Descrizione
La Corte Costituzionale ritorna sulla definizione del mobbing e sulle competenze regionali Le Sezioni Unite risolvono il contrasto su onere della prova dei livelli occupazionali e tutela reale Complesso caso di licenziamento collettivo deciso dalla Corte di Appello di BolognaNon vi è litisconsorzio in caso di richiesta di risarcimento danni in seguito a un concorso
Elio L. e Salvatore B., dipendenti della Carit ' Cassa di Risparmio di Terni e Narni hanno partecipato a una procedura aziendale di selezioneper l'avanzamento
nella carriera di funzionario. Essi non hanno ottenuto l'avanzamento, che è stato invece
attribuito ad alcuni loro colleghi. In seguito a ciò essi hanno promosso, davanti al
Tribunale di Terni, un giudizio nei confronti dell'azienda e dei vincitori del concorso,
chiedendo la dichiarazione della nullità delle promozioni ottenute dai medesimi per irregolarità
nelle valutazioni nonché il riconoscimento del loro diritto alla qualifica superiore
e al relativo trattamento economico, e la condanna della Carit al risarcimento
del danno. Nel corso del giudizio essi hanno ridotto la domanda, limitandosi a chiedere
la condanna dell'azienda al risarcimento del danno consistito nella perdita di chances,
ovvero di possibilità favorevoli di accedere all'inquadramento superiore. Il Tribunale
ha accolto questa domanda, condannando l'azienda al risarcimento del danno. La
decisione è stata impugnata dalla Carit e, in via incidentale, dai lavoratori che hanno
chiesto un aumento dell'importo liquidato per il risarcimento. La Corte d'Appello di Perugia
ha ordinato l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei dipendenti vincitori
del concorso. Poiché la Carit non ha provveduto all'integrazione nel termine stabilito,
la Corte ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione negando la configurabilità di un litisconsorzio necessario e la conseguente
necessità di integrazione del contraddittorio in appello nei confronti degli altri
partecipanti alla selezione concorsuale per avanzamento.
La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 531 del 13 gennaio 2006, Pres. Senese, Rel. Roselli)
ha accolto il ricorso. Nel caso in cui l'attore in giudizio, sostenendo l'irregolare
svolgimento della procedura di selezione per l'accesso ad una superiore qualifica lavorativa,
pretenda non già una tutela specifica ossia la condanna del datore di lavoro
ad attribuire quella qualifica con esclusione degli altri concorrenti ' ha affermato la
Corte ' sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di costoro, pregiudicati dall'eventuale
sentenza di accoglimento. Se, per contro, l'attore voglia una tutela soltanto
risarcitoria per perdita di una mera possibilità di accesso alla qualifica superiore, cagionata
dalla procedura irregolare bensà ma di esito incerto (perdita non del bene ma
di una chance), equivalente alla tutela di un interesse legittimo di diritto privato e non
di un diritto soggettivo perfetto, in tal caso deve escludersi la qualità di litisconsorti
necessari in capo agli altri partecipanti alla selezione, nei cui confronti l'attore non esercita
alcuna pretesa, con la conseguente impossibilità di un giudicato sfavorevole.
La Corte Suprema ha cassato la decisione impugnata rinviando la causa alla stessa
Corte d'Appello di Perugia per la decisione di merito.
Il datore che denuncia un suo dipendente deve contestare contestualmente l'addebito in sede disciplinare
Nel marzo del 1994 la Spa Poste Italiane ha disposto un'ispezione presso un ufficio locale cui era addetta l'impiegata Valeria S.Nella loro relazione, in data
19 marzo 1994, gli ispettori hanno segnalato all'ufficio del personale che la lavoratrice
aveva trattenuto indebitamente l'importo di due contrassegni. L'azienda ha quindi denunciato
quanto accertato alla Procura della Repubblica di Chieti. In seguito a ciò la lavoratrice
è stata sottoposta a processo penale, che è stato definito con sentenza di
patteggiamento emessa il 14 dicembre 1994. Quattro mesi dopo, il 19 aprile 1995, l'azienda
ha contestato alla lavoratrice l'addebito disciplinare di avere trattenuto indebitamente
l'importo dei due contrassegni e successivamente l'ha licenziata. Valeria S.
ha impugnato il licenziamento davanti al pretore di Chieti, rilevando, tra l'altro, la tardività
della contestazione dell'addebito. Il pretore ha annullato il licenziamento ordinando
la reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro e condannando l'azienda
al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata in grado di appello dal
Tribunale di Chieti, che ha ravvisato la violazione del principio di immediatezza, osservando
che la contestazione disciplinare era stata effettuata vari mesi dopo la pronuncia
di patteggiamento e concerneva comunque quanto già accertato dagli ispettori
aziendali nel marzo del 1994. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione del Tribunale di Chieti per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 241 dell'11 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel. Curcuruto)
ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui la presentazione,
da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale per fatti attribuiti
a un dipendente non esclude l'onere di promuovere tempestivamente il procedimento
disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del
quale siano stati già rilevati elementi di responsabilità ; se invece sia stata disposta la
sospensione cautelare del lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione
dell'addebito disciplinare può essere differita in relazione alla pendenza di tale
procedimento. Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' il giudice di merito ha correttamente
motivato la sua decisione accertando che il datore di lavoro aveva sostanziale
consapevolezza della responsabilità della propria dipendente fin dalla relazione
ispettiva, non aveva provveduto a sospenderla cautelarmente ed aveva lasciato trascorrere
diversi mesi dalla data di sentenza di patteggiamento.
Per il riconoscimento della rappresentanza serve un'effettiva partecipazione all'accordo, non basta la sottoscrizione
Questa sentenza è già stata citata nel prececente numero di questa rivista(RGLNews n. 6/2005, p. 9). Ci sembra utile approfondire la controversia con ulteriori
considerazioni. In base all'art. 19 Stat. lav. le rappresentanze sindacali aziendali possono
essere costituite ad iniziativa dei lavoratori nell'ambito delle associazioni sindacali
che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unità produttiva.
Il sindacato autonomo Faisa ha chiesto alla Star, Società trasporti automobilistici regionali,
con sede in Lodi, il riconoscimento della propria rappresentanza sindacale aziendale,
facendo presente di avere sottoscritto un contratto collettivo applicato nell'unità
produttiva. La Star ha rifiutato il riconoscimento. Il sindacato Faisa ha promosso
davanti al Tribunale di Lodi un procedimento in base all'art. 28 Stat. lav. per repressione
di comportamento antisindacale. Nella fase cautelare il Tribunale ha rigettato
il ricorso. Il sindacato ha proposto opposizione davanti allo stesso Tribunale che
l'ha accolta dichiarando il carattere antisindacale del comportamento della Star Spa
consistente nel non riconoscere la rappresentanza sindacale aziendale costituita dalla
Faisa. Questa decisione è stata impugnata dalla Star davanti alla Corte di Appello di
Milano, che ha ritenuto fondata l'impugnazione ed ha pertanto escluso la configurabilità
di un comportamento antisindacale.
La Corte di Milano ha motivato la sua decisione richiamando i principi affermati dalla
Corte Costituzionale nella sentenza n. 244 del 1996, secondo cui l'art. 19 Stat. lav. deve
essere interpretato rigorosamente nel senso che, per potere costituire una rappresentanza
sindacale aziendale, il sindacato deve dimostrare di avere partecipato attivamente
al processo di formazione del contratto, dimostrando la capacità di imporsi al
datore di lavoro come controparte contrattuale. La Corte ha osservato che nel caso in
esame era risultato che la Faisa non aveva partecipato attivamente al processo di formazione
del contratto aziendale, ma si era limitata a sottoscrivere un contratto negoziato
da altri sindacati. La Faisa ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
della Corte di Appello per violazione e falsa applicazione dell'art. 19 St. Lav..
La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 26239 del 2 dicembre 2005, Pres. Ciciretti, Rel.
Curcuruto) ha rigettato il ricorso. Il criterio selettivo desumibile dall'art. 19 St. Lav. ' ha
osservato la Corte ' equivale in sostanza alla capacità del sindacato di imporsi come
controparte contrattuale; risulta evidente quindi che sotto tale aspetto la sottoscrizione
di un testo negoziato e approvato da altre parti contrattuali non solo non indica una
capacità di imporsi alla controparte ma costituisce significativo indizio del contrario,
rappresentando in definitiva uno strumento autopromozione, compensativo di una
situazione deficitaria sul piano degli effettivi rapporti di forza. Si comprende quindi
che, come è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 244 del
1996, «non è sufficiente la mera adesione formale ad un contratto negoziato da altri
sindacati, ma occorre una partecipazione attiva al processo di formazione del contratto
» e si comprende anche, nel quadro del criterio di effettività dell'apporto negoziale,
come, sempre secondo detta sentenza, «nemmeno è sufficiente la stipulazione di un
contratto qualsiasi» e si debba trattare, invece, «di un contratto normativo che regoli
in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante
della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale di un contratto nazionale
o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva». In conclusione, la tesi
accolta dalla Corte territoriale ' ha affermato la Cassazione ' si muove indiscutibilmente
nell'alveo della interpretazione costituzionalmente orientata delle norme di riferimento.
Il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore dequalificato nelle mansioni prima svolte o in altre equivalenti
In questo stesso numero è già stata citata questa sentenza(p. 10). Esaminiamo
più da vicino il caso di specie. Nicola G. dipendente della Sevel, Società Europea veicoli
leggeri S.p.a., inquadrato nel III livello, ha svolto sino al gennaio 1998 le mansioni
di conduttore di impianti di verniciatura, consistenti nell'avviamento e spegnimento
degli impianti, nella pulizia e nel controllo a vista degli stessi, in interventi manutentivi
aventi ad oggetto la verifica della temperatura e della pressione delle pompe, del
numero di giri o del livello dell'olio ecc. Nel gennaio 1998 l'azienda gli ha assegnato,
in luogo delle mansioni in precedenza svolte, quelle di addetto alla linea sigillatura,
consistente nell'applicazione, in catena di montaggio, di sigillante sulle scocche. Nicola
G. ha chiesto al Tribunale di Lanciano di accertare che egli aveva subito una dequalificazione
e di affermare il suo diritto alla reintegrazione nelle mansioni di conduttore
di impianti o in altre equivalenti. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha condannato
l'azienda a reintegrare il lavoratore nelle mansioni precedentemente svolte.
Essa ha proposto appello, sostenendo che le nuove mansioni assegnate al dipendente
rientravano in quelle previste dal contratto collettivo per il terzo livello e che comunque
non avrebbe dovuto disporsi la «reintegrazione» nelle mansioni, in quanto la
reintegrazione è prevista dalla legge solo in caso di licenziamento illegittimo (art. 18
Stat. lav.).
La Corte d'Appello degli Abruzzi ha rigettato l'impugnazione, escludendo che le nuove
mansioni rientrassero tra quelle previste per il terzo livello ed osservando che comunque
esse erano qualitativamente inferiori a quelle precedentemente svolte e non adeguate
alla professionalità acquisita dal lavoratore. In particolare la Corte ha rilevato
che l'impianto affidato a Nicola G. sino al gennaio 1998 era molto complesso perché
formato da molti circuiti di riempimento e svuotamento vasche, e che il lavoratore doveva
controllare i livelli delle vasche, se necessario mantenerli costanti, eseguendo
delle manovre specifiche a tal fine; ottimizzare il ciclo della macchina durante il funzionamento,
e riparare anche i guasti di primo livello. Prendendo quindi in esame il periodo
successivo al 2 gennaio 1998, la sentenza impugnata ha rilevato che le mansioni
di addetto alla linea sigillatura erano proprie dell'operaio generico di catena di montaggio,
consistendo nella applicazione di sigillante sulle scocche; e nel prendere in
considerazione la declaratoria del terzo livello del contratto collettivo del settore ha escluso
ad ogni modo che le nuove mansioni potessero essere comprese in essa in considerazione
del fatto che per applicare sigillante alle scocche non è richiesta una preparazione
specifica, laddove a detta categoria appartengono i lavoratori che svolgano
attività richiedenti «una specifica preparazione risultante da diploma o acquisita attraverso
una corrispondente esperienza di lavoro».
Quanto all'uso fatto da parte del giudice di primo grado del termine «reintegrazione»,
la Corte abruzzese ha rilevato che la non correttezza della terminologia adoperata era
del tutto irrilevante. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza
della Corte abruzzese per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 425 del 12 gennaio 2006, Pres. Mattone, Rel. Capitanio)
ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui al fine di
valutare se lo jus variandi, tuttora attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati
dall'art. 2103 cod. civ., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è
sufficiente verificare se le «nuove» mansioni assegnate al dipendente siano comprese
nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresà
l'equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza da lui svolte
alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità del loro espletamento, atteso
che l'equivalenza presuppone che le «nuove» mansioni, pur se non identiche a quelle
in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente,
ne salvaguardino il livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore
l'utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del
rapporto di lavoro. Nel caso in esame ' ha rilevato la Cassazione ' la sentenza impugnata,
con motivazione adeguata, ha ritenuto attraverso gli elementi probatori acquisiti
che diversamente dalle prime mansioni, le seconde fossero prive di complessità e
non richiedessero una preparazione specifica e ha legittimamente concluso, quindi,
per la sussistenza della lamentata dequalificazione.
La Cassazione ha ritenuto corretta la motivazione della sentenza impugnata anche nella
parte in cui ha ritenuto non censurabile l'uso da parte del giudice di primo grado del
termine «reintegrazione». La Suprema Corte ha rilevato che in passato la sua giurisprudenza
aveva dubitato circa la legittimità , in caso di dequalificazione del lavoratore
dipendente, di una sentenza di condanna del datore di lavoro ad adibire il lavoratore
alle mansioni in precedenza assegnate, soprattutto in considerazione del carattere
eccezionale del provvedimento di reintegrazione, consentito nei soli casi previsti dall'art.
18 della legge n. 300 del 1970. Le pronunce emanate in epoca successiva ' ha peraltro
ricordato la Corte ' hanno osservato che, anche a voler ritenere che il c.d. ordine
di reintegrazione nelle specifiche mansioni esercitate prima della illegittima destinazione
ad altro incarico non sia suscettibile di esecuzione forzata, è tuttavia consentita
l'emanazione dell'ordine in questione da parte del giudice, restando inteso che il
datore di lavoro può ottemperarvi anche assegnando il dipendente a mansioni diverse
e caratterizzate soltanto dal requisito della equivalenza alle precedenti con la conseguenza
che la condotta del datore è sanzionabile, oltre che mediante la condanna del
medesimo al risarcimento del danno, anche con l'ordine di reintegrazione del lavoratore
nel precedente incarico o in altro avente identico contenuto.
Se si riconosce che la violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103 cit. implica
la nullità del provvedimento datoriale ' ha osservato la Corte ' si deve parimentI ammettere
la possibilità che al lavoratore sia accordata una tutela piena, mediante l'automatico
ripristino della precedente situazione, fatto salvo, ovviamente, il c.d. jus variandi
del datore di lavoro; tale situazione non ha nulla a che vedere con quella prevista
dall'art. 18 della L. 300/70, il cui richiamo costituisce un falso problema. L'ordinamento
vigente ' ha affermato la Corte ' privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse
leso; alla sua realizzazione è preordinata la pronuncia di condanna del datore all'adempimento
in forma specifica (nella specie, la riassegnazione delle mansioni precedentemente
svolte o di quelle equivalenti); tutela che è anch'essa «reale», al pari di
quella prevista dall'art. 18 cit., in quanto comporta la persistenza del rapporto illegittimamente
modificato del datore, ma appartiene alla sfera del «diritto comune», non
essendo assimilabile al regime «speciale» previsto per il licenziamento ritenuto illegittimo.
Nel caso in esame ' ha concluso la Corte ' il Tribunale, ravvisato l'illegittimo
esercizio dello jus variandi da parte della società ricorrente, l'ha condannata «a reintegrare
il proprio dipendente nelle mansioni di conduttore di impianto o in altre equivalenti
», intendendo cioè, senza che in proposito potessero sorgere degli equivoci, disporre
la «adibizione del ricorrente alle mansioni illegittimamente sottrattegli o ad altre
equivalenti», cosà come rettamente osservato dal giudice di appello, che si è in effetti
uniformato, quindi, ai criteri enunciati al riguardo da questa Corte.
Una pattuizione bilaterale non è idonea a escludere la computabilità dell'assegno di sede estera nel trattamento del tfr
Giorgio C., dipendente della banca Sanpaolo Imi S.p.A., è stato distaccato negli Stati Unitipresso le filiali di New York e Los Angeles dal 1984 al 1993, con retribuzione
costituita dallo stipendio italiano e da un assegno di sede estera. Cessato il rapporto,
la banca gli ha corrisposto, per il t.f.r., un importo commisurato soltanto allo stipendio
italiano e non anche all'assegno di sede estera. Egli si è rivolto al Tribunale di
Torino, sostenendo che l'assegno di sede estera doveva essere incluso nel calcolo del
Tfr e chiedendo la condanna della banca al pagamento delle relative differenze. La
banca si è difesa sostenendo, tra l'altro, che, al momento del distacco, il lavoratore aveva
sottoscritto una lettera-contratto ove era previsto espressamente che «per quanto
attiene il trattamento di fine rapporto, il relativo accantonamento viene calcolato come
in passato sulla base della retribuzione che le sarebbe stata riconosciuta qualora
avesse prestato la sua attività in Italia». Il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda.
Questa decisione, impugnata dal lavoratore, è stata riformata dalla Corte di Appello di
Torino che ha ritenuto computabile nel Tfr l'assegno di sede estera e ha condannato la
banca a pagare le relative differenze. La Corte ha rilevato che l'assegno non figurava
tra le voci escluse, in base al contratto collettivo nazionale (art. 67), dal computo del
Tfr e che esso aveva natura retributiva in quanto avente la funzione in parte di compensare
la maggiore gravità e il disagio morale ed ambientale della prestazione all'estero,
in parte di retribuire la maggiore professionalità richiesta. Inoltre la Corte ha ritenuto
nulla la clausola del contratto individuale che escludeva dal Tfr l'assegno di sede
estera. La banca ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della
Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione lavoro n. 24875 del 25 novembre 2005, Pres. Sciarelli, Rel.
Figurelli) ha rigettato il ricorso. In base all'art. 2120 cod. civ. ' ha osservato la Cassazione
' ogni pattuizione individuale in peius per il lavoratore rispetto al regime legale
del Tfr è nulla, essendo consentite deroghe unicamente alla contrattazione collettiva,
deroghe peraltro insussistenti nel caso di specie perché il c.c.n.l. di categoria esclude
dal computo del Tfr soltanto trattamenti aventi finalità di rimborso spese. Affinché un
compenso sia incluso nella base di calcolo dell'indennità di anzianità (ex art. 2121
cod.civ.) o del trattamento di fine rapporto (ex art. 1 legge n. 297 del 1982), non è necessario
il carattere di definitività del compenso stesso, ma è sufficiente che di esso
(nella specie, indennità di servizio estero) il dipendente abbia goduto in modo normale
nel corso ed a causa del rapporto di lavoro, non avendo rilievo l'elemento temporale
di percezione del compenso stesso, ove questo sia da considerare come corrispettivo
della prestazione normale perché inerente al valore professionale delle mansioni
espletate.
Revisori contabili
Il decreto stabilisce che la tenuta del registro dei revisori contabili e del relativo registro del tirociniosia competenza del Consiglio nazionale dei dottori
commercialisti e degli esperti contabili, il quale si occuperà di trasmettere la relativa
documentazione al Ministero della giustizia. La stessa Commissione centrale per i revisori
contabili, istituita presso il Ministero della giustizia, ha sede ed opera presso il
Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
(Gazzetta Ufficiale n. 30 del 6 febbraio 2006)
Attività di autotrasportatore
Il decreto definisce l'attività di autotrasporto, di vettore, di committente e di caricatore,e stabilisce che nel caso di attività abusiva di autotrasporto, le relative
sanzioni si applicano al committente, al caricatore ed al proprietario della merce. Inoltre,
qualora il conducente del veicolo violi le norme sulla sicurezza della circolazione
stradale, sono considerati responsabili anche il vettore, il committente, nonche' il
caricatore ed il proprietario delle merci oggetto del trasporto nel caso in cui abbiano
fornito istruzioni scritte al conducente che risultino incompatibili con il rispetto delle
norme sulla sicurezza della circolazione stradale violate o nel caso in cui tali soggetti
non riescano a dimostrare che le istruzioni impartite al vettore fossero compatibili con
le norme di legge. I conducenti che effettuano professionalmente l'attività di autotrasporto
di persone e di cose devono essere in possesso del certificato di abilitazione
professionale o della carta di qualificazione del conducente. Ogni cinque anni i conducenti
titolari della carta di qualificazione sono tenuti al rinnovo della medesima dopo
aver frequentato un corso di formazione di aggiornamento.
(Gazzetta Ufficiale n. 6 del 9 gennaio 2006)
Proroghe di termini
Il decreto proroga diversi termini fra i quali si pone l'attenzione sui seguenti:a) entro il 31 marzo 2006 dovrà essere redatto il Documento programmatico per la
sicurezza richiesto dall'art. 180, comma 1, del codice in materia di trattamento dei dati
personali; b) entro il 30 giugno 2006 dovranno essere adottate le misure minime di
sicurezza stabilite per chi tratta i dati elettronicamente, come richiesto dall'art. 180,
comma 3 del codice in materia di trattamento dei dati personali; c) sino al 31 dicembre
2006 i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da imprese che occupano
meno di quindici dipendenti possono iscriversi nelle liste di mobilità ai fini dei benefici
contributivi in caso di assunzione da tali liste.
(Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30 dicembre 2005)
Legge finanziaria 2006
La legge finanziaria 2006, introduce, nell'unico articolo, le seguenti novità :la legge, introducendo alcuni commi al d.lgs. n. 276/2003, stabilisce che le commissioni
di certificazione dei contratti di lavoro possano essere istituite anche presso i Consigli
provinciali dell'Ordine dei consulenti del lavoro, invece, qualora le imprese abbiano
sede di lavoro in almeno due Province per l certificazione dovranno rivolgersi alla Direzione
generale della tutela delle condizioni di lavoro presso il Ministero del lavoro
(comma 256); modificando la legge n. 248/2005, viene istituito, dal mese di gennaio
2008, un Fondo di garanzia per agevolare l'accesso al credito delle imprese che conferiscono,
negli esercizi 2008-2012, il trattamento di fine rapporto a forme pensionistiche
complementari (comma 269); modificando il d.lgs. n. 368/1999, nel ramo medico
il contratto di formazione lavoro viene sostituito dal contratto di formazione specialistica,
il cui trattamento economico sarà composto da una parte fissa uguale per
tutte le specializzazioni, e da una parte variabile che non potrà eccedere il quindici per
cento di quella fissa (comma 300); dal mese di gennaio 2006 i datori di lavoro sono esonerati
dal versamento di massimo un punto percentuale complessivo dei contributi
sociali dovuti per gli assegni familiari, di maternità e contro la disoccupazione involontaria
(commi 361 e 362); in attesa della riforma degli ammortizzatori sociali, il Ministero
del lavoro, di concerto con il Ministero delle finanze, può prorogare fino al 31
dicembre 2006 le concessioni di Cigs, mobilità e disoccupazione speciale, qualora gli
accordi in sede governativa intervengano entro il 30 giugno 2006 (comma 410); il datore
di lavoro può inoltrare la domanda per il «bonus» assunzione, incrementativa della
base occupazionale di cui all'articolo 63 della legge n. 289/2002, anche in un momento
antecedente a quello dell'assunzione, e procedere all'assunzione stessa entro
30 giorni dal ricevimento della comunicazione di accoglimento della domanda da parte
dell'Agenzia delle entrate (comma 412).
(Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2005 ' suppl. ordinario n. 211)
Forme pensionistiche complementari
Il decreto, che entrerà in vigore il 1° gennaio 2008, disciplina le forme pensionistiche complementaridefinendone le modalità di istituzione, di costituzione e
di funzionamento dei fondi pensione, nonché la composizione e le responsabilità degli
organi di amministrazione e di controllo dei fondi pensione. I contributi alle forme
pensionistiche complementari saranno versati dai lavoratori, dai datori di lavoro o dal
committente, e attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando.
Entro sei mesi dall'assunzione o dal 1° gennaio 2008, nel caso di lavoratori già occupati
in tale data, i lavoratori dovranno esprimere la propria volontà di aderire o non aderire
ad un fondo pensione. Sarà compito del datore di lavoro informare adeguatamente
i lavoratori. Qualora entro il termine di sei mesi il lavoratore non abbia espresso
la propria volontà , scatta il silenzio-assenso: dal mese successivo il datore di lavoro
trasferisce il Tfr maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi
o contratti collettivi o, in assenza di tali accordi, alla forma pensionistica complementare
istituita presso l'Inps. Il diritto alle prestazioni pensionistiche si acquisisce al momento
della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti nel regime
obbligatorio di appartenenza. Le prestazioni pensionistiche possono essere erogate in
capitale, fino ad un massimo del cinquanta per cento del montante finale accumulato
e in rendita. Qualora l'aderente al fondo pensione sia inoccupato per un periodo superiore
ai quarantotto mesi, le prestazioni pensionistiche possono essere anticipate di
massimo cinque anni rispetto ai requisiti per l'accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio
di appartenenza. Gli aderenti ai fondi pensioni possono chiedere un anticipo
della posizione individuale maturata qualora ricorra uno dei seguenti casi: a) in
qualsiasi momento, per un importo massimo del settantacinque per cento, per affrontare
spese sanitarie, relative a sé, al coniuge e ai figli, per terapie e interventi straordinari
riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche; b) decorsi otto anni di iscrizione,
per un importo non superiore al settantacinque per cento, per l'acquisto della
prima casa di abitazione per sé o per i figli; c) decorsi otto anni di iscrizione, per un importo
non superiore al trenta per cento, per ulteriori esigenze del lavoratore.
(Gazzetta Ufficiale n. 289 del 13 dicembre 2005)
L'addetto all'acquisto di pubblicità per un giornale, pur se inquadrato come agente, può essere ritenuto lavoratore subordinat
Luigi P. è stato incaricato, nel dicembre 1990, dalla Spa A. Manzoni & C.,con contratto
definito di agenzia, di provvedere all'acquisizione di inserzioni pubblicitarie per
una nuova testata giornalistica settimanale. Dopo la cessazione del rapporto, avvenuta
nel 1994, Luigi P. ha chiesto al pretore di Udine di accertare che di fatto egli aveva
lavorato quotidianamente, all'interno di locali dell'azienda, in condizioni di subordinazione,
con orario di lavoro, e soggezione alle disposizioni della dirigenza e al controllo
del funzionario «area manager». Il pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha
accolto la domanda. La Corte di Appello di Trieste ha confermato questa decisione osservando
che la prova testimoniale aveva consentito di accertare che Luigi P. era presente
al lavoro ogni giorno e in modo continuativo dal lunedà al venerdà con l'osservanza
di un orario costante, che egli organizzava e dirigeva l'attività degli addetti all'ufficio,
che controllava l'attività degli agenti e dell'esattore e ne vistava i contratti,
manteneva i contatti tra i superiori e sottostava alle loro direttive in un concreto atteggiarsi,
prescindendo dalla qualificazione di rapporto autonomo attribuito dalle parti,
di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.
L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di
Appello di Trieste per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione
lavoro n. 24699 del 24 novembre 2005, Pres. Mileo, Rel. Capitanio) ha rigettato
il ricorso. La Corte di Appello di Trieste ' ha osservato la Cassazione ' con motivazione
adeguata e immune da vizi logici e giuridici ha rilevato che attraverso l'esame della
prova testimoniale era risultato che Luigi P., al di là del mero dato negoziale, attendeva
all'individuazione dei nuovi agenti, teneva i contatti con i superiori, ossia con l'area
«manager», sottostava alle loro direttive quanto alla scelta degli agenti, alla individuazione
degli obiettivi, alla creazione del giornale, alle strategie commerciali e alle
eventuali insolvenze ed era inserito, come avviene in modo tipico nel rapporto subordinato,
nell'organizzazione aziendale sotto il controllo continuo e costante dei superiori
gerarchici.
Le risultanze del Libro matricola sul n. dipendenti possono essere superati dal lavoratore con prove testimoniali o documentali
Maria C. dipendente dell'Aias, ha impugnato, davanti al Tribunale di Messina, il licenziamento comunicatole nel novembre del 1997,chiedendo la reintegrazione
nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. L'Aias si è difesa
affermando che il licenziamento non era giustificato e che comunque l'art. 18 Stat.
lav. non era applicabile perché essa aveva meno di 16 dipendenti, come risultava dal
suo libro matricola. La lavoratrice ha replicato, offrendone le prove, che in aggiunta ai
dipendenti formalmente iscritti, l'Aias impiegava, in condizione di subordinazione, anche
dodici lavoratori con formale rapporto di libera professione. Il Tribunale si è attenuto
alle risultanze del libro matricola e pertanto, pur dichiarando illegittimo il licenziamento,
ha escluso l'applicabilità dell'art. 18 Stat. lav. e si è limitato a condannare
l'Aias al pagamento di un'indennità in base alla legge n. 604 del 1966. Questa decisione
è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Palermo che ha acquisito
verbali dell'Ispettorato del lavoro ed ha sentito alcuni testimoni, i quali hanno confermato
l'impiego, in condizioni di subordinazione, dei dodici lavoratori con formale
contratto di lavoro autonomo. Pertanto la Corte ha ritenuto applicabile l'art. 18 Stat.
lav. e ha ordinato di reintegrare la lavoratrice condannando l'Aias anche al risarcimento
del danno. L'Aias ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che le risultanze
del libro matricola non potevano ritenersi superate da altre prove. La Suprema Corte
(Sezione lavoro n. 25094 del 28 novembre 2005, Pres. Lupi, Rel. Celentano) ha rigettato
il ricorso. Non è vero ' ha affermato la Corte ' che le risultanze del libro matricola
sul numero dei lavoratori occupati non possano essere superate da prove testimoniali
o documentali.
Professioni
Il decreto, in attuazione della legge n. 131/2003, definisce i principi fondamentali in materia di professioni,materia di competenza legislativa concorrente
tra Stato e Regioni, ma specifica che non si applicano alle seguenti fattispecie: la formazione
professionale universitaria; la disciplina dell'esame di Stato previsto per l'esercizio
delle professioni intellettuali, i titoli, il tirocinio, e le abilitazioni richieste per
l'esercizio professionale; l'ordinamento e l'organizzazione degli Ordini e dei Collegi
professionali; gli albi, i registri, gli elenchi o i ruoli nazionali previsti a tutela dell'affidamento
del pubblico; la rilevanza civile e penale dei titoli professionali e il riconoscimento
e l'equipollenza, ai fini dell'accesso alle professioni, di quelli conseguiti all'estero.
Secondo il decreto l'esercizio dell'attività professionale è «espressione del principio
della libertà di iniziativa economica» e può essere esercitata in forma di lavoro
dipendente o in forma di lavoro autonomo. Nel primo caso specifiche disposizioni normative
devono assicurare l'autonomia del professionista, nel secondo caso l'attività
professionale è equiparata all'attività d'impresa ai fini della concorrenza disciplinata a
livello comunitario, salvo quanto previsto in materia di professioni intellettuali.
(Gazzetta Ufficiale n. 32 del 8 febbraio 2006)
Legge comunitaria 2005
Della legge comunitaria 2005 si richiama l'attenzione sull'articolo 18che, introducendo l'articolo 29-bis alla legge n. 62/2005, delega il Governo ad adottare un
decreto legislativo attuativo della Direttiva comunitaria 2003/41/CE relativa alle attività
e alla supervisione degli enti pensionistici aziendali e professionali, il quale dovrà
determinare i poteri e le competenze regolamentari e organizzative della Commissione
di vigilanza sui fondi pensione.
(Gazzetta Ufficiale n. 32 del 8 febbraio 2006 ' suppl. ordinario n.34)
La mancata erogazione degli stipendi per tre mesi non esimi dal preavviso dello sciopero
La Commissione ha sanzionato la Sin. Cobas per aver indetto assemblee spontaneepresso un'azienda di servizi di pulizia senza richiedere ritualmente alcun tentativo
preventivo di conciliazione e senza alcuna proclamazione scritta, osservante il
previsto termine di preavviso. La Commissione secondo il suo costante orientamento
ha ritenuto l'assemblea con interruzione dell'attività di lavoro equiparabile allo sciopero;
inoltre ha ritenuto che la causa di insorgenza del conflitto ' il ritardo di circa tre
mesi nel pagamento della retribuzione ' non possa rappresentare un'esimente dall'obbligo
di preavviso, ma consenta, secondo la previsione dell'art. 4 comma 4-quater
della legge 146/90, l'irrogazione delle sanzioni solo nella misura minima.
Discrezionalità dell'azienda nella comunicazione dello sciopero agli utenti
L'art. 2, comma 6 della l. n. 146/1990 prescrive alle imprese l'obbligodi dare «comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio
dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero
e delle misure per la riattivazione degli stessi». Ad avviso della Commissione, poiché
la ratio di questa norma è quella di consentire all'utenza di prendere gli opportuni
provvedimenti per sopperire ai probabili disagi conseguenti all'astensione, qualora
l'azienda, in virtù degli elementi in suo possesso circa il probabile impatto dello sciopero,
ritenga prevedibile l'insussistenza di disagi per l'utenza, può omettere la comunicazione dell'astensione,
al fine di evitare i disagi connessi all'effetto annuncio, ferma
restando ovviamente la sua responsabilità qualora successivamente la previsione
risulti errata.
Accesso ad aree aziendali riservate: limiti all'uso delle impronte digitali dei dipendenti
Un'azienda fornitrice di tecnologie per la difesa nel settore avionico ed elettronico ha richiesto al Garante una verifica preliminareai sensi dell'art. 17 del
codice in merito al trattamento di dati biometrici di un numero ristretto di dipendenti
finalizzato a controllarne gli accessi in un'area aziendale circoscritta. Il sistema che l'azienda
intende utilizzare presuppone una raccolta di dati biometrici mediante apparecchiature
dotate di lettore di impronte digitali e un apposito software; i dati vengono
trasformati in un codice numerico (template), utilizzato esclusivamente per la raccolta
e il successivo trattamento dei dati. Il Garante ha affermato che l'uso generalizzato
e incontrollato di dati biometrici dei lavoratori non è in linea di principio lecito.
Tuttavia nel caso di specie il Garante ha ritenuto lecite sia le finalità perseguita dalla
società titolare del trattamento (identificare in modo certo i soggetti abilitati all'accesso
in un'area riservata e che vi hanno fatto ingresso) sia le modalità di trattamento dei
dati biometrici proporzionati rispetto ai diritti individuali degli interessati. Il Garante
ha però imposto all'azienda l'adozione di alcuni accorgimenti aggiuntivi: di predisporre
un sistema di verifica basato sul confronto tra le impronte rilevate ad ogni accesso
all'area riservata e il template memorizzato e cifrato su un supporto che resti nell'esclusiva
disponibilità dei lavoratori interessati, senza creare a tal fine un archivio centralizzato
di impronte digitali o di template; di dotarsi di un dispositivo che permetta
alla società di registrare nel sistema informativo dedicato all'archiviazione degli accessi
all'area riservata le informazioni personali (anche in forma di codice) necessarie
ad identificare univocamente i lavoratori che vi accedono.
Diritto d'ingresso e di soggiorno - Restrizione per motivi di ordine pubblico - Sistema di informazione Schengen
Avendo rifiutato l'ingresso sul territorio degli Stati parti contraenti dell'accordo relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni,firmato il 14 giugno 1985 a Schengen, al sig. Farid nonché il rilascio di un visto ai fini dell'ingresso
in tale territorio ai sigg. Farid e Bouchair, cittadini di uno Stato terzo coniugi di
cittadini di uno Stato membro, per il solo motivo che essi erano segnalati nel sistema
d'informazione Schengen ai fini della non ammissione, senza aver preliminarmente verificato
se la presenza di tali persone costituisse una minaccia effettiva, attuale e abbastanza
grave per un interesse fondamentale della collettività , il Regno di Spagna è venuto
meno agli obblighi che ad esso incombono in forza degli artt. 1-3 della Direttiva del
Consiglio 25 febbraio 1964, 64/221/CEE, per il coordinamento dei provvedimenti speciali
riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine
pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.
Insanzionabilità dell'associazione datoriale per mancata partecipazione alle procedure di raffreddamento
L'Assotelecomunicazioni non si è presentata ad una riunione indetta dal Ministero del Lavoro per esperire il tentativo di conciliazionerichiesto da alcune organizzazioni
sindacali in occasione della vertenza relativa al rinnovo del contratto collettivo
nazionale di lavoro del settore delle telecomunicazioni. La Commissione ha ritenuto
che la condotta dell'associazione datoriale non sia sanzionabile in quanto la regolamentazione
provvisoria del settore delle telecomunicazioni, approvata dalla Commissione
con delibera n. 02/152, nulla prevede in relazione alla condotta delle associazioni datoriali;
in particolare ' secondo la Commissione ' anche qualora si volesse ritenere che
l'associazione datoriale sia destinataria degli stessi obblighi dettati per le organizzazioni
sindacali dalla regolamentazione provvisoria relativi alle procedure di raffreddamento
e conciliazione in caso di rinnovo del c.c.n.l., non vi sarebbe nella legge n. 146/90 alcuna
disposizione sanzionatoria nei confronti delle associazioni datoriali, sicché dovrebbe
ritenersi preclusa in radice una valutazione negativa di comportamento dell'associazione
datoriale che non potrebbe essere corredata dalla coessenziale sanzione.
Illegittimità dei rallentamenti del traffico autostradale come forma di protesta
La Commissione ha sanzionato la Federazione nazionale degli autotrasportatori per una protesta messa in atto da circa 150 autotrasportatorisull'Autostrada
Bologna'Firenze nella quale mantenendo una velocità media di circa 15-20 km/h gli
stessi hanno causato blocchi e rallentamenti del traffico. La Commissione ha rilevato
che sarebbe stato violato l'obbligo legale di preavviso, nonché il codice di autoregolamentazione
del settore del 20 giugno 2001 laddove espressamente dispone che: «La
proclamazione della protesta non dovrà prevedere l'effettuazione di blocchi stradali o
di iniziative già sancite e sanzionate dal codice della strada in materia di circolazione
stradale». Sebbene la Federazione avesse eccepito di solidarizzare con le ragioni dei
protestatori, ma di esser estranea all'organizzazione della protesta, la Commissione
ha ritenuto l'associazione sanzionabile in quanto ' secondo l'orientamento della stessa
Commissione ribadito nella delibera n. 05/127 ' la responsabilità dell'associazione
di categoria sussiste «non solo in caso di adesione formale, ma anche quando, in assenza
di adesione formale, nella condotta dell'organizzazione sindacale sia ravvisabile,
in considerazione delle circostanze del caso concreto, un invito a scioperare».
Previdenza sociale lavoratori migranti - Determinazione normativa applicabile - Lavoratori distaccati in altro Stato membro
Fintantoché non venga revocato o invalidato dalle autorità dello Stato membro che l'hanno rilasciato, il modello E 101,rilasciato conformemente all'art. 11,
n. 1, lett. a), del regolamento n. 574/72, che stabilisce le modalità di applicazione del
regolamento n. 1408/71, vincola l'organo competente e i giudici dello Stato membro in
cui sono distaccati i lavoratori. Di conseguenza, un giudice dello Stato membro che ospita
i detti lavoratori non può verificare la validità di un modello E 101 per quanto riguarda
l'attestazione degli elementi in base ai quali un tale certificato è stato rilasciato,
in particolare l'esistenza di un legame organico, ai sensi dell'art. 14, n. 1, lett. a), del
regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori
subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all' interno
della Comunità , nella sua versione modificata e aggiornata dal regolamento n.
2001/83, come modificato dal combinato disposto del regolamento n. 2195/91, e del
punto 1 della decisione della Commissione amministrativa per la sicurezza sociale dei
lavoratori migranti 17 ottobre 1985, n. 128, relativa all'applicazione degli artt. 14, n. 1,
lett. a) e 14-ter, n. 1, del regolamento n. 1408/71, tra l'impresa avente sede in uno Stato
membro e i lavoratori da essa distaccati nel territorio di un altro Stato membro, per
la durata del distacco di questi ultimi.
Associazione Cee/Turchia - Libera circolazione dei lavoratori - Diritto alla proroga del permesso di soggiorno - Presupposti
L'art. 6 della decisione n. 1/80, relativa allo sviluppo dell'associazioneadottata dal Consiglio di associazione istituito dall'Accordo che istituisce un'Associazione tra
la Comunità economica europea e la Turchia, deve essere interpretato nel senso che:
' l'attribuzione dei diritti conferiti a un lavoratore turco dall'art. 6, n. 1, terzo trattino,
della decisione, e cioè che il lavoratore turco beneficia, dopo quattro anni di regolare
impiego in uno Stato membro, di libero accesso, in tale Stato, a qualsiasi attività salariata
di suo gradimento, presuppone in linea di principio che l'interessato abbia preventivamente
soddisfatto i requisiti di cui al secondo trattino dello stesso numero, e
cioè che abbia effettuato tre anni di impiego regolare;
' un lavoratore turco che non è ancora titolare del diritto al libero accesso a qualsiasi
attività subordinata di suo gradimento ai sensi dell'art. 6, n. 1, terzo trattino, della decisione,
è tenuto a svolgere nello Stato membro ospitante una regolare attività lavorativa
ininterrotta, a meno che non possa avvalersi di un legittimo motivo del tipo di
quelli previsti al n. 2 del medesimo articolo, che giustifichi la sua temporanea assenza
dal mercato del lavoro;
' quest'ultima disposizione comprende interruzioni dei periodi di regolare attività lavorativa
analoghe a quelle controverse nella causa principale e le autorità nazionali
competenti non possono contestare, nel caso di specie, il soggiorno del lavoratore turco
nello Stato membro ospitante.
Libera circolazione dei lavoratori - Riconoscimentodei diplomi - Professione di ingegnere
La direttiva del Consiglio n. 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superioreche sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni, non osta al fatto che,
quando il titolare di un diploma ottenuto in uno Stato membro richiede l'autorizzazione per accedere ad
una professione regolamentata in un altro Stato membro, le autorità di tale ultimo Stato
accolgano la domanda parzialmente, se il titolare del diploma lo chiede, limitando
la portata dell'autorizzazione alle sole attività alle quali il diploma in questione dà accesso
nello Stato membro in cui è stato conseguito. Né il tenore, né il sistema, né gli
obiettivi della Direttiva escludono la possibilità di un accesso parziale ad una professione
regolamentata. Se un simile accesso parziale potrebbe comportare un rischio di
moltiplicazione delle attività professionali esercitate in modo autonomo da cittadini di
altri Stati membri, e di conseguenza una certa confusione nella mente dei consumatori,
tuttavia, tale rischio potenziale non è sufficiente per affermare l'incompatibilità con
la Direttiva di un riconoscimento parziale dei titoli professionali. Esistono infatti mezzi
sufficientemente efficaci per porvi rimedio, come la possibilità di obbligare gli interessati
ad indicare nome e luogo dell'istituzione o della Commissione che ha conferito
loro il titolo di studio. Inoltre, lo Stato membro ospitante può sempre obbligare gli interessati
ad utilizzare, per tutti i rapporti giuridici e commerciali nel suo territorio, sia
il titolo di studio ovvero il titolo professionale nella lingua e nella forma originale che
la sua traduzione nella lingua ufficiale dello Stato membro ospitante, al fine di assicurarne
la comprensione e di evitare ogni rischio di confusione
Gli artt. 39 CE e 43 CE non ostano a che uno Stato membro non consenta l'accesso parziale
ad una professione, qualora le lacune nella formazione in possesso dell'interessato
rispetto a quella necessaria nello Stato membro ospitante possano essere effettivamente
colmate con misure di compensazione ai sensi dell'art. 4, n. 1, della Direttiva
89/48. Viceversa, gli artt. 39 CE e 43 CE ostano a che uno Stato membro non accordi tale
accesso parziale quando l'interessato lo richiede e quando le differenze tra gli ambiti
di attività sono cosà rilevanti che sarebbe in realtà necessario seguire una formazione
completa, a meno che il detto diniego di accesso parziale non sia giustificato da ragioni
imperative di pubblico interesse, le quali siano adeguate a garantire la realizzazione
dell'obiettivo che perseguono e non eccedano ciò che è necessario per ottenerlo. Va fatta
una distinzione tra due situazioni differenti che possono verificarsi quando le autorità
di uno Stato membro sono investite di una domanda di riconoscimento di una qualifica
professionale conseguita in un altro Stato membro, e quando la differenza tra i
contenuti della formazione o tra le attività che possono essere esercitate in forza del titolo
relativo nei due Stati impedisce un riconoscimento pieno ed immediato. Vanno distinti
i casi che possono essere obiettivamente risolti con gli strumenti previsti dalla Direttiva
e quelli che non possono esserlo. Nella prima eventualità , si tratta dei casi in cui
il livello di somiglianza delle due professioni, nello Stato membro di provenienza e in
quello ospitante, è tale da consentire di parlare, in sostanza, della «stessa professione»
ai sensi dell'art. 3, primo comma, lett. a), della Direttiva. In casi del genere, le lacune esistenti
nella formazione del richiedente se confrontata con quella necessaria nello Stato
membro ospitante possono essere efficacemente colmate applicando le misure di
compensazione previste dall'art. 4, n. 1, della Direttiva, assicurando in tal modo una
completa integrazione dell'interessato nel sistema professionale dello Stato membro ospitante.
Nella seconda eventualità invece, si tratta dei casi non contemplati dalla Direttiva,
poiché le differenze negli ambiti di attività sono cosà rilevanti che sarebbe in
realtà necessario seguire una formazione completa. Ciò rappresenta un elemento in
grado, obiettivamente, di spingere l'interessato a non svolgere, in un altro Stato membro,
una o più attività per le quali egli è qualificato. Spetta alle competenti autorità , soprattutto
giurisdizionali, dello Stato membro ospitante determinare in quale misura, in
ogni caso concreto, il contenuto della formazione seguita dall'interessato sia differente
da quello richiesto in tale Stato.
Nell'ambito della causa principale, il Tribunale Supremo ha rilevato che il contenuto
della formazione di un ingegnere civile ad indirizzo idraulico in Italia e di un ingegnere
civile in Spagna sono cosà profondamente differenti che applicare una misura di compensazione
o di adattamento significherebbe in pratica obbligare l'interessato ad acquisire
una nuova formazione professionale.
Regime del visto di lavoro
La Repubblica federale di Germania è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell'art. 49 Ce,non limitandosi a subordinare il distacco di lavoratori
cittadini di Stati terzi in vista del compimento di una prestazione di servizi nel suo territorio
ad una semplice previa dichiarazione dell'impresa avente sede in un altro Stato
membro che intende procedere al distacco di detti lavoratori ed esigendo che questi ultimi
siano occupati da almeno un anno da tale impresa.
Contratto di formazione e lavoro - Inadempimento dell'obbligo formativo - Conversione in contratto a tempo indeterminato
Il contratto di formazione e lavoro è un contratto di lavoro a tempo determinatoche si caratterizza per il suo contenuto tipico consistente nel coordinamento
della prestazione lavorativa con un'attività formativa, la quale va espletata secondo un
programma desumibile dal progetto formativo: questo, a sua volta, rappresenta sia il
presupposto di legittimità dello speciale contratto di lavoro a termine, sia la fonte di
regolamentazione dello svolgimento del rapporto. L'addestramento finalizzato all'acquisizione
da parte del lavoratore della professionalità necessaria all'immissione nel
mondo del lavoro è dunque compreso nella causa del contratto che non può avere ad
oggetto l'esclusivo svolgimento delle mansioni tipiche di un determinato profilo professionale
(Cass. n. 9158/2003). Di tal che «l'inadempimento degli obblighi di formazione
determina la trasformazione fin dall'inizio del rapporto in rapporto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato, qualora l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza,
concretizzandosi nella totale mancanza di formazione» (Cass. n. 15635/2003).
La giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che, «in mancanza della predeterminazione
legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice deve [â?¦] verificare
se al lavoratore siano stati forniti gli insegnamenti previsti dal progetto» (Cass. n.
9158/2003); l'inadempimento deve, dunque, avere «un'obiettiva rilevanza in relazione
alla finalità di formazione teorico-pratica del dipendente ed essere tale da far venir
meno la stessa funzione del contratto» (Cass. n. 320/2003). Di conseguenza, dal momento
che la prevalente finalità di un contratto di formazione e lavoro è quella di consentire
al giovane un «ingresso guidato nel mondo del lavoro» superando il gap determinato
da precedenti esperienze di carattere esclusivamente didattico e scolare (cfr.
Trib. Milano 25 novembre 2000; Corte App. Potenza 24 maggio 2001), «una divergenza
anche di non lieve entità tra gli obblighi assunti dal datore di lavoro e il concreto svolgimento
del rapporto, non realizza inadempimento, ove detto svolgimento avvenga
con modalità tali da non compromettere la funzione del contratto» (Cass. n.
7554/1998; Cass. n. 2544/1999). Nel caso di specie, risulta che il ricorrente, assunto
con contratto di formazione e lavoro di durata biennale, «non soltanto non è stato sottoposto
ad alcuna formazione teorica, ma è stato addirittura sistematicamente utilizzato
in mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto, con evidente sottrazione
di possibilità di acquisire esperienza nel profilo professionale concordato tra le
parti e palese violazione del progetto formativo approvato dagli organi competenti».
Ne consegue per il giudice, dunque, la conversione del rapporto di lavoro in contratto
a tempo indeterminato ed il riconoscimento delle differenze retributive tra quanto percepito
e quanto dovuto in virtù delle mansioni in concreto svolte.
Trasferimento d'impresa - Mantenimento dei diritti dei lavoratori - Ambito di applicazione
L'art. 1 della direttiva del Consiglio n. 2001/23/Ce,concernente il ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori
in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti,
deve essere interpretato nel senso che nell'esame della sussistenza di un trasferimento
di impresa ai sensi del detto articolo, in caso di nuova aggiudicazione di un
appalto e nell'ambito di una valutazione d'insieme, l'accertamento del trasferimento
dei mezzi di produzione ai fini di una gestione economica autonoma non costituisce requisito
necessario per l'accertamento di un trasferimento dei mezzi medesimi dall'appaltatore
originario al nuovo appaltatore. Il trasferimento dei mezzi di produzione rappresenta
tuttavia solo un aspetto parziale della valutazione complessiva che il giudice
nazionale deve compiere nella verifica della sussistenza di un trasferimento d'impresa
ai sensi di detta disposizione.
Veicolo aziendale - Immatricolazione e tassazione dell'autoveicolo
L'art. 43 Ce osta a che una normativa nazionale di un primo Stato membro obblighi un lavoratore non subordinatoresidente in tale Stato membro a ivi immatricolare
un veicolo aziendale messo a sua disposizione dalla società presso cui lavora,
società stabilita in un secondo Stato membro, qualora il veicolo aziendale non
sia destinato ad essere essenzialmente utilizzato nel territorio del primo Stato membro
in via permanente né venga di fatto utilizzato in tal modo. La lotta contro l'evasione
fiscale, la prevenzione degli abusi, la necessità di una identificazione certa, la
sicurezza stradale o la politica ambientale non possono giustificare tale obbligo di
immatricolazione.
Nullità contratti a termine - «Fumus boni juris» - Insussistenza
Il Tribunale di Chieti, in sede cautelare, ha rigettato il ricorso di una professoressa di lingua russache chiedeva la conversione del contratto a termine concluso
con l'Università convenuta, in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il Tribunale di
Chieti, nel richiamare i principi contenuti nell'art. 97 della Costituzione e nel d.lgs.
165/2001, ha ritenuto che per accedere ai ruoli della p.a. è comunque necessario sostenere
una selezione pubblica laddove anche dopo la c.d. privatizzazione del rapporto di
lavoro dei pubblici dipendenti, i cui principi restano validi solo per la fase di svolgimento
del rapporto e non anche di costituzione, restano immutate le esigenze di selezione
del dipendente pubblico a garanzia dei principi di imparzialità e buon andamento della
pubblica amministrazione.
Pubblico impiego non privatizzato - Professori e ricercatori universitari - Personale medico universitario
Il ricercatore universitario che svolge attività assistenziale ha diritto all'equiparazione del trattamento economico stipendiale
a quello del personale medico
del Servizio sanitario nazionale di pari funzioni, mansioni ed anzianità e, conseguentemente,
al pagamento delle retribuzioni connesse sin dalla data di assunzione,
oltre interessi e rivalutazione monetaria fino all'effettivo soddisfo, nonché al versamento
dei contributi previdenziali ed assicurativi dovuti. La pronuncia in commento affronta
una questione ancora oggi di grande attualità , relativa al pagamento di differenze
retributive connesse allo svolgimento dell'attività assistenziale da parte di un ricercatore
universitario. Il ricorrente, in particolare, ha chiesto l'equiparazione del proprio
trattamento economico a quello del personale del Servizio sanitario nazionale. Il
Tar Catania ha colto l'occasione per fare un'interessante ricostruzione del quadro giuridico
di riferimento e per affermare alcuni importanti principi in materia. Innanzitutto,
il Collegio si è soffermato sull'eccezione di tardività del ricorso, avanzata da controparte,
perché la domanda non sarebbe stata avanzata entro il termine decadenziale
previsto dalla legge. Il Tribunale amministrativo, sulla scorta di un indirizzo giurisprudenziale
ormai consolidato, ha sostenuto l'ammissibilità del ricorso, affermando che,
in materia di giurisdizione esclusiva, quando il giudice è chiamato a decidere su diritti
soggettivi, l'esercizio del diritto non è soggetto a decadenza ma incontra l'ordinario
limite di prescrizione per la tutela dei diritti patrimoniali, nascenti dal rapporto di lavoro.
Conseguentemente, gli atti con i quali l'amministrazione disconosce (totalmente
o parzialmente) i diritti dei propri dipendenti, non devono essere impugnati nel termine
decadenziale, in quanto l'interessato può agire per la rivendicazione del diritto nel
termine prescrizionale (Cons. St., sez. IV, n. 6259/2004; Tar Catania, sez. II, n.
2047/1999, cit. in motivazione). Il Tar ha accolto il primo motivo di censura con il quale
si denuncia la violazione dell'art. 31 d.p.r. n. 761/69, dell'art. 102, comma 2, d.p.r. n.
382/80, dell'art. 6 d.lgs. n. 517/99, dell'art. 3, comma 2, d.p.c.m. del 24 maggio 2001,
nonché dell'art. 10 del Protocollo d'intesa tra la Regione siciliana e l'Università degli
studi di Catania. Secondo il Collegio decidente, le disposizioni normative che disciplinano
lo status giuridico ed il trattamento economico del personale sanitario universitario,
come sostenuto dalla Corte Costituzionale, si inseriscono tutte «in un coerente
disegno legislativo che si propone, in particolare, di adeguare ordinamento interno e
modello organizzativo dei servizi di assistenza delle cliniche e degli istituti universitari
ai corrispondenti servizi ospedalieri» (Corte Cost. n. 134/1997). Dalle norme vigenti
si desume l'esistenza di un sistema integrato tra università ed aziende ospedaliere, tale
da rendere i medici universitari «soggetti agli obblighi ed alle responsabilità inerenti
all'esercizio delle relative funzioni» (Corte Cost. n. 126/1981). L'estensione della normativa,
dettata dal legislatore per i sanitari ospedalieri, anche ai sanitari universitari,
persegue la finalità di regolamentare in modo unitario l'omogeneo rapporto di servizio
assistenziale (cfr., in tal senso, Corte Cost. n. 126/1981). Lo stesso d.lgs. n. 517/99 assimila
il personale universitario che svolge attività assistenziale al personale ospedaliero,
riconoscendo al primo i medesimi diritti e doveri previsti per il personale ospedaliero
avente pari mansioni, funzioni ed anzianità . Nella fattispecie, il Collegio ha rilevato
che le disposizioni di cui agli artt. 31 d.p.r. n. 761/79 e 102 d.p.r. n. 382/80, hanno
la funzione di assicurare un'effettiva parificazione di responsabilità e trattamento
economico a fronte della equiparazione del personale universitario a quello sanitario
(Cons. St., sez. IV, n. 266/1996). Tale assunto, secondo il Tar, sarebbe confermato dalle
disposizioni dell'art. 6 d.lgs. n. 517/99, il quale, nel ridefinire il trattamento economico
del personale universitario, riconosce il diritto del personale universitario all'equiparazione
retributiva. Per tali motivi, i giudici catanesi hanno riconosciuto al ricorrente
il diritto alla corresponsione delle somme dovute a titolo di emolumenti accessori
per i servizi di reperibilità , guardie e lavoro festivo, sin dalla data di assunzione,
oltre interessi legali e rivalutazione, nonché il diritto alla regolarizzazione dei contributi
previdenziali ed assistenziali dovuti per il medesimo titolo.
Assunzione obbligatoria - Rifiuto per mancato avviamento lavoratore richiesto - Legittimità
La sig.ra D.M. conveniva in giudizio la Casa di Cura Villa Pini d'Abruzzo S.r.l.
per far dichiarare l'illegittimità del rifiuto all'assunzioneopposto dalla convenuta a seguito dell'avviamento obbligatorio della ricorrente ed ordinarne l'assunzione.
Il Tribunale di Chieti ha rigettato il ricorso sostenendo che qualora l'Ufficio provinciale
del lavoro provvede ad avviare personale di categoria (impiegatizia o operaia)
diversa da quella richiesta dal datore di lavoro, ben può questo rifiutare l'assunzione
atteso che l'Ufficio provinciale del lavoro deve avviare lavoratori riconducibili alla categoria
richiesta, anche al fine di rendere meno gravoso l'adempimento dei doveri di
solidarietà sociale che la legge 432/68 pone a carico del datore di lavoro.
«Mobbing» nella P.A. forza di polizia
Non rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario (sez. lavoro) la controversiatra un ispettore di PS operante in un Commissariato rivolta ad ottenere il risarcimento
di danno per assunti comportamenti «mobbizzanti» subiti da parte di colleghi
impiegati nello stesso Commissariato, convenuti in giudizio assieme al Ministero competente.
Nella fattispecie l'ispettore aveva lamentato di essere stato oggetto di comportamenti
discriminatori che gli avevano provocato conseguenze psicofisiche patologiche
per appartenere ad un sindacato diverso da quello di appartenenza dei suoi superiori
gerarchici. La sentenza conferma quella di 1° grado.
Infortunio sul lavoro - Cumulo tra prestazioni assistenziali-rendita Inail - Sussistenza - Ripetizione indebito - Insussistenza
Un lavoratore, a causa delle gravi lesioni riportate in seguito alla precipitazione da un viadotto dell'autocarro di cui era alla guidaotteneva il diritto a percepire una rendita Inail sin dalla data dell'incidente avvenuto nel 1984.
Precedentemente, aveva proposto domanda alla Commissione sanitaria per le invalidità civili
che riconosceva al sig. M. la pensione di inabilità e la indennità di accompagnamento
a decorrere dall'1° luglio 1984 Il prefetto di Ancona annullava il decreto di concessione
di queste due ultime provvidenze non ritenendole cumulabili con la rendita Inail e, in
conseguenza di ciò, richiedeva a M. la restituzione dei ratei percepiti. Adito il Tribunale
di Ancona, in qualità di giudice del lavoro, M. otteneva l'accoglimento del ricorso da
lui proposto nei confronti delle controparti e quindi il riconoscimento del diritto ad ottenere
la pensione di invalidità e l'indennità di accompagnamento. Avverso tale decisione,
l'Inps proponeva appello invocando il divieto di cumulo per trattamenti aventi
origine dal medesimo evento invalidante e pretendendo la restituzione dell'indebito.
La Corte di Appello di Ancona ha confermato l'impugnata sentenza, affermando che
non vi è divieto di cumulo quando il beneficiario, come nel caso in esame, sia totalmente
inabile al lavoro. In particolare, la Corte ha precisato che il divieto di cumulo tra
prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali per invalidità da causa di servizio
o di lavoro ai sensi dell'art. 3 della legge n. 407 del 1990 non opera, in forza del disposto
dell'art. 12 della legge n. 412 del 1991, per quelle erogate ai ciechi civili, ai sordomuti
e agli invalidi totali; pertanto è ammessa la coesistenza tra tali prestazioni pensionistiche
e quelle di carattere diretto, concesse a seguito di invalidità contratte per
causa di guerra, di lavoro o di servizio, tra cui rientra la pensione di invalidità riconosciuta
dall'Inps (in tal senso Cass. n. 5359/2002). Con riferimento alla pretesa restitutoria
da parte dell'Inps, la Corte adita, ferme restando le considerazioni che precedono,
ha riconfermato quanto sostenuto dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto
assorbente l'applicazione del comma 1-bis del medesimo art. 3 della legge n. 407 del
1990 (cosà come inserito dalla legge n. 412 del 1991) il quale prevede che «sono fatti
salvi i diritti acquisiti dai cittadini che abbiano conseguito le prestazioni pensionistiche
per minorati civili erogate dal Ministero dell'interno alla data del 1 gennaio 1992» (cfr.
Cass. n. 9537/1997). Nel caso di specie il lavoratore rientra tra questi ultimi soggetti
in quanto la rendita Inail gli era stata attribuita nel 1984 e le prestazioni assistenziali
del Ministero dell'interno nel 1987, con decorrenza dal 1984.
Accertamento nullità contratto a termine - Riconoscimento rapporto di lavoro a tempo indeterminato - Sussistenza
Sulla questione relativa alla nullità dei contratti a termine stipulati con l'Ente Poste,il Tribunale di Chieti ha mutato orientamento circa la questione del mutuo
consenso del lavoratore che precluderebbe l'impugnativa del contratto a termine in ragione
dell'inerzia serbata per un lungo lasso di tempo. In particolare, nel richiamare la
circolare del 14 febbraio 2000 della Direzione centrale risorse umane di Roma dell'Ente
Poste che vietava alle varie Filiali di stipulare il contratto a termine con lavoratori aventi
un contenzioso giudiziale o extragiudiziale relativo a contratti stipulati in precedenza,
il Tribunale di Chieti ha ritenuto che il rilievo escludesse in radice il consenso da parte
del lavoratore alla risoluzione del rapporto di lavoro già intercorso tra le parti. Alla luce
di tale tesi, la Magistratura del lavoro di Chieti ha accolto il ricorso di un lavoratore che
conveniva in giudizio la società Poste italiane Spa per l'accertamento della nullità del
termine apposto ai contratti di lavoro, per violazione della quota percentuale massima
prevista per le assunzioni con contratto a termine stabilita dal ccnl di settore e ha pertanto
dichiarato la conversione del rapporto a tempo indeterminato.
Concessione di aspettativa per evitare superamento periodo di comporto - Licenziamento per superamento del periodo di comporto
L'art. 45 del CCNL per i dipendenti delle aziende private del gas regola l'aspettativa che i lavoratori possono chiedere,e la tipologia è diversa da quella regolata
dall'art.49. L'aspettativa dell'art. 49 è fruibile anche durante il periodo di svolgimento
dell'attività lavorativa e non in presenza di una già operante causa di sospensione
della prestazione lavorativa. Essa può essere richiesta «per gravi motivi privati» e nel
caso in cui l'Azienda rifiuti la concessione essa deve motivare con ragioni esposte in
modo preciso e dettagliato al fine di osservare gli obblighi di buona fede di cui agli artt.
1175 e 1375 cod. civ. L'aspettativa dell'art. 45 trova viceversa fondamento nella possibilità
che il lavoratore ammalato alla fine del periodo di comporto voglia goderne per
«motivi di salute e familiari». L'art. 45 non fa altro che estendere il periodo di comporto,
sul presupposto, tuttavia, che il lavoratore interessato abbia fatto specifica richiesta
e la abbia motivata. È illegittimo il licenziamento intimato allorché sia presentata richiesta
di fruizione dell'aspettativa. La richiesta citata può essere avanzata anche successivamente
al superamento del periodo di comporto fino a che l'azienda non si determini
alla risoluzione del rapporto, dato che questo non è automatico.
Contratto a termine - Ipotesi di illegittimità - Trasformazione contratto a tempo indeterminato
L'apposizione nel contratto di lavoro di un termine cosà motivato:«per necessità dell'espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie» è illegittimo.
Nel caso di specie non era stato indicato il nome del lavoratore sostituito ed era stato
provato che il numero dei dipendenti assunti a termine per sostituire lavoratori in ferie
era superiore a coloro che le avevano in realtà richieste. Il contratto è stato trasformato
in contratto a tempo indeterminato. Nel caso di specie «non si deve applicare
la disciplina del licenziamento, ma quella relativa alla ricostituzione del rapporto di
lavoro dall'inizio» e la spettanza della retribuzioni arretrate decorre «dalla data di costituzione
in mora con la messa a disposizione della prestazione lavorativa».
Subordinazione - Criteri distintivi
Con la decisione in commento la Corte d'Appello di Bologna ribadisce il suo orientamento restrittivoin materia di rivendicazione di rapporti di lavoro subordinato
(cfr. Corte d'Appello 6 ottobre 2003 in RGLNews n. 6/2003), anche di fronte ad elementi
percepiti dal sentire comune come tipici della subordinazione. Il caso in esame
riguardava un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, conclusosi con
sentenza del Tribunale di Forlà favorevole all'Inps, per omissione di versamenti contributivi
relativi alle prestazioni rese da un gruppo di lavoratrici che ' secondo gli accertamenti
effettuati dall'Ispettorato dell'Istituto ' avevano svolto attività di centraliniste
all'interno dei locali della società appellante (fornendo informazioni sull'oroscopo,
sulle statistiche dei numeri del lotto, sul totocalcio, interpretando le «carte» e i «tarocchi
»): a) utilizzando apparecchi telefonici messi dalla medesima società a loro disposizione;
b) essendo inserite nella struttura aziendale ed essendo chiamate a svolgere
un'attività finalizzata a perseguire lo scopo sociale; c) espletando le stesse mansioni
svolte in precedenza da loro stesse (in alcuni casi da altro personale) con rapporto
di lavoro subordinato; d) essendo tenute a rispettare l'orario e la sua articolazione
come prestabiliti secondo un palinsesto settimanale preparato dalla società ; e)
dovendo attestare la propria presenza con l'utilizzo di un cartellino marcatempo; f)
percependo un compenso sulla base delle ore effettuate, come risultanti dal cartellino
marcatempo; g) potendo il datore di lavoro variare, quantitativamente, il numero di ore
di lavoro precedentemente autorizzato a ciascun dipendente disponendo pure del
potere discrezionale della riduzione del corrispettivo orario già pattuito in sede contrattuale.
Il Tribunale di Forlà aveva respinto l'opposizione della società confermando
la sussistenza della subordinazione, e la società aveva proposto appello, che veniva
accolto dalla Corte di Bologna la quale, riformando la sentenza di primo grado, ha nuovamente
puntualizzato la propria posizione sui principali temi in materia.
La Corte ritiene che i verbali dell'ispettorato, in tema di omesso versamento dei contributi,
costituiscano prova idonea a legittimare il ricorso al procedimento ingiuntivo e
facciano fede fino a querela di falso per quanto riguarda la provenienza dal pubblico
ufficiale che li ha redatti e i fatti che quest'ultimo attesta essere avvenuti in sua presenza
o essere stati da lui compiuti. Invece «per le altre circostanza di fatto, che il verbalizzante
segnali di aver accertato nel corso dell'inchiesta, per averle apprese de relato o in seguito
ad ispezione di documenti, la legge non attribuisce al verbale alcun
valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice, ma il materiale raccolto
dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può
valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il valore di vero
e proprio accertamento addossando all'opponente l'onere di fornire la prova dell'insussistenza
dei fatti contestatigli (fra le tante v. Cass. n. 6847/87; n. 3148/85; n.
392/92; n. 3973/98; n. 5041/00)».
Il Collegio ribadisce di condividere quell'orientamento secondo cui il codice civile e le
leggi speciali sottraggono ai soggetti del rapporto il potere di regolare a loro criterio il
contenuto del rapporto stesso, affidando la tutela degli interessi del lavoratore alla
legge e alla contrattazione (Cfr. Cass. n. 7885/97 e n. 4533/00). Distinguono peraltro
due ipotesi. La prima è quella che i contraenti vogliano attuare un rapporto di subordinazione,
ma che dichiarino di volere un rapporto di lavoro autonomo per aggirare i
connessi obblighi ed oneri: in tal caso prevale il contratto dissimulato su quello simulato
ai sensi dell'art. 1414, secondo comma cod. civ. La seconda ipotesi è quella in cui
i contraenti abbiano effettivamente voluto un rapporto autonomo, ma mediante lo
svolgimento del rapporto manifestino, con fatti concludenti, mutamenti della volontà
inizialmente espressa: in questo caso i comportamenti assumono rilevanza giuridica
nella fase in cui le prestazioni vengono scambiate, e dal loro contenuto si risale al tipo
negoziale in cui la vicenda concreta deve essere inquadrata. Rispetto al caso specifico,
la Corte non attribuisce rilevanza al fatto che i rapporti di lavoro, prima di essere
trasformati in co.co.co. fossero inquadrati come di lavoro subordinato, ritenendo
infondata l'ipotesi, prospettata nel verbale di accertamento Inps, che la scelta del rapporto
di collaborazione autonoma non sarebbe stata determinata dalla libera volontà
delle parti: secondo l'Ispettorato, infatti, tale «scelta» era stata dettata dalla necessità
di lavoro e di guadagno delle dirette interessate le quali, pur di accedere ad un posto
di lavoro, avevano dovuto accettare le condizioni loro imposte. Secondo un ragionamento
molto formalistico, i giudici bolognesi affermano che lo stato di necessità e lo
stato di bisogno potrebbero al più legittimare la rescissione del contratto, ma non consentirebbero
di pervenire ad una diversa qualificazione del rapporto contrattuale. Inoltre
la divergenza fra la volontà della parte e la dichiarazione negoziale manifestata
potrebbe essere presa in considerazione «solo nelle particolari ipotesi previste dalla
legge (ad esempio simulazione, annullamento per vizi della volontà o per incapacità
naturale della parte) di regola prevalendo, sulla base del principio di tutela dell'affidamento
e della buona fede, la dichiarazione esternata sulla volontà effettiva». Con
buona pace del principio, ugualmente affermato in sentenza, secondo cui «la qualificazione
del rapporto compiuta dalle parti, nella iniziale stipulazione del contratto, non
è determinante, stante l'idoneità , nei rapporti di durata, del comportamento delle parti
ad esprimere sia una diversa effettiva volontà , sia una nuova diversa volontà (v.
Cass. n. 15001/00; n. 11502/00, n. 8407/01; n. 9019/01)».
La Corte fa ancora proprio il ragionamento tautologico sempre ripetuto dal Supremo
Collegio: «L'elemento essenziale e determinante del lavoro subordinato costituente
elemento discretivo rispetto al lavoro autonomo, è il vincolo della subordinazione (v.
tra le tante Cass. n. 15275/04; n. 3929/01; n. 2790/01; n. 6089/91) che si configura come
soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore
di lavoro e si estrinseca nell'emanazione di ordini specifici e nell'esercizio di un'assidua
attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative e va,
concretamente, apprezzato con riguardo alla specificità dell'incarico conferito al lavoratore
e al modo della sua attuazione (Cass. n. 17382/03; n. 5989/01; n. 2970/01; n.
224/01)». Al contrario «la continuità della prestazione, la rispondenza dei suoi contenuti
a fini propri dell'impresa, la presenza di direttive tecniche e di poteri di controllo,
le modalità di erogazione della retribuzione, l'assenza del rischio e l'osservanza di un
orario non assumono rilievo determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di
lavoro subordinato, sia con quelli di lavoro autonomo parasubordinato (v. Cass. n.
224/01; n. 15001/00; n. 1420/02; n. 9900/03; n. 13840/03; n. 2414/04: n. 2842/04)».
Nel caso in esame, comunque, i giudici dell'appello hanno attribuito rilevanza al fatto
che non era previsto che in caso di malattia venisse inviato un certificato medico; che
nelle risposte all'utenza le centraliniste non fossero obbligate ad assumere una linea
interpretativa determinata dal committente o a trattare gli argomenti da altri prescelti;
che potessero liberamente scambiare con le colleghe il turno già predisposto dalla
società (fermo restando l'obbligo di garantire comunque il servizio); che, presumibilmente
(sul punto le testimonianze non erano concordanti) il loro compenso fosse corrisposto
a minuto di conversazione.
In conclusione la Corte d'Appello di Bologna, sulla base degli stessi elementi di fatto
emersi nell'istruttoria condotta dal giudice di primo grado e non dissimili da quelli accertati
nel corso delle indagini ispettive ' che avevano indotto entrambi a ritenere la
sussistenza di rapporti di lavoro subordinato con conseguente evasione contributiva '
perviene a conclusioni opposte.
Rapporto lavoro a tempo indeterminato - Illegittima apposizione del termine - Inerzia lavoratore - Risoluzione mutuo consenso
Nel panorama dello sterminato contenzioso nazionale innescato dal massiccio ricorso del rapporto di lavoro a tempo determinato dalle Poste Italiane s.p.a.,la decisione affronta in particolare la problematica risolutoria del mutuo consenso. La
questione che si è posta riguarda la possibilità che un contratto di lavoro a tempo determinato
connotato dalla illegittima apposizione del termine si risolva per mutuo consenso,
laddove il comportamento delle parti, proposto per un apprezzabile lasso di
tempo e risolventesi nella totale mancanza di operatività del rapporto, possa essere
valutato in modo socialmente tipico quale dichiarazione solutoria. Al riguardo, si afferma
che, in linea di principio, l'inerzia del lavoratore, anche se protratta nel tempo
dopo la scadenza del termine contrattuale illegittimamente apposto, non può ritenersi
di per sé sintomatica, per comportamento tacito, di una volontà risolutiva del rapporto,
in quanto indicativa del disinteresse del lavoratore alla continuazione. Si precisa,
tuttavia, che se da un lato, a fronte di un decorso temporale di entità non particolarmente
significativa, neppure l'ipotesi del reperimento nelle more di altra occupazione
(specie se precaria o professionalmente non gratificante) può ritenersi univocamente
rilevante in senso solutorio, dall'altro, a fronte cioè di un decorso temporale di
entità particolarmente apprezzabile ' che appare al giudice corretto individuare in cinque
anni, intercorrenti tra la cessazione del rapporto e la richiesta del tentativo obbligatorio
di conciliazione (un termine ben superiore ai possibili parametri costituiti dai
60 giorni per l'impugnazione del licenziamento ex art. 6 L. 1966/n. 604, dai 6 mesi per
l'impugnazione della rinuncia ex art. 2113 cod. civ. e coincidente con la prescrizione
quinquennale ordinaria in materia di lavoro ex art. 2948 cod. civ.) ' tanto più se accompagnato
da ulteriori comportamenti concludenti del lavoratore, deve ragionevolmente
ritenersi verificata una risoluzione consensuale del rapporto, nonostante l'illegittima
apposizione del termine. Si richiamano per il dibattito interpretativo, Cass.
2004/nn. 13891, 15130; 2003/n. 13370.
Selezione riservata a lavoratori disabili - Bando di concorso - Requisito - Principio di non discriminazione
Una giovane laureata ha esercitato azione di accertamento del diritto a partecipare a selezione indetta dalla Banca,per essere stata esclusa «per difetto del titolo di studio». La candidata
era in possesso di una laurea in Scienze della Comunicazione
conseguita presso la Facoltà di Lettere e Filosofia non contemplata nel bando,
seppur ad esito di corso di studi di cinque anni nell'ambito di uno specifico corso di
laurea. La pretesa della Banca di escludere la Facoltà di Lettere e Filosofia nei confronti
della Facoltà di Scienze della Comunicazione, differenziando, pur nell'ambito di una
selezione non pubblica, il medesimo titolo di studio conseguito nella medesima classe
di laurea ed avente il medesimo valore giuridico, è parsa al giudice discriminatoria
e dunque illegittima. Ulteriore irragionevolezza della disparità di trattamento è stata
rinvenuta nella constatazione della pluralità dei titoli di studio richiesti dal bando per
l'ammissione ' dal diploma in specifiche maturità , al diploma universitario, alla laurea
secondo il vecchio ordinamento universitario, alla laurea anche solo triennale secondo
il nuovo ordinamento universitario (incidentalmente, la candidata era in possesso
di laurea conseguita ad esito di corso di studi di cinque anni) e dall'essere demandati
i criteri di valutazione non al titolo posseduto, ma per il settanta per cento a test e il
trenta per cento alla prova orale.
Interruzione della prescrizione - Presunzione di conoscenza della lettera raccomandata
Invero la vicenda qui trattata assume importanza, a prescindere dall'oggetto di causa(opposizione a precetto a seguito di intimazione di pagamento da parte
dell'Istituto previdenziale) per le argomentazioni svolte dalla Corte d'Appello di Bologna
in merito alla presunzione di conoscenza delle lettere raccomandate: sulla scorta
di una recente pronuncia di Cassazione sono infatti sempre più frequenti le eccezioni
di legali dei datori di lavoro in merito alla presunta mancata prova dell'impugnazione
di licenziamento ovvero dell'invio di un certificato medico. Secondo Cass. Civile Sez. III
12 maggio 2005, n. 10021 la dimostrazione che una raccomandata sia stata ricevuta
dal destinatario non varrebbe di per sé a dimostrare quale fosse il contenuto della lettera
e quindi, in caso di contestazione, sarebbe onere di chi pretende che da quella ricezione
siano derivati effetti giuridici, dimostrare il reale contenuto della missiva. Tale
principio è stato per esempio pericolosamente accolto dal Tribunale del lavoro di Milano
(Sent. 27 maggio 2005 n. 2966) proprio in un'ipotesi di contestata recezione di
certificato medico, e conseguente licenziamento per assenza ingiustificata. Nel caso in
esame, invece, i giudici bolognesi osservano che, secondo la giurisprudenza della Corte
di Cassazione, la presunzione di conoscenza da parte del destinatario ' posta dall'art.
1335 cod. civ. ' delle dichiarazioni dirette ad una determinata persona che siano
giunte a destinazione, opera per il solo fatto oggettivo dell'arrivo della dichiarazione
nel luogo indicato dalla norma, indipendentemente dal mezzo di trasmissione adoperato
e dall'osservanza delle disposizioni del codice postale. «Incombe pertanto sullo
stesso destinatario l'onere di provare di essersi trovato senza sua colpa nell'impossibilità
di acquisire la conoscenza della medesima e, quindi, anche l'onere di provare la
non corrispondenza della dichiarazione inviata a quella di cui il mittente conservi la copia
(v. Cass. n. 8073/02)». La Corte d'Appello rammenta come anche la Suprema Corte
abbia chiarito che la lettera raccomandata o il telegramma costituiscono «prova certa
della spedizione attestata dall'ufficio postale attraverso la ricevuta di spedizione,
da cui consegue la presunzione fondata sulle univoche e concludenti circostanze della
spedizione e dell'ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico, di arrivo dell'atto
al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 cod. civ. dello stesso (v. Cass. n.
21133/04; n. 10284/01)». Per quanto concerne la raccomandata, la presunzione opera
anche caso di smarrimento della c.d. cartolina di ritorno, purché la spedizione sia attestata
dell'ufficio postale attraverso il rilascio della ricevuta: da questa, «anche in
mancanza dell'avviso di ricevimento, può desumersi la presunzione del suo arrivo a
destinazione in considerazione dei particolari doveri che la raccomandata impone al
servizio postale, in ordine al suo inoltro e alla sua consegna (v. Cass. n. 9681/98; n.
5821/02; n. 15818/03)». Trattasi, però, di una presunzione semplice di ricezione, che
può essere vinta dal destinatario «provando con qualsiasi mezzo di non aver avuto notizia
dell'atto senza sua colpa, ovvero che il plico raccomandato non conteneva alcuna
lettera al suo interno o che conteneva altro (v. Cass. n. 771/04)». Con una simile soluzione
' che nel caso specifico ha portato la Corte a ritenere provata l'intervenuta interruzione
della prescrizione del diritto contenuto nel titolo posto a fondamento dell'atto
di precetto opposto, e quindi a rigettare l'appello contro l'Inps ' riteniamo sia più
equamente ripartita la distribuzione dell'onere della prova tra le parti, risultando altrimenti
eccessivamente gravoso per il mittente provare, ad esempio, il fatto ' assolutamente
presumibile ' che la busta pervenuta al destinatario pochi giorni dopo la spedizione
della raccomandata contenesse quello specifico documento: sarà infatti il destinatario
a dover provare il contrario.
Lavoro interinale a termine - Chiamata in manleva della società fornitrice da parte della società utilizzatrice
È escluso che, nel giudizio di accertamento della legittimità di un contratto di lavoro interinale,avviato dal lavoratore nei soli confronti della società utilizzatrice,
quest'ultima possa invocare l'art. 40, co. 3 c.p.c. ai fini della chiamata in manleva
della società fornitrice trattandosi di garanzia impropria, afferente un rapporto contrattuale
tra imprenditori estraneo alla materia oggetto del giudizio del lavoro ed esterno
rispetto al rapporto oggetto del giudizio.
Nella fattispecie si discute di un caso di intervento coatto a istanza di parte, disciplinato
dall'art. 106 c.p.c. e consentito anche nelle controversie di lavoro dall'art. 420, co.
9 c.p.c.. Quanto alle ragioni che fondano la legittimazione a chiamare il terzo, esse vanno
ricondotte alla connessione oggettiva tra cause, di cui la garanzia non è altro che
un aspetto qualificato dal carattere subordinato del rapporto tra il garante e il garantito
e quello principale. La connessione oggettiva, come noto, d luogo appunto alla
possibilità di cumulo soggettivo, possibilità genericamente contemplata dall'art. 103
c.p.c. in tema di litisconsorzio facoltativo. Orbene, proprio per rendere concretamente
attuabile questa generica possibilità , la legge detta alcune regole con riguardo a particolari
ipotesi di connessione oggettiva (o anche soggettiva, art. 33), ovvero per i casi
in cui tra le cause connesse esista un rapporto di accessorietà (art. 31), ovvero un
rapporto di garanzia (art. 32). Nella fattispecie in massima ci troviamo appunto in un
caso di chiamata di terzo in manleva e, quindi, il caso di connessione che rileva è quello
previsto dall'art. 32, che consente, appunto, la proposizione della domanda di garanzia
innanzi al giudice competente per la causa principale con conseguente deroga
della competenza. Ma di quale competenza? Dottrina e giurisprudenza sostengono
che, in generale, le deroghe sono possibili con riguardo alla competenza per territorio
ed a quella per valore, ma non anche con riguardo alla competenza per materia. Dottrina
e giurisprudenza, inoltre, escludono la particolare possibilità di derogare alle regole
della competenza ex art. 32 nei casi c.d. di garanzia impropria, che si verifica
quando la domanda di garanzia, anziché dipendere dal medesimo titolo, dipenda da
un titolo connesso solo in via di fatto. Alla luce di quanto sopra sembrerebbe, quindi,
corretta la scelta del giudice della sentenza di non autorizzare la società utilizzatrice
alla chiamata in garanzia della società fornitrice posto che nella fattispecie ricorrerebbe
un caso di «garanzia impropria» (dice il giudice: il contratto di somministrazione è
un rapporto contrattuale tra imprenditori e, quindi, esterno al contratto di lavoro impugnato
nella causa ed estraneo, per materia, alla competenza del giudice adito). Non
si può non notare tuttavia che, per quanto riguarda il processo del lavoro, alcune sentenze
della Corte di Cassazione (Cass. 97/12917 che conferma Cass. 92/979 e Cass.
83/5293) si sono innanzitutto pronunciate a favore della chiamata in causa ai sensi
dell'art. 106 c.p.c. anche in ipotesi di garanzia impropria, sottolineando, peraltro, che
in questa seconda ipotesi, il simultaneus processus innanzi al giudice del lavoro è attivabile
solo ove il giudice competente per la causa principale sia competente a conoscere
anche dell'altra, in quanto lo spostamento di competenza è ammesso solo per la
garanzia propria, non essendo derogabili, nell'ipotesi di garanzia impropria i criteri
normali di competenza per valore e territorio (Cass. 20/12/1997 n. 12917; Cass.
30/1/1992 n. 979). A parte ciò, è verosimilmente sostenibile che, nella fattispecie in
massima, stante la diversità dei titoli dedotti dalle parti non ricorra affatto un caso di
garanzia impropria, come rilevato dal giudice di Monza: segnatamente il rapporto di
lavoro da parte della ricorrente ed il contratto di somministrazione dall'impresa resistente
istante per la garanzia. In punto, infatti, il Supremo Collegio ha in più riprese
specificato che un criterio di distinzione come quello adottato dal giudice di Monza è
inadeguato a soddisfare le esigenze sostanziali delle parti in causa, ed è stato ritenuto
(Cass. 188/1965; Cass. 527/166; Cass. 1980/1966; Cass. 3110/1968; Cass. 1411 e
2973/1972; Cass. 3991/1974; Cass. 220/1976; Cass. 3981/1984; Cass. 667/1988) che
sussiste l'ipotesi di garanzia propria anche quando fra le due domande proposte esista
una connessione obiettiva dei titoli, nel senso che l'uno è concatenato all'altro, oppure
quando sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con l'azione
principale e con quella di garanzia. In tal caso, è stato osservato, la correlazione logico-
giuridica tra le due cause reclama il simultaneus processus alla cui univoca soluzione
siano unitariamente interessate tutte le parti in causa.
In adesione a codesto indirizzo e, disattendendo le indicazioni del giudice della sentenza
in massima, sembrerebbe opportuno affermare, quindi, il diritto della Società utilizzatrice
convenuta a chiamare in manleva la Società fornitrice, sussistendo nella
fattispecie una chiamata in garanzia propria, che consente lo spostamento a favore del
giudice della competenza a conoscere della causa connessa.
Controversia socio-lavoratore di cooperativa di produzione - Questione di legittimità costituzionale
In una causa promossa da un socio lavoratore nei confronti di una cooperativail giudice, ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimità
costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, 35 e 36 Cost. dell'art. 9 comma 1
lett. d della legge n. 30/2003 nella parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie
tra soci e cooperative relative a prestazioni rese dai soci ed attinenti l'oggetto
sociale, ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale. Questi i dubbi
di legittimità costituzionale dell'art. 9 comma 1 lett. d legge n. 30/2003 che il magistrato
denuncia con articolata e motivata ordinanza:
a) la devoluzione al giudice ordinario ' che si traduce nella applicazione del rito societario
ai sensi del d.lgs 5/2003 ' comporterebbe la soppressione o la drastica limitazione
di garanzie già sancite dal legislatore ordinario in favore del socio-lavoratore, in
attuazione di principi affermati negli artt. 3, 24, 35 e 36 Cost.;
b) il socio lavoratore (subordinato o parasubordinato) di cooperativa perderebbe la tutela
(sostanziale e processuale) connaturata al rito del lavoro, trovandosi cosà in una
situazione sperequata in relazione non solo agli altri lavoratori subordinati, ma anche
ai titolari di altri rapporti aventi ad oggetto una prestazione lavorativa ed in ordine ai
quali la giurisprudenza pacificamente riconosce la competenza funzionale del giudice
del lavoro (associazione in partecipazione, impresa familiare ecc.);
c) ne risulta una palese violazione del principio di ragionevolezza; infatti con la norma
in questione viene predisposto uno strumento idoneo a smantellare, in pregiudizio del
socio lavoratore (subordinato o parasubordinato che sia) un complesso protettivo previsto
a tutela del lavoro subordinato (e che gli era stato esteso) «frutto di una evoluzione
legislativa che ha trovato la sua espressione più alta in norme della Costituzione».
Licenziamento collettivo - Accordo sindacale che prevede la vicinanza al pensionamento come unico criterio di scelta: validità
Un dipendente di Poste Italiane collocato in mobilità a seguito di una procedura
di cui alla legge 223/1991 ' che coinvolgeva migliaia di dipendenti ' conclusasi con accordo
collettivo 17.10.2001, chiedeva ed otteneva dal Tribunale del lavoro di Bologna
la dichiarazione di illegittimità del suo licenziamento e l'ordine di reintegrazione nel
posto di lavoro. La Corte d'Appello di Bologna, peraltro, pronunciatasi a seguito dell'impugnazione
della sentenza di primo grado da parte di Poste italiane, si è dimostrata
di diverso avviso ed ha accolto l'appello della società con una sentenza che affronta
diverse problematiche in materia di licenziamenti collettivi. La Corte parte dalla
premessa «politica» della necessità di contemperare le esigenze di riequilibrio dei costi
di una «azienda pubblica (alquanto diverse rispetto a quelle di una consimile meramente
privata, specie se si pensa che lo sbilancio grava complessivamente su tutta
la comunità nazionale) con quelle di tutela del posto di lavoro che pur costituisce bene
di carattere costituzionale» evidenziando che «il riequilibrio dei costi aziendali è un
obiettivo il cui perseguimento, alla luce dell'art. 41 Cost. risulta indispensabile oltreché
lecito». Quanto poi alla censura secondo cui nel caso di specie non vi sarebbe stata
alcuna riduzione o contrazione di lavoro, la Corte sembrerebbe ' apparentemente '
aderire alla teoria della «acausalità » del licenziamento collettivo, secondo cui nell'ambito
di questa disciplina sarebbe «ultronea ogni indagine circa l'esistenza o meno
di un programma di ristrutturazione aziendale» assumendo rilievo (solo) «il mancato
espletamento dell'iter processuale delineato dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991»
(Cass. 9045/00; conf. n. 1061/99; n. 5662/98; n. 5794/04). Secondo la Corte d'Appello
di Bologna, infatti la scelta del legislatore è stata nel senso di «attuare le garanzie
attraverso la sempre più consueta prassi della c.d. procedimentalizzazione del provvedimento
datoriale e della strada da percorrere per giungervi» passando quindi «dal
controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad
un controllo dell'iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell'impresa,
devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di
informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti
d'azienda». Al di fuori della correttezza procedurale dell'operazione, quindi,
non potrebbero «trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le
quali [â?¦] si finisce per investire l'autorità giudiziaria di un'indagine sulla presenza di
effettive esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva» (Cass. n.
11455/99).
Nel contempo, però, la stessa Corte d'Appello afferma che «i presupposti di fatto presi
in considerazione al fine di legittimare il ricorso ai licenziamenti collettivi sono due,
ciascuno articolato in due variabili. Essi consistono nella scelta imprenditoriale di una
riduzione dell'attività o del lavoro ma anche in una trasformazione sempre dell'attività
o del lavoro. L'uso della disgiuntiva da parte della legge, ha avvertito la dottrina più attenta,
autorizza questo inquadramento. «I giudici bolognesi sembrano allora attribuire
rilevanza dirimente alla sussistenza del requisito causale, laddove legittimano il ricorso
ai licenziamenti collettivi solo in sua presenza, che nel caso in esame viene individuato
in una «trasformazione aziendale», vale a dire in una «trasformazione dell'impegno
mercantile dell'azienda [â?¦] ovvero ad una razionalizzazione della sua articolazione
» ' anche se, invero, nella parte finale della sentenza, riaffermano «che l'autorità
giudiziaria non può essere investita di un'indagine sulla presenza di effettive esigenze
di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva (arg. ex Cass. n. 11455/99; n.
5516/03; n. 9134/04)». Venendo poi ad esaminare la regolarità o meno dello svolgimento
della procedura, la Corte ritiene innanzi tutto esauriente e sufficientemente analitica
la comunicazione iniziale, alla quale attribuisce «il requisito della completezza
finalistica, nel senso che esso è sicuramente un solido punto di partenza da cui le parti
collettive potevano prendere le mosse nella disamina della situazione aziendale, alla
luce degli insindacabili obiettivi imprenditoriali», precisando che il fatto che la finalità
di favorire la gestione contrattata della crisi sia stata realizzata con accordo sindacale
«è rilevante ai fini del giudizio di completezza della comunicazione ai sensi del citato
art. 4 comma terzo della legge n. 223 del 1991 (Cass. n. 9015/03)». Inoltre, richiamando
Cass. n. 4228/00, la Corte afferma che le eventuali insufficienze della comunicazione
di avvio della procedura, pur non perdendo rilievo per il solo fatto che sia stato
poi stipulato un accordo di mobilità , non sarebbero invocabili dal singolo dipendente
licenziato: «Poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio
della procedura e non è abilitato a partecipare all'esame della situazione di crisi e a
proporre soluzioni di crisi della stessa, non può far valere in giudizio a propria tutela,
in ogni caso, l'inadeguatezza della comunicazione». Da ultimo i giudici di secondo grado
valutano il criterio individuato dall'Accordo sottoscritto il 17 ottobre 2001, il quale
prevedeva che in due diverse fasi temporali ' al 31 dicembre 2001 e 2002 ' l'Azienda
avrebbe risolto il rapporto «di tutto il personale che alla data medesima risulti già in
possesso dei requisiti per il diritto alla pensione di anzianità e di vecchiaia» fatta
sempre salva la possibilità per lo stesso di risolvere consensualmente il rapporto beneficiando
dei trattamenti di incentivazione all'esodo. Ed evidenziano che come conseguenza
della politica aziendale di ulteriore incentivazione ed agevolazione gli esuberi,
inizialmente quantificati in 9.000, poi erano calati a poco più di 7.000, divenendo
alla fine poco più di 900 di cui solo 450 destinatari in concreto del licenziamento, avendo
gli altri aderito alle dimissioni incentivate. Citando il Supremo Collegio, affermano
che «appare razionalmente adeguato rispetto all'esigenza di attuare una riduzione
del personale, il ricorso al criterio della prossimità al trattamento pensionistico
giustificato dal minore impatto sociale (Cass. n. 9134/04; conf. n. 13962/02; n.
4149/01)» in quanto detto criterio «consente di formare una graduatoria rigida e quindi
di essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità per il datore
di lavoro (Cass. n. 6567/02; n. 1760/99; n. 11875/00; n. 4140/01; 10171/01). Esso, inoltre,
sarebbe ritenuto «esemplificazione di criterio razionalmente giustificato, ai fini
dei licenziamento collettivi», anche dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 268 del
1994). Va peraltro osservato, sul punto, che oggi il d.lgs. n. 216/2003 prevede il fattore
«età » tra quelli considerati espressamente discriminatori dalla legge: il che pone
fondati dubbi sulla legittimità di criteri di scelta ' anche se concordati ' del personale
da collocare in mobilità che facciano riferimento proprio al raggiungimento dell'età
pensionabile.
In caso di riforma della sentenza di reintegra il lavoratore è tenuto all'integrale ripetizione delle somme percepite
Nel corso di un giudizio di opposizione all'ingiunzione promossa da una società per la ripetizione delle retribuzioni percepite dal lavoratoreper effetto di una sentenza di reintegra riformata in sede di appello un lavoratore deduceva l'irripetibilità
delle somme dovute e maturate tra la sentenza di primo grado e la sentenza
di riforma. La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso promosso dal lavoratore avverso
la sentenza della Corte di Appello di Brescia ha precisato che gli importi erogati
dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione del lavoratore
licenziato anche per il periodo successivo alla data di detta decisione costituiscono
ai sensi dell'art. 18 legge 300/70 risarcimento del danno derivante dall'illegittimo
licenziamento e come tali sono integralmente ripetibili in caso riforma della
sentenza che aveva accertato l'illegittimità del recesso.
La cassazione esclude il carattere nazionale alle federazioni frutto di aggregazioni di varie componenti sindacali
Nell'ambito di una complessa vicenda giudiziaria la Corte di Cassazione ha affrontato la legittimazione ex art. 28 legge 300/70 di una federazione sindacalepresente sull'intero territorio nazionale ma frutto di una aggregazione di sindacati locali.
La Corte di Cassazione ritenendo che il sindacato nazionale considerato dal legislatore
statutario risponda all'esigenza di ammettere alla speciale legittimazione solo un'associazione
che persegua interesse non già di un'area limitata ma in tutto il paese ha affermato
che le «federazioni» di associazioni locali non rivestono il carattere nazionale
sulla base del principio di «rappresentatività » che postula un'attività sindacale, al di là
di mere affermazioni statutarie, su tutto il territorio nazionale. Ritiene, infatti, la Suprema
Corte che la mera creazione di un coordinamento nazionale costituirebbe, in assenza
del criterio di attività estesa sul territorio un passe partout per l'accesso della legittimazione
al ricorso dell'art. 28 Stat. lav., a qualsivoglia organizzazione locale e verrebbe
frustrata quell'esigenza di fondo che giustifica, anche a livello costituzionale, la limitazione
della legittimazione.
La Cassazione ribadisce la legittimità di una sentenza di reintegra nelle precedenti mansioni
Un lavoratore assumendo di essere stato dequalificato adiva il Tribunale dell'Aquilache, ritenuta l'illegittimità della condotta, ordinava alla società di riadibire
il lavoratore alle mansioni assegnate con sentenza confermata dalla locale Corte di
Appello. La Corte di Cassazione, adita dalla società che contestava l'ammissibilità del
provvedimento di reintegra richiesto dal lavoratore frutto di una normativa speciale
non estendibile, ha ribadito che la tutela richiesta deriva dai normali istituti di diritto
comune applicabili a fronte della violazione della norma imperativa di cui all'art. 2103
cod. civ. che implica la nullità del provvedimento datoriale. Sulla base di tale rilievo i
giudici di legittimità hanno quindi affermato che si deve quindi ammettere nell'ipotesi
di accertata nullità del provvedimento datoriale che al lavoratore sia accordata una tutela
piena mediante l'automatico ripristino della precedente situazione. Nel richiamare
i precedenti la Corte stabilisce che la richiesta di reintegra nelle mansioni costituisce
un «falso problema», in quanto non ha nulla a che vedere con tale azione ma si fonda
sul pregnante rilievo che l'ordinamento privilegia la tutela satisfattoria dell'interesse
leso e che alla sua realizzazione è preordinata la pronunzia di condanna di un facere
in forma specifica.
In caso di riforma della sentenza di condanna a crediti di lavoro il datore non può ripetere gli oneri versati indebitamente
Nell'ambito di un giudizio promosso da un'azienda per la ripetizione delle somme erogate al lavoratore sulla base di una decisione riformata,la Corte di
Cassazione ha affermato che sussiste un diverso regime di ripetizione per le somme
trattenute a titolo previdenziale e fiscale. Per le somme versate dal datore di lavoro all'istituto
previdenziale non sussiste un obbligo di ripetizione delle stesse in capo al lavoratore
in quanto il legittimato alla restituzione dell'indebito previdenziale è esclusivamente
il datore di lavoro. Diversamente, ha precisato la Suprema Corte avviene per
le ritenute fiscali laddove il datore di lavoro opera quale sostituto di imposta svolgendo
sostanzialmente funzioni di esattore dell'amministrazione finanziaria per conto del
contribuente sostituito. In tale ottica il datore di lavoro per quanto attiene le somme
versate all'erario per conto del lavoratore ha una mera facoltà di ripetizione delle somme
versate e nel caso in cui non si avvalga di tale facoltà ben potrà ripetere le somme
dal lavoratore. Sulla base di tale rilievo la Suprema Corte precisa quindi che il datore
di lavoro provvede in adempimento di un obbligo di legge ad adempiere un'obbligazione
del sostituito che rimane l'effettivo debitore degli acconti.
In caso di morte istantanea del lavoratore non sussiste un danno biologico trasmissibile "iure hereditatis"
Un lavoratore a seguito di un gravissimo infortunio decedeva sul colpo.Nel corso del successivo giudizio penale il datore di lavoro veniva ritenuto responsabile dell'evento
e condannato al pagamento di una provvisionale in favore degli eredi. Nel successivo
giudizio civile di risarcimento promosso dagli eredi innanzi al Tribunale di Salerno
la domanda di risarcimento di danno biologico derivato veniva respinta dal locale magistrato
con decisone confermata in sede di gravame. La Corte di Cassazione nel confermare
la decisione del Collegio salernitano ha quindi ribadito, richiamandosi a specifici
precedenti ed alle decisioni della Corte Costituzionale, che il bene della vita leso
in caso di morte rappresenta un bene giuridico diverso dalla lesione dell'integrità psico
fisica e non coincide con la massima lesione di quest'ultima. In caso di morte istantanea
non può quindi ritenersi trasmesso agli eredi alcun danno biologico.
La sufficienza delle retribuzioni previste dagli accordi collettivi deve essere analizzata con una certa prudenza dal magistrato
Nell'ambito di un giudizio promosso da un lavoratore teso a vedere dichiarare la nullità di una clausola di un contratto collettivoper violazione dell'art.
36 Cost. la Suprema Corte ha accolto il ricorso della società che era stata condannata
in sede di appello a pagare una somma al lavoratore a seguito della accertata insufficienza
della clausola contrattuale. Nel ritenere la legittimità della clausola la Corte ha
comunque precisato che analogamente ad una pattuizione privata anche una clausola
di un accordo collettivo può essere dichiarata nulla ove introduca un compenso inferiore
alla soglia minima costituzionale ed il contratto può essere integrato dal giudicante.
In tale ottica, tuttavia, la Suprema Corte ha comunque ritenuto necessario osservare
che allorquando la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo il giudice
è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza e comunque con adeguata
motivazione giacchè difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economico-
politiche sottese all'assetto degli interessi concordato dalle parti sociali.
Per i contratti a termine nello spettacolo devono sussistere specifiche esigenze
Una lavoratrice dopo essere stata assunta con una pluralità di contratti a termine alle dipendenze della RAIadiva il Tribunale di Roma allo scopo di vedere
accertata la nullità dei termini apposti ai vari rapporti di lavoro. Avverso la decisione
del giudice del riesame che riformando la decisione del primo grado aveva accertato
l'avvenuta trasformazione del rapporto proponeva ricorso di legittimità la società concessionaria
del servizio pubblico di radiotelevisione ritenendo che i vari contratti, pur
avendo ad oggetto diverse tematiche, esprimevano la medesima esigenza aziendale.
La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità promosso dalla società
nel richiamare alcuni precedenti specifici ha ritenuto che la legittima utilizzazione del
contratto a termine è condizionata al fatto che la specificità dello spettacolo o del programma,
che non implica la straordinarietà o occasionalità dello stesso ma solo la sua
temporaneità , renda essenziale l'apporto del peculiare contributo professionale, tecnico
o artistico del soggetto esterno incaricato della specifica prestazione, perché l'attività
richiestagli non è facilmente fungibile con quella espressa dal personale di ruolo
dell'ente.
Non è discriminazione indiretta la promozione di lavoratori a maggioranza maschile dovuta al possesso di un titolo apposito
Alcune lavoratrici adivano il Pretore di Catania lamentando di non avere ottenuto una progressione in carriera pari a quella dei colleghi di sesso maschile.Rivendicavano il livello superiore rispetto al proprio inquadramento quale misura correttiva
della discriminazione, dal momento che svolgevano le medesime mansioni dei colleghi
inquadrati nei livelli superiori. Il locale Tribunale pur non ritenendo lo svolgimento delle
mansioni superiori rivendicate riteneva sussistente una discriminazione nella progressione
in carriera delle lavoratrici e assegnava il livello richiesto quale misura tesa ad elidere
la discriminazione. Avverso tale decisione proponeva appello la società che rilevava
che la maggior progressione nella carriera degli uomini rispetto alle donne era derivata
dalla circostanza che il titolo di diploma tecnico necessario per lo svolgimento della mansione
era posseduto in prevalenza da tale categoria di lavoratori. Il Collegio accoglieva il
gravame della società ma, in accoglimento dell'appello incidentale delle lavoratrici limitatamente
ad alcune di esse assegnava il livello ritenendolo dovuto sulla base delle concrete
mansioni dalle stesse svolte. La Corte di Cassazione adita dalle lavoratrici soccombenti
in ordine alla mancata rilevazione della discriminazione nella progressione ha respinto
il ricorso osservando che il giudizio di discriminazione presuppone un accertamento
del giudice teso a verificare la dannosità per uno dei sessi dell'adozione di un criterio
selettivo non ritenuto essenziale. Sulla base di tale valutazione la Suprema Corte ha quindi
ritenuto che la Corte di merito aveva ampiamente valutato la circostanza che il possesso
del diploma tecnico costituiva un requisito essenziale per lo svolgimento del processo
produttivo in un settore, quale quello elettronico che chiede alta specializzazione. Sulla
base di tale corretta valutazione la Cassazione ha ritenuto che richiedere il suddetto titolo
di studio necessario per lo svolgimento di determinate mansioni come condizione per
la progressione in carriera non costituisce di per sé comportamento discriminatorio atteso
che il titolo è accessibile sia per gli uomini che per le donne e che la presenza di un
maggior numero di uomini tra i possessori di tale attestato deriva da scelte di percorsi
scolastici distinti che non determina una discriminazione.
Le S.U. attribuiscono al datore l'onere della prova dei livelli occupazionali per escludere l'applicazione della tutela reale
Un dipendente di un patronato adiva il Pretore di Reggio Calabria affermando di essere stato illegittimamente licenziatoe di avere diritto ad essere reintegrato in
considerazione del livello occupazionale dell'ente che risultava contumace nel giudizio. La
domanda accolta anche in sede di appello e avverso tale decisione proponeva ricorso di
legittimità l'ente soccombente che rilevava la mancata dimostrazione del livello occupazionale
da parte del dipendente. Le Sezioni Unite dopo un'ampia digressione sui tre diversi
orientamenti assunti dalla Corte in materia di riparto dell'onere della prova hanno ritenuto
sulla base del criterio della «prossimità » al thema probandum che incomba al datore
di lavoro l'onere di dimostrare l'inesistenza dei livelli occupazionali richiesti per la c.d.
tutela reale. Affermano, infatti, le Sezioni Unite della Suprema Corte, nel dirimere il contrasto
insorto all'interno della Sezione, che la tutela reale del lavoratore ben può essere
limitata discrezionalmente dal legislatore e questi, nell'effettuare il bilanciamento degli
interessi costituzionalmente protetti, può ritenere che le ragioni dell'impresa di piccole dimensioni
debbano prevalere sulla tutela specifica del lavoratore illegittimamente licenziato.
Non vi è però ragione di negare che questa limitazione del diritto al lavoratore debba
essere affidata al soggetto interessato ossia al datore di lavoro e di affermare al contrario
che essa debba aggiungersi agli elementi costitutivi di quel diritto con conseguenze
in ordine alla ripartizione dell'onere della prova.
Legittimo rifiuto di un lavoratore di svolgere il lavoro in un ambiente non protetto da possibili aggressioni criminali
Un lavoratore addetto a svolgere mansioni di esattore presso un casello autostradale dopo aver subito numerose rapine ed aggressionisi rifiutava di
svolgere la propria attività fintanto che l'azienda non avesse approntato misure antirapina
idonee all'interno della postazione lavorativa. La società , ritenuta ingiustificata
l'assenza del dipendente dal posto di lavoro, licenziava il lavoratore che adiva il locale
Tribunale di Verbania che, pur accertando un inadempimento dell'azienda, comunque
riteneva non giustificato il rifiuto totale della prestazione e, con sentenza confermata
anche in sede di appello, rigettava la domanda di reintegra nel posto di lavoro.
La Corte di Cassazione nel ritenere che la violazione del diritto del lavoratore a vedere
tutelata la propria incolumità anche da aggressioni criminali legittima il rifiuto della
prestazione ha annullato la decisione sul rilievo che non è ravvisabile un'assenza ingiustificata
dal posto di lavoro ove il rifiuto della prestazione sia connesso con la mancata
adozione da parte del datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza
di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell'integrità fisica
e psichica del lavoratore.
Statali non di ruolo e indennità di fine rapporto
In caso di decesso di dipendenti dello Stato non di ruolo, l'indennità di fine rapportodeve poter essere oggetto di successione legittima e testamentaria, come
avviene per i dipendenti di ruolo. La Corte Costituzionale ha cosà accolto la questione
sollevata dal Tar del Lazio per manifesta irragionevolezza della disparità di trattamento
derivante dalla norma impugnata. È infatti ormai principio consolidato dalla giurisprudenza
costituzionale quello secondo cui, qualunque indennità venga corrisposta
al lavoratore (pubblico o privato che sia) al termine dell'attività lavorativa, la funzione
di retribuzione differita rivestita dal trattamento prevale su quella previdenziale in caso
di inesistenza dei soggetti previsti dalla legge (coniuge, figli minorenni ecc.) ed entra
nel patrimonio del dipendente al momento della sua morte. Oltre a ciò, è da rilevare
il fatto che oramai tra dipendenti in ruolo e dipendenti fuori ruolo dell'amministrazione
statale non vi è più alcuna differenza (esistendo sempre un rapporto di lavoro
subordinato) e che quindi deve ritenersi superata la risalente sentenza Corte Cost. n.
179 del 1970 che aveva negato l'illegittimità della norma impugnata.
Pignorabilità delle pensioni dei notai
È pignorabile, nei limiti di un quinto, la pensione erogata dalla Cassa nazionale del notariatoanche per i crediti diversi da quelli alimentari. La Corte Costituzionale
ha affermato che lo status giuridico dei notai non giustifica il trattamento differenziato
riservato alle pensioni erogate dalla Cassa nazionale del notariato rispetto
a quello previsto per i dipendenti sia pubblici che privati. Poiché l'impignorabilità si risolve
in una limitazione della garanzia patrimoniale e in una compressione del diritto
dei creditori, non esiste nessuna differenza tra le pensioni spettanti all'una o all'altra
categoria di beneficiari sotto il profilo dell'assoggettabilità d esecuzione forzata. Pertanto
la norma impugnata è incostituzionale nella parte in cui esclude del tutto la pignorabilità
della pensione erogata ai notai, piuttosto che prevedere l'impignorabilità ,
con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola parte del rateo necessaria
per assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità
nei limiti del quinto della residua parte.
Ricongiunzione contributiva per liberi professionisti
È legittima la norma che non prevede la restituzione dei contributi a favore di quei professionistiche, avendo fatto domanda di ricongiunzione dei contributi,
cessino dall'iscrizione alla Cassa di previdenza senza aver maturato i requisiti per il diritto
alla pensione. La Corte, nel dichiarare non fondata la questione, ha affermato che
la ricongiunzione delle posizioni previdenziali è istituto di carattere generale mentre la
restituzione dei contributi è di carattere eccezionale, previsto solo a favore di determinate
categorie di professionisti e che escludere la restituzione non determina né un
indebito pagamento da parte dell'assicurato né tanto meno un arricchimento senza
causa della Cassa con il trattenimento dei contributi versati dai professionisti. Non bisogna
dimenticare, inoltre, che tali «versamenti sono giustificati dalle situazioni esistenti
e dalle norme vigenti all'epoca della loro effettuazione, tanto più che in un sistema
solidaristico la circostanza che al pagamento dei contributi non corrispondano
prestazioni previdenziali non dà luogo ad arricchimento senza causa della gestione destinataria
dei contributi».
Indennità di fine rapporto e danno erariale
In ipotesi di danno erariale, le indennità di fine rapportospettanti ai lavoratori di enti pubblici diversi dallo Stato sono sequestrabili o pignorabili come quelle spettanti
agli statali (con l'osservanza, quindi, dei limiti previsti dall'articolo 545 del codice
di procedura civile). La disposizione impugnata dalla Corte dei conti pugliese è stata
quindi dichiarata illegittima in ragione dell'ingiustificata disparità di trattamento ai
danni dei dipendenti degli enti pubblici rispetto al regime applicabile ai lavoratori statali.
A giudizio della Corte Costituzionale, la progressiva eliminazione delle differenze
in materia di regime giuridico dell'indennità di fine rapporto che spetta ai dipendenti
del settore privato e dell'analogo emolumento erogato ai dipendenti pubblici rende
non più tollerabile una disparità di trattamento tra le due categorie in fatto di sequestro
e pignoramento di tale indennità (neppure in presenza di un credito della stessa
pubblica amministrazione consistente nel risarcimento del cosiddetto danno erariale).
In definitiva, non sussiste alcuna ragione che possa giustificare il più gravoso regime
cui sono sottoposti i dipendenti degli enti pubblici diversi dallo Stato che, diversamente
dai dipendenti statali, possono veder sequestrata e pignorata l'indennità di fine
rapporto senza alcun limite.
Inidoneità al servizio di polizia
Non è illegittimo escludere i Carabinieri inidonei al servizio di polizia(per cause diverse dall'espletamento delle funzioni) dalla possibilità di richiedere il passaggio
a ruoli diversi dell'amministrazione della pubblica sicurezza o di altre amministrazioni
dello Stato. La Corte Costituzionale ha quindi disatteso il Tar della Liguria che aveva ritenuto
sussistere un'ingiustificata disparità di trattamento tra i Carabinieri e la Polizia
in ordine alla possibilità di transitare in ruoli diversi. Ad avviso del giudice costituzionale
le disposizioni impugnate non sono illegittime in ragione del fatto che i Carabinieri
e la Polizia (come anche la Guardia di finanza) sono regolati da ordinamenti diversi
e quindi non comparabili (basti pensare, sostiene la Corte, che i carabinieri mantengono
uno status militare, mentre i poliziotti fanno parte del personale civile dello
Stato). Sulla base di tali argomentazioni, quindi, non esiste una comparabilità delle situazioni
poste a confronto, tali da rendere operativo il riferimento al principio di uguaglianza
(art. 3 Cost.).
«Mobbing» e competenze regionali
Le Regioni possono intervenire per prevenire il fenomeno del «mobbing»e per sostenere coloro che sono stati sottoposti alle vessazioni. La Corte Costituzionale ha quindi
dichiarato non fondata la questione di legittimità promossa a seguito dell'impugnazione
del Presidente del Consiglio dei ministri nella parte in cui la legge abruzzese avrebbe leso
la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e di organizzazione
amministrativa degli enti pubblici. Quanto alla legge del Lazio (n. 16 del 2002),
già dichiarata incostituzionale con sentenza n. 359/2003, la Corte ha spiegato come quella
sia stata dichiarata incostituzionale perché basata su un'autonoma definizione di mobbing.
In quella normativa venivano anche elencati i comportamenti in cui il fenomeno poteva
concretizzarsi, elementi che non spettava alla Regione formulare e che, inoltre, non erano
in armonia con atti comunitari. Al contrario, i contenuti della legge della Regione Abruzzo,
rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing, fanno riferimento alla
normativa statale, pertanto non violano la Costituzione (art. 117). Ciò non toglie che, se
l'inesistenza di una definizione dovesse condurre il legislatore territoriale ad emanare atti
amministrativi che esulano dalla propria competenza o comunque contrastanti con i parametri
costituzionali, l'ordinamento nazionale dovrebbe azionare gli opportuni rimedi per
reprimere tali ingerenze.
Indebiti pensionistici
Per il recupero delle quote di pensione percepite indebitamentenel periodo anteriore all'anno 1996 resta confermata l'applicazione del criterio secondo cui le stesse
quote non possono essere recuperate se coloro che le hanno percepite in buona fede
abbiano fruito nell'anno 1995 di un reddito imponibile ai fini Irpef pari o inferiore a 16
milioni di lire o nell'anno 2000 abbiano fruito di un reddito imponibile ai fini Irpef pari
o inferiore a 8.263, 31 euro. I giudici rimettenti avevano chiesto alla Corte un intervento
simile a quello compiuto con la sentenza n. 39 del 1993, che aveva dichiarato illegittimo
l'art. 13, comma 1, della legge n. 412 del 1991, nella parte in cui estendeva le innovazioni
introdotte in tema di ripetizione di indebito previdenziale ai rapporti sorti
prima della sua entrata in vigore o pendenti a tale data. La Corte Costituzionale ha sottolineato
come non sia ravvisabile ' come in occasione della sentenza del 1993 ' una
lesione, costituzionalmente rilevante, dell'affidamento dei percettori di prestazioni
pensionistiche non dovute, con conseguente violazione del principio di eguaglianza.
L'affidamento dei cittadini nella stabilità della normativa vigente, infatti, è tutelato come
inderogabile precetto di rango costituzionale solo in materia penale (art. 25, secondo
comma, Cost.). Per il resto, norme retroattive sono ammissibili purché comportino
una regolamentazione non manifestamente irragionevole, onde la retroattività
può risultare giustificata proprio dalla sistematicità dell'intervento innovatore e dall'esigenza
di uniformare il trattamento delle situazioni giuridiche pendenti e quello
delle situazioni che si determineranno in futuro. Nella specie, poi, si tratta dell'affidamento
dei pensionati nell'irripetibilità di trattamenti pensionistici indebitamente percepiti
in buona fede, ed esso è tanto più meritevole di tutela ove si tratti di pensionati
a reddito non elevato che destinano le prestazioni pensionistiche, pur indebite, al
soddisfacimento di bisogni alimentari propri e della famiglia. A tale proposito, è significativo
che la normativa censurata (per la parte in cui, secondo l'interpretazione delle
Sezioni unite, si applica agli indebiti erogati prima del 1° gennaio 1996) attraverso il
criterio reddituale garantisca l'irripetibilità di tali indebiti ai pensionati economicamente
più deboli e ' comunque ' ne escluda la ripetibilità totale. D'altra parte la necessità
costituzionale di proteggere l'affidamento del pensionato non implica di per sé
una disciplina unica dell'indebito previdenziale; onde, al legislatore che si sia allontanato
dal principio civilistico della totale ripetibilità dell'indebito oggettivo (art. 2033
cod. civ.), deve riconoscersi un ambito di discrezionalità nell'individuazione degli strumenti
più idonei a garantire ai pensionati a basso reddito un congruo livello di tutela,
in un generale quadro di compatibilità , e fra essi può ben essere annoverata la scelta
di collegare la ripetibilità ad un criterio reddituale.