1 / 2006
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Descrizione
La Corte Costituzionale ritorna sulla definizione del mobbing e sulle competenze regionali Le Sezioni Unite risolvono il contrasto su onere della prova dei livelli occupazionali e tutela reale Complesso caso di licenziamento collettivo deciso dalla Corte di Appello di Bologna
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Non vi è litisconsorzio in caso di richiesta di risarcimento danni in seguito a un concorso
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Elio L. e Salvatore B., dipendenti della Carit ' Cassa di Risparmio di Terni e Narni hanno partecipato a una procedura aziendale di selezioneper l'avanzamento nella carriera di funzionario. Essi non hanno ottenuto l'avanzamento, che è stato invece attribuito ad alcuni loro colleghi. In seguito a ciò essi hanno promosso, davanti al Tribunale di Terni, un giudizio nei confronti dell'azienda e dei vincitori del concorso, chiedendo la dichiarazione della nullità  delle promozioni ottenute dai medesimi per irregolarità  nelle valutazioni nonché il riconoscimento del loro diritto alla qualifica superiore e al relativo trattamento economico, e la condanna della Carit al risarcimento del danno. Nel corso del giudizio essi hanno ridotto la domanda, limitandosi a chiedere la condanna dell'azienda al risarcimento del danno consistito nella perdita di chances, ovvero di possibilità  favorevoli di accedere all'inquadramento superiore. Il Tribunale ha accolto questa domanda, condannando l'azienda al risarcimento del danno. La decisione è stata impugnata dalla Carit e, in via incidentale, dai lavoratori che hanno chiesto un aumento dell'importo liquidato per il risarcimento. La Corte d'Appello di Perugia ha ordinato l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei dipendenti vincitori del concorso. Poiché la Carit non ha provveduto all'integrazione nel termine stabilito, la Corte ha dichiarato l'inammissibilità  dell'appello. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione negando la configurabilità  di un litisconsorzio necessario e la conseguente necessità  di integrazione del contraddittorio in appello nei confronti degli altri partecipanti alla selezione concorsuale per avanzamento. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 531 del 13 gennaio 2006, Pres. Senese, Rel. Roselli) ha accolto il ricorso. Nel caso in cui l'attore in giudizio, sostenendo l'irregolare svolgimento della procedura di selezione per l'accesso ad una superiore qualifica lavorativa, pretenda non già  una tutela specifica ossia la condanna del datore di lavoro ad attribuire quella qualifica con esclusione degli altri concorrenti ' ha affermato la Corte ' sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di costoro, pregiudicati dall'eventuale sentenza di accoglimento. Se, per contro, l'attore voglia una tutela soltanto risarcitoria per perdita di una mera possibilità  di accesso alla qualifica superiore, cagionata dalla procedura irregolare bensà ma di esito incerto (perdita non del bene ma di una chance), equivalente alla tutela di un interesse legittimo di diritto privato e non di un diritto soggettivo perfetto, in tal caso deve escludersi la qualità  di litisconsorti necessari in capo agli altri partecipanti alla selezione, nei cui confronti l'attore non esercita alcuna pretesa, con la conseguente impossibilità  di un giudicato sfavorevole. La Corte Suprema ha cassato la decisione impugnata rinviando la causa alla stessa Corte d'Appello di Perugia per la decisione di merito.
Il datore che denuncia un suo dipendente deve contestare contestualmente l'addebito in sede disciplinare
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Nel marzo del 1994 la Spa Poste Italiane ha disposto un'ispezione presso un ufficio locale cui era addetta l'impiegata Valeria S.Nella loro relazione, in data 19 marzo 1994, gli ispettori hanno segnalato all'ufficio del personale che la lavoratrice aveva trattenuto indebitamente l'importo di due contrassegni. L'azienda ha quindi denunciato quanto accertato alla Procura della Repubblica di Chieti. In seguito a ciò la lavoratrice è stata sottoposta a processo penale, che è stato definito con sentenza di patteggiamento emessa il 14 dicembre 1994. Quattro mesi dopo, il 19 aprile 1995, l'azienda ha contestato alla lavoratrice l'addebito disciplinare di avere trattenuto indebitamente l'importo dei due contrassegni e successivamente l'ha licenziata. Valeria S. ha impugnato il licenziamento davanti al pretore di Chieti, rilevando, tra l'altro, la tardività  della contestazione dell'addebito. Il pretore ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata in grado di appello dal Tribunale di Chieti, che ha ravvisato la violazione del principio di immediatezza, osservando che la contestazione disciplinare era stata effettuata vari mesi dopo la pronuncia di patteggiamento e concerneva comunque quanto già  accertato dagli ispettori aziendali nel marzo del 1994. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale di Chieti per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 241 dell'11 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel. Curcuruto) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui la presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale per fatti attribuiti a un dipendente non esclude l'onere di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale siano stati già  rilevati elementi di responsabilità ; se invece sia stata disposta la sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione dell'addebito disciplinare può essere differita in relazione alla pendenza di tale procedimento. Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' il giudice di merito ha correttamente motivato la sua decisione accertando che il datore di lavoro aveva sostanziale consapevolezza della responsabilità  della propria dipendente fin dalla relazione ispettiva, non aveva provveduto a sospenderla cautelarmente ed aveva lasciato trascorrere diversi mesi dalla data di sentenza di patteggiamento.
Per il riconoscimento della rappresentanza serve un'effettiva partecipazione all'accordo, non basta la sottoscrizione
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Questa sentenza è già  stata citata nel prececente numero di questa rivista(RGLNews n. 6/2005, p. 9). Ci sembra utile approfondire la controversia con ulteriori considerazioni. In base all'art. 19 Stat. lav. le rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori nell'ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità  produttiva. Il sindacato autonomo Faisa ha chiesto alla Star, Società  trasporti automobilistici regionali, con sede in Lodi, il riconoscimento della propria rappresentanza sindacale aziendale, facendo presente di avere sottoscritto un contratto collettivo applicato nell'unità  produttiva. La Star ha rifiutato il riconoscimento. Il sindacato Faisa ha promosso davanti al Tribunale di Lodi un procedimento in base all'art. 28 Stat. lav. per repressione di comportamento antisindacale. Nella fase cautelare il Tribunale ha rigettato il ricorso. Il sindacato ha proposto opposizione davanti allo stesso Tribunale che l'ha accolta dichiarando il carattere antisindacale del comportamento della Star Spa consistente nel non riconoscere la rappresentanza sindacale aziendale costituita dalla Faisa. Questa decisione è stata impugnata dalla Star davanti alla Corte di Appello di Milano, che ha ritenuto fondata l'impugnazione ed ha pertanto escluso la configurabilità  di un comportamento antisindacale. La Corte di Milano ha motivato la sua decisione richiamando i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 244 del 1996, secondo cui l'art. 19 Stat. lav. deve essere interpretato rigorosamente nel senso che, per potere costituire una rappresentanza sindacale aziendale, il sindacato deve dimostrare di avere partecipato attivamente al processo di formazione del contratto, dimostrando la capacità  di imporsi al datore di lavoro come controparte contrattuale. La Corte ha osservato che nel caso in esame era risultato che la Faisa non aveva partecipato attivamente al processo di formazione del contratto aziendale, ma si era limitata a sottoscrivere un contratto negoziato da altri sindacati. La Faisa ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello per violazione e falsa applicazione dell'art. 19 St. Lav.. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 26239 del 2 dicembre 2005, Pres. Ciciretti, Rel. Curcuruto) ha rigettato il ricorso. Il criterio selettivo desumibile dall'art. 19 St. Lav. ' ha osservato la Corte ' equivale in sostanza alla capacità  del sindacato di imporsi come controparte contrattuale; risulta evidente quindi che sotto tale aspetto la sottoscrizione di un testo negoziato e approvato da altre parti contrattuali non solo non indica una capacità  di imporsi alla controparte ma costituisce significativo indizio del contrario, rappresentando in definitiva uno strumento autopromozione, compensativo di una situazione deficitaria sul piano degli effettivi rapporti di forza. Si comprende quindi che, come è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 244 del 1996, «non è sufficiente la mera adesione formale ad un contratto negoziato da altri sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto » e si comprende anche, nel quadro del criterio di effettività  dell'apporto negoziale, come, sempre secondo detta sentenza, «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi» e si debba trattare, invece, «di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale o provinciale già  applicato nella stessa unità  produttiva». In conclusione, la tesi accolta dalla Corte territoriale ' ha affermato la Cassazione ' si muove indiscutibilmente nell'alveo della interpretazione costituzionalmente orientata delle norme di riferimento.
Il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore dequalificato nelle mansioni prima svolte o in altre equivalenti
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In questo stesso numero è già  stata citata questa sentenza(p. 10). Esaminiamo più da vicino il caso di specie. Nicola G. dipendente della Sevel, Società  Europea veicoli leggeri S.p.a., inquadrato nel III livello, ha svolto sino al gennaio 1998 le mansioni di conduttore di impianti di verniciatura, consistenti nell'avviamento e spegnimento degli impianti, nella pulizia e nel controllo a vista degli stessi, in interventi manutentivi aventi ad oggetto la verifica della temperatura e della pressione delle pompe, del numero di giri o del livello dell'olio ecc. Nel gennaio 1998 l'azienda gli ha assegnato, in luogo delle mansioni in precedenza svolte, quelle di addetto alla linea sigillatura, consistente nell'applicazione, in catena di montaggio, di sigillante sulle scocche. Nicola G. ha chiesto al Tribunale di Lanciano di accertare che egli aveva subito una dequalificazione e di affermare il suo diritto alla reintegrazione nelle mansioni di conduttore di impianti o in altre equivalenti. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha condannato l'azienda a reintegrare il lavoratore nelle mansioni precedentemente svolte. Essa ha proposto appello, sostenendo che le nuove mansioni assegnate al dipendente rientravano in quelle previste dal contratto collettivo per il terzo livello e che comunque non avrebbe dovuto disporsi la «reintegrazione» nelle mansioni, in quanto la reintegrazione è prevista dalla legge solo in caso di licenziamento illegittimo (art. 18 Stat. lav.). La Corte d'Appello degli Abruzzi ha rigettato l'impugnazione, escludendo che le nuove mansioni rientrassero tra quelle previste per il terzo livello ed osservando che comunque esse erano qualitativamente inferiori a quelle precedentemente svolte e non adeguate alla professionalità  acquisita dal lavoratore. In particolare la Corte ha rilevato che l'impianto affidato a Nicola G. sino al gennaio 1998 era molto complesso perché formato da molti circuiti di riempimento e svuotamento vasche, e che il lavoratore doveva controllare i livelli delle vasche, se necessario mantenerli costanti, eseguendo delle manovre specifiche a tal fine; ottimizzare il ciclo della macchina durante il funzionamento, e riparare anche i guasti di primo livello. Prendendo quindi in esame il periodo successivo al 2 gennaio 1998, la sentenza impugnata ha rilevato che le mansioni di addetto alla linea sigillatura erano proprie dell'operaio generico di catena di montaggio, consistendo nella applicazione di sigillante sulle scocche; e nel prendere in considerazione la declaratoria del terzo livello del contratto collettivo del settore ha escluso ad ogni modo che le nuove mansioni potessero essere comprese in essa in considerazione del fatto che per applicare sigillante alle scocche non è richiesta una preparazione specifica, laddove a detta categoria appartengono i lavoratori che svolgano attività  richiedenti «una specifica preparazione risultante da diploma o acquisita attraverso una corrispondente esperienza di lavoro». Quanto all'uso fatto da parte del giudice di primo grado del termine «reintegrazione», la Corte abruzzese ha rilevato che la non correttezza della terminologia adoperata era del tutto irrilevante. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte abruzzese per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 425 del 12 gennaio 2006, Pres. Mattone, Rel. Capitanio) ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui al fine di valutare se lo jus variandi, tuttora attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati dall'art. 2103 cod. civ., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è sufficiente verificare se le «nuove» mansioni assegnate al dipendente siano comprese nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresà l'equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza da lui svolte alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità  del loro espletamento, atteso che l'equivalenza presuppone che le «nuove» mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore l'utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del rapporto di lavoro. Nel caso in esame ' ha rilevato la Cassazione ' la sentenza impugnata, con motivazione adeguata, ha ritenuto attraverso gli elementi probatori acquisiti che diversamente dalle prime mansioni, le seconde fossero prive di complessità  e non richiedessero una preparazione specifica e ha legittimamente concluso, quindi, per la sussistenza della lamentata dequalificazione. La Cassazione ha ritenuto corretta la motivazione della sentenza impugnata anche nella parte in cui ha ritenuto non censurabile l'uso da parte del giudice di primo grado del termine «reintegrazione». La Suprema Corte ha rilevato che in passato la sua giurisprudenza aveva dubitato circa la legittimità , in caso di dequalificazione del lavoratore dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva ' ha peraltro ricordato la Corte ' hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita l'emanazione dell'ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti con la conseguenza che la condotta del datore è sanzionabile, oltre che mediante la condanna del medesimo al risarcimento del danno, anche con l'ordine di reintegrazione del lavoratore nel precedente incarico o in altro avente identico contenuto. Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103 cit. implica la nullità  del provvedimento datoriale ' ha osservato la Corte ' si deve parimentI ammettere la possibilità  che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l'automatico ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista dall'art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L'ordinamento vigente ' ha affermato la Corte ' privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse leso; alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all'adempimento in forma specifica (nella specie, la riassegnazione delle mansioni precedentemente svolte o di quelle equivalenti); tutela che è anch'essa «reale», al pari di quella prevista dall'art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente modificato del datore, ma appartiene alla sfera del «diritto comune», non essendo assimilabile al regime «speciale» previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo. Nel caso in esame ' ha concluso la Corte ' il Tribunale, ravvisato l'illegittimo esercizio dello jus variandi da parte della società  ricorrente, l'ha condannata «a reintegrare il proprio dipendente nelle mansioni di conduttore di impianto o in altre equivalenti », intendendo cioè, senza che in proposito potessero sorgere degli equivoci, disporre la «adibizione del ricorrente alle mansioni illegittimamente sottrattegli o ad altre equivalenti», cosà come rettamente osservato dal giudice di appello, che si è in effetti uniformato, quindi, ai criteri enunciati al riguardo da questa Corte.
Una pattuizione bilaterale non è idonea a escludere la computabilità dell'assegno di sede estera nel trattamento del tfr
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Giorgio C., dipendente della banca Sanpaolo Imi S.p.A., è stato distaccato negli Stati Unitipresso le filiali di New York e Los Angeles dal 1984 al 1993, con retribuzione costituita dallo stipendio italiano e da un assegno di sede estera. Cessato il rapporto, la banca gli ha corrisposto, per il t.f.r., un importo commisurato soltanto allo stipendio italiano e non anche all'assegno di sede estera. Egli si è rivolto al Tribunale di Torino, sostenendo che l'assegno di sede estera doveva essere incluso nel calcolo del Tfr e chiedendo la condanna della banca al pagamento delle relative differenze. La banca si è difesa sostenendo, tra l'altro, che, al momento del distacco, il lavoratore aveva sottoscritto una lettera-contratto ove era previsto espressamente che «per quanto attiene il trattamento di fine rapporto, il relativo accantonamento viene calcolato come in passato sulla base della retribuzione che le sarebbe stata riconosciuta qualora avesse prestato la sua attività  in Italia». Il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda. Questa decisione, impugnata dal lavoratore, è stata riformata dalla Corte di Appello di Torino che ha ritenuto computabile nel Tfr l'assegno di sede estera e ha condannato la banca a pagare le relative differenze. La Corte ha rilevato che l'assegno non figurava tra le voci escluse, in base al contratto collettivo nazionale (art. 67), dal computo del Tfr e che esso aveva natura retributiva in quanto avente la funzione in parte di compensare la maggiore gravità  e il disagio morale ed ambientale della prestazione all'estero, in parte di retribuire la maggiore professionalità  richiesta. Inoltre la Corte ha ritenuto nulla la clausola del contratto individuale che escludeva dal Tfr l'assegno di sede estera. La banca ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 24875 del 25 novembre 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha rigettato il ricorso. In base all'art. 2120 cod. civ. ' ha osservato la Cassazione ' ogni pattuizione individuale in peius per il lavoratore rispetto al regime legale del Tfr è nulla, essendo consentite deroghe unicamente alla contrattazione collettiva, deroghe peraltro insussistenti nel caso di specie perché il c.c.n.l. di categoria esclude dal computo del Tfr soltanto trattamenti aventi finalità  di rimborso spese. Affinché un compenso sia incluso nella base di calcolo dell'indennità  di anzianità  (ex art. 2121 cod.civ.) o del trattamento di fine rapporto (ex art. 1 legge n. 297 del 1982), non è necessario il carattere di definitività  del compenso stesso, ma è sufficiente che di esso (nella specie, indennità  di servizio estero) il dipendente abbia goduto in modo normale nel corso ed a causa del rapporto di lavoro, non avendo rilievo l'elemento temporale di percezione del compenso stesso, ove questo sia da considerare come corrispettivo della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni espletate.
Revisori contabili
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Il decreto stabilisce che la tenuta del registro dei revisori contabili e del relativo registro del tirociniosia competenza del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, il quale si occuperà  di trasmettere la relativa documentazione al Ministero della giustizia. La stessa Commissione centrale per i revisori contabili, istituita presso il Ministero della giustizia, ha sede ed opera presso il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. (Gazzetta Ufficiale n. 30 del 6 febbraio 2006)
Attività di autotrasportatore
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Il decreto definisce l'attività  di autotrasporto, di vettore, di committente e di caricatore,e stabilisce che nel caso di attività  abusiva di autotrasporto, le relative sanzioni si applicano al committente, al caricatore ed al proprietario della merce. Inoltre, qualora il conducente del veicolo violi le norme sulla sicurezza della circolazione stradale, sono considerati responsabili anche il vettore, il committente, nonche' il caricatore ed il proprietario delle merci oggetto del trasporto nel caso in cui abbiano fornito istruzioni scritte al conducente che risultino incompatibili con il rispetto delle norme sulla sicurezza della circolazione stradale violate o nel caso in cui tali soggetti non riescano a dimostrare che le istruzioni impartite al vettore fossero compatibili con le norme di legge. I conducenti che effettuano professionalmente l'attività  di autotrasporto di persone e di cose devono essere in possesso del certificato di abilitazione professionale o della carta di qualificazione del conducente. Ogni cinque anni i conducenti titolari della carta di qualificazione sono tenuti al rinnovo della medesima dopo aver frequentato un corso di formazione di aggiornamento. (Gazzetta Ufficiale n. 6 del 9 gennaio 2006)
Proroghe di termini
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Il decreto proroga diversi termini fra i quali si pone l'attenzione sui seguenti:a) entro il 31 marzo 2006 dovrà  essere redatto il Documento programmatico per la sicurezza richiesto dall'art. 180, comma 1, del codice in materia di trattamento dei dati personali; b) entro il 30 giugno 2006 dovranno essere adottate le misure minime di sicurezza stabilite per chi tratta i dati elettronicamente, come richiesto dall'art. 180, comma 3 del codice in materia di trattamento dei dati personali; c) sino al 31 dicembre 2006 i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da imprese che occupano meno di quindici dipendenti possono iscriversi nelle liste di mobilità  ai fini dei benefici contributivi in caso di assunzione da tali liste. (Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30 dicembre 2005)
Legge finanziaria 2006
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La legge finanziaria 2006, introduce, nell'unico articolo, le seguenti novità :la legge, introducendo alcuni commi al d.lgs. n. 276/2003, stabilisce che le commissioni di certificazione dei contratti di lavoro possano essere istituite anche presso i Consigli provinciali dell'Ordine dei consulenti del lavoro, invece, qualora le imprese abbiano sede di lavoro in almeno due Province per l certificazione dovranno rivolgersi alla Direzione generale della tutela delle condizioni di lavoro presso il Ministero del lavoro (comma 256); modificando la legge n. 248/2005, viene istituito, dal mese di gennaio 2008, un Fondo di garanzia per agevolare l'accesso al credito delle imprese che conferiscono, negli esercizi 2008-2012, il trattamento di fine rapporto a forme pensionistiche complementari (comma 269); modificando il d.lgs. n. 368/1999, nel ramo medico il contratto di formazione lavoro viene sostituito dal contratto di formazione specialistica, il cui trattamento economico sarà  composto da una parte fissa uguale per tutte le specializzazioni, e da una parte variabile che non potrà  eccedere il quindici per cento di quella fissa (comma 300); dal mese di gennaio 2006 i datori di lavoro sono esonerati dal versamento di massimo un punto percentuale complessivo dei contributi sociali dovuti per gli assegni familiari, di maternità  e contro la disoccupazione involontaria (commi 361 e 362); in attesa della riforma degli ammortizzatori sociali, il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero delle finanze, può prorogare fino al 31 dicembre 2006 le concessioni di Cigs, mobilità  e disoccupazione speciale, qualora gli accordi in sede governativa intervengano entro il 30 giugno 2006 (comma 410); il datore di lavoro può inoltrare la domanda per il «bonus» assunzione, incrementativa della base occupazionale di cui all'articolo 63 della legge n. 289/2002, anche in un momento antecedente a quello dell'assunzione, e procedere all'assunzione stessa entro 30 giorni dal ricevimento della comunicazione di accoglimento della domanda da parte dell'Agenzia delle entrate (comma 412). (Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2005 ' suppl. ordinario n. 211)
Forme pensionistiche complementari
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Il decreto, che entrerà  in vigore il 1° gennaio 2008, disciplina le forme pensionistiche complementaridefinendone le modalità  di istituzione, di costituzione e di funzionamento dei fondi pensione, nonché la composizione e le responsabilità  degli organi di amministrazione e di controllo dei fondi pensione. I contributi alle forme pensionistiche complementari saranno versati dai lavoratori, dai datori di lavoro o dal committente, e attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando. Entro sei mesi dall'assunzione o dal 1° gennaio 2008, nel caso di lavoratori già  occupati in tale data, i lavoratori dovranno esprimere la propria volontà  di aderire o non aderire ad un fondo pensione. Sarà  compito del datore di lavoro informare adeguatamente i lavoratori. Qualora entro il termine di sei mesi il lavoratore non abbia espresso la propria volontà , scatta il silenzio-assenso: dal mese successivo il datore di lavoro trasferisce il Tfr maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi o, in assenza di tali accordi, alla forma pensionistica complementare istituita presso l'Inps. Il diritto alle prestazioni pensionistiche si acquisisce al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime obbligatorio di appartenenza. Le prestazioni pensionistiche possono essere erogate in capitale, fino ad un massimo del cinquanta per cento del montante finale accumulato e in rendita. Qualora l'aderente al fondo pensione sia inoccupato per un periodo superiore ai quarantotto mesi, le prestazioni pensionistiche possono essere anticipate di massimo cinque anni rispetto ai requisiti per l'accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio di appartenenza. Gli aderenti ai fondi pensioni possono chiedere un anticipo della posizione individuale maturata qualora ricorra uno dei seguenti casi: a) in qualsiasi momento, per un importo massimo del settantacinque per cento, per affrontare spese sanitarie, relative a sé, al coniuge e ai figli, per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; b) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al settantacinque per cento, per l'acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli; c) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo non superiore al trenta per cento, per ulteriori esigenze del lavoratore. (Gazzetta Ufficiale n. 289 del 13 dicembre 2005)
L'addetto all'acquisto di pubblicità per un giornale, pur se inquadrato come agente, può essere ritenuto lavoratore subordinat
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Luigi P. è stato incaricato, nel dicembre 1990, dalla Spa A. Manzoni & C.,con contratto definito di agenzia, di provvedere all'acquisizione di inserzioni pubblicitarie per una nuova testata giornalistica settimanale. Dopo la cessazione del rapporto, avvenuta nel 1994, Luigi P. ha chiesto al pretore di Udine di accertare che di fatto egli aveva lavorato quotidianamente, all'interno di locali dell'azienda, in condizioni di subordinazione, con orario di lavoro, e soggezione alle disposizioni della dirigenza e al controllo del funzionario «area manager». Il pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha accolto la domanda. La Corte di Appello di Trieste ha confermato questa decisione osservando che la prova testimoniale aveva consentito di accertare che Luigi P. era presente al lavoro ogni giorno e in modo continuativo dal lunedà al venerdà con l'osservanza di un orario costante, che egli organizzava e dirigeva l'attività  degli addetti all'ufficio, che controllava l'attività  degli agenti e dell'esattore e ne vistava i contratti, manteneva i contatti tra i superiori e sottostava alle loro direttive in un concreto atteggiarsi, prescindendo dalla qualificazione di rapporto autonomo attribuito dalle parti, di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Appello di Trieste per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 24699 del 24 novembre 2005, Pres. Mileo, Rel. Capitanio) ha rigettato il ricorso. La Corte di Appello di Trieste ' ha osservato la Cassazione ' con motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici ha rilevato che attraverso l'esame della prova testimoniale era risultato che Luigi P., al di là  del mero dato negoziale, attendeva all'individuazione dei nuovi agenti, teneva i contatti con i superiori, ossia con l'area «manager», sottostava alle loro direttive quanto alla scelta degli agenti, alla individuazione degli obiettivi, alla creazione del giornale, alle strategie commerciali e alle eventuali insolvenze ed era inserito, come avviene in modo tipico nel rapporto subordinato, nell'organizzazione aziendale sotto il controllo continuo e costante dei superiori gerarchici.
Le risultanze del Libro matricola sul n. dipendenti possono essere superati dal lavoratore con prove testimoniali o documentali
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Maria C. dipendente dell'Aias, ha impugnato, davanti al Tribunale di Messina, il licenziamento comunicatole nel novembre del 1997,chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. L'Aias si è difesa affermando che il licenziamento non era giustificato e che comunque l'art. 18 Stat. lav. non era applicabile perché essa aveva meno di 16 dipendenti, come risultava dal suo libro matricola. La lavoratrice ha replicato, offrendone le prove, che in aggiunta ai dipendenti formalmente iscritti, l'Aias impiegava, in condizione di subordinazione, anche dodici lavoratori con formale rapporto di libera professione. Il Tribunale si è attenuto alle risultanze del libro matricola e pertanto, pur dichiarando illegittimo il licenziamento, ha escluso l'applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav. e si è limitato a condannare l'Aias al pagamento di un'indennità  in base alla legge n. 604 del 1966. Questa decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Palermo che ha acquisito verbali dell'Ispettorato del lavoro ed ha sentito alcuni testimoni, i quali hanno confermato l'impiego, in condizioni di subordinazione, dei dodici lavoratori con formale contratto di lavoro autonomo. Pertanto la Corte ha ritenuto applicabile l'art. 18 Stat. lav. e ha ordinato di reintegrare la lavoratrice condannando l'Aias anche al risarcimento del danno. L'Aias ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che le risultanze del libro matricola non potevano ritenersi superate da altre prove. La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 25094 del 28 novembre 2005, Pres. Lupi, Rel. Celentano) ha rigettato il ricorso. Non è vero ' ha affermato la Corte ' che le risultanze del libro matricola sul numero dei lavoratori occupati non possano essere superate da prove testimoniali o documentali.
Professioni
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Il decreto, in attuazione della legge n. 131/2003, definisce i principi fondamentali in materia di professioni,materia di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni, ma specifica che non si applicano alle seguenti fattispecie: la formazione professionale universitaria; la disciplina dell'esame di Stato previsto per l'esercizio delle professioni intellettuali, i titoli, il tirocinio, e le abilitazioni richieste per l'esercizio professionale; l'ordinamento e l'organizzazione degli Ordini e dei Collegi professionali; gli albi, i registri, gli elenchi o i ruoli nazionali previsti a tutela dell'affidamento del pubblico; la rilevanza civile e penale dei titoli professionali e il riconoscimento e l'equipollenza, ai fini dell'accesso alle professioni, di quelli conseguiti all'estero. Secondo il decreto l'esercizio dell'attività  professionale è «espressione del principio della libertà  di iniziativa economica» e può essere esercitata in forma di lavoro dipendente o in forma di lavoro autonomo. Nel primo caso specifiche disposizioni normative devono assicurare l'autonomia del professionista, nel secondo caso l'attività  professionale è equiparata all'attività  d'impresa ai fini della concorrenza disciplinata a livello comunitario, salvo quanto previsto in materia di professioni intellettuali. (Gazzetta Ufficiale n. 32 del 8 febbraio 2006)
Legge comunitaria 2005
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Della legge comunitaria 2005 si richiama l'attenzione sull'articolo 18che, introducendo l'articolo 29-bis alla legge n. 62/2005, delega il Governo ad adottare un decreto legislativo attuativo della Direttiva comunitaria 2003/41/CE relativa alle attività  e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali e professionali, il quale dovrà  determinare i poteri e le competenze regolamentari e organizzative della Commissione di vigilanza sui fondi pensione. (Gazzetta Ufficiale n. 32 del 8 febbraio 2006 ' suppl. ordinario n.34)
La mancata erogazione degli stipendi per tre mesi non esimi dal preavviso dello sciopero
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La Commissione ha sanzionato la Sin. Cobas per aver indetto assemblee spontaneepresso un'azienda di servizi di pulizia senza richiedere ritualmente alcun tentativo preventivo di conciliazione e senza alcuna proclamazione scritta, osservante il previsto termine di preavviso. La Commissione secondo il suo costante orientamento ha ritenuto l'assemblea con interruzione dell'attività  di lavoro equiparabile allo sciopero; inoltre ha ritenuto che la causa di insorgenza del conflitto ' il ritardo di circa tre mesi nel pagamento della retribuzione ' non possa rappresentare un'esimente dall'obbligo di preavviso, ma consenta, secondo la previsione dell'art. 4 comma 4-quater della legge 146/90, l'irrogazione delle sanzioni solo nella misura minima.
Discrezionalità dell'azienda nella comunicazione dello sciopero agli utenti
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L'art. 2, comma 6 della l. n. 146/1990 prescrive alle imprese l'obbligodi dare «comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi». Ad avviso della Commissione, poiché la ratio di questa norma è quella di consentire all'utenza di prendere gli opportuni provvedimenti per sopperire ai probabili disagi conseguenti all'astensione, qualora l'azienda, in virtù degli elementi in suo possesso circa il probabile impatto dello sciopero, ritenga prevedibile l'insussistenza di disagi per l'utenza, può omettere la comunicazione dell'astensione, al fine di evitare i disagi connessi all'effetto annuncio, ferma restando ovviamente la sua responsabilità  qualora successivamente la previsione risulti errata.
Accesso ad aree aziendali riservate: limiti all'uso delle impronte digitali dei dipendenti
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Un'azienda fornitrice di tecnologie per la difesa nel settore avionico ed elettronico ha richiesto al Garante una verifica preliminareai sensi dell'art. 17 del codice in merito al trattamento di dati biometrici di un numero ristretto di dipendenti finalizzato a controllarne gli accessi in un'area aziendale circoscritta. Il sistema che l'azienda intende utilizzare presuppone una raccolta di dati biometrici mediante apparecchiature dotate di lettore di impronte digitali e un apposito software; i dati vengono trasformati in un codice numerico (template), utilizzato esclusivamente per la raccolta e il successivo trattamento dei dati. Il Garante ha affermato che l'uso generalizzato e incontrollato di dati biometrici dei lavoratori non è in linea di principio lecito. Tuttavia nel caso di specie il Garante ha ritenuto lecite sia le finalità  perseguita dalla società  titolare del trattamento (identificare in modo certo i soggetti abilitati all'accesso in un'area riservata e che vi hanno fatto ingresso) sia le modalità  di trattamento dei dati biometrici proporzionati rispetto ai diritti individuali degli interessati. Il Garante ha però imposto all'azienda l'adozione di alcuni accorgimenti aggiuntivi: di predisporre un sistema di verifica basato sul confronto tra le impronte rilevate ad ogni accesso all'area riservata e il template memorizzato e cifrato su un supporto che resti nell'esclusiva disponibilità  dei lavoratori interessati, senza creare a tal fine un archivio centralizzato di impronte digitali o di template; di dotarsi di un dispositivo che permetta alla società  di registrare nel sistema informativo dedicato all'archiviazione degli accessi all'area riservata le informazioni personali (anche in forma di codice) necessarie ad identificare univocamente i lavoratori che vi accedono.
Diritto d'ingresso e di soggiorno - Restrizione per motivi di ordine pubblico - Sistema di informazione Schengen
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Avendo rifiutato l'ingresso sul territorio degli Stati parti contraenti dell'accordo relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni,firmato il 14 giugno 1985 a Schengen, al sig. Farid nonché il rilascio di un visto ai fini dell'ingresso in tale territorio ai sigg. Farid e Bouchair, cittadini di uno Stato terzo coniugi di cittadini di uno Stato membro, per il solo motivo che essi erano segnalati nel sistema d'informazione Schengen ai fini della non ammissione, senza aver preliminarmente verificato se la presenza di tali persone costituisse una minaccia effettiva, attuale e abbastanza grave per un interesse fondamentale della collettività , il Regno di Spagna è venuto meno agli obblighi che ad esso incombono in forza degli artt. 1-3 della Direttiva del Consiglio 25 febbraio 1964, 64/221/CEE, per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità  pubblica.
Insanzionabilità dell'associazione datoriale per mancata partecipazione alle procedure di raffreddamento
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L'Assotelecomunicazioni non si è presentata ad una riunione indetta dal Ministero del Lavoro per esperire il tentativo di conciliazionerichiesto da alcune organizzazioni sindacali in occasione della vertenza relativa al rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore delle telecomunicazioni. La Commissione ha ritenuto che la condotta dell'associazione datoriale non sia sanzionabile in quanto la regolamentazione provvisoria del settore delle telecomunicazioni, approvata dalla Commissione con delibera n. 02/152, nulla prevede in relazione alla condotta delle associazioni datoriali; in particolare ' secondo la Commissione ' anche qualora si volesse ritenere che l'associazione datoriale sia destinataria degli stessi obblighi dettati per le organizzazioni sindacali dalla regolamentazione provvisoria relativi alle procedure di raffreddamento e conciliazione in caso di rinnovo del c.c.n.l., non vi sarebbe nella legge n. 146/90 alcuna disposizione sanzionatoria nei confronti delle associazioni datoriali, sicché dovrebbe ritenersi preclusa in radice una valutazione negativa di comportamento dell'associazione datoriale che non potrebbe essere corredata dalla coessenziale sanzione.
Illegittimità dei rallentamenti del traffico autostradale come forma di protesta
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La Commissione ha sanzionato la Federazione nazionale degli autotrasportatori per una protesta messa in atto da circa 150 autotrasportatorisull'Autostrada Bologna'Firenze nella quale mantenendo una velocità  media di circa 15-20 km/h gli stessi hanno causato blocchi e rallentamenti del traffico. La Commissione ha rilevato che sarebbe stato violato l'obbligo legale di preavviso, nonché il codice di autoregolamentazione del settore del 20 giugno 2001 laddove espressamente dispone che: «La proclamazione della protesta non dovrà  prevedere l'effettuazione di blocchi stradali o di iniziative già  sancite e sanzionate dal codice della strada in materia di circolazione stradale». Sebbene la Federazione avesse eccepito di solidarizzare con le ragioni dei protestatori, ma di esser estranea all'organizzazione della protesta, la Commissione ha ritenuto l'associazione sanzionabile in quanto ' secondo l'orientamento della stessa Commissione ribadito nella delibera n. 05/127 ' la responsabilità  dell'associazione di categoria sussiste «non solo in caso di adesione formale, ma anche quando, in assenza di adesione formale, nella condotta dell'organizzazione sindacale sia ravvisabile, in considerazione delle circostanze del caso concreto, un invito a scioperare».
Previdenza sociale lavoratori migranti - Determinazione normativa applicabile - Lavoratori distaccati in altro Stato membro
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Fintantoché non venga revocato o invalidato dalle autorità  dello Stato membro che l'hanno rilasciato, il modello E 101,rilasciato conformemente all'art. 11, n. 1, lett. a), del regolamento n. 574/72, che stabilisce le modalità  di applicazione del regolamento n. 1408/71, vincola l'organo competente e i giudici dello Stato membro in cui sono distaccati i lavoratori. Di conseguenza, un giudice dello Stato membro che ospita i detti lavoratori non può verificare la validità  di un modello E 101 per quanto riguarda l'attestazione degli elementi in base ai quali un tale certificato è stato rilasciato, in particolare l'esistenza di un legame organico, ai sensi dell'art. 14, n. 1, lett. a), del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all' interno della Comunità , nella sua versione modificata e aggiornata dal regolamento n. 2001/83, come modificato dal combinato disposto del regolamento n. 2195/91, e del punto 1 della decisione della Commissione amministrativa per la sicurezza sociale dei lavoratori migranti 17 ottobre 1985, n. 128, relativa all'applicazione degli artt. 14, n. 1, lett. a) e 14-ter, n. 1, del regolamento n. 1408/71, tra l'impresa avente sede in uno Stato membro e i lavoratori da essa distaccati nel territorio di un altro Stato membro, per la durata del distacco di questi ultimi.
Associazione Cee/Turchia - Libera circolazione dei lavoratori - Diritto alla proroga del permesso di soggiorno - Presupposti
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L'art. 6 della decisione n. 1/80, relativa allo sviluppo dell'associazioneadottata dal Consiglio di associazione istituito dall'Accordo che istituisce un'Associazione tra la Comunità  economica europea e la Turchia, deve essere interpretato nel senso che: ' l'attribuzione dei diritti conferiti a un lavoratore turco dall'art. 6, n. 1, terzo trattino, della decisione, e cioè che il lavoratore turco beneficia, dopo quattro anni di regolare impiego in uno Stato membro, di libero accesso, in tale Stato, a qualsiasi attività  salariata di suo gradimento, presuppone in linea di principio che l'interessato abbia preventivamente soddisfatto i requisiti di cui al secondo trattino dello stesso numero, e cioè che abbia effettuato tre anni di impiego regolare; ' un lavoratore turco che non è ancora titolare del diritto al libero accesso a qualsiasi attività  subordinata di suo gradimento ai sensi dell'art. 6, n. 1, terzo trattino, della decisione, è tenuto a svolgere nello Stato membro ospitante una regolare attività  lavorativa ininterrotta, a meno che non possa avvalersi di un legittimo motivo del tipo di quelli previsti al n. 2 del medesimo articolo, che giustifichi la sua temporanea assenza dal mercato del lavoro; ' quest'ultima disposizione comprende interruzioni dei periodi di regolare attività  lavorativa analoghe a quelle controverse nella causa principale e le autorità  nazionali competenti non possono contestare, nel caso di specie, il soggiorno del lavoratore turco nello Stato membro ospitante.
Libera circolazione dei lavoratori - Riconoscimentodei diplomi - Professione di ingegnere
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La direttiva del Consiglio n. 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superioreche sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni, non osta al fatto che, quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richiede l'autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata in un altro Stato membro, le autorità  di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, se il titolare del diploma lo chiede, limitando la portata dell'autorizzazione alle sole attività  alle quali il diploma in questione dà  accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito. Né il tenore, né il sistema, né gli obiettivi della Direttiva escludono la possibilità  di un accesso parziale ad una professione regolamentata. Se un simile accesso parziale potrebbe comportare un rischio di moltiplicazione delle attività  professionali esercitate in modo autonomo da cittadini di altri Stati membri, e di conseguenza una certa confusione nella mente dei consumatori, tuttavia, tale rischio potenziale non è sufficiente per affermare l'incompatibilità  con la Direttiva di un riconoscimento parziale dei titoli professionali. Esistono infatti mezzi sufficientemente efficaci per porvi rimedio, come la possibilità  di obbligare gli interessati ad indicare nome e luogo dell'istituzione o della Commissione che ha conferito loro il titolo di studio. Inoltre, lo Stato membro ospitante può sempre obbligare gli interessati ad utilizzare, per tutti i rapporti giuridici e commerciali nel suo territorio, sia il titolo di studio ovvero il titolo professionale nella lingua e nella forma originale che la sua traduzione nella lingua ufficiale dello Stato membro ospitante, al fine di assicurarne la comprensione e di evitare ogni rischio di confusione Gli artt. 39 CE e 43 CE non ostano a che uno Stato membro non consenta l'accesso parziale ad una professione, qualora le lacune nella formazione in possesso dell'interessato rispetto a quella necessaria nello Stato membro ospitante possano essere effettivamente colmate con misure di compensazione ai sensi dell'art. 4, n. 1, della Direttiva 89/48. Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che uno Stato membro non accordi tale accesso parziale quando l'interessato lo richiede e quando le differenze tra gli ambiti di attività  sono cosà rilevanti che sarebbe in realtà  necessario seguire una formazione completa, a meno che il detto diniego di accesso parziale non sia giustificato da ragioni imperative di pubblico interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione dell'obiettivo che perseguono e non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo. Va fatta una distinzione tra due situazioni differenti che possono verificarsi quando le autorità  di uno Stato membro sono investite di una domanda di riconoscimento di una qualifica professionale conseguita in un altro Stato membro, e quando la differenza tra i contenuti della formazione o tra le attività  che possono essere esercitate in forza del titolo relativo nei due Stati impedisce un riconoscimento pieno ed immediato. Vanno distinti i casi che possono essere obiettivamente risolti con gli strumenti previsti dalla Direttiva e quelli che non possono esserlo. Nella prima eventualità , si tratta dei casi in cui il livello di somiglianza delle due professioni, nello Stato membro di provenienza e in quello ospitante, è tale da consentire di parlare, in sostanza, della «stessa professione» ai sensi dell'art. 3, primo comma, lett. a), della Direttiva. In casi del genere, le lacune esistenti nella formazione del richiedente se confrontata con quella necessaria nello Stato membro ospitante possono essere efficacemente colmate applicando le misure di compensazione previste dall'art. 4, n. 1, della Direttiva, assicurando in tal modo una completa integrazione dell'interessato nel sistema professionale dello Stato membro ospitante. Nella seconda eventualità  invece, si tratta dei casi non contemplati dalla Direttiva, poiché le differenze negli ambiti di attività  sono cosà rilevanti che sarebbe in realtà  necessario seguire una formazione completa. Ciò rappresenta un elemento in grado, obiettivamente, di spingere l'interessato a non svolgere, in un altro Stato membro, una o più attività  per le quali egli è qualificato. Spetta alle competenti autorità , soprattutto giurisdizionali, dello Stato membro ospitante determinare in quale misura, in ogni caso concreto, il contenuto della formazione seguita dall'interessato sia differente da quello richiesto in tale Stato. Nell'ambito della causa principale, il Tribunale Supremo ha rilevato che il contenuto della formazione di un ingegnere civile ad indirizzo idraulico in Italia e di un ingegnere civile in Spagna sono cosà profondamente differenti che applicare una misura di compensazione o di adattamento significherebbe in pratica obbligare l'interessato ad acquisire una nuova formazione professionale.
Regime del visto di lavoro
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La Repubblica federale di Germania è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell'art. 49 Ce,non limitandosi a subordinare il distacco di lavoratori cittadini di Stati terzi in vista del compimento di una prestazione di servizi nel suo territorio ad una semplice previa dichiarazione dell'impresa avente sede in un altro Stato membro che intende procedere al distacco di detti lavoratori ed esigendo che questi ultimi siano occupati da almeno un anno da tale impresa.
Contratto di formazione e lavoro - Inadempimento dell'obbligo formativo - Conversione in contratto a tempo indeterminato
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Il contratto di formazione e lavoro è un contratto di lavoro a tempo determinatoche si caratterizza per il suo contenuto tipico consistente nel coordinamento della prestazione lavorativa con un'attività  formativa, la quale va espletata secondo un programma desumibile dal progetto formativo: questo, a sua volta, rappresenta sia il presupposto di legittimità  dello speciale contratto di lavoro a termine, sia la fonte di regolamentazione dello svolgimento del rapporto. L'addestramento finalizzato all'acquisizione da parte del lavoratore della professionalità  necessaria all'immissione nel mondo del lavoro è dunque compreso nella causa del contratto che non può avere ad oggetto l'esclusivo svolgimento delle mansioni tipiche di un determinato profilo professionale (Cass. n. 9158/2003). Di tal che «l'inadempimento degli obblighi di formazione determina la trasformazione fin dall'inizio del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, qualora l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione» (Cass. n. 15635/2003). La giurisprudenza di legittimità  è unanime nel ritenere che, «in mancanza della predeterminazione legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice deve [â?¦] verificare se al lavoratore siano stati forniti gli insegnamenti previsti dal progetto» (Cass. n. 9158/2003); l'inadempimento deve, dunque, avere «un'obiettiva rilevanza in relazione alla finalità  di formazione teorico-pratica del dipendente ed essere tale da far venir meno la stessa funzione del contratto» (Cass. n. 320/2003). Di conseguenza, dal momento che la prevalente finalità  di un contratto di formazione e lavoro è quella di consentire al giovane un «ingresso guidato nel mondo del lavoro» superando il gap determinato da precedenti esperienze di carattere esclusivamente didattico e scolare (cfr. Trib. Milano 25 novembre 2000; Corte App. Potenza 24 maggio 2001), «una divergenza anche di non lieve entità  tra gli obblighi assunti dal datore di lavoro e il concreto svolgimento del rapporto, non realizza inadempimento, ove detto svolgimento avvenga con modalità  tali da non compromettere la funzione del contratto» (Cass. n. 7554/1998; Cass. n. 2544/1999). Nel caso di specie, risulta che il ricorrente, assunto con contratto di formazione e lavoro di durata biennale, «non soltanto non è stato sottoposto ad alcuna formazione teorica, ma è stato addirittura sistematicamente utilizzato in mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto, con evidente sottrazione di possibilità  di acquisire esperienza nel profilo professionale concordato tra le parti e palese violazione del progetto formativo approvato dagli organi competenti». Ne consegue per il giudice, dunque, la conversione del rapporto di lavoro in contratto a tempo indeterminato ed il riconoscimento delle differenze retributive tra quanto percepito e quanto dovuto in virtù delle mansioni in concreto svolte.
Trasferimento d'impresa - Mantenimento dei diritti dei lavoratori - Ambito di applicazione
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L'art. 1 della direttiva del Consiglio n. 2001/23/Ce,concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che nell'esame della sussistenza di un trasferimento di impresa ai sensi del detto articolo, in caso di nuova aggiudicazione di un appalto e nell'ambito di una valutazione d'insieme, l'accertamento del trasferimento dei mezzi di produzione ai fini di una gestione economica autonoma non costituisce requisito necessario per l'accertamento di un trasferimento dei mezzi medesimi dall'appaltatore originario al nuovo appaltatore. Il trasferimento dei mezzi di produzione rappresenta tuttavia solo un aspetto parziale della valutazione complessiva che il giudice nazionale deve compiere nella verifica della sussistenza di un trasferimento d'impresa ai sensi di detta disposizione.
Veicolo aziendale - Immatricolazione e tassazione dell'autoveicolo
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L'art. 43 Ce osta a che una normativa nazionale di un primo Stato membro obblighi un lavoratore non subordinatoresidente in tale Stato membro a ivi immatricolare un veicolo aziendale messo a sua disposizione dalla società  presso cui lavora, società  stabilita in un secondo Stato membro, qualora il veicolo aziendale non sia destinato ad essere essenzialmente utilizzato nel territorio del primo Stato membro in via permanente né venga di fatto utilizzato in tal modo. La lotta contro l'evasione fiscale, la prevenzione degli abusi, la necessità  di una identificazione certa, la sicurezza stradale o la politica ambientale non possono giustificare tale obbligo di immatricolazione.
Nullità contratti a termine - «Fumus boni juris» - Insussistenza
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Il Tribunale di Chieti, in sede cautelare, ha rigettato il ricorso di una professoressa di lingua russache chiedeva la conversione del contratto a termine concluso con l'Università  convenuta, in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale di Chieti, nel richiamare i principi contenuti nell'art. 97 della Costituzione e nel d.lgs. 165/2001, ha ritenuto che per accedere ai ruoli della p.a. è comunque necessario sostenere una selezione pubblica laddove anche dopo la c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, i cui principi restano validi solo per la fase di svolgimento del rapporto e non anche di costituzione, restano immutate le esigenze di selezione del dipendente pubblico a garanzia dei principi di imparzialità  e buon andamento della pubblica amministrazione.
Pubblico impiego non privatizzato - Professori e ricercatori universitari - Personale medico universitario
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Il ricercatore universitario che svolge attività  assistenziale ha diritto all'equiparazione del trattamento economico stipendiale a quello del personale medico del Servizio sanitario nazionale di pari funzioni, mansioni ed anzianità  e, conseguentemente, al pagamento delle retribuzioni connesse sin dalla data di assunzione, oltre interessi e rivalutazione monetaria fino all'effettivo soddisfo, nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi dovuti. La pronuncia in commento affronta una questione ancora oggi di grande attualità , relativa al pagamento di differenze retributive connesse allo svolgimento dell'attività  assistenziale da parte di un ricercatore universitario. Il ricorrente, in particolare, ha chiesto l'equiparazione del proprio trattamento economico a quello del personale del Servizio sanitario nazionale. Il Tar Catania ha colto l'occasione per fare un'interessante ricostruzione del quadro giuridico di riferimento e per affermare alcuni importanti principi in materia. Innanzitutto, il Collegio si è soffermato sull'eccezione di tardività  del ricorso, avanzata da controparte, perché la domanda non sarebbe stata avanzata entro il termine decadenziale previsto dalla legge. Il Tribunale amministrativo, sulla scorta di un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, ha sostenuto l'ammissibilità  del ricorso, affermando che, in materia di giurisdizione esclusiva, quando il giudice è chiamato a decidere su diritti soggettivi, l'esercizio del diritto non è soggetto a decadenza ma incontra l'ordinario limite di prescrizione per la tutela dei diritti patrimoniali, nascenti dal rapporto di lavoro. Conseguentemente, gli atti con i quali l'amministrazione disconosce (totalmente o parzialmente) i diritti dei propri dipendenti, non devono essere impugnati nel termine decadenziale, in quanto l'interessato può agire per la rivendicazione del diritto nel termine prescrizionale (Cons. St., sez. IV, n. 6259/2004; Tar Catania, sez. II, n. 2047/1999, cit. in motivazione). Il Tar ha accolto il primo motivo di censura con il quale si denuncia la violazione dell'art. 31 d.p.r. n. 761/69, dell'art. 102, comma 2, d.p.r. n. 382/80, dell'art. 6 d.lgs. n. 517/99, dell'art. 3, comma 2, d.p.c.m. del 24 maggio 2001, nonché dell'art. 10 del Protocollo d'intesa tra la Regione siciliana e l'Università  degli studi di Catania. Secondo il Collegio decidente, le disposizioni normative che disciplinano lo status giuridico ed il trattamento economico del personale sanitario universitario, come sostenuto dalla Corte Costituzionale, si inseriscono tutte «in un coerente disegno legislativo che si propone, in particolare, di adeguare ordinamento interno e modello organizzativo dei servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti universitari ai corrispondenti servizi ospedalieri» (Corte Cost. n. 134/1997). Dalle norme vigenti si desume l'esistenza di un sistema integrato tra università  ed aziende ospedaliere, tale da rendere i medici universitari «soggetti agli obblighi ed alle responsabilità  inerenti all'esercizio delle relative funzioni» (Corte Cost. n. 126/1981). L'estensione della normativa, dettata dal legislatore per i sanitari ospedalieri, anche ai sanitari universitari, persegue la finalità  di regolamentare in modo unitario l'omogeneo rapporto di servizio assistenziale (cfr., in tal senso, Corte Cost. n. 126/1981). Lo stesso d.lgs. n. 517/99 assimila il personale universitario che svolge attività  assistenziale al personale ospedaliero, riconoscendo al primo i medesimi diritti e doveri previsti per il personale ospedaliero avente pari mansioni, funzioni ed anzianità . Nella fattispecie, il Collegio ha rilevato che le disposizioni di cui agli artt. 31 d.p.r. n. 761/79 e 102 d.p.r. n. 382/80, hanno la funzione di assicurare un'effettiva parificazione di responsabilità  e trattamento economico a fronte della equiparazione del personale universitario a quello sanitario (Cons. St., sez. IV, n. 266/1996). Tale assunto, secondo il Tar, sarebbe confermato dalle disposizioni dell'art. 6 d.lgs. n. 517/99, il quale, nel ridefinire il trattamento economico del personale universitario, riconosce il diritto del personale universitario all'equiparazione retributiva. Per tali motivi, i giudici catanesi hanno riconosciuto al ricorrente il diritto alla corresponsione delle somme dovute a titolo di emolumenti accessori per i servizi di reperibilità , guardie e lavoro festivo, sin dalla data di assunzione, oltre interessi legali e rivalutazione, nonché il diritto alla regolarizzazione dei contributi previdenziali ed assistenziali dovuti per il medesimo titolo.
Assunzione obbligatoria - Rifiuto per mancato avviamento lavoratore richiesto - Legittimità
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La sig.ra D.M. conveniva in giudizio la Casa di Cura Villa Pini d'Abruzzo S.r.l. per far dichiarare l'illegittimità  del rifiuto all'assunzioneopposto dalla convenuta a seguito dell'avviamento obbligatorio della ricorrente ed ordinarne l'assunzione. Il Tribunale di Chieti ha rigettato il ricorso sostenendo che qualora l'Ufficio provinciale del lavoro provvede ad avviare personale di categoria (impiegatizia o operaia) diversa da quella richiesta dal datore di lavoro, ben può questo rifiutare l'assunzione atteso che l'Ufficio provinciale del lavoro deve avviare lavoratori riconducibili alla categoria richiesta, anche al fine di rendere meno gravoso l'adempimento dei doveri di solidarietà  sociale che la legge 432/68 pone a carico del datore di lavoro.
«Mobbing» nella P.A. forza di polizia
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Non rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario (sez. lavoro) la controversiatra un ispettore di PS operante in un Commissariato rivolta ad ottenere il risarcimento di danno per assunti comportamenti «mobbizzanti» subiti da parte di colleghi impiegati nello stesso Commissariato, convenuti in giudizio assieme al Ministero competente. Nella fattispecie l'ispettore aveva lamentato di essere stato oggetto di comportamenti discriminatori che gli avevano provocato conseguenze psicofisiche patologiche per appartenere ad un sindacato diverso da quello di appartenenza dei suoi superiori gerarchici. La sentenza conferma quella di 1° grado.
Infortunio sul lavoro - Cumulo tra prestazioni assistenziali-rendita Inail - Sussistenza - Ripetizione indebito - Insussistenza
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Un lavoratore, a causa delle gravi lesioni riportate in seguito alla precipitazione da un viadotto dell'autocarro di cui era alla guidaotteneva il diritto a percepire una rendita Inail sin dalla data dell'incidente avvenuto nel 1984. Precedentemente, aveva proposto domanda alla Commissione sanitaria per le invalidità  civili che riconosceva al sig. M. la pensione di inabilità  e la indennità  di accompagnamento a decorrere dall'1° luglio 1984 Il prefetto di Ancona annullava il decreto di concessione di queste due ultime provvidenze non ritenendole cumulabili con la rendita Inail e, in conseguenza di ciò, richiedeva a M. la restituzione dei ratei percepiti. Adito il Tribunale di Ancona, in qualità  di giudice del lavoro, M. otteneva l'accoglimento del ricorso da lui proposto nei confronti delle controparti e quindi il riconoscimento del diritto ad ottenere la pensione di invalidità  e l'indennità  di accompagnamento. Avverso tale decisione, l'Inps proponeva appello invocando il divieto di cumulo per trattamenti aventi origine dal medesimo evento invalidante e pretendendo la restituzione dell'indebito. La Corte di Appello di Ancona ha confermato l'impugnata sentenza, affermando che non vi è divieto di cumulo quando il beneficiario, come nel caso in esame, sia totalmente inabile al lavoro. In particolare, la Corte ha precisato che il divieto di cumulo tra prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali per invalidità  da causa di servizio o di lavoro ai sensi dell'art. 3 della legge n. 407 del 1990 non opera, in forza del disposto dell'art. 12 della legge n. 412 del 1991, per quelle erogate ai ciechi civili, ai sordomuti e agli invalidi totali; pertanto è ammessa la coesistenza tra tali prestazioni pensionistiche e quelle di carattere diretto, concesse a seguito di invalidità  contratte per causa di guerra, di lavoro o di servizio, tra cui rientra la pensione di invalidità  riconosciuta dall'Inps (in tal senso Cass. n. 5359/2002). Con riferimento alla pretesa restitutoria da parte dell'Inps, la Corte adita, ferme restando le considerazioni che precedono, ha riconfermato quanto sostenuto dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto assorbente l'applicazione del comma 1-bis del medesimo art. 3 della legge n. 407 del 1990 (cosà come inserito dalla legge n. 412 del 1991) il quale prevede che «sono fatti salvi i diritti acquisiti dai cittadini che abbiano conseguito le prestazioni pensionistiche per minorati civili erogate dal Ministero dell'interno alla data del 1 gennaio 1992» (cfr. Cass. n. 9537/1997). Nel caso di specie il lavoratore rientra tra questi ultimi soggetti in quanto la rendita Inail gli era stata attribuita nel 1984 e le prestazioni assistenziali del Ministero dell'interno nel 1987, con decorrenza dal 1984.
Accertamento nullità contratto a termine - Riconoscimento rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Sussistenza
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Sulla questione relativa alla nullità  dei contratti a termine stipulati con l'Ente Poste,il Tribunale di Chieti ha mutato orientamento circa la questione del mutuo consenso del lavoratore che precluderebbe l'impugnativa del contratto a termine in ragione dell'inerzia serbata per un lungo lasso di tempo. In particolare, nel richiamare la circolare del 14 febbraio 2000 della Direzione centrale risorse umane di Roma dell'Ente Poste che vietava alle varie Filiali di stipulare il contratto a termine con lavoratori aventi un contenzioso giudiziale o extragiudiziale relativo a contratti stipulati in precedenza, il Tribunale di Chieti ha ritenuto che il rilievo escludesse in radice il consenso da parte del lavoratore alla risoluzione del rapporto di lavoro già  intercorso tra le parti. Alla luce di tale tesi, la Magistratura del lavoro di Chieti ha accolto il ricorso di un lavoratore che conveniva in giudizio la società  Poste italiane Spa per l'accertamento della nullità  del termine apposto ai contratti di lavoro, per violazione della quota percentuale massima prevista per le assunzioni con contratto a termine stabilita dal ccnl di settore e ha pertanto dichiarato la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Concessione di aspettativa per evitare superamento periodo di comporto - Licenziamento per superamento del periodo di comporto
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L'art. 45 del CCNL per i dipendenti delle aziende private del gas regola l'aspettativa che i lavoratori possono chiedere,e la tipologia è diversa da quella regolata dall'art.49. L'aspettativa dell'art. 49 è fruibile anche durante il periodo di svolgimento dell'attività  lavorativa e non in presenza di una già  operante causa di sospensione della prestazione lavorativa. Essa può essere richiesta «per gravi motivi privati» e nel caso in cui l'Azienda rifiuti la concessione essa deve motivare con ragioni esposte in modo preciso e dettagliato al fine di osservare gli obblighi di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. L'aspettativa dell'art. 45 trova viceversa fondamento nella possibilità  che il lavoratore ammalato alla fine del periodo di comporto voglia goderne per «motivi di salute e familiari». L'art. 45 non fa altro che estendere il periodo di comporto, sul presupposto, tuttavia, che il lavoratore interessato abbia fatto specifica richiesta e la abbia motivata. È illegittimo il licenziamento intimato allorché sia presentata richiesta di fruizione dell'aspettativa. La richiesta citata può essere avanzata anche successivamente al superamento del periodo di comporto fino a che l'azienda non si determini alla risoluzione del rapporto, dato che questo non è automatico.
Contratto a termine - Ipotesi di illegittimità - Trasformazione contratto a tempo indeterminato
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L'apposizione nel contratto di lavoro di un termine cosà motivato:«per necessità  dell'espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie» è illegittimo. Nel caso di specie non era stato indicato il nome del lavoratore sostituito ed era stato provato che il numero dei dipendenti assunti a termine per sostituire lavoratori in ferie era superiore a coloro che le avevano in realtà  richieste. Il contratto è stato trasformato in contratto a tempo indeterminato. Nel caso di specie «non si deve applicare la disciplina del licenziamento, ma quella relativa alla ricostituzione del rapporto di lavoro dall'inizio» e la spettanza della retribuzioni arretrate decorre «dalla data di costituzione in mora con la messa a disposizione della prestazione lavorativa».
Subordinazione - Criteri distintivi
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Con la decisione in commento la Corte d'Appello di Bologna ribadisce il suo orientamento restrittivoin materia di rivendicazione di rapporti di lavoro subordinato (cfr. Corte d'Appello 6 ottobre 2003 in RGLNews n. 6/2003), anche di fronte ad elementi percepiti dal sentire comune come tipici della subordinazione. Il caso in esame riguardava un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, conclusosi con sentenza del Tribunale di Forlà favorevole all'Inps, per omissione di versamenti contributivi relativi alle prestazioni rese da un gruppo di lavoratrici che ' secondo gli accertamenti effettuati dall'Ispettorato dell'Istituto ' avevano svolto attività  di centraliniste all'interno dei locali della società  appellante (fornendo informazioni sull'oroscopo, sulle statistiche dei numeri del lotto, sul totocalcio, interpretando le «carte» e i «tarocchi »): a) utilizzando apparecchi telefonici messi dalla medesima società  a loro disposizione; b) essendo inserite nella struttura aziendale ed essendo chiamate a svolgere un'attività  finalizzata a perseguire lo scopo sociale; c) espletando le stesse mansioni svolte in precedenza da loro stesse (in alcuni casi da altro personale) con rapporto di lavoro subordinato; d) essendo tenute a rispettare l'orario e la sua articolazione come prestabiliti secondo un palinsesto settimanale preparato dalla società ; e) dovendo attestare la propria presenza con l'utilizzo di un cartellino marcatempo; f) percependo un compenso sulla base delle ore effettuate, come risultanti dal cartellino marcatempo; g) potendo il datore di lavoro variare, quantitativamente, il numero di ore di lavoro precedentemente autorizzato a ciascun dipendente disponendo pure del potere discrezionale della riduzione del corrispettivo orario già  pattuito in sede contrattuale. Il Tribunale di Forlà aveva respinto l'opposizione della società  confermando la sussistenza della subordinazione, e la società  aveva proposto appello, che veniva accolto dalla Corte di Bologna la quale, riformando la sentenza di primo grado, ha nuovamente puntualizzato la propria posizione sui principali temi in materia. La Corte ritiene che i verbali dell'ispettorato, in tema di omesso versamento dei contributi, costituiscano prova idonea a legittimare il ricorso al procedimento ingiuntivo e facciano fede fino a querela di falso per quanto riguarda la provenienza dal pubblico ufficiale che li ha redatti e i fatti che quest'ultimo attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti. Invece «per le altre circostanza di fatto, che il verbalizzante segnali di aver accertato nel corso dell'inchiesta, per averle apprese de relato o in seguito ad ispezione di documenti, la legge non attribuisce al verbale alcun valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice, ma il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando all'opponente l'onere di fornire la prova dell'insussistenza dei fatti contestatigli (fra le tante v. Cass. n. 6847/87; n. 3148/85; n. 392/92; n. 3973/98; n. 5041/00)». Il Collegio ribadisce di condividere quell'orientamento secondo cui il codice civile e le leggi speciali sottraggono ai soggetti del rapporto il potere di regolare a loro criterio il contenuto del rapporto stesso, affidando la tutela degli interessi del lavoratore alla legge e alla contrattazione (Cfr. Cass. n. 7885/97 e n. 4533/00). Distinguono peraltro due ipotesi. La prima è quella che i contraenti vogliano attuare un rapporto di subordinazione, ma che dichiarino di volere un rapporto di lavoro autonomo per aggirare i connessi obblighi ed oneri: in tal caso prevale il contratto dissimulato su quello simulato ai sensi dell'art. 1414, secondo comma cod. civ. La seconda ipotesi è quella in cui i contraenti abbiano effettivamente voluto un rapporto autonomo, ma mediante lo svolgimento del rapporto manifestino, con fatti concludenti, mutamenti della volontà  inizialmente espressa: in questo caso i comportamenti assumono rilevanza giuridica nella fase in cui le prestazioni vengono scambiate, e dal loro contenuto si risale al tipo negoziale in cui la vicenda concreta deve essere inquadrata. Rispetto al caso specifico, la Corte non attribuisce rilevanza al fatto che i rapporti di lavoro, prima di essere trasformati in co.co.co. fossero inquadrati come di lavoro subordinato, ritenendo infondata l'ipotesi, prospettata nel verbale di accertamento Inps, che la scelta del rapporto di collaborazione autonoma non sarebbe stata determinata dalla libera volontà  delle parti: secondo l'Ispettorato, infatti, tale «scelta» era stata dettata dalla necessità  di lavoro e di guadagno delle dirette interessate le quali, pur di accedere ad un posto di lavoro, avevano dovuto accettare le condizioni loro imposte. Secondo un ragionamento molto formalistico, i giudici bolognesi affermano che lo stato di necessità  e lo stato di bisogno potrebbero al più legittimare la rescissione del contratto, ma non consentirebbero di pervenire ad una diversa qualificazione del rapporto contrattuale. Inoltre la divergenza fra la volontà  della parte e la dichiarazione negoziale manifestata potrebbe essere presa in considerazione «solo nelle particolari ipotesi previste dalla legge (ad esempio simulazione, annullamento per vizi della volontà  o per incapacità  naturale della parte) di regola prevalendo, sulla base del principio di tutela dell'affidamento e della buona fede, la dichiarazione esternata sulla volontà  effettiva». Con buona pace del principio, ugualmente affermato in sentenza, secondo cui «la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti, nella iniziale stipulazione del contratto, non è determinante, stante l'idoneità , nei rapporti di durata, del comportamento delle parti ad esprimere sia una diversa effettiva volontà , sia una nuova diversa volontà  (v. Cass. n. 15001/00; n. 11502/00, n. 8407/01; n. 9019/01)». La Corte fa ancora proprio il ragionamento tautologico sempre ripetuto dal Supremo Collegio: «L'elemento essenziale e determinante del lavoro subordinato costituente elemento discretivo rispetto al lavoro autonomo, è il vincolo della subordinazione (v. tra le tante Cass. n. 15275/04; n. 3929/01; n. 2790/01; n. 6089/91) che si configura come soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro e si estrinseca nell'emanazione di ordini specifici e nell'esercizio di un'assidua attività  di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative e va, concretamente, apprezzato con riguardo alla specificità  dell'incarico conferito al lavoratore e al modo della sua attuazione (Cass. n. 17382/03; n. 5989/01; n. 2970/01; n. 224/01)». Al contrario «la continuità  della prestazione, la rispondenza dei suoi contenuti a fini propri dell'impresa, la presenza di direttive tecniche e di poteri di controllo, le modalità  di erogazione della retribuzione, l'assenza del rischio e l'osservanza di un orario non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo parasubordinato (v. Cass. n. 224/01; n. 15001/00; n. 1420/02; n. 9900/03; n. 13840/03; n. 2414/04: n. 2842/04)». Nel caso in esame, comunque, i giudici dell'appello hanno attribuito rilevanza al fatto che non era previsto che in caso di malattia venisse inviato un certificato medico; che nelle risposte all'utenza le centraliniste non fossero obbligate ad assumere una linea interpretativa determinata dal committente o a trattare gli argomenti da altri prescelti; che potessero liberamente scambiare con le colleghe il turno già  predisposto dalla società  (fermo restando l'obbligo di garantire comunque il servizio); che, presumibilmente (sul punto le testimonianze non erano concordanti) il loro compenso fosse corrisposto a minuto di conversazione. In conclusione la Corte d'Appello di Bologna, sulla base degli stessi elementi di fatto emersi nell'istruttoria condotta dal giudice di primo grado e non dissimili da quelli accertati nel corso delle indagini ispettive ' che avevano indotto entrambi a ritenere la sussistenza di rapporti di lavoro subordinato con conseguente evasione contributiva ' perviene a conclusioni opposte.
Rapporto lavoro a tempo indeterminato - Illegittima apposizione del termine - Inerzia lavoratore - Risoluzione mutuo consenso
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Nel panorama dello sterminato contenzioso nazionale innescato dal massiccio ricorso del rapporto di lavoro a tempo determinato dalle Poste Italiane s.p.a.,la decisione affronta in particolare la problematica risolutoria del mutuo consenso. La questione che si è posta riguarda la possibilità  che un contratto di lavoro a tempo determinato connotato dalla illegittima apposizione del termine si risolva per mutuo consenso, laddove il comportamento delle parti, proposto per un apprezzabile lasso di tempo e risolventesi nella totale mancanza di operatività  del rapporto, possa essere valutato in modo socialmente tipico quale dichiarazione solutoria. Al riguardo, si afferma che, in linea di principio, l'inerzia del lavoratore, anche se protratta nel tempo dopo la scadenza del termine contrattuale illegittimamente apposto, non può ritenersi di per sé sintomatica, per comportamento tacito, di una volontà  risolutiva del rapporto, in quanto indicativa del disinteresse del lavoratore alla continuazione. Si precisa, tuttavia, che se da un lato, a fronte di un decorso temporale di entità  non particolarmente significativa, neppure l'ipotesi del reperimento nelle more di altra occupazione (specie se precaria o professionalmente non gratificante) può ritenersi univocamente rilevante in senso solutorio, dall'altro, a fronte cioè di un decorso temporale di entità  particolarmente apprezzabile ' che appare al giudice corretto individuare in cinque anni, intercorrenti tra la cessazione del rapporto e la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione (un termine ben superiore ai possibili parametri costituiti dai 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento ex art. 6 L. 1966/n. 604, dai 6 mesi per l'impugnazione della rinuncia ex art. 2113 cod. civ. e coincidente con la prescrizione quinquennale ordinaria in materia di lavoro ex art. 2948 cod. civ.) ' tanto più se accompagnato da ulteriori comportamenti concludenti del lavoratore, deve ragionevolmente ritenersi verificata una risoluzione consensuale del rapporto, nonostante l'illegittima apposizione del termine. Si richiamano per il dibattito interpretativo, Cass. 2004/nn. 13891, 15130; 2003/n. 13370.
Selezione riservata a lavoratori disabili - Bando di concorso - Requisito - Principio di non discriminazione
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Una giovane laureata ha esercitato azione di accertamento del diritto a partecipare a selezione indetta dalla Banca,per essere stata esclusa «per difetto del titolo di studio». La candidata era in possesso di una laurea in Scienze della Comunicazione conseguita presso la Facoltà  di Lettere e Filosofia non contemplata nel bando, seppur ad esito di corso di studi di cinque anni nell'ambito di uno specifico corso di laurea. La pretesa della Banca di escludere la Facoltà  di Lettere e Filosofia nei confronti della Facoltà  di Scienze della Comunicazione, differenziando, pur nell'ambito di una selezione non pubblica, il medesimo titolo di studio conseguito nella medesima classe di laurea ed avente il medesimo valore giuridico, è parsa al giudice discriminatoria e dunque illegittima. Ulteriore irragionevolezza della disparità  di trattamento è stata rinvenuta nella constatazione della pluralità  dei titoli di studio richiesti dal bando per l'ammissione ' dal diploma in specifiche maturità , al diploma universitario, alla laurea secondo il vecchio ordinamento universitario, alla laurea anche solo triennale secondo il nuovo ordinamento universitario (incidentalmente, la candidata era in possesso di laurea conseguita ad esito di corso di studi di cinque anni) e dall'essere demandati i criteri di valutazione non al titolo posseduto, ma per il settanta per cento a test e il trenta per cento alla prova orale.
Interruzione della prescrizione - Presunzione di conoscenza della lettera raccomandata
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Invero la vicenda qui trattata assume importanza, a prescindere dall'oggetto di causa(opposizione a precetto a seguito di intimazione di pagamento da parte dell'Istituto previdenziale) per le argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Bologna in merito alla presunzione di conoscenza delle lettere raccomandate: sulla scorta di una recente pronuncia di Cassazione sono infatti sempre più frequenti le eccezioni di legali dei datori di lavoro in merito alla presunta mancata prova dell'impugnazione di licenziamento ovvero dell'invio di un certificato medico. Secondo Cass. Civile Sez. III 12 maggio 2005, n. 10021 la dimostrazione che una raccomandata sia stata ricevuta dal destinatario non varrebbe di per sé a dimostrare quale fosse il contenuto della lettera e quindi, in caso di contestazione, sarebbe onere di chi pretende che da quella ricezione siano derivati effetti giuridici, dimostrare il reale contenuto della missiva. Tale principio è stato per esempio pericolosamente accolto dal Tribunale del lavoro di Milano (Sent. 27 maggio 2005 n. 2966) proprio in un'ipotesi di contestata recezione di certificato medico, e conseguente licenziamento per assenza ingiustificata. Nel caso in esame, invece, i giudici bolognesi osservano che, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, la presunzione di conoscenza da parte del destinatario ' posta dall'art. 1335 cod. civ. ' delle dichiarazioni dirette ad una determinata persona che siano giunte a destinazione, opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo della dichiarazione nel luogo indicato dalla norma, indipendentemente dal mezzo di trasmissione adoperato e dall'osservanza delle disposizioni del codice postale. «Incombe pertanto sullo stesso destinatario l'onere di provare di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità  di acquisire la conoscenza della medesima e, quindi, anche l'onere di provare la non corrispondenza della dichiarazione inviata a quella di cui il mittente conservi la copia (v. Cass. n. 8073/02)». La Corte d'Appello rammenta come anche la Suprema Corte abbia chiarito che la lettera raccomandata o il telegramma costituiscono «prova certa della spedizione attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta di spedizione, da cui consegue la presunzione fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell'ordinaria regolarità  del servizio postale e telegrafico, di arrivo dell'atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 cod. civ. dello stesso (v. Cass. n. 21133/04; n. 10284/01)». Per quanto concerne la raccomandata, la presunzione opera anche caso di smarrimento della c.d. cartolina di ritorno, purché la spedizione sia attestata dell'ufficio postale attraverso il rilascio della ricevuta: da questa, «anche in mancanza dell'avviso di ricevimento, può desumersi la presunzione del suo arrivo a destinazione in considerazione dei particolari doveri che la raccomandata impone al servizio postale, in ordine al suo inoltro e alla sua consegna (v. Cass. n. 9681/98; n. 5821/02; n. 15818/03)». Trattasi, però, di una presunzione semplice di ricezione, che può essere vinta dal destinatario «provando con qualsiasi mezzo di non aver avuto notizia dell'atto senza sua colpa, ovvero che il plico raccomandato non conteneva alcuna lettera al suo interno o che conteneva altro (v. Cass. n. 771/04)». Con una simile soluzione ' che nel caso specifico ha portato la Corte a ritenere provata l'intervenuta interruzione della prescrizione del diritto contenuto nel titolo posto a fondamento dell'atto di precetto opposto, e quindi a rigettare l'appello contro l'Inps ' riteniamo sia più equamente ripartita la distribuzione dell'onere della prova tra le parti, risultando altrimenti eccessivamente gravoso per il mittente provare, ad esempio, il fatto ' assolutamente presumibile ' che la busta pervenuta al destinatario pochi giorni dopo la spedizione della raccomandata contenesse quello specifico documento: sarà  infatti il destinatario a dover provare il contrario.
Lavoro interinale a termine - Chiamata in manleva della società fornitrice da parte della società utilizzatrice
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È escluso che, nel giudizio di accertamento della legittimità  di un contratto di lavoro interinale,avviato dal lavoratore nei soli confronti della società  utilizzatrice, quest'ultima possa invocare l'art. 40, co. 3 c.p.c. ai fini della chiamata in manleva della società  fornitrice trattandosi di garanzia impropria, afferente un rapporto contrattuale tra imprenditori estraneo alla materia oggetto del giudizio del lavoro ed esterno rispetto al rapporto oggetto del giudizio. Nella fattispecie si discute di un caso di intervento coatto a istanza di parte, disciplinato dall'art. 106 c.p.c. e consentito anche nelle controversie di lavoro dall'art. 420, co. 9 c.p.c.. Quanto alle ragioni che fondano la legittimazione a chiamare il terzo, esse vanno ricondotte alla connessione oggettiva tra cause, di cui la garanzia non è altro che un aspetto qualificato dal carattere subordinato del rapporto tra il garante e il garantito e quello principale. La connessione oggettiva, come noto, d luogo appunto alla possibilità  di cumulo soggettivo, possibilità  genericamente contemplata dall'art. 103 c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo. Orbene, proprio per rendere concretamente attuabile questa generica possibilità , la legge detta alcune regole con riguardo a particolari ipotesi di connessione oggettiva (o anche soggettiva, art. 33), ovvero per i casi in cui tra le cause connesse esista un rapporto di accessorietà  (art. 31), ovvero un rapporto di garanzia (art. 32). Nella fattispecie in massima ci troviamo appunto in un caso di chiamata di terzo in manleva e, quindi, il caso di connessione che rileva è quello previsto dall'art. 32, che consente, appunto, la proposizione della domanda di garanzia innanzi al giudice competente per la causa principale con conseguente deroga della competenza. Ma di quale competenza? Dottrina e giurisprudenza sostengono che, in generale, le deroghe sono possibili con riguardo alla competenza per territorio ed a quella per valore, ma non anche con riguardo alla competenza per materia. Dottrina e giurisprudenza, inoltre, escludono la particolare possibilità  di derogare alle regole della competenza ex art. 32 nei casi c.d. di garanzia impropria, che si verifica quando la domanda di garanzia, anziché dipendere dal medesimo titolo, dipenda da un titolo connesso solo in via di fatto. Alla luce di quanto sopra sembrerebbe, quindi, corretta la scelta del giudice della sentenza di non autorizzare la società  utilizzatrice alla chiamata in garanzia della società  fornitrice posto che nella fattispecie ricorrerebbe un caso di «garanzia impropria» (dice il giudice: il contratto di somministrazione è un rapporto contrattuale tra imprenditori e, quindi, esterno al contratto di lavoro impugnato nella causa ed estraneo, per materia, alla competenza del giudice adito). Non si può non notare tuttavia che, per quanto riguarda il processo del lavoro, alcune sentenze della Corte di Cassazione (Cass. 97/12917 che conferma Cass. 92/979 e Cass. 83/5293) si sono innanzitutto pronunciate a favore della chiamata in causa ai sensi dell'art. 106 c.p.c. anche in ipotesi di garanzia impropria, sottolineando, peraltro, che in questa seconda ipotesi, il simultaneus processus innanzi al giudice del lavoro è attivabile solo ove il giudice competente per la causa principale sia competente a conoscere anche dell'altra, in quanto lo spostamento di competenza è ammesso solo per la garanzia propria, non essendo derogabili, nell'ipotesi di garanzia impropria i criteri normali di competenza per valore e territorio (Cass. 20/12/1997 n. 12917; Cass. 30/1/1992 n. 979). A parte ciò, è verosimilmente sostenibile che, nella fattispecie in massima, stante la diversità  dei titoli dedotti dalle parti non ricorra affatto un caso di garanzia impropria, come rilevato dal giudice di Monza: segnatamente il rapporto di lavoro da parte della ricorrente ed il contratto di somministrazione dall'impresa resistente istante per la garanzia. In punto, infatti, il Supremo Collegio ha in più riprese specificato che un criterio di distinzione come quello adottato dal giudice di Monza è inadeguato a soddisfare le esigenze sostanziali delle parti in causa, ed è stato ritenuto (Cass. 188/1965; Cass. 527/166; Cass. 1980/1966; Cass. 3110/1968; Cass. 1411 e 2973/1972; Cass. 3991/1974; Cass. 220/1976; Cass. 3981/1984; Cass. 667/1988) che sussiste l'ipotesi di garanzia propria anche quando fra le due domande proposte esista una connessione obiettiva dei titoli, nel senso che l'uno è concatenato all'altro, oppure quando sia unico il fatto generatore della responsabilità  prospettata con l'azione principale e con quella di garanzia. In tal caso, è stato osservato, la correlazione logico- giuridica tra le due cause reclama il simultaneus processus alla cui univoca soluzione siano unitariamente interessate tutte le parti in causa. In adesione a codesto indirizzo e, disattendendo le indicazioni del giudice della sentenza in massima, sembrerebbe opportuno affermare, quindi, il diritto della Società  utilizzatrice convenuta a chiamare in manleva la Società  fornitrice, sussistendo nella fattispecie una chiamata in garanzia propria, che consente lo spostamento a favore del giudice della competenza a conoscere della causa connessa.
Controversia socio-lavoratore di cooperativa di produzione - Questione di legittimità costituzionale
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In una causa promossa da un socio lavoratore nei confronti di una cooperativail giudice, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità  costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, 35 e 36 Cost. dell'art. 9 comma 1 lett. d della legge n. 30/2003 nella parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie tra soci e cooperative relative a prestazioni rese dai soci ed attinenti l'oggetto sociale, ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Questi i dubbi di legittimità  costituzionale dell'art. 9 comma 1 lett. d legge n. 30/2003 che il magistrato denuncia con articolata e motivata ordinanza: a) la devoluzione al giudice ordinario ' che si traduce nella applicazione del rito societario ai sensi del d.lgs 5/2003 ' comporterebbe la soppressione o la drastica limitazione di garanzie già  sancite dal legislatore ordinario in favore del socio-lavoratore, in attuazione di principi affermati negli artt. 3, 24, 35 e 36 Cost.; b) il socio lavoratore (subordinato o parasubordinato) di cooperativa perderebbe la tutela (sostanziale e processuale) connaturata al rito del lavoro, trovandosi cosà in una situazione sperequata in relazione non solo agli altri lavoratori subordinati, ma anche ai titolari di altri rapporti aventi ad oggetto una prestazione lavorativa ed in ordine ai quali la giurisprudenza pacificamente riconosce la competenza funzionale del giudice del lavoro (associazione in partecipazione, impresa familiare ecc.); c) ne risulta una palese violazione del principio di ragionevolezza; infatti con la norma in questione viene predisposto uno strumento idoneo a smantellare, in pregiudizio del socio lavoratore (subordinato o parasubordinato che sia) un complesso protettivo previsto a tutela del lavoro subordinato (e che gli era stato esteso) «frutto di una evoluzione legislativa che ha trovato la sua espressione più alta in norme della Costituzione».
Licenziamento collettivo - Accordo sindacale che prevede la vicinanza al pensionamento come unico criterio di scelta: validità
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Un dipendente di Poste Italiane collocato in mobilità a seguito di una procedura di cui alla legge 223/1991 ' che coinvolgeva migliaia di dipendenti ' conclusasi con accordo collettivo 17.10.2001, chiedeva ed otteneva dal Tribunale del lavoro di Bologna la dichiarazione di illegittimità  del suo licenziamento e l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte d'Appello di Bologna, peraltro, pronunciatasi a seguito dell'impugnazione della sentenza di primo grado da parte di Poste italiane, si è dimostrata di diverso avviso ed ha accolto l'appello della società  con una sentenza che affronta diverse problematiche in materia di licenziamenti collettivi. La Corte parte dalla premessa «politica» della necessità  di contemperare le esigenze di riequilibrio dei costi di una «azienda pubblica (alquanto diverse rispetto a quelle di una consimile meramente privata, specie se si pensa che lo sbilancio grava complessivamente su tutta la comunità  nazionale) con quelle di tutela del posto di lavoro che pur costituisce bene di carattere costituzionale» evidenziando che «il riequilibrio dei costi aziendali è un obiettivo il cui perseguimento, alla luce dell'art. 41 Cost. risulta indispensabile oltreché lecito». Quanto poi alla censura secondo cui nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna riduzione o contrazione di lavoro, la Corte sembrerebbe ' apparentemente ' aderire alla teoria della «acausalità » del licenziamento collettivo, secondo cui nell'ambito di questa disciplina sarebbe «ultronea ogni indagine circa l'esistenza o meno di un programma di ristrutturazione aziendale» assumendo rilievo (solo) «il mancato espletamento dell'iter processuale delineato dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991» (Cass. 9045/00; conf. n. 1061/99; n. 5662/98; n. 5794/04). Secondo la Corte d'Appello di Bologna, infatti la scelta del legislatore è stata nel senso di «attuare le garanzie attraverso la sempre più consueta prassi della c.d. procedimentalizzazione del provvedimento datoriale e della strada da percorrere per giungervi» passando quindi «dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già  collaudata in materia di trasferimenti d'azienda». Al di fuori della correttezza procedurale dell'operazione, quindi, non potrebbero «trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali [â?¦] si finisce per investire l'autorità  giudiziaria di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività  produttiva» (Cass. n. 11455/99). Nel contempo, però, la stessa Corte d'Appello afferma che «i presupposti di fatto presi in considerazione al fine di legittimare il ricorso ai licenziamenti collettivi sono due, ciascuno articolato in due variabili. Essi consistono nella scelta imprenditoriale di una riduzione dell'attività  o del lavoro ma anche in una trasformazione sempre dell'attività  o del lavoro. L'uso della disgiuntiva da parte della legge, ha avvertito la dottrina più attenta, autorizza questo inquadramento. «I giudici bolognesi sembrano allora attribuire rilevanza dirimente alla sussistenza del requisito causale, laddove legittimano il ricorso ai licenziamenti collettivi solo in sua presenza, che nel caso in esame viene individuato in una «trasformazione aziendale», vale a dire in una «trasformazione dell'impegno mercantile dell'azienda [â?¦] ovvero ad una razionalizzazione della sua articolazione » ' anche se, invero, nella parte finale della sentenza, riaffermano «che l'autorità  giudiziaria non può essere investita di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività  produttiva (arg. ex Cass. n. 11455/99; n. 5516/03; n. 9134/04)». Venendo poi ad esaminare la regolarità  o meno dello svolgimento della procedura, la Corte ritiene innanzi tutto esauriente e sufficientemente analitica la comunicazione iniziale, alla quale attribuisce «il requisito della completezza finalistica, nel senso che esso è sicuramente un solido punto di partenza da cui le parti collettive potevano prendere le mosse nella disamina della situazione aziendale, alla luce degli insindacabili obiettivi imprenditoriali», precisando che il fatto che la finalità  di favorire la gestione contrattata della crisi sia stata realizzata con accordo sindacale «è rilevante ai fini del giudizio di completezza della comunicazione ai sensi del citato art. 4 comma terzo della legge n. 223 del 1991 (Cass. n. 9015/03)». Inoltre, richiamando Cass. n. 4228/00, la Corte afferma che le eventuali insufficienze della comunicazione di avvio della procedura, pur non perdendo rilievo per il solo fatto che sia stato poi stipulato un accordo di mobilità , non sarebbero invocabili dal singolo dipendente licenziato: «Poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all'esame della situazione di crisi e a proporre soluzioni di crisi della stessa, non può far valere in giudizio a propria tutela, in ogni caso, l'inadeguatezza della comunicazione». Da ultimo i giudici di secondo grado valutano il criterio individuato dall'Accordo sottoscritto il 17 ottobre 2001, il quale prevedeva che in due diverse fasi temporali ' al 31 dicembre 2001 e 2002 ' l'Azienda avrebbe risolto il rapporto «di tutto il personale che alla data medesima risulti già  in possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità  e di vecchiaia» fatta sempre salva la possibilità  per lo stesso di risolvere consensualmente il rapporto beneficiando dei trattamenti di incentivazione all'esodo. Ed evidenziano che come conseguenza della politica aziendale di ulteriore incentivazione ed agevolazione gli esuberi, inizialmente quantificati in 9.000, poi erano calati a poco più di 7.000, divenendo alla fine poco più di 900 di cui solo 450 destinatari in concreto del licenziamento, avendo gli altri aderito alle dimissioni incentivate. Citando il Supremo Collegio, affermano che «appare razionalmente adeguato rispetto all'esigenza di attuare una riduzione del personale, il ricorso al criterio della prossimità  al trattamento pensionistico giustificato dal minore impatto sociale (Cass. n. 9134/04; conf. n. 13962/02; n. 4149/01)» in quanto detto criterio «consente di formare una graduatoria rigida e quindi di essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità  per il datore di lavoro (Cass. n. 6567/02; n. 1760/99; n. 11875/00; n. 4140/01; 10171/01). Esso, inoltre, sarebbe ritenuto «esemplificazione di criterio razionalmente giustificato, ai fini dei licenziamento collettivi», anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 268 del 1994). Va peraltro osservato, sul punto, che oggi il d.lgs. n. 216/2003 prevede il fattore «età » tra quelli considerati espressamente discriminatori dalla legge: il che pone fondati dubbi sulla legittimità  di criteri di scelta ' anche se concordati ' del personale da collocare in mobilità  che facciano riferimento proprio al raggiungimento dell'età  pensionabile.
In caso di riforma della sentenza di reintegra il lavoratore è tenuto all'integrale ripetizione delle somme percepite
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Nel corso di un giudizio di opposizione all'ingiunzione promossa da una società  per la ripetizione delle retribuzioni percepite dal lavoratoreper effetto di una sentenza di reintegra riformata in sede di appello un lavoratore deduceva l'irripetibilità  delle somme dovute e maturate tra la sentenza di primo grado e la sentenza di riforma. La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso promosso dal lavoratore avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia ha precisato che gli importi erogati dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione del lavoratore licenziato anche per il periodo successivo alla data di detta decisione costituiscono ai sensi dell'art. 18 legge 300/70 risarcimento del danno derivante dall'illegittimo licenziamento e come tali sono integralmente ripetibili in caso riforma della sentenza che aveva accertato l'illegittimità  del recesso.
La cassazione esclude il carattere nazionale alle federazioni frutto di aggregazioni di varie componenti sindacali
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Nell'ambito di una complessa vicenda giudiziaria la Corte di Cassazione ha affrontato la legittimazione ex art. 28 legge 300/70 di una federazione sindacalepresente sull'intero territorio nazionale ma frutto di una aggregazione di sindacati locali. La Corte di Cassazione ritenendo che il sindacato nazionale considerato dal legislatore statutario risponda all'esigenza di ammettere alla speciale legittimazione solo un'associazione che persegua interesse non già  di un'area limitata ma in tutto il paese ha affermato che le «federazioni» di associazioni locali non rivestono il carattere nazionale sulla base del principio di «rappresentatività » che postula un'attività  sindacale, al di là  di mere affermazioni statutarie, su tutto il territorio nazionale. Ritiene, infatti, la Suprema Corte che la mera creazione di un coordinamento nazionale costituirebbe, in assenza del criterio di attività  estesa sul territorio un passe partout per l'accesso della legittimazione al ricorso dell'art. 28 Stat. lav., a qualsivoglia organizzazione locale e verrebbe frustrata quell'esigenza di fondo che giustifica, anche a livello costituzionale, la limitazione della legittimazione.
La Cassazione ribadisce la legittimità di una sentenza di reintegra nelle precedenti mansioni
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Un lavoratore assumendo di essere stato dequalificato adiva il Tribunale dell'Aquilache, ritenuta l'illegittimità  della condotta, ordinava alla società  di riadibire il lavoratore alle mansioni assegnate con sentenza confermata dalla locale Corte di Appello. La Corte di Cassazione, adita dalla società  che contestava l'ammissibilità  del provvedimento di reintegra richiesto dal lavoratore frutto di una normativa speciale non estendibile, ha ribadito che la tutela richiesta deriva dai normali istituti di diritto comune applicabili a fronte della violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103 cod. civ. che implica la nullità  del provvedimento datoriale. Sulla base di tale rilievo i giudici di legittimità  hanno quindi affermato che si deve quindi ammettere nell'ipotesi di accertata nullità  del provvedimento datoriale che al lavoratore sia accordata una tutela piena mediante l'automatico ripristino della precedente situazione. Nel richiamare i precedenti la Corte stabilisce che la richiesta di reintegra nelle mansioni costituisce un «falso problema», in quanto non ha nulla a che vedere con tale azione ma si fonda sul pregnante rilievo che l'ordinamento privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse leso e che alla sua realizzazione è preordinata la pronunzia di condanna di un facere in forma specifica.
In caso di riforma della sentenza di condanna a crediti di lavoro il datore non può ripetere gli oneri versati indebitamente
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Nell'ambito di un giudizio promosso da un'azienda per la ripetizione delle somme erogate al lavoratore sulla base di una decisione riformata,la Corte di Cassazione ha affermato che sussiste un diverso regime di ripetizione per le somme trattenute a titolo previdenziale e fiscale. Per le somme versate dal datore di lavoro all'istituto previdenziale non sussiste un obbligo di ripetizione delle stesse in capo al lavoratore in quanto il legittimato alla restituzione dell'indebito previdenziale è esclusivamente il datore di lavoro. Diversamente, ha precisato la Suprema Corte avviene per le ritenute fiscali laddove il datore di lavoro opera quale sostituto di imposta svolgendo sostanzialmente funzioni di esattore dell'amministrazione finanziaria per conto del contribuente sostituito. In tale ottica il datore di lavoro per quanto attiene le somme versate all'erario per conto del lavoratore ha una mera facoltà  di ripetizione delle somme versate e nel caso in cui non si avvalga di tale facoltà  ben potrà  ripetere le somme dal lavoratore. Sulla base di tale rilievo la Suprema Corte precisa quindi che il datore di lavoro provvede in adempimento di un obbligo di legge ad adempiere un'obbligazione del sostituito che rimane l'effettivo debitore degli acconti.
In caso di morte istantanea del lavoratore non sussiste un danno biologico trasmissibile "iure hereditatis"
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Un lavoratore a seguito di un gravissimo infortunio decedeva sul colpo.Nel corso del successivo giudizio penale il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile dell'evento e condannato al pagamento di una provvisionale in favore degli eredi. Nel successivo giudizio civile di risarcimento promosso dagli eredi innanzi al Tribunale di Salerno la domanda di risarcimento di danno biologico derivato veniva respinta dal locale magistrato con decisone confermata in sede di gravame. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione del Collegio salernitano ha quindi ribadito, richiamandosi a specifici precedenti ed alle decisioni della Corte Costituzionale, che il bene della vita leso in caso di morte rappresenta un bene giuridico diverso dalla lesione dell'integrità  psico fisica e non coincide con la massima lesione di quest'ultima. In caso di morte istantanea non può quindi ritenersi trasmesso agli eredi alcun danno biologico.
La sufficienza delle retribuzioni previste dagli accordi collettivi deve essere analizzata con una certa prudenza dal magistrato
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Nell'ambito di un giudizio promosso da un lavoratore teso a vedere dichiarare la nullità  di una clausola di un contratto collettivoper violazione dell'art. 36 Cost. la Suprema Corte ha accolto il ricorso della società  che era stata condannata in sede di appello a pagare una somma al lavoratore a seguito della accertata insufficienza della clausola contrattuale. Nel ritenere la legittimità  della clausola la Corte ha comunque precisato che analogamente ad una pattuizione privata anche una clausola di un accordo collettivo può essere dichiarata nulla ove introduca un compenso inferiore alla soglia minima costituzionale ed il contratto può essere integrato dal giudicante. In tale ottica, tuttavia, la Suprema Corte ha comunque ritenuto necessario osservare che allorquando la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità  con la massima prudenza e comunque con adeguata motivazione giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economico- politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali.
Per i contratti a termine nello spettacolo devono sussistere specifiche esigenze
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Una lavoratrice dopo essere stata assunta con una pluralità  di contratti a termine alle dipendenze della RAIadiva il Tribunale di Roma allo scopo di vedere accertata la nullità  dei termini apposti ai vari rapporti di lavoro. Avverso la decisione del giudice del riesame che riformando la decisione del primo grado aveva accertato l'avvenuta trasformazione del rapporto proponeva ricorso di legittimità  la società  concessionaria del servizio pubblico di radiotelevisione ritenendo che i vari contratti, pur avendo ad oggetto diverse tematiche, esprimevano la medesima esigenza aziendale. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  promosso dalla società  nel richiamare alcuni precedenti specifici ha ritenuto che la legittima utilizzazione del contratto a termine è condizionata al fatto che la specificità  dello spettacolo o del programma, che non implica la straordinarietà  o occasionalità  dello stesso ma solo la sua temporaneità , renda essenziale l'apporto del peculiare contributo professionale, tecnico o artistico del soggetto esterno incaricato della specifica prestazione, perché l'attività  richiestagli non è facilmente fungibile con quella espressa dal personale di ruolo dell'ente.
Non è discriminazione indiretta la promozione di lavoratori a maggioranza maschile dovuta al possesso di un titolo apposito
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Alcune lavoratrici adivano il Pretore di Catania lamentando di non avere ottenuto una progressione in carriera pari a quella dei colleghi di sesso maschile.Rivendicavano il livello superiore rispetto al proprio inquadramento quale misura correttiva della discriminazione, dal momento che svolgevano le medesime mansioni dei colleghi inquadrati nei livelli superiori. Il locale Tribunale pur non ritenendo lo svolgimento delle mansioni superiori rivendicate riteneva sussistente una discriminazione nella progressione in carriera delle lavoratrici e assegnava il livello richiesto quale misura tesa ad elidere la discriminazione. Avverso tale decisione proponeva appello la società  che rilevava che la maggior progressione nella carriera degli uomini rispetto alle donne era derivata dalla circostanza che il titolo di diploma tecnico necessario per lo svolgimento della mansione era posseduto in prevalenza da tale categoria di lavoratori. Il Collegio accoglieva il gravame della società  ma, in accoglimento dell'appello incidentale delle lavoratrici limitatamente ad alcune di esse assegnava il livello ritenendolo dovuto sulla base delle concrete mansioni dalle stesse svolte. La Corte di Cassazione adita dalle lavoratrici soccombenti in ordine alla mancata rilevazione della discriminazione nella progressione ha respinto il ricorso osservando che il giudizio di discriminazione presuppone un accertamento del giudice teso a verificare la dannosità  per uno dei sessi dell'adozione di un criterio selettivo non ritenuto essenziale. Sulla base di tale valutazione la Suprema Corte ha quindi ritenuto che la Corte di merito aveva ampiamente valutato la circostanza che il possesso del diploma tecnico costituiva un requisito essenziale per lo svolgimento del processo produttivo in un settore, quale quello elettronico che chiede alta specializzazione. Sulla base di tale corretta valutazione la Cassazione ha ritenuto che richiedere il suddetto titolo di studio necessario per lo svolgimento di determinate mansioni come condizione per la progressione in carriera non costituisce di per sé comportamento discriminatorio atteso che il titolo è accessibile sia per gli uomini che per le donne e che la presenza di un maggior numero di uomini tra i possessori di tale attestato deriva da scelte di percorsi scolastici distinti che non determina una discriminazione.
Le S.U. attribuiscono al datore l'onere della prova dei livelli occupazionali per escludere l'applicazione della tutela reale
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Un dipendente di un patronato adiva il Pretore di Reggio Calabria affermando di essere stato illegittimamente licenziatoe di avere diritto ad essere reintegrato in considerazione del livello occupazionale dell'ente che risultava contumace nel giudizio. La domanda accolta anche in sede di appello e avverso tale decisione proponeva ricorso di legittimità  l'ente soccombente che rilevava la mancata dimostrazione del livello occupazionale da parte del dipendente. Le Sezioni Unite dopo un'ampia digressione sui tre diversi orientamenti assunti dalla Corte in materia di riparto dell'onere della prova hanno ritenuto sulla base del criterio della «prossimità » al thema probandum che incomba al datore di lavoro l'onere di dimostrare l'inesistenza dei livelli occupazionali richiesti per la c.d. tutela reale. Affermano, infatti, le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel dirimere il contrasto insorto all'interno della Sezione, che la tutela reale del lavoratore ben può essere limitata discrezionalmente dal legislatore e questi, nell'effettuare il bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, può ritenere che le ragioni dell'impresa di piccole dimensioni debbano prevalere sulla tutela specifica del lavoratore illegittimamente licenziato. Non vi è però ragione di negare che questa limitazione del diritto al lavoratore debba essere affidata al soggetto interessato ossia al datore di lavoro e di affermare al contrario che essa debba aggiungersi agli elementi costitutivi di quel diritto con conseguenze in ordine alla ripartizione dell'onere della prova.
Legittimo rifiuto di un lavoratore di svolgere il lavoro in un ambiente non protetto da possibili aggressioni criminali
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Un lavoratore addetto a svolgere mansioni di esattore presso un casello autostradale dopo aver subito numerose rapine ed aggressionisi rifiutava di svolgere la propria attività  fintanto che l'azienda non avesse approntato misure antirapina idonee all'interno della postazione lavorativa. La società , ritenuta ingiustificata l'assenza del dipendente dal posto di lavoro, licenziava il lavoratore che adiva il locale Tribunale di Verbania che, pur accertando un inadempimento dell'azienda, comunque riteneva non giustificato il rifiuto totale della prestazione e, con sentenza confermata anche in sede di appello, rigettava la domanda di reintegra nel posto di lavoro. La Corte di Cassazione nel ritenere che la violazione del diritto del lavoratore a vedere tutelata la propria incolumità  anche da aggressioni criminali legittima il rifiuto della prestazione ha annullato la decisione sul rilievo che non è ravvisabile un'assenza ingiustificata dal posto di lavoro ove il rifiuto della prestazione sia connesso con la mancata adozione da parte del datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell'integrità  fisica e psichica del lavoratore.
Statali non di ruolo e indennità di fine rapporto
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In caso di decesso di dipendenti dello Stato non di ruolo, l'indennità  di fine rapportodeve poter essere oggetto di successione legittima e testamentaria, come avviene per i dipendenti di ruolo. La Corte Costituzionale ha cosà accolto la questione sollevata dal Tar del Lazio per manifesta irragionevolezza della disparità  di trattamento derivante dalla norma impugnata. È infatti ormai principio consolidato dalla giurisprudenza costituzionale quello secondo cui, qualunque indennità  venga corrisposta al lavoratore (pubblico o privato che sia) al termine dell'attività  lavorativa, la funzione di retribuzione differita rivestita dal trattamento prevale su quella previdenziale in caso di inesistenza dei soggetti previsti dalla legge (coniuge, figli minorenni ecc.) ed entra nel patrimonio del dipendente al momento della sua morte. Oltre a ciò, è da rilevare il fatto che oramai tra dipendenti in ruolo e dipendenti fuori ruolo dell'amministrazione statale non vi è più alcuna differenza (esistendo sempre un rapporto di lavoro subordinato) e che quindi deve ritenersi superata la risalente sentenza Corte Cost. n. 179 del 1970 che aveva negato l'illegittimità  della norma impugnata.
Pignorabilità delle pensioni dei notai
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È pignorabile, nei limiti di un quinto, la pensione erogata dalla Cassa nazionale del notariatoanche per i crediti diversi da quelli alimentari. La Corte Costituzionale ha affermato che lo status giuridico dei notai non giustifica il trattamento differenziato riservato alle pensioni erogate dalla Cassa nazionale del notariato rispetto a quello previsto per i dipendenti sia pubblici che privati. Poiché l'impignorabilità  si risolve in una limitazione della garanzia patrimoniale e in una compressione del diritto dei creditori, non esiste nessuna differenza tra le pensioni spettanti all'una o all'altra categoria di beneficiari sotto il profilo dell'assoggettabilità  d esecuzione forzata. Pertanto la norma impugnata è incostituzionale nella parte in cui esclude del tutto la pignorabilità  della pensione erogata ai notai, piuttosto che prevedere l'impignorabilità , con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte del rateo necessaria per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità  nei limiti del quinto della residua parte.
Ricongiunzione contributiva per liberi professionisti
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È legittima la norma che non prevede la restituzione dei contributi a favore di quei professionistiche, avendo fatto domanda di ricongiunzione dei contributi, cessino dall'iscrizione alla Cassa di previdenza senza aver maturato i requisiti per il diritto alla pensione. La Corte, nel dichiarare non fondata la questione, ha affermato che la ricongiunzione delle posizioni previdenziali è istituto di carattere generale mentre la restituzione dei contributi è di carattere eccezionale, previsto solo a favore di determinate categorie di professionisti e che escludere la restituzione non determina né un indebito pagamento da parte dell'assicurato né tanto meno un arricchimento senza causa della Cassa con il trattenimento dei contributi versati dai professionisti. Non bisogna dimenticare, inoltre, che tali «versamenti sono giustificati dalle situazioni esistenti e dalle norme vigenti all'epoca della loro effettuazione, tanto più che in un sistema solidaristico la circostanza che al pagamento dei contributi non corrispondano prestazioni previdenziali non dà  luogo ad arricchimento senza causa della gestione destinataria dei contributi».
Indennità di fine rapporto e danno erariale
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In ipotesi di danno erariale, le indennità  di fine rapportospettanti ai lavoratori di enti pubblici diversi dallo Stato sono sequestrabili o pignorabili come quelle spettanti agli statali (con l'osservanza, quindi, dei limiti previsti dall'articolo 545 del codice di procedura civile). La disposizione impugnata dalla Corte dei conti pugliese è stata quindi dichiarata illegittima in ragione dell'ingiustificata disparità  di trattamento ai danni dei dipendenti degli enti pubblici rispetto al regime applicabile ai lavoratori statali. A giudizio della Corte Costituzionale, la progressiva eliminazione delle differenze in materia di regime giuridico dell'indennità  di fine rapporto che spetta ai dipendenti del settore privato e dell'analogo emolumento erogato ai dipendenti pubblici rende non più tollerabile una disparità  di trattamento tra le due categorie in fatto di sequestro e pignoramento di tale indennità  (neppure in presenza di un credito della stessa pubblica amministrazione consistente nel risarcimento del cosiddetto danno erariale). In definitiva, non sussiste alcuna ragione che possa giustificare il più gravoso regime cui sono sottoposti i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato che, diversamente dai dipendenti statali, possono veder sequestrata e pignorata l'indennità  di fine rapporto senza alcun limite.
Inidoneità al servizio di polizia
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Non è illegittimo escludere i Carabinieri inidonei al servizio di polizia(per cause diverse dall'espletamento delle funzioni) dalla possibilità  di richiedere il passaggio a ruoli diversi dell'amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni dello Stato. La Corte Costituzionale ha quindi disatteso il Tar della Liguria che aveva ritenuto sussistere un'ingiustificata disparità  di trattamento tra i Carabinieri e la Polizia in ordine alla possibilità  di transitare in ruoli diversi. Ad avviso del giudice costituzionale le disposizioni impugnate non sono illegittime in ragione del fatto che i Carabinieri e la Polizia (come anche la Guardia di finanza) sono regolati da ordinamenti diversi e quindi non comparabili (basti pensare, sostiene la Corte, che i carabinieri mantengono uno status militare, mentre i poliziotti fanno parte del personale civile dello Stato). Sulla base di tali argomentazioni, quindi, non esiste una comparabilità  delle situazioni poste a confronto, tali da rendere operativo il riferimento al principio di uguaglianza (art. 3 Cost.).
«Mobbing» e competenze regionali
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Le Regioni possono intervenire per prevenire il fenomeno del «mobbing»e per sostenere coloro che sono stati sottoposti alle vessazioni. La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato non fondata la questione di legittimità  promossa a seguito dell'impugnazione del Presidente del Consiglio dei ministri nella parte in cui la legge abruzzese avrebbe leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e di organizzazione amministrativa degli enti pubblici. Quanto alla legge del Lazio (n. 16 del 2002), già  dichiarata incostituzionale con sentenza n. 359/2003, la Corte ha spiegato come quella sia stata dichiarata incostituzionale perché basata su un'autonoma definizione di mobbing. In quella normativa venivano anche elencati i comportamenti in cui il fenomeno poteva concretizzarsi, elementi che non spettava alla Regione formulare e che, inoltre, non erano in armonia con atti comunitari. Al contrario, i contenuti della legge della Regione Abruzzo, rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing, fanno riferimento alla normativa statale, pertanto non violano la Costituzione (art. 117). Ciò non toglie che, se l'inesistenza di una definizione dovesse condurre il legislatore territoriale ad emanare atti amministrativi che esulano dalla propria competenza o comunque contrastanti con i parametri costituzionali, l'ordinamento nazionale dovrebbe azionare gli opportuni rimedi per reprimere tali ingerenze.
Indebiti pensionistici
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Per il recupero delle quote di pensione percepite indebitamentenel periodo anteriore all'anno 1996 resta confermata l'applicazione del criterio secondo cui le stesse quote non possono essere recuperate se coloro che le hanno percepite in buona fede abbiano fruito nell'anno 1995 di un reddito imponibile ai fini Irpef pari o inferiore a 16 milioni di lire o nell'anno 2000 abbiano fruito di un reddito imponibile ai fini Irpef pari o inferiore a 8.263, 31 euro. I giudici rimettenti avevano chiesto alla Corte un intervento simile a quello compiuto con la sentenza n. 39 del 1993, che aveva dichiarato illegittimo l'art. 13, comma 1, della legge n. 412 del 1991, nella parte in cui estendeva le innovazioni introdotte in tema di ripetizione di indebito previdenziale ai rapporti sorti prima della sua entrata in vigore o pendenti a tale data. La Corte Costituzionale ha sottolineato come non sia ravvisabile ' come in occasione della sentenza del 1993 ' una lesione, costituzionalmente rilevante, dell'affidamento dei percettori di prestazioni pensionistiche non dovute, con conseguente violazione del principio di eguaglianza. L'affidamento dei cittadini nella stabilità  della normativa vigente, infatti, è tutelato come inderogabile precetto di rango costituzionale solo in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Per il resto, norme retroattive sono ammissibili purché comportino una regolamentazione non manifestamente irragionevole, onde la retroattività  può risultare giustificata proprio dalla sistematicità  dell'intervento innovatore e dall'esigenza di uniformare il trattamento delle situazioni giuridiche pendenti e quello delle situazioni che si determineranno in futuro. Nella specie, poi, si tratta dell'affidamento dei pensionati nell'irripetibilità  di trattamenti pensionistici indebitamente percepiti in buona fede, ed esso è tanto più meritevole di tutela ove si tratti di pensionati a reddito non elevato che destinano le prestazioni pensionistiche, pur indebite, al soddisfacimento di bisogni alimentari propri e della famiglia. A tale proposito, è significativo che la normativa censurata (per la parte in cui, secondo l'interpretazione delle Sezioni unite, si applica agli indebiti erogati prima del 1° gennaio 1996) attraverso il criterio reddituale garantisca l'irripetibilità  di tali indebiti ai pensionati economicamente più deboli e ' comunque ' ne escluda la ripetibilità  totale. D'altra parte la necessità  costituzionale di proteggere l'affidamento del pensionato non implica di per sé una disciplina unica dell'indebito previdenziale; onde, al legislatore che si sia allontanato dal principio civilistico della totale ripetibilità  dell'indebito oggettivo (art. 2033 cod. civ.), deve riconoscersi un ambito di discrezionalità  nell'individuazione degli strumenti più idonei a garantire ai pensionati a basso reddito un congruo livello di tutela, in un generale quadro di compatibilità , e fra essi può ben essere annoverata la scelta di collegare la ripetibilità  ad un criterio reddituale.
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