Tribunale di Roma nuovamente adito dalla lavoratrice, accertata la dequalificazione, disponeva nuovamente il ripristino nelle mansioni condannando la società al risarcimento del danno. La Corte territoriale, preso atto della collocazione in quiescenza della dipendente, confermava la condanna quantificando il danno nella misura del 50% delle retribuzioni dovute dalla dequalificazione alla cessazione del rapporto in ragione anche della condotta non collaborativa della dipendente. La Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte di Appello precisando che correttamente la decisione dei giudici di appello, in mancanza della prova da parte del datore circa l'equivalenza delle mansioni attribuite, aveva riconosciuto un danno in capo alla lavoratrice sulla base di una prova presuntiva della lesione applicando un criterio equitativo nella sua liquidazione che teneva altresà conto della condotta non collaborativa della dipendente.
si precisa l’ambito probatorio del licenziamento ritorsivo
Il mero richiamo alle causali del determina nel rapporto interinale la costituzione di un rapporto con l'utilizzatore
Un lavoratore, che aveva prestato in favore di Poste italiane la propria attività lavorativa a terminesulla base di un contratto di lavoro interinale a termine fondato su un generico richiamo alle «cause previste dal Ccnl», dopo la scadenza adiva il Tribunale di Milano al fine di vedere riconoscere la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in capo all'azienda utilizzatrice. La domanda del lavoratore veniva accolta sia in primo grado che all'esito dell'appello. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione della Corte di Appello di Milano ha precisato che il mero richiamo nel contratto di fornitura della causale «casi previsti dal contratto collettivo nazionale» non è conforme alla previsione normativa. La violazione del contratto di fornitura rende il contratto illegittimo per violazione della legge 196/97 che consente la stipulazione solo per esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate dal secondo comma dell'art. 1. Dall'illegittimità del contratto di fornitura discende, ad avviso della Corte, la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro a termine per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal d.lgs. n. 368/2001 e in particolare della forma scritta che ineluttabilmente in tale contesto manca tra l'impresa utilizzatrice e il lavoratore
Le Sezioni Unite affermano la retribuibilità del tempo tuta
Alcuni dipendenti di un istituto geriatrico adivano il Tribunale di Milanoal fine di vedere accertare la computabilità nell'orario di lavoro del tempo necessario per indossare una divisa obbligatoria. Nel costituirsi in giudizio l'ente contestava la giurisdizione del giudice ordinario, insistendo per il rigetto della domanda. Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza riformata in sede di appello. Le Sezioni Unite investite del gravame promosso dall'ente che riproponeva l'eccezione di difetto di giurisdizione, pur cassando la sentenza per insufficiente esame su un punto fondamentale della controversia, in ordine all'obbligatorietà della vestizione hanno confermato l'orientamento giurisprudenziale che riconduce nell'ambito del normale orario di lavoro il tempo di vestizione e svestizione ove tale attività preparatoria sia imposta dal datore di lavoro
Le conseguenze patrimoniali della «nuova» reintegra si applicano solo ai licenziamenti successivi alla sua entrata in vigore
All'esito di una vicenda giudiziaria scaturita da un licenziamento disciplinare ritenuto illegittimo sia in primo grado dal Tribunale di Napoliche in sede di appello, la Corte di Cassazione, nel confermare la decisione dei giudici partenopei, ha rigettato, richiamando i principi del giusto processo e le norme internazionali contenute nell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e la Carta europea dei diritti fondamentali, le deduzioni formulate dalla difesa dell'azienda in sede di discussione circa l'applicabilità del nuovo regime dell'art. 18 Stat. lav. anche ai giudizi in corso. I giudici di legittimità hanno affermato che il nuovo art. 18 della legge n. 300/1970, come riformato dall'art. 1, comma 42, della legge n. 92/2012, non può trovare applicazione alle cause concernenti i provvedimenti di licenziamento in corso alla data del 18 luglio 2012, anche per la mancanza di una disciplina transitoria. La Corte di Cassazione ha invero evidenziato che il nuovo sistema prevede distinti regimi di tutela a seconda del tipo di accertamento effettuato dal giudicante. Si tratta ' ad avviso della Corte ' di un evidente stravolgimento del sistema di allegazioni e prove nel processo, che non è limitato a una sanzione irrogabile che impedisce una efficacia retroattiva della novella.
limiti della responsabilità del datore di lavoro per condotte delittuose di terzi a danno dei propri dipendenti
Un dipendente addetto a svolgere mansioni di guardia particolare giurata nell'ambito di una manifestazione politicaveniva aggredito da alcuni giovani subendo gravi lesioni. All'esito dell'aggressione il dipendente adiva il Tribunale di Latina al fine di richiedere alla propria azienda il risarcimento del danno subito. La domanda veniva respinta sia in primo grado sia dalla Corte di Appello di Roma sul rilievo che la responsabilità del datore di lavoro non può estendersi oltremodo in modo da configurarsi in termini di responsabilità oggettiva. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione del giudice di merito ha confermato l'interpretazione restrittiva della responsabilità del datore di lavoro fornita dalla Corte di Appello affermando che la responsabilità del datore non interviene nel caso in cui il fatto che ha portato alle lesioni del lavoratore sia imputabile a un illecito commesso da terzi qualora il lavoratore non dimostri la sussistenza di una colpa imputabile al datore di lavoro. Nel caso di specie era invero emerso che il vigilante aveva una regolare e funzionante arma in dotazione cosà come un apparato radio per richiamare i soccorsi. L'assenza di una condotta negligente del datore di lavoro atta ad agevolare l'aggressione impedisce di configurare un profilo di responsabilità in capo all'azienda per l'aggressione effettuata da terzi al proprio dipendente.
Bilateralità e disoccupazione per gli apprendisti
La Corte Costituzionale, con una sentenza che farà molto discutere, si è espressa in materia di indennità di disoccupazionea favore degli apprendisti in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero di licenziamento. La Corte, dichiarando l'infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Lucca, ha sostanzialmente avallato il meccanismo attraverso il quale la legge prevede la corresponsione dell'indennità subordinatamente all'intervento della bilateralità . La legge impugnata, nel subordinare l'erogazione all'intervento integrativo a carico degli enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva, avrebbe comportato un'irragionevole disparità di trattamento a danno di lavoratori che, a differenza di altri e ricorrendo i medesimi presupposti (la disoccupazione), fossero stati esclusi dall'erogazione del sostegno al reddito per circostanze quali l'inesistenza o l'inapplicabilità di un contratto collettivo sull'ente bilaterale, il cui verificarsi è riconducibile a scelte dei sindacati di parte datoriale o dello stesso datore di lavoro. Ma c'era di più: la violazione dell'articolo 38, secondo comma, della Costituzione appariva palese in ragione del fatto che una provvidenza pubblica, apprestata per garantire ai lavoratori «che siano preveduti e assicurati, mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di [â?¦] disoccupazione involontaria», non può e non deve essere agganciata a criteri cosà labili come l'intervento della bilateralità . Insomma, un diritto è di per sé una posizione giuridica soggettiva che, se prevista dalla legge, deve seguire i criteri propri di uno Stato di diritto (la certezza e la esigibilità ). Ma è proprio qui che la Corte ci dice che, in realtà , non si tratta di una misura introdotta in modo stabile nell'ordinamento e diretta a configurare un incondizionato diritto soggettivo in capo ai lavoratori. La Corte Costituzionale, con un ragionamento assai discutibile, da una parte si trincera dietro la sperimantalità e la provvisorietà dell'istituto (come se la temporaneità della misura escludesse l'osservanza del principio di eguaglianza), dall'altra (cosa ancora più grave), antepone la «promozione» della bilateralità alla tutela dello stato di disoccupazione dei lavoratori apprendisti. Come possa essere ragionevole un trattamento diverso (tanto più se a carico della fiscalità generale) di situazioni riconosciute eguali a livello individuale (due apprendisti in identica situazione rispetto al lavoro), adducendo a giustificazione la finalità di incentivare la bilateralità , la Corte questo non lo spiega. Che poi l'apprendista non abbia di che vivere, questo è irrilevante (con buona pace, come detto, dell'art. 38, secondo comma, Cost.). I passi decisivi della sentenza sono i seguenti: «diversamente dai tradizionali istituti di sostegno al reddito previsti in caso di sospensione o estinzione del rapporto, quello stabilito dalla norma censurata non è finanziato dalla contribuzione posta a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori, bensà dalla fiscalità generale. Nel senso della natura di incentivo del sistema della bilateralità piuttosto che di provvidenza direttamente attribuita ai lavoratori depone anche la preventiva determinazione dell'ammontare complessivo dei fondi destinati, per ciascun anno, agli interventi da essa previsti; con la conseguenza che, una volta eventualmente esauriti tali fondi, nulla può essere comunque concesso ai lavoratori, seppure versino nelle condizioni previste dalla disposizione stessa. Va infine considerato il carattere sperimentale e transitorio dell'intervento previsto dall'art. 19, comma 1, lettera c), del decreto-legge n. 185 del 2008: la norma, da un lato, definisce espressamente «sperimentale» la misura di sostegno al reddito contemplata a favore degli apprendisti e, dall'altro, fin dall'inizio ne ha limitato la durata nel tempo (inizialmente per il triennio 2009-2011, successivamente fino a tutto il 2012). In sostanza, il legislatore ha inteso verificare la possibilità di realizzare una tutela a favore degli apprendisti sospesi o licenziati mediante l'intervento degli enti bilaterali; a tal fine ha stabilito, in via transitoria, lo stanziamento di determinati fondi, disponendo che, ove le parti sociali avessero effettivamente previsto quell'intervento, essi avrebbero potuto essere impiegati a favore della predetta categoria di lavoratori. La natura incentivante e sperimentale dell'istituto definito dalla norma censurata ne esclude, pertanto, il carattere irragionevolmente discriminatorio a danno di lavoratori appartenenti a settori produttivi nei quali non sia stato previsto un ente bilaterale, appunto perché non si tratta di una misura introdotta stabilmente e diretta a configurare un incondizionato diritto soggettivo in capo ai lavoratori». Per concludere, l'unica nota (forse) positiva riposa nel fatto che la Corte fa trasparire, nella motivazione, che un istituto di tal genere può, ora, essere dichiarato legittimo, ma che se la «sperimentalità » dovesse continuare rebus sic stantibus, un futuro intervento demolitorio sarebbe inevitabile (da parte della stessa Corte). I giudici non lo dicono apertamente ma, se si tiene conto di alcune risalenti sentenze costituzionali, tale possibilità non appare affatto da escludere. Una cosa è certa: se le norme impugnate dovessero, nella sostanza e nel tempo, stabilizzarsi, allora in un prossimo futuro sarà sostenibile una nuova questione di costituzionalità che faccia valere il superamento della transitorietà e la «cristallizzazione» di una situazione contra constitutionem.
Contratti a termine per ragioni sostitutive
La Corte Costituzionale, rigettando una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Traninella parte in cui la norma impugnata non prevede espressamente l'onere, a carico del datore di lavoro, di indicare il nome del lavoratore sostituito, ha affermato che il criterio di identificazione personale del prestatore sostituito risponde a criteri di trasparenza ma che non si può escludere, in presenza di realtà aziendali complesse, la individuazione di criteri alternativi, rigorosamente oggettivi, tali da raggiungere lo stesso fine di trasparenza. Infatti, per le imprese particolarmente complesse, è sufficiente fare riferimento al numero di lavoratori assenti in una certa funzione aziendale. Il dubbio riguarda, in particolare, l'obbligo di indicare il nome del lavoratore assente. Il d.lgs. n. 368/2001 nulla dice al riguardo, al contrario della disciplina previgente, ma nonostante il silenzio della legge sul punto, la giurisprudenza ha sempre ritenuto sussistente l'obbligo di indicare il nome, perché solo in questo modo sarebbe soddisfatta l'esigenza di scrivere la causale in maniera specifica. Questo orientamento è stato attenuato dalla Corte di Cassazione, che ha riconosciuto la possibilità di non scrivere in maniera specifica il nome del dipendente, nei casi di particolare complessità aziendale. In tali ipotesi per la Cassazione, se la sostituzione è riferita non a una singola persona, ma a una funzione produttiva specifica, il requisito della specificità può ritenersi soddisfatto non tanto con l'indicazione nominativa del lavoratore o dei lavoratori sostituiti, quanto con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei lavoratori assunti con contratto a termine e le scoperture realizzate. La Corte Costituzionale, nel rigettare la questione, ha affermato che il legislatore, prescrivendo l'onere di specificazione delle ragioni sostitutive per poter assumere lavoratori a tempo determinato, ha imposto una regola di trasparenza. Per attuare questa regola, il criterio dell'identificazione nominativa del personale sostituito è da ritenere certamente il più efficace. Tuttavia, secondo la Corte, non si può escludere la legittimità di criteri alternativi, sempre che essi siano rigorosamente adeguati allo stesso fine e saldamente ancorati a dati di fatto oggettivi. La Corte, infine, ha escluso che tale lettura crei alcuna discriminazione tra lavoratori assunti a termine per esigenze sostitutive da imprese di grandi dimensioni rispetto a quelli assunti alle dipendenze di piccole imprese, perché in entrambi i casi il datore di lavoro deve sempre formalizzare rigorosamente per iscritto le ragioni sostitutive
Professori universitari in servizio sino a 72 anni
I professori universitari potranno rimanere in servizio fino a 72 anni.La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato incostituzionale l'art. 25 della legge sull'«Organizzazione del sistema universitario», detta anche legge Gelmini. La legge prevedeva il pensionamento dei professori universitari al raggiungimento del settantesimo anno di età In seguito a un ricorso di un professore, il Consiglio di Stato ha promosso un giudizio sulla legittimità costituzionale della disposizione. La norma, «Collocamento a riposo dei professori e ricercatori», negava a queste figure la possibilità di rimanere in servizio per altri due anni oltre i limiti di età previsti per il collocamento a riposo. La Corte Costituzionale ha motivato la propria sentenza affermando che l'esclusione dei docenti universitari dalla possibilità di godere dei due anni aggiuntivi, concessa invece ai dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici (art. 16 del d.l. n. 503/1992), costituisce una violazione al principio di uguaglianza
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