Descrizione
Apprendistato e formazione: la Consulta definisce le competenze regionali La Cassazione esclude l'applicabilità dell'art. 420-bis cod. proc. civ. in appello Le tutele dei lavoratori in sede comunitaria in caso di insolvenza del datore di lavoroUna sentenza penale di condanna riportata dal lavoratore in primo grado non è sufficiente a giustificare il suo licenziamento
G.B. e L.Z., dipendenti dalla Spa Poste italiane con qualifica di operatori di gestione sono stati licenziati in tronco,nell'ottobre del 1998, con l'addebito di essere
stati sottoposti a processo penale con l'imputazione di avere commesso, presso la loro abitazione,
nel gennaio del 1998, il reato di violenza sessuale ai danni di una donna che aveva
sporto denuncia penale per l'accaduto. Il pretore di Ancona, con provvedimento di
urgenza emesso nel novembre 1998 ha ordinato all'azienda di reintegrare il due dipendenti
nel posto di lavoro in quanto ha ritenuto che la sola instaurazione di un processo penale
a loro carico fosse insufficiente a determinare la rottura del vincolo fiduciario posto
a base del rapporto. Il giudizio è proseguito per la decisione sul merito. L'azienda ha in un
primo momento reintegrato i lavoratori, ma quando, nell'aprile 1999, il Tribunale penale
di Ancona li ha condannati per il reato di violenza, li ha nuovamente estromessi. Essa ha
fatto presente al giudice del lavoro questi nuovi sviluppi e gli ha chiesto di dichiarare la legittimità
del licenziamento intimato nel settembre del 1998 o in subordine di accertare la
definitiva risoluzione del rapporto con effetto dalla data della sentenza penale di condanna.
L'azienda ha chiesto di essere ammessa a provare con testimoni che i due dipendenti
erano stati sottoposti a procedimento penale con l'imputazione di violenza sessuale,
che la vicenda ebbe eco nella stampa locale e che i giornali evidenziarono la qualifica di
impiegati postali rivestita dai lavoratori, che successivamente intervenne la sentenza di
condanna di primo grado, la quale ebbe vasta risonanza nella stampa. Il Tribunale di Ancona,
giudice del lavoro, non ha ammesso la prova e, con sentenza emessa nel febbraio
2001, ha annullato il licenziamento, confermando l'ordine di reintegrazione dei due impiegati
nel posto di lavoro. La decisione è stata motivata con il rilievo che nessuna prova
era stata offerta in ordine all'effettivo svolgimento dei fatti e alla responsabilità dei due dipendenti.
La Corte d'Appello di Ancona ha confermato questa decisione osservando che
l'essere accusati di un grave reato e anche l'essere condannati in primo grado con sentenza
non definitiva non costituiva prova sufficiente della responsabilità . L'azienda ha
proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Ancona per vizi di
motivazione e violazione di legge; essa ha lamentato, tra l'altro, la mancata ammissione
della prova offerta.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 21409 del 5 ottobre, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha rigettato
il ricorso, rilevando, tra l'altro, l'inammissibilità delle censure relative alla mancata
ammissione della prova; sul punto ' ha osservato ' il motivo di ricorso è inammissibile,
per mancanza di autosufficienza, in quanto non sono riportati i capitoli dell'interrogatorio
formale e della prova per testimoni, non ammessi perché ritenuti inidonei a provare i fatti
oggetto di contestazione posti a base del licenziamento disciplinare; invero, il ricorrente
per cassazione il quale denunci vizi della sentenza correlati al rifiuto del giudice di merito
di dare ingresso ai mezzi istruttori ritualmente introdotti oppure l'omessa valutazione
da parte dello stesso di una certa deposizione, ha l'onere da un lato di dimostrare l'esistenza
di un nesso eziologico tra l'errore addebitato al giudice e la pronuncia emessa in
concreto che senza quell'errore sarebbe stata diversa, al fine di consentire al giudice di legittimità
un controllo sulla decisività delle prove e, dall'altro, di indicare specificamente
nel ricorso le deduzioni di prova che asserisce disattese onde consentire al giudice di legittimità
la verifica, sulla base di tale atto di impugnazione e senza necessità di inammissibili
indagini integrative, della validità e della decisività delle disattese deduzioni.
Dalla sentenza impugnata ' ha rilevato la Corte ' emerge che la condotta ascritta ai due
dipendenti non risulta provata, non solo perché la sentenza di condanna penale non è divenuta
definitiva, ma anche «perché nessuna ulteriore prova della verità dei fatti stessi è
stata data dal datore di lavoro, che neppure ha sottoposto alla valutazione del giudice le
risultanze probatorie raccolte nel giudizio penale e che non ha provocato la formazione di
autonome prove, vertenti sul fatto, in sede civile».
Se un lavoratore in c.f.l. di fresatore viene impiegato come operaio comune il contratto si converte in a tempo indeterminato
Riccardo G. è stato assunto alle dipendenze della Spa Bi Marmi, nell'aprile del 1997, con contratto biennale di formazione e lavoroper lo svolgimento della mansioni
di fresatore. Dopo avere svolto per circa due anni tali mansioni, egli è stato destinato
ad attività varie di operaio comune. Inoltre l'azienda ha del tutto omesso la formazione
teorico-pratica del lavoratore, mentre la lettera di assunzione prevedeva lo svolgimento di
tale attività per un minimo di 120 ore. Alla scadenza del biennio di durata del contratto,
l'azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Trani di dichiarare
che il rapporto di lavoro doveva ritenersi a tempo indeterminato e di condannare
l'azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro in base all'art. 18 Stat. lav. e a corrispondergli
la retribuzione maturata con effetto dalla cessazione del rapporto. Il Tribunale ha accolto
soltanto la domanda di accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. Questa decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello
di Bari che ha condannato l'azienda a pagare la retribuzione maturata con effetto dalla data
della notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. La sentenza della Corte
di Bari è stata impugnata con ricorso per cassazione sia dall'azienda che dal lavoratore;
quest'ultimo ha sostenuto di avere messo in mora l'azienda prima dell'inizio del giudizio
davanti al Tribunale mediante la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione
e di avere pertanto diritto alla retribuzione con effetto dalla data di questa richiesta.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 21639 del 9 ottobre 2006 Pres. Sciarelli, Rel. Di Cerbo) ha
rigettato entrambi i ricorsi. La Corte di Bari ' ha osservato la Cassazione ' si è uniformata
al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di contratto
di formazione e lavoro l'inadempimento degli obblighi di formazione determina la
trasformazione fin dall'inizio del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato,
qualora l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella
totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in un'attività formativa carente
o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi
nel contratto. Nella specie la Corte di Bari ' ha osservato la Cassazione ' ha accertato, in
base a una valutazione di fatto basata su una motivazione congrua e priva di vizi logici,
che sussistevano i presupposti per la conversione del rapporto de quo; in particolare, da
un lato, è emerso che il lavoratore è stato adibito alle mansioni specifiche di fresatore, per
le quali era stato stipulato il contratto di formazione e lavoro, solo per un paio di mesi (su
una durata del contratto di due anni) essendo stato destinato, invece, alle più svariate attività
esistenti in azienda per il restante periodo; dall'altro, la Corte ha osservato che il progetto
previsto nel contratto di formazione e lavoro prevedeva un minimo di 120 ore di formazione
teorico-pratica nell'arco temporale di 24 mesi e che tale profilo della formazione
era stato omesso del tutto.
La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile l'impugnazione del lavoratore osservando
che nel ricorso egli non aveva precisato in quale atto del giudizio di merito aveva posto la
questione della messa in mora mediante richiesta di esperimento del tentativo preventivo
di conciliazione.
L'accertamento della subordinazione di lavoratori in nero può motivarsi in base alle prestazioni dei dipendenti
Francesco A. e altri hanno lavorato presso la Get Spa, esercente attività esattoriale, come ufficiali di riscossione,ininterrottamente dal 1992 al 1996. Nei primi due
anni essi hanno lavorato in base a contratti di lavoro autonomo, mentre dal 1994 sono stati
assunti come dipendenti con contratti a tempo determinato, alla scadenza dei quali, nel
1996, l'azienda ha cessato di impiegarli. Essi hanno chiesto al Tribunale di Catanzaro di
accertare che nella fase iniziale del rapporto, dal 1992 al 1994, avevano lavorato in condizioni
di subordinazione e che pertanto i termini di durata apposti ai successivi contratti di
lavoro a tempo determinato dovevano ritenersi nulli, con conseguente loro diritto a essere
mantenuti in servizio anche nel periodo successivo e a percepire la retribuzione. La domanda
è stata proposta anche nei confronti della società Etr, subentrata alla Get nell'attività
esattoriale. Il Tribunale di Catanzaro, dopo avere sentito alcuni testi, ha rigettato il ricorso
in quanto ha escluso che nel periodo dal 1992 al 1994 i ricorrenti abbiano lavorato
in condizioni di subordinazione. La Corte d'Appello di Catanzaro ha riformato questa decisione
osservando che dalla prova testimoniale era emerso che nel periodo indicato gli
appellanti avevano lavorato con le stesse modalità seguite dagli altri «messi» inquadrati
come dipendenti, con orario di lavoro elastico, retribuzione mensile, e sottoposizione alle
direttive dei responsabili degli uffici. Pertanto la Corte ha dichiarato la sussistenza di
rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e il diritto dei lavoratori a essere assunti
dalla Etr Spa subentrata alla Get Spa nella concessione per la riscossione dei tributi.
Le aziende hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte
di Catanzaro per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 21693 del 10 ottobre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Stile) ha rigettato
il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Catanzaro abbia correttamente applicato
i principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità in materia di accertamento della
subordinazione. In particolare la Cassazione ha ritenuto che la Corte di Catanzaro abbia
correttamente ravvisato gli indici della subordinazione, valutandoli mediante il raffronto
con l'attività prestata dai «sicuri» dipendenti della parte ricorrente, in quanto pacificamente
inseriti nell'organico aziendale e riscontrando la presenza di analoghe caratteristiche
dell'attività lavorativa.
L’esistenza di una giusta causa di licenziamento deve essere stabilita con certezza, in considerazione delle sue conseguenze
Il contratto collettivo può prevedere la fungibilità fra mansioni diverse di uguale qualifica, senza violare l’art. 2103 c.
Il dirigente che si rifiuta di fornire all'azienda informazioni per un'assenza per malattia può essere legittimamente licenziat
Fabio P. dipendente della Spa Isoli, con qualifica di dirigente, è stato licenziato in troncocon l'addebito di avere rifiutato, durante un periodo di assenza per malattia, ogni
comunicazione con l'azienda, rendendosi irreperibile e omettendo di dare riscontro alla
richiesta aziendale di comunicazione di dati, pur non essendo fisicamente impedito, dal
momento che la sua malattia consisteva in uno stato ansioso depressivo con insonnia. Peraltro,
per accordo tra le parti, l'abitazione del dirigente costituiva anche il suo luogo di lavoro.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Venezia hanno ritenuto legittimo il licenziamento;
peraltro la Corte ha affermato il diritto del dirigente all'indennità sostitutiva del
preavviso. Sia il dirigente che l'azienda hanno proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 24591 del 20 novembre 2006, Pres. De Luca, Rel. Miani Canevari)
ha rigettato entrambi i ricorsi. Considerato il particolare modo di configurarsi del
rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente
' ha osservato al Corte ' non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo
del recesso del datore di lavoro ex art. 1 della legge n. 604 del 1966; conseguentemente,
fatti o condotte non integranti tali fattispecie con riguardo ai generali rapporti di
lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza
del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del
diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Non può essere poi condiviso '
ha aggiunto la Corte ' l'assunto secondo cui l'impedimento della prestazione lavorativa
costituito dalla malattia escluderebbe, durante tale periodo, qualsiasi obbligazione a carico
del lavoratore; premesso che la malattia considerata dall'art. 2110 cod. civ. corrisponde
non a uno stato che comporta la impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività ,
ma a una condizione impeditiva delle normali prestazioni lavorative del dipendente,
deve ritenersi che anche nei confronti del lavoratore esonerato dall'esecuzione della prestazione
a causa della malattia operino i doveri di correttezza e buona fede facenti carico
ai contraenti in forza degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e gli specifici obblighi contrattuali di
diligenza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. La sentenza impugnata ' ha rilevato
la Cassazione ' si sottrae poi alle critiche che riguardano la valutazione della condotta
di Fabio P., correlata all'impedimento derivante dalla malattia; è stato infatti accertato
che il dipendente da una certa data si era reso non reperibile nella sua abitazione (che
per comune accordo costituiva anche la sede di lavoro), anche solo per un contatto telefonico,
nonostante i messaggi lasciati nella segreteria; è stato inoltre escluso che la malattia
diagnosticata rendesse impossibile qualunque comunicazione, anche per rispondere
a una chiamata telefonica con una richiesta di informazioni da parte dell'azienda. Questo
apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito ' ha affermato la Corte ' non è
efficacemente censurato dal ricorrente principale, che ha riferito l'impedimento allo svolgimento
del «lavoro di base dovuto alla azienda» (trasmissione di dati complessi) e non
alla totale impossibilità di qualsiasi contatto con la società . La Suprema Corte ha anche ritenuto
che sia stato correttamente motivato il riconoscimento del diritto al preavviso nonostante
l'accertata lesione del rapporto fiduciario. Si deve distinguere ' ha affermato la
Cassazione ' la fattispecie del licenziamento giustificato del dirigente (che comporta l'esonero
del datore di lavoro dal pagamento dell'indennità supplementare prevista dalla
contrattazione collettiva) da quella del recesso per giusta causa, (che esclude l'obbligo
del preavviso o quello alternativo del pagamento dell'indennità sostitutiva) in cui si riscontra
una grave lesione della fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, tale da
non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto: tale nozione di giusta
causa non è del tutto sovrapponibile a quella di giustificatezza, sicché possono ricorrere
le condizioni per non corrispondere l'indennità supplementare, in presenza della giustificatezza
del licenziamento, e non sussistere quelle per negare l'indennità sostitutiva di
preavviso in assenza della giusta causa.
L’anzianità contributiva per la «mobilità lunga» può essere raggiunta cumulando i contributi versati in due diverse gesti
Il cittadino straniero extracomunitario non può accedere all’impiego pubblico' in base all'art 70, dlgs 165, 2001
Il lavoratore non può essere licenziato solo per avere chiesto una verifica della gravosità delle mansioni assegnategli
Giuseppe F., operaio dipendente della Spa E.T.A., dopo avere subito, nel 2001, un infortunio sul lavoro,ha ripetutamente chiesto all'azienda una verifica dell'attività richiestagli,
sostenendo che essa era eccessivamente gravosa e che per eseguirla erano necessari
due operai. L'azienda ha effettuato esperimenti dai quali è risultato che il compito
assegnato al lavoratore poteva essere svolto agevolmente da un solo operaio. Essa ha
quindi licenziato Giuseppe F., nel marzo del 2003, con l'addebito di avere tenuto una condotta
«pretestuosa e ingiustificatamente assertiva della necessità di due persone per l'esecuzione
delle mansioni assegnategli». Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Como l'annullamento
del licenziamento, sostenendo che egli non si era reso responsabile di alcuna
inadempienza. Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte d'Appello di Milano, con sentenza
del 1° settembre 2004, ha rigettato l'impugnazione proposta dal lavoratore, affermando:
che non era stata raggiunta la prova della eccessiva gravosità delle mansioni in
relazione alle condizioni fisiche dell'appellante; che sebbene Giuseppe F. avesse subito,
il 21 gennaio 2001, un infortunio sul lavoro, non erano residuati né postumi permanenti né
una sia pur minima riduzione della capacità lavorativa; che, secondo la certificazione medica
acquisita, il lavoratore non presentava deficit di forza, lamentando costui solo una
sofferenza alla spalla destra; che l'attività cui dopo l'infortunio era stato assegnato Giuseppe
F. (definita «a acqua e tappini») era più leggera della precedente e implicava un ridotto
sforzo fisico; che non sussisteva la asserita sproporzione della sanzione erogata;
che, infine, considerati anche tre provvedimenti di sospensione e tre di multa adottati nei
confronti di Giuseppe F. nel biennio precedente, era giustificato il recesso della società per
il grave inadempimento del lavoratore conseguente alle violazioni ai suoi doveri di disciplina
e di diligenza sul lavoro. La Corte ha peraltro escluso che al lavoratore sia stato addebitato
di avere rifiutato di svolgere le mansioni affidategli. Giuseppe F. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 24162 del 13 novembre 2006, Pres. Senese, Rel. Lamorgese)
ha accolto il ricorso. La Corte di Milano ' ha osservato la Cassazione ' ha escluso
che il lavoratore si sia reso inadempiente all'obbligo di svolgere le mansioni assegnategli,
ma ha ritenuto che, chiedendo la verifica della gravosità delle mansioni, abbia tenuto
una condotta pretestuosa, tale da integrare un'infrazione disciplinare. Peraltro '
ha rilevato la Cassazione ' la Corte di Milano non spiega perché la richiesta di verifica
era da considerare pretestuosa, tale da costituire una violazione alla disciplina e alla diligenza
che il lavoratore deve osservare nell'espletamento del lavoro. Anche se indubbiamente
l'insubordinazione non deve essere limitata al rifiuto di adempimento ' ha osservato
la Suprema Corte ' ma può tradursi in qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare
l'esecuzione e il corretto svolgimento della prestazione, secondo le disposizioni
impartite al lavoratore nel quadro della organizzazione aziendale, la Corte di Milano
non chiarisce perché la sollecitazione, sebbene ripetuta, rivolta all'azienda per la verifica
dell'esigibilità della prestazione da parte dell'addetto a una determinata fase della
lavorazione, potesse pregiudicare lo svolgimento dell'attività lavorativa e integrare
un grave inadempimento del medesimo lavoratore, tanto più che il datore di lavoro non
era tenuto a soddisfare la richiesta di verifica ove l'avesse ritenuta priva di fondamento.
Lo stesso dicasi ' ha aggiunto la Corte ' anche per quanto concerne l'obbligo di diligenza
che fa carico al lavoratore, poiché la sentenza impugnata non fa riferimento né
a un rendimento inadeguato del lavoratore, né a episodi dai quali desumere una sua inabilità
nella esecuzione della prestazione lavorativa, né a inosservanza delle regole di
tecnica e di esperienza, o comunque delle disposizioni impartite dal datore di lavoro, ipotesi
queste che, come si è rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, possono, tra
le altre, valere a configurare una mancanza di diligenza nel disimpegno delle mansioni.
La Suprema Corte ha annullato sentenza impugnata rinviando la causa alla Corte di Appello
di Brescia, precisando che essa dovrà accertare, dando congrua motivazione, se il
comportamento ascritto al dipendente nella lettera di contestazione di addebito costituisca
grave inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali.
Nel giudizio di primo grado il datore deve dimostrare l'avvenuta contestazione degli addebiti disciplinari in forma scritta
Mario T., dipendente del Consorzio di Bonifica Stornara e Tara, è stato licenziatocon motivazione riferita all'addebito di avere tenuto una condotta imprudente e priva della
necessaria perizia nella direzione dei lavori di realizzazione di alcune vasche di accumulo.
Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Taranto di annullare il licenziamento sia per
l'infondatezza della motivazione sia perché, pur avendo natura disciplinare, il provvedimento
non era stato preceduto dalla contestazione in forma scritta dagli addebiti, come
previsto dall'art. 7 Stat. lav. Il Consorzio, nel giudizio di primo grado, si è difeso nel merito,
senza rispondere al rilievo di violazione della forma procedimentale prevista dall'art. 7
Stat. lav. Il Tribunale ha annullato il licenziamento. Il Consorzio ha proposto appello, sostenendo
di avere rispettato l'obbligo di preventiva contestazione dell'addebito, in quanto,
prima del licenziamento, aveva ripetutamente fatto presente al lavoratore che egli aveva
tenuto un comportamento contrario ai suoi doveri nell'esecuzione dei lavori. La Corte
d'Appello di Taranto ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda osservando che
la tesi sostenuta dal Consorzio, di avere rispettato la procedura prevista dall'art. 7 Stat.
lav., era inammissibile in quanto prospettata per la prima volta in grado di appello e che
comunque dalle affermazioni dell'appellato emergeva che la contestazione degli addebiti
sarebbe avvenuta in forma orale e non per iscritto come stabilito dall'art. 7 Stat. lav. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Taranto
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 23717 del 7 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha
rigettato il ricorso. L'azienda ' ha osservato la Cassazione ' avrebbe dovuto difendersi nel
giudizio di primo grado sulla questione, sollevata dal ricorrente, del mancato rispetto della
procedura prevista dall'art. 7 Stat. lav., contestando specificamente il rilievo di inosservanza
dell'obbligo di preventiva comunicazione al lavoratore in forma scritta dell'addebito
disciplinare; inoltre il giudice dell'appello ha motivatamente rilevato che l'eventuale
comunicazione dell'addebito sarebbe avvenuto in forma orale. L'art. 7 Stat. lav., per
la natura degli interessi tutelati ' ha affermato la Suprema Corte ' non consente in alcun
modo che tempi, forme e modalità della contestazione disciplinare siano diversi da quelli
espressamente stabiliti dal legislatore, né permette che all'incolpato vengano assicurate
garanzie difensive minori di quelle garantite.
L'opzione per l'indennità di 15 mensilità può esercitarsi prima del deposito della sentenza di annullamento del licenziamento
Giuseppina B. ha chiesto al Pretore di Roma l'annullamento del licenziamento comunicatole dalla Spa Ferrovie dello Stato.Il Pretore ha accolto la domanda ordinando
la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con sentenza il cui dispositivo è
stato letto il 12 marzo 1996 e la cui motivazione è stata depositata l'11 maggio 1996. Con
lettera del 26 marzo 1996 la lavoratrice ha comunicato all'azienda l'esercizio del diritto di
opzione previsto dall'art. 18 quinto comma Stat. lav. Secondo tale norma al lavoratore illegittimamente
licenziato è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione
della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione
globale di fatto, da richiedersi entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della
sentenza di annullamento del licenziamento. La Spa Ferrovie dello Stato non ha pagato
l'indennità richiestale. La lavoratrice ha ottenuto dal Pretore di Roma un decreto ingiuntivo
a carico dell'azienda per il pagamento dell'indennità . L'azienda ha proposto opposizione
sostenendo, fra l'altro, che la lavoratrice non aveva rispettato il termine previsto
dall'art. 18 Stat. lav., in quanto aveva chiesto il pagamento dell'indennità il 26 marzo
1996 ossia prima del deposito della sentenza avvenuto l'11 maggio 1996. Il Pretore ha rigettato
l'opposizione e la sua decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale
di Roma. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
del Tribunale per violazione di legge.
La Suprema Corte (sez. lav. n. 25210 del 28 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Di Cerbo)
ha rigettato il ricorso. Il quinto comma dell'art. 18 Stat. lav. ' ha affermato la Corte ' si limita
a fissare un termine di decadenza per l'esercizio dell'opzione (per l'ovvia esigenza di
contenere in tempi ragionevoli la situazione di incertezza conseguente a una pronunzia di
accoglimento), ma non stabilisce affatto un dies a quo in relazione all'attivazione di quel
potere; in applicazione di tale principio deve ritenersi pienamente valida ed efficace l'opzione
per l'indennità sostitutiva esercitata prima del deposito della sentenza che ha accertato
l'illegittimità del licenziamento e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro.
Le procedure di regolarizzazione e stabilizzazione nella Finanziaria 2007
Tra i 1364 commi dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria per il 2007) rischiano di non trovare adeguata visibilità quelli finalizzati a incentivare
percorsi di regolarizzazione e riallineamento retributivo e contributivo per il «lavoro nero»
ovvero quelli di stabilizzazione in rapporti di lavoro subordinato di prestazioni coordinate
e continuative anche a progetto. In realtà va dato atto a questa tanto vituperata legge Finanziaria
che su tali materie è riuscita a mettere in cantiere proposte che vanno in controtendenza
rispetto a un processo, le cui dimensioni sono nazionali, di espansione del lavoro
precario, attraverso formule che ' quantomeno sulla carta ' potrebbero far convergere
i contrapposti interessi in soluzioni di utilità condivisa. Ma affinché questa opportunità
' che può rivelarsi, lo si ripete, interessante anche per il fronte datoriale ' venga colta
nel breve arco temporale messo a disposizione per godere delle agevolazioni (fino al 30
settembre 2007 per gli accordi di regolarizzazione e fino al 30 aprile 2007 per quelli di stabilizzazione)
è necessario che tutti i soggetti protagonisti dei processi, e prime tra tutte le
organizzazioni sindacali, si attrezzino per garantire sia che il maggior numero possibile dei
lavoratori destinatari dei provvedimenti ne venga a conoscenza, sia che venga rispettata
la libertà di adesione agli accordi da parte dei medesimi sia, soprattutto, che non venga
data per scontata la dismissione di loro diritti. Come si è detto il ruolo delle organizzazioni
sindacali è fondamentale perché a esse (in assenza di Rsa o Rsu) viene attribuito il compito
di stipulare accordi aziendali o territoriali che siano la «cornice» degli accordi individuali
di contenuto transattivo (anche sul pregresso) da sottoscrivere in sede sindacale o
avanti alla Dpl (ai sensi degli artt. 410 e 411 del codice di procedura civile) a fronte dell'assunzione
a tempo indeterminato per non meno di ventiquattro mesi. Dunque le due vicende
(assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e conciliazione
individuale su differenze retributive eventualmente maturate negli anni di «sanatoria
») sono necessariamente connesse, nel senso che non è data la prima senza la seconda,
ferma restando, ovviamente, la possibilità per il lavoratore che non vuole transigere di
rivolgersi all'Autorità giudiziaria.
L'istanza presentata all'Inps ai sensi dei commi 1191 e 1193 dal datore di lavoro privato che
intende regolarizzare del personale «in nero» presuppone quindi un accordo sindacale
che, a mio avviso, nell'alternativa tra dimensione territoriale o aziendale dovrebbe privilegiare
quest'ultima, anche in assenza di rappresentanze sindacali o unitarie (e invero faccio
fatica a immaginare l'esistenza di una rappresentanza sindacale che abbia consapevolmente
tollerato la presenza di lavoratori non in regola): in questo caso è infatti previsto
che a stipularlo siano le organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni nazionali comparativamente
più rappresentative. La dimensione aziendale è del resto suggerita dalla
circostanza che l'istanza deve contenere «le generalità dei lavoratori» che si vogliono regolarizzare,
e i rispettivi periodi oggetto di regolarizzazione, e appare difficile immaginare
un accordo territoriale con una simile specifica indicazione. Lo stesso dicasi per gli accordi
sindacali finalizzati a promuovere la stabilizzazione di contratti a progetto in essere (evidentemente
non con tutti i crismi dell'autonomiaâ?¦) nelle singole aziende, anch'essi stipulabili
dalle rappresentanze aziendali ovvero dalle Oo.Ss. territoriali. Anche se in questo
caso non esiste un elenco di lavoratori, pur tuttavia si presuppone che il sindacato abbia
preventivamente interpellato i co.pro presenti nel luogo di lavoro, recependo l'interesse di
tutti o di alcuni a un percorso di «trasformazione» del contratto a progetto in contratto di
lavoro subordinato. In questo caso l'accordo aziendale dovrà essere tarato su tali specifiche
esigenze, dando agli interessati l'opportunità di utilizzare la «finestra» (che resterà aperta
solo il primo quadrimestre dell'anno 2007) e prevedendo quindi le condizioni oggetto
degli atti di conciliazione individuali che i singoli vorranno sottoscrivere.
Alla luce di tali considerazioni si deve dedurre che le intese territoriali hanno un senso solo
se hanno natura di «intese cornice» delle intese aziendali che a esse devono ispirarsi.
Ma quale deve essere il contenuto delle seconde e/o delle prime? Sia negli accordi di regolarizzazione
che in quelli di stabilizzazione occorrerà innanzi tutto disciplinare, in modo
più preciso possibile, il rapporto futuro, ovverosia il Ccnl applicato, l'inquadramento professionale,
l'ammontare della retribuzione, l'orario di lavoro e la sua articolazione (che dovrebbero
essere tendenzialmente conformi alla situazione precedente), il tipo di contratto
di lavoro subordinato. Infatti anche se vengono previsti incentivi finalizzati a favorire il
contratto di lavoro a tempo indeterminato, la legge non vieta la possibilità di stipulazione
di un contratto a termine (sussistendone i presupposti) né, in ipotesi, di un contratto di
apprendistato (che peraltro non troverebbe giustificazione nel caso in cui, a esempio, una
collaborazione coordinata e continuativa si sia protratta per lungo tempo). È evidente
che non potrà prevedersi un periodo di prova (essendo stato il lavoratore, sia esso non in
regola oppure a progetto, adeguatamente sperimentato) ma sarà anzi opportuno ribadire,
anche se previsto dalla legge (commi 1200 e 1210, rispettivamente per la regolarizzazione
e per la stabilizzazione), la clausola di durata minima garantita per un periodo non
inferiore ai 24 mesi, salve le ipotesi di dimissioni o di licenziamento per giusta causa. L'accordo
sindacale dovrà certo prevedere la regolarizzazione contributiva per il pregresso secondo
quanto previsto dalla legge, vale a dire due terzi di quanto dovuto per le regolarizzazioni
(comma 1196) e la metà della quota di contribuzione a carico del committente, nella
misura dovuta anno per anno per le stabilizzazioni (comma 1205; il comma 1206 prevede
poi risorse aggiuntive da parte dell'Inps fino a copertura totale della contribuzione)
con le modalità ivi previste (un quinto subito e il resto in sessanta rate mensili senza interessi
per le regolarizzazioni; un terzo subito e il resto in trentantesei rate mensili per le
stabilizzazioni).
Come si è visto l'accordo sindacale dovrà prevedere anche che il verbale di conciliazione
individuale regolamenti in via transattiva il pregresso. Non si tratta, in questo caso di un
«obbligo a contrarre» ovvero a transigere, bensà di un onere a trattare la conciliazione:
nessuna delle due parti è infatti costretta a farlo, ma ciascuna di esse è indotta alla trattativa
per poter conseguire, rispettivamente, un vantaggio. Non va infatti dimenticato che
il datore di lavoro, oltre a preservarsi dal rischio di ben più pesanti sanzioni per le passate
(eventuali) omissioni contributive, trae dall'accordo un'utilità non indifferente anche
per il futuro, ove l'assunzione avvenga a tempo indeterminato: è infatti previsto che egli
usufruisca del cd. «cuneo fiscale» ovvero di un notevole abbattimento forfetario della base
imponibile Irap (aumentato fino a cinque o sette volte in caso di assunzione di personale
femminile) nonché di una significativa deduzione dei contributi Inail. Essendo quindi
l'accordo individuale nell'interesse di entrambi i contraenti, questo consente al lavoratore
e a chi lo rappresenta di far valere le proprie ragioni e le proprie rivendicazioni da posizioni
di non subalternità : l'oggetto della transazione, e la quantificazione di quanto riconosciuto
a titolo di risarcimento per il pregresso (da zero a cento) sarà quindi il risultato
dei rapporti di forza, e misurerà l'interesse che ognuno avrà per l'accordo. Il lavoratore, da
parte sua, dovrà considerare che, scaduti i termini rispettivamente del 30 aprile e del 30
settembre 2007, verrà meno questa opportunità di «forzare» la decisione del datore di lavoro
e di conseguire in tempi rapidi il risultato non indifferente di avere un rapporto di lavoro
subordinato per almeno un biennio, con la copertura contributiva integrale (per gli
accordi di stabilizzazione) o per 2/3 (per gli accordi di regolarizzazione) per tutto il periodo
pregresso «non in regola». Il (forse) migliore risultato potrà infatti essere conseguito
solo all'esito di una probabilmente lunga controversia giudiziaria individuale, nella quale
graverà sul lavoratore l'onere di dimostrare, attraverso una approfondita istruttoria, la
sussistenza degli indici di subordinazione pretesi dalla giurisprudenza (prova che invece
non dovrà essere fornita nelle procedure di regolarizzazione e stabilizzazione, che avvengono
con il consenso della controparte).
Come potrà il sindacato farsi parte attiva per «dare gambe» agli accordi previsti dalla legge
n. 296/06?
Innanzi tutto con una capillare attività di informazione che intercetti il lavoro irregolare
per stimolare la denuncia al sindacato o alla Direzione del lavoro (l'esperienza ci insegna
che ciò normalmente avviene a rapporto risolto). Ma presumo che gli accordi di regolarizzazione
saranno nella maggior parte delle volte sollecitati dai Servizi ispettivi ministeriali
in occasione di controlli e ispezioni, ovvero dallo stesso datore di lavoro che si
trova in tale situazione, nel tentativo di evitare di pagare integralmente i contributi evasi,
oltre alle sanzioni di legge. Dal momento che ' come si è detto ' il datore di lavoro,
per la presentazione dell'istanza di cui al comma 1192, deve aver proceduto alla stipula
di un accordo sindacale (aziendale o territoriale) indicando i nominativi dei lavoratori
che intende mettere in regola, è certamente questo il momento per verificare se esistono
margini per conseguire qualche risultato ulteriore rispetto al semplice impegno
all'assunzione, con particolare riferimento alle retribuzioni pregresse, tenendo conto
che l'accordo individuale produce effetto conciliativo con riferimento ai diritti di natura
retributiva, a quelli «a essa connessi» e a quelli di natura risarcitoria (comma 1194) per
i periodi oggetto di regolarizzazione. Un lavoro più incisivo e mirato, di natura preventiva,
potrà e dovrà certamente essere fatto per promuovere la stabilizzazione dell'occupazione
a carattere subordinato, sia nei confronti dei lavoratori «autonomi» (magari
con contratto a progetto) iscritti alla gestione separata dell'Inps, dipendenti economicamente
da un solo committente, che utilizzano i suoi strumenti di lavoro e non partecipano
al rischio d'impresa, sia nei confronti dei committenti-datori di lavoro per i quali
viene resa la prestazione lavorativa. Sia gli uni che gli altri sono consapevoli trattarsi
di una «realtà a rischio» che nella migliore delle ipotesi si colloca nella zona grigia tra
autonomia e subordinazione. Anche in considerazione del fatto che il programma dell'attuale
Governo tende col tempo a ridurre a zero il vantaggio di costo contributivo rispetto
al lavoro subordinato, con la legge Finanziaria per il 2007 viene data a committenti
e collaboratori una possibilità di sanare, oggi, tale situazione, senza necessità di
un accertamento giudiziale.
Occorre pertanto in primo luogo individuare i soggetti potenzialmente interessati: e
questo è un risultato facilmente raggiungibile accedendo ' appunto ' territorio per territorio,
alla lista delle imprese che versino i contributi dei loro collaboratori nella gestione
separata dell'Inps. A dette imprese dovrebbe essere inviata una comunicazione
' calibrata nei toni in modo da non farli risultare estorsivi ' di semplice informativa sui
vantaggi che la legge offre loro ove i propri collaboratori siano a loro volta interessati a
una trasformazione-stabilizzazione del loro contratto in contratto di lavoro subordinato.
Va considerato che le realtà con cui avremo a che fare possono spaziare dal professionista
con uno o due collaboratori a progetto alla grande impresa (magari di call center,
ma non solo) con centinaia di addetti. Nelle realtà di dimensioni più ridotte è prevedibile
che, se il contatto ha buon esito, si possa avere un quadro dei nominativi dei
collaboratori eventualmente interessati alla stabilizzazione: in questa ipotesi, dopo aver
parlato direttamente con i co.pro e verificato la loro opzione per un assunzione stabile,
l'accordo potrebbe anche indicare i loro nominativi ' analogamente a quanto previsto
per l'istanza di regolarizzazione di cui ai commi 1192 e 1193 ' o comunque richiamare
genericamente le corrispondenti figure professionali e le condizioni di cui all'assunzione.
Nelle realtà con decine o centinaia di collaboratori, invece, dovendo gli accordi
di stabilizzazione essere impostati come opportunità per tutti i co.pro che ne abbiano
interesse, essi potrebbero avere, a mio avviso, la struttura dell'«offerta al pubblico
» prevedendo quindi una offerta (che non possiamo pretendere abbia natura confessoria
sulla pregressa irregolarità ) rivolta ai co.pro che ne facciano richiesta e si dichiarino
disponibili a sottoscrivere la conciliazione individuale, di assunzione a tempo
indeterminato da parte del committente.
A questo proposito dobbiamo mettere nel conto che potremmo imbatterci in un notevole
numero di collaboratori non minimamente sfiorati dall'idea di diventare lavoratori
dipendenti: in tale ipotesi peraltro è previsto che, anche attraverso accordi interconfederali,
vengano adottate «misure atte al corretto utilizzo delle predette tipologie di lavoro
nonché stabilire condizioni più favorevoli per i collaboratori». In merito è il caso di
rammentare che il comma 772 ha previsto che per valutare la congruità dei compensi
corrisposti ai lavoratori «iscritti alla gestione separata» dovrà tenersi conto anche «dei
contratti collettivi nazionali di riferimento»: si apre quindi uno spazio, per la contrattazione
collettiva, di negoziazione dei compensi minimi dei collaboratori para-subordinati
con dei parametri (quelli dei lavoratori subordinati) che non possono essere violati al
ribasso.
È quindi possibile, se verrà fatto un buon lavoro di informazione, immaginare (con l'ottimismo
della volontà â?¦) uno scenario in cui, a fronte di una forbice sempre più stretta di
«risparmio» sia sotto il profilo contributivo sia sotto il profilo dei compensi, molti datori
di lavoro-committenti colgano l'occasione loro fornita dalle nuove disposizioni per sanare
quelle situazioni in cui i contratti di collaborazione coordinata e continuativa resi illegittimi
dal decreto legislativo n. 276/2003 erano stati impropriamente travasati in contratti
a progetto in assenza dei presupposti previsti. Ove ciò non avvenga, nei confronti
di quanti decideranno di continuare a operare nella irregolarità , è auspicabile un più incisivo
intervento dei ' potenziati (cfr. commi 544 e 545) ' Servizi ispettivi del ministero
del Lavoro.
Pubblicazione delle graduatorie dei disabili
La Regione Puglia ha pubblicato nel proprio Bollettino ufficiale consultabile anche via Internet sul sito web della Regioneun avviso pubblico di approvazione di
tre graduatorie di persone disabili per corrispondere loro un contributo per l'acquisto di
personal computer. Tali graduatorie riportavano il nome e cognome dei disabili che hanno
presentato domanda alla regione di concessione del contributo per l'acquisto di personal
computer e di relativi ausili, nonché i motivi di esclusione dalla concessione del beneficio
(es. «disabilità non grave», «disabilità non uditiva»). Sono stati «mascherati» sul
sito i dati relativi al codice fiscale, al comune di residenza e alla data di nascita dei disabili;
gli stessi dati sono, tuttavia, visibili integralmente senza limitazioni di sorta, sulla base
della semplice visualizzazione del testo del documento, se trasposto sul personal
computer dell'utente mediante l'utilizzo di un word processor. Considerato che in tal modo
indirettamente viene operata una diffusione di dati idonei a rivelare lo stato di salute
degli interessati, il Garante ha vietato alla Regione Puglia, ai sensi degli artt. 143, comma
1, lett. c) e 154, comma 1, lett. d), del codice, la diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato
di salute dei soggetti disabili conoscibili mediante la consultazione del Bollettino ufficiale
della Regione.
Privacy, indagini aziendali e contestazioni disciplinari
A un dipendente di un istituto di credito è stato contestato disciplinarmente di aver prestato,durante un periodo di assenza dal servizio per malattia (legata a un intervento
chirurgico subito a un ginocchio), «attività non compatibili con lo stato di malattia
certificato» (ovvero per aver prestato la sua opera in favore di una società di cui la moglie
è socia, utilizzando anche uno scooter). Il lavoratore ha proposto ricorso al Garante
con cui ha chiesto all'impresa datrice di comunicare l'origine dei dati personali afferenti il
presunto svolgimento di un'attività lavorativa, le finalità e le modalità del trattamento, la
logica applicata in caso di trattamento effettuato mediante l'ausilio di strumenti elettronici,
gli estremi identificativi del titolare e del responsabile del trattamento, se designato,
nonché i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati possono essere comunicati. Ritenendo
che tali informazioni personali siano state raccolte in violazione di legge, il lavoratore
si è opposto all'ulteriore trattamento dei dati, chiedendo anche il blocco dello stesso.
L'azienda datrice ha controdedotto di aver effettuato dei controlli effettuati attraverso
una agenzia investigativa autorizzata al fine di verificare i comportamenti tenuti dal lavoratore
in occasione di un periodo di assenza dal lavoro per certificata malattia; tali controlli
non avrebbero invece riguardato aspetti in alcun modo afferenti lo stato di infermità
denunciato. L'azienda ha inoltre affermato di ritenere lecita la mancata comunicazione
delle informazioni richieste dal lavoratore in considerazione del fatto che gli accertamenti
effettuati rappresentano il materiale probatorio sulla base del quale la banca intende
sostenere le proprie ragioni in giudizio. L'art. 8, comma 2, lettera e), del codice della privacy
consentirebbe appunto il temporaneo differimento dell'esercizio dei diritti di accesso
ai propri dati personali per il periodo durante il quale potrebbe derivarne pregiudizio
per lo svolgimento delle cd. «indagini difensive» o, comunque, per far valere un diritto in
sede giudiziaria. Il Garante ha disatteso quest'ultima difesa dell'azienda convenuta in
quanto la stessa non ha fornito elementi concreti volti a giustificare il differimento dell'esercizio
dei diritti di accesso esercitati dal ricorrente, avendo dichiarato, in modo generico,
solo che «un pregiudizio» potrebbe derivarle dalla comunicazione dei dati personali
del ricorrente raccolti dall'agenzia di investigazione. Il ricorso è stato dunque accolto limitatamente
alla richiesta dell'interessato di conoscere gli estremi identificativi del responsabile
del trattamento, nonché i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati possono
essere comunicati. Il Garante ha invece dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso
ai sensi dell'art. 149, comma 2, del codice in ordine alle richieste di conoscere l'origine
dei dati e le modalità , le finalità e la logica del trattamento, nonché gli estremi identificativi
del titolare, avendo la resistente fornito su tali punti un sufficiente riscontro. Infine, il
Garante ha dichiarato infondate la richiesta di blocco e l'opposizione all'ulteriore trattamento
dei dati personali in questione, dal momento che non è risultato che lo stesso sia
stato effettuato in violazione di legge. I dati personali raccolti ' senza il consenso dell'interessato
alla luce di quanto previsto dall'art. 24, comma 1, lett. f), del codice ' non sono
risultati essere stati trattati in violazione del principio di pertinenza e non eccedenza rispetto
alla finalità di tutelare il diritto della società al corretto adempimento delle obbligazioni
derivanti dal rapporto di lavoro. Quanto alla ritenuta violazione delle disposizioni
di cui alla legge n. 300/1970, il Garante ha rilevato che, in diverse occasioni, la giurisprudenza
di legittimità ha affermato che le disposizioni sul divieto di accertamenti del datore
di lavoro circa l'infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente non precludono
al datore stesso la possibilità di contestare le risultanze di accertamenti sanitari «anche
valorizzando ogni circostanza di fatto ' pur non risultante da un accertamento sanitario
' atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a
determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza, quale in
particolare lo svolgimento di un'altra attività lavorativa». Alla luce di ciò è stata quindi riconosciuta
la «facoltà del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti
del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento dell'attività lavorativa, sono rilevanti
sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di
lavoro». Tale facoltà ' come ribadito dal Garante in una recente decisione (cfr. provv. del
9 novembre 2006) ' può essere esercitata anche per mezzo del lecito utilizzo dell'attività
di un'agenzia investigativa privata, laddove la stessa non sia volta ' come vietato dall'art.
5 della legge n. 300/1970 ' ad accertare l'idoneità e l'infermità per malattia o infortunio
del lavoratore dipendente, limitandosi piuttosto, come risulta dagli atti nel caso di specie,
alla sola osservazione di comportamenti esteriori potenzialmente e apparentemente incompatibili
con lo stato di malattia (cfr. Cass. 3 maggio 2001, n. 6236). Il Garante ha precisato
che la constatata infondatezza sia della richiesta di blocco, sia dell'opposizione all'ulteriore
trattamento, lasciano comunque impregiudicata la facoltà del ricorrente di far
valere nella competente sede giudiziaria i profili relativi alla fondatezza della contestazione
disciplinare ricevuta.
Rilevanza della causa dello sciopero ai soli fini della quantificazione della sanzione
La Commissione ha sanzionato una organizzazione sindacale del settore trasporti per uno sciopero indetto senza alcun preavvisoquando i dipendenti di un'azienda
del settore, al loro ingresso in azienda, hanno trovato affisso un ordine di servizio
del tutto illegittimo in quanto contrario a precedenti accordi sindacali. Sebbene l'azienda,
consapevole dell'errore compiuto, non abbia adottato alcun provvedimento nei confronti
dei lavoratori, ma abbia retribuito la giornata come lavorativa, la Commissione ha ritenuto
' conformemente a una sua precedente decisione (cfr. delibera n. 59/2005) ' che il fatto
che l'astensione improvvisa dal lavoro sia stata cagionata da ordine di servizio illegittimo
non costituisce causa di giustificazione, in quanto le cause di insorgenza del conflitto
sono meritevoli di considerazione ai fini della graduazione della sanzione, ma non esonerano
le parti sociali dal rispetto delle previsioni della a legge 146/1990.
Quantificazione del personale da comandare
Le segreterie nazionali di Filt-Cgil, Uiltrasporti, Fist-Confail e Ugl hanno denunciato alla Commissione il comportamento dell'azienda Aci Global Spa di Roma,la
quale in occasione di uno sciopero nazionale ha comandato in servizio ' presso le centrali
operative e telefoniche di Roma e Milano e del Ciss viaggiare informati ' un numero di
dipendenti (93 unità su 203, pari a quasi il 50% del personale mediamente impiegato)
«abnorme» rispetto all'esigenza di garantire il soccorso meccanico in autostrada, secondo
quanto previsto dalla regolamentazione di settore. L'azienda si è giustificata deducendo
che tali livelli di presenza del personale erano indispensabili alla garanzia della funzionalità
delle centrali operative, non potendosi assicurare, al di sotto di quella soglia minima
di personale comandato, alcun servizio, con conseguente grave pregiudizio per l'utenza.
La Commissione ha sanzionato la condotta dell'azienda perché le comandate sono
risultate eccessive con riferimento all'esigenza di garantire il soccorso autostradale. Ad
avviso della Commissione, l'assenza di un sistema di smistamento delle chiamate volto a
differenziare le richieste di intervento in autostrada da quelle in strade stradali, con conseguente
impossibilità di quantificare la consistenza delle chiamate attribuibili a ogni tipo
di soccorso, non poteva essere invocata dall'azienda a giustificazione dell'eccessiva
quota di personale comandato in servizio; poiché il solo soccorso autostradale deve cosiderarsi
servizio essenziale da garantire, l'azienda era tenuta all'adozione di strumenti che
consentano la differenziazione delle chiamate di soccorso.
Versamento da parte dello Stato membro del compenso dovuto a un’agenzia privata di collocamento a seguito di un'assunzione
Libera circolazione dei lavoratori – Indennità giornaliere di malattia e reddito netto determinato dalla categoria fiscale
Tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro – Regimi complementari di previdenza
Licenziamento individuale – Requisito della tempestività – Sussistenza – Giusta causa di licenziamento – Insussistenza
Licenziamento per giusta causa – Mancato adempimento obbligo derivante da accordo aziendale – Prevalenza su diritto alla pri
Individuazione del datore di lavoro
In un contesto costituito da una pluralità di soggetti religiosi collegati, il collaboratore assunto dall'economo di una famiglia religiosa resta dipendente di quest'ultimo, anche se utilizzato occasionalmente, in regime di comando o distacco presso la comunità di appartenenza dell'economo, o presso un istituto scolastico da essa gestito. Il Tribunale ha dichiarato la carenza di legittimazione passiva dell'Istituto convenuto in giudizio in una controversia avente a oggetto la regolarizzazione economica e previdenziale del rapporto.
Licenziamento individuale per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione – Lesione all’identità professionale
Lavoro pubblico – Mobilità del personale – Illegittimità dell’assegnazione – Potere autotutela della Pubblica amminist
Licenziamento individuale – Ordine di reintegrazione - Diritto alla ripresa delle stesse mansioni nella stessa sede precedente
Opposizione a decreto ingiuntivo
In relazione a un decreto ingiuntivo emesso dal giudice del lavoro del Tribunale di Treviso,con il quale era stato ingiunto alla ditta debitrice, in solido con l'effettiva
datrice di lavoro degli istanti, alcune somme dagli stessi rivendicate, l'odierna
opponente deduceva che le buste paga dimesse dai lavoratori non costituivano prova
dei crediti azionati; che non trovasse applicazione l'art. 29 d.lgs. 276/03 in ordine alla
obbligazione solidale tra committente e appaltatore per i trattamenti retributivi e
previdenziali spettanti ai lavoratori; che la solidarietà era comunque esclusa per le indennità
di maternità e malattia, dovute dall'Inps. I lavoratori si costituivano sostenendo
sia il valore confessorio delle buste paga in ordine alla esistenza e alla entità del
debito che la sussistenza di una responsabilità solidale tra committente e appaltatore
per le retribuzioni e indennità maturate dai lavoratori nel corso dell'appalto. Assunte
le prove testimoniali e riformulati i conteggi, il giudice accoglieva la domanda, confermando
in primo luogo il carattere confessorio delle indicazioni riportate sui prospetti
paga consegnati ai dipendenti, citando sul punto la sentenza n. 739/93 della Suprema
Corte.
In ordine ala solidarietà esistente tra appaltante e committente, secondo il giudicante
non vi era dubbio che nel caso di specie trovasse applicazione l'art. 29, 2° comma,
d.lgs. 276/03; infatti, dalla documentazione in atti e dalla prova per testi era indiscutibile
il fatto che tra la opponente e la ditta datrice di lavoro degli istanti fossero intercorsi
diversi contratti di appalto di servizi. Il vincolo di solidarietà , veniva precisato, deve
essere operante per tutte le somme richieste dai lavoratori, ivi compreso il trattamento
di fine rapporto, posto che gli opposti avevano reso tutta la loro prestazione
presso lo stabilimento della committente, a eccezione delle indennità di malattia e maternità
dovute dall'Inps. Riformulate pertanto in corso di causa le richieste economiche
degli istanti, entrambe le società in base al principio sopra espresso sono state
condannate a corrispondere ai lavoratori gli emolumenti stipendiali precisati secondo
quanto emerso dalla nuova quantificazione dei conteggi prodotti.
La Cassazione ribadisce le ripetibilità delle somme erogate in caso di riforma della sentenza di reintegra
A seguito di una riforma in appello di una decisione che aveva disposto la reintegra nel posto di lavoro del dipendentel'azienda conveniva in giudizio il proprio ex
dipendente al fine di vedere ripetute le somme versate in ottemperanza all'ordine di reintegra.
Nel costituirsi in giudizio il lavoratore richiamava la giurisprudenza della Suprema
Corte che in passato aveva ritenuto l'irripetibilità delle somme versate a titolo di retribuzioni
maturate tra la sentenza di reintegra e la sentenza di riforma. La Corte di Cassazione,
adita dal dipendente, soccombente in tutti i gradi di giudizio, ha invero, affermato che
il nuovo testo dell'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 attribuisce chiaramente alle somme
dovute dal datore di lavoro il carattere di risarcimento dovuto solo ed esclusivamente
in presenza di un fatto ingiusto costituito appunto dal licenziamento illegittimo. In caso di
riforma, quindi, le somme prive di titolo devono essere ripetute dal lavoratore.
La sentenza che decide in via pregiudiziale l’interpretazione del ccnl può essere pronunciata solo nel giudizio di primo grad
Giurisdizionale per le controversie di contenuto patrimoniale dei dipendenti di ambasciate
Una lavoratrice dipendente di un'ambasciata straniera in Italia adiva il Tribunale di Roma allo scopo di vedere condannare lo Stato esteroal pagamento di una somma a titolo di differenze retributive. Nel costituirsi in giudizio l'ente sovranazionale
contestava la giurisdizione e la domanda della dipendente veniva dichiarata inammissibile
nei giudizi di merito. La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso della dipendente
ha ricordato la propria giurisprudenza in forza della quale il in caso di controversie inerenti
al rapporto di lavoro del personale italiano e straniero operante alle dipendenze di stati esteri
in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione esclusivamente allorché la pronuncia comporti
interferenze nell'organizzazione dell'ente non è viceversa invocabile con riferimento
alle richieste aventi a oggetto il pagamento di somme per differenze retributive.
La Cassazione limita il diritto al trasferimento del lavoratore che assiste un disabile
La Suprema Corte ha accolto un ricorso promosso da un ente pubblico avverso la sentenza della Corte di Appello di Catanzaroche aveva accertato il diritto di un lavoratore
a essere riavvicinato dopo l'assunzione al domicilio della persona disabile. Nel
cassare la decisione la Corte ha ritenuto che il lavoratore assegnato lontano da casa non
può invocare, per essere trasferito, il diritto di assistenza di un familiare handicappato
quando abbia appena accettato il posto e per questo temporaneamente interrotto la convivenza.
«In materia di assistenza alle persone handicappate» ' afferma infatti la Suprema
Corte ' «la norma contenuta nell'articolo 33, comma quinto, della legge 104/92, sul diritto
del genitore o familiare lavoratore che assista con continuità un parente o un affine
entro il terzo grado handicappato di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al
proprio domicilio, non è applicabile nel caso in cui la convivenza sia stata interrotta per effetto
dell'assegnazione, al momento dell'assunzione, della sede lavorativa e il familiare
tenda successivamente a ripristinarla attraverso il trasferimento in una sede vicina al domicilio
dell'handicappato».
La negazione di un fatto in sede di procedimento disciplinare non costituisce violazione del dovere di fedeltà
Un'azienda contestava a un lavoratore l'aver affermato in violazione al dovere di fedeltà una circostanza non veritieranel corso di un precedente procedimento disciplinare.
Nel giudizio promosso avverso dal lavoratore avverso il provvedimento di licenziamento,
scaturito dalla seconda contestazione, il Tribunale di Genova dichiarava la
illegittimità del licenziamento. La sentenza veniva riformata dalla locale Corte di Appello
che riteneva la condotta del lavoratore lesiva del principio di correttezza e buona fede escludendo
che il diritto di non autoaccusarsi legittimasse una «rappresentazione di circostanze
sostanzialmente false». La Suprema Corte nel cassare la decisione del giudice di
appello ha ritenuto violato il principio della proporzionalità nella decisione dichiarativa
della legittimità del licenziamento. Nell'affermare la centralità del diritto di difesa del lavoratore
la Corte di Cassazione ha ritenuto che il diritto di difesa «valore essenziale per la
persona del lavoratore» non può ridursi a «un'utopistica attività difensiva di cui all'antica
tralaticia definizione del difensore quale vir bonus dicendi».
Le affermazioni contenute in uno scritto difensivo non possono costituire una giusta causa di licenziamento
Un lavoratore nel corso di un giudizio avverso una sanzione disciplinare promosso da un istituto di creditonel difendersi in giudizio deduceva nel proprio scritto
difensivo pesanti accuse e sospetti all'azienda. A seguito delle affermazioni contenute l'istituto
di credito intimava al lavoratore il suo licenziamento. Con sentenza del Tribunale
di Udine, confermata in sede di appello, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo. La
Corte di Cassazione, nel confermare la decisione dei giudici di merito ha ritenuto che la
memoria è un atto difensivo riconducibile a una difesa tecnica e quindi innanzi tutto al difensore,
ancorché risulti sottoscritta anche dalla parte. L'eventuale presenza di frasi sconvenienti
' prosegue la Corte ' trova la sua disciplina nell'art. 89 cod. proc. civ., che prevede
in capo al magistrato il potere di stralcio e condanna a una somma a titolo di risarcimento
danno non patrimoniale quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto
della causa. Il Collegio ha altresà richiamato la non punibilità in sede penale delle offese
contenute in scritti difensivi. In forza di tali principi la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta
la decisione dei giudici di appello affermando che l'esercizio del diritto di difesa ha
comunque carattere scriminante.
Opposizione a decreto ingiuntivo contributivo
In caso di opposizione a decreto ingiuntivo in materia contributiva,il ricorso deve
essere depositato in cancelleria e non può essere recapitato attraverso il servizio postale,
come avviene, invece, per l'ordinanza-ingiunzione. Cosà la Corte costituzionale ha
dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità degli articoli 415 e 645 del
codice di procedura civile. A sollevare la questione era stata la Cassazione nella parte in
cui le norme non consentono la proposizione del ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo
' emesso su richiesta di ente previdenziale per crediti aventi a oggetto contributi omessi
e relative sanzioni ' anche attraverso l'utilizzo del servizio postale per il deposito in
cancelleria. La Corte ha chiarito che l'ente previdenziale, per la riscossione di crediti aventi
a oggetto contributi omessi e relative sanzioni, ha la possibilità di scegliere fra l'ordinanza-
ingiunzione, il cui ricorso di opposizione può essere inviato attraverso il servizio postale,
e il decreto ingiuntivo la cui opposizione può essere proposta attraverso il ricorso
depositato direttamente in cancelleria. Inoltre, a parere della Corte, l'introduzione della
possibilità di utilizzare il servizio postale nel processo di lavoro, caratterizzato da una
struttura piuttosto complessa, finirebbe da un lato per incidere negativamente sul funzionamento
del sistema processuale e dall'altro determinerebbe una irragionevole disparità
di trattamento tra controversie soggette allo stesso rito.
Apprendistato, formazione e competenze regionali
Contratto di apprendistato: la disciplina delle regole per la formazione da impartire all'interno delle aziende spetta allo Stato,mentre la disciplina esterna rientra
nelle competenze delle Regioni. La Corte costituzionale ha cosà dichiarato non fondate
le questioni di legittimità delle impugnate leggi regionali. A sollevare le questioni era
stata la presidenza del Consiglio dei ministri nella parte in cui le norme prevedono come
compiti riservati alla Regione la valorizzazione e la certificazione dei profili formativi dei
contratti di apprendistato e l'individuazione dei criteri e requisiti di riferimento per la capacità
formativa delle imprese. La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione,
ha affermato che «mentre la formazione da impartire all'interno delle aziende attiene
precipuamente all'ordinamento civile, la disciplina di quella esterna rientra nella
competenza regionale in materia di istruzione professionale, con interferenze però con altre
materie, in particolare con l'istruzione, per la quale lo Stato ha varie attribuzioni: norme
generali, determinazione dei principi fondamentali».