1 / 2007
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Descrizione
Apprendistato e formazione: la Consulta definisce le competenze regionali La Cassazione esclude l'applicabilità dell'art. 420-bis cod. proc. civ. in appello Le tutele dei lavoratori in sede comunitaria in caso di insolvenza del datore di lavoro
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Una sentenza penale di condanna riportata dal lavoratore in primo grado non è sufficiente a giustificare il suo licenziamento
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G.B. e L.Z., dipendenti dalla Spa Poste italiane con qualifica di operatori di gestione sono stati licenziati in tronco,nell'ottobre del 1998, con l'addebito di essere stati sottoposti a processo penale con l'imputazione di avere commesso, presso la loro abitazione, nel gennaio del 1998, il reato di violenza sessuale ai danni di una donna che aveva sporto denuncia penale per l'accaduto. Il pretore di Ancona, con provvedimento di urgenza emesso nel novembre 1998 ha ordinato all'azienda di reintegrare il due dipendenti nel posto di lavoro in quanto ha ritenuto che la sola instaurazione di un processo penale a loro carico fosse insufficiente a determinare la rottura del vincolo fiduciario posto a base del rapporto. Il giudizio è proseguito per la decisione sul merito. L'azienda ha in un primo momento reintegrato i lavoratori, ma quando, nell'aprile 1999, il Tribunale penale di Ancona li ha condannati per il reato di violenza, li ha nuovamente estromessi. Essa ha fatto presente al giudice del lavoro questi nuovi sviluppi e gli ha chiesto di dichiarare la legittimità  del licenziamento intimato nel settembre del 1998 o in subordine di accertare la definitiva risoluzione del rapporto con effetto dalla data della sentenza penale di condanna. L'azienda ha chiesto di essere ammessa a provare con testimoni che i due dipendenti erano stati sottoposti a procedimento penale con l'imputazione di violenza sessuale, che la vicenda ebbe eco nella stampa locale e che i giornali evidenziarono la qualifica di impiegati postali rivestita dai lavoratori, che successivamente intervenne la sentenza di condanna di primo grado, la quale ebbe vasta risonanza nella stampa. Il Tribunale di Ancona, giudice del lavoro, non ha ammesso la prova e, con sentenza emessa nel febbraio 2001, ha annullato il licenziamento, confermando l'ordine di reintegrazione dei due impiegati nel posto di lavoro. La decisione è stata motivata con il rilievo che nessuna prova era stata offerta in ordine all'effettivo svolgimento dei fatti e alla responsabilità  dei due dipendenti. La Corte d'Appello di Ancona ha confermato questa decisione osservando che l'essere accusati di un grave reato e anche l'essere condannati in primo grado con sentenza non definitiva non costituiva prova sufficiente della responsabilità . L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Ancona per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha lamentato, tra l'altro, la mancata ammissione della prova offerta. La Suprema Corte (sez. lav. n. 21409 del 5 ottobre, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha rigettato il ricorso, rilevando, tra l'altro, l'inammissibilità  delle censure relative alla mancata ammissione della prova; sul punto ' ha osservato ' il motivo di ricorso è inammissibile, per mancanza di autosufficienza, in quanto non sono riportati i capitoli dell'interrogatorio formale e della prova per testimoni, non ammessi perché ritenuti inidonei a provare i fatti oggetto di contestazione posti a base del licenziamento disciplinare; invero, il ricorrente per cassazione il quale denunci vizi della sentenza correlati al rifiuto del giudice di merito di dare ingresso ai mezzi istruttori ritualmente introdotti oppure l'omessa valutazione da parte dello stesso di una certa deposizione, ha l'onere da un lato di dimostrare l'esistenza di un nesso eziologico tra l'errore addebitato al giudice e la pronuncia emessa in concreto che senza quell'errore sarebbe stata diversa, al fine di consentire al giudice di legittimità  un controllo sulla decisività  delle prove e, dall'altro, di indicare specificamente nel ricorso le deduzioni di prova che asserisce disattese onde consentire al giudice di legittimità  la verifica, sulla base di tale atto di impugnazione e senza necessità  di inammissibili indagini integrative, della validità  e della decisività  delle disattese deduzioni. Dalla sentenza impugnata ' ha rilevato la Corte ' emerge che la condotta ascritta ai due dipendenti non risulta provata, non solo perché la sentenza di condanna penale non è divenuta definitiva, ma anche «perché nessuna ulteriore prova della verità  dei fatti stessi è stata data dal datore di lavoro, che neppure ha sottoposto alla valutazione del giudice le risultanze probatorie raccolte nel giudizio penale e che non ha provocato la formazione di autonome prove, vertenti sul fatto, in sede civile».
Se un lavoratore in c.f.l. di fresatore viene impiegato come operaio comune il contratto si converte in a tempo indeterminato
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Riccardo G. è stato assunto alle dipendenze della Spa Bi Marmi, nell'aprile del 1997, con contratto biennale di formazione e lavoroper lo svolgimento della mansioni di fresatore. Dopo avere svolto per circa due anni tali mansioni, egli è stato destinato ad attività  varie di operaio comune. Inoltre l'azienda ha del tutto omesso la formazione teorico-pratica del lavoratore, mentre la lettera di assunzione prevedeva lo svolgimento di tale attività  per un minimo di 120 ore. Alla scadenza del biennio di durata del contratto, l'azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Trani di dichiarare che il rapporto di lavoro doveva ritenersi a tempo indeterminato e di condannare l'azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro in base all'art. 18 Stat. lav. e a corrispondergli la retribuzione maturata con effetto dalla cessazione del rapporto. Il Tribunale ha accolto soltanto la domanda di accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Questa decisione è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Bari che ha condannato l'azienda a pagare la retribuzione maturata con effetto dalla data della notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. La sentenza della Corte di Bari è stata impugnata con ricorso per cassazione sia dall'azienda che dal lavoratore; quest'ultimo ha sostenuto di avere messo in mora l'azienda prima dell'inizio del giudizio davanti al Tribunale mediante la richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione e di avere pertanto diritto alla retribuzione con effetto dalla data di questa richiesta. La Suprema Corte (sez. lav. n. 21639 del 9 ottobre 2006 Pres. Sciarelli, Rel. Di Cerbo) ha rigettato entrambi i ricorsi. La Corte di Bari ' ha osservato la Cassazione ' si è uniformata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità  secondo cui in tema di contratto di formazione e lavoro l'inadempimento degli obblighi di formazione determina la trasformazione fin dall'inizio del rapporto in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, qualora l'inadempimento abbia un'obiettiva rilevanza, concretizzandosi nella totale mancanza di formazione, teorica e pratica, ovvero in un'attività  formativa carente o inadeguata rispetto agli obiettivi indicati nel progetto di formazione e quindi trasfusi nel contratto. Nella specie la Corte di Bari ' ha osservato la Cassazione ' ha accertato, in base a una valutazione di fatto basata su una motivazione congrua e priva di vizi logici, che sussistevano i presupposti per la conversione del rapporto de quo; in particolare, da un lato, è emerso che il lavoratore è stato adibito alle mansioni specifiche di fresatore, per le quali era stato stipulato il contratto di formazione e lavoro, solo per un paio di mesi (su una durata del contratto di due anni) essendo stato destinato, invece, alle più svariate attività  esistenti in azienda per il restante periodo; dall'altro, la Corte ha osservato che il progetto previsto nel contratto di formazione e lavoro prevedeva un minimo di 120 ore di formazione teorico-pratica nell'arco temporale di 24 mesi e che tale profilo della formazione era stato omesso del tutto. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile l'impugnazione del lavoratore osservando che nel ricorso egli non aveva precisato in quale atto del giudizio di merito aveva posto la questione della messa in mora mediante richiesta di esperimento del tentativo preventivo di conciliazione.
L'accertamento della subordinazione di lavoratori in nero può motivarsi in base alle prestazioni dei dipendenti
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Francesco A. e altri hanno lavorato presso la Get Spa, esercente attività  esattoriale, come ufficiali di riscossione,ininterrottamente dal 1992 al 1996. Nei primi due anni essi hanno lavorato in base a contratti di lavoro autonomo, mentre dal 1994 sono stati assunti come dipendenti con contratti a tempo determinato, alla scadenza dei quali, nel 1996, l'azienda ha cessato di impiegarli. Essi hanno chiesto al Tribunale di Catanzaro di accertare che nella fase iniziale del rapporto, dal 1992 al 1994, avevano lavorato in condizioni di subordinazione e che pertanto i termini di durata apposti ai successivi contratti di lavoro a tempo determinato dovevano ritenersi nulli, con conseguente loro diritto a essere mantenuti in servizio anche nel periodo successivo e a percepire la retribuzione. La domanda è stata proposta anche nei confronti della società  Etr, subentrata alla Get nell'attività  esattoriale. Il Tribunale di Catanzaro, dopo avere sentito alcuni testi, ha rigettato il ricorso in quanto ha escluso che nel periodo dal 1992 al 1994 i ricorrenti abbiano lavorato in condizioni di subordinazione. La Corte d'Appello di Catanzaro ha riformato questa decisione osservando che dalla prova testimoniale era emerso che nel periodo indicato gli appellanti avevano lavorato con le stesse modalità  seguite dagli altri «messi» inquadrati come dipendenti, con orario di lavoro elastico, retribuzione mensile, e sottoposizione alle direttive dei responsabili degli uffici. Pertanto la Corte ha dichiarato la sussistenza di rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e il diritto dei lavoratori a essere assunti dalla Etr Spa subentrata alla Get Spa nella concessione per la riscossione dei tributi. Le aziende hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Catanzaro per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (sez. lav. n. 21693 del 10 ottobre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Catanzaro abbia correttamente applicato i principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità  in materia di accertamento della subordinazione. In particolare la Cassazione ha ritenuto che la Corte di Catanzaro abbia correttamente ravvisato gli indici della subordinazione, valutandoli mediante il raffronto con l'attività  prestata dai «sicuri» dipendenti della parte ricorrente, in quanto pacificamente inseriti nell'organico aziendale e riscontrando la presenza di analoghe caratteristiche dell'attività  lavorativa.
L’esistenza di una giusta causa di licenziamento deve essere stabilita con certezza, in considerazione delle sue conseguenze
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L’incarico di medico responsabile di struttura complessa non può essere attribuito dal giudice
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Il contratto collettivo può prevedere la fungibilità fra mansioni diverse di uguale qualifica, senza violare l’art. 2103 c.
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Il dirigente che si rifiuta di fornire all'azienda informazioni per un'assenza per malattia può essere legittimamente licenziat
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Fabio P. dipendente della Spa Isoli, con qualifica di dirigente, è stato licenziato in troncocon l'addebito di avere rifiutato, durante un periodo di assenza per malattia, ogni comunicazione con l'azienda, rendendosi irreperibile e omettendo di dare riscontro alla richiesta aziendale di comunicazione di dati, pur non essendo fisicamente impedito, dal momento che la sua malattia consisteva in uno stato ansioso depressivo con insonnia. Peraltro, per accordo tra le parti, l'abitazione del dirigente costituiva anche il suo luogo di lavoro. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Venezia hanno ritenuto legittimo il licenziamento; peraltro la Corte ha affermato il diritto del dirigente all'indennità  sostitutiva del preavviso. Sia il dirigente che l'azienda hanno proposto ricorso per cassazione. La Suprema Corte (sez. lav. n. 24591 del 20 novembre 2006, Pres. De Luca, Rel. Miani Canevari) ha rigettato entrambi i ricorsi. Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro dirigenziale, la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente ' ha osservato al Corte ' non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo del recesso del datore di lavoro ex art. 1 della legge n. 604 del 1966; conseguentemente, fatti o condotte non integranti tali fattispecie con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare il licenziamento, per cui, ai fini della giustificatezza del medesimo, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Non può essere poi condiviso ' ha aggiunto la Corte ' l'assunto secondo cui l'impedimento della prestazione lavorativa costituito dalla malattia escluderebbe, durante tale periodo, qualsiasi obbligazione a carico del lavoratore; premesso che la malattia considerata dall'art. 2110 cod. civ. corrisponde non a uno stato che comporta la impossibilità  assoluta di svolgere qualsiasi attività , ma a una condizione impeditiva delle normali prestazioni lavorative del dipendente, deve ritenersi che anche nei confronti del lavoratore esonerato dall'esecuzione della prestazione a causa della malattia operino i doveri di correttezza e buona fede facenti carico ai contraenti in forza degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà  di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. La sentenza impugnata ' ha rilevato la Cassazione ' si sottrae poi alle critiche che riguardano la valutazione della condotta di Fabio P., correlata all'impedimento derivante dalla malattia; è stato infatti accertato che il dipendente da una certa data si era reso non reperibile nella sua abitazione (che per comune accordo costituiva anche la sede di lavoro), anche solo per un contatto telefonico, nonostante i messaggi lasciati nella segreteria; è stato inoltre escluso che la malattia diagnosticata rendesse impossibile qualunque comunicazione, anche per rispondere a una chiamata telefonica con una richiesta di informazioni da parte dell'azienda. Questo apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito ' ha affermato la Corte ' non è efficacemente censurato dal ricorrente principale, che ha riferito l'impedimento allo svolgimento del «lavoro di base dovuto alla azienda» (trasmissione di dati complessi) e non alla totale impossibilità  di qualsiasi contatto con la società . La Suprema Corte ha anche ritenuto che sia stato correttamente motivato il riconoscimento del diritto al preavviso nonostante l'accertata lesione del rapporto fiduciario. Si deve distinguere ' ha affermato la Cassazione ' la fattispecie del licenziamento giustificato del dirigente (che comporta l'esonero del datore di lavoro dal pagamento dell'indennità  supplementare prevista dalla contrattazione collettiva) da quella del recesso per giusta causa, (che esclude l'obbligo del preavviso o quello alternativo del pagamento dell'indennità  sostitutiva) in cui si riscontra una grave lesione della fiducia del datore di lavoro nel proprio dipendente, tale da non consentire la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto: tale nozione di giusta causa non è del tutto sovrapponibile a quella di giustificatezza, sicché possono ricorrere le condizioni per non corrispondere l'indennità  supplementare, in presenza della giustificatezza del licenziamento, e non sussistere quelle per negare l'indennità  sostitutiva di preavviso in assenza della giusta causa.
L’anzianità contributiva per la «mobilità lunga» può essere raggiunta cumulando i contributi versati in due diverse gesti
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Il cittadino straniero extracomunitario non può accedere all’impiego pubblico' in base all'art 70, dlgs 165, 2001
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Il lavoratore non può essere licenziato solo per avere chiesto una verifica della gravosità delle mansioni assegnategli
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Giuseppe F., operaio dipendente della Spa E.T.A., dopo avere subito, nel 2001, un infortunio sul lavoro,ha ripetutamente chiesto all'azienda una verifica dell'attività  richiestagli, sostenendo che essa era eccessivamente gravosa e che per eseguirla erano necessari due operai. L'azienda ha effettuato esperimenti dai quali è risultato che il compito assegnato al lavoratore poteva essere svolto agevolmente da un solo operaio. Essa ha quindi licenziato Giuseppe F., nel marzo del 2003, con l'addebito di avere tenuto una condotta «pretestuosa e ingiustificatamente assertiva della necessità  di due persone per l'esecuzione delle mansioni assegnategli». Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Como l'annullamento del licenziamento, sostenendo che egli non si era reso responsabile di alcuna inadempienza. Il Tribunale ha rigettato la domanda. La Corte d'Appello di Milano, con sentenza del 1° settembre 2004, ha rigettato l'impugnazione proposta dal lavoratore, affermando: che non era stata raggiunta la prova della eccessiva gravosità  delle mansioni in relazione alle condizioni fisiche dell'appellante; che sebbene Giuseppe F. avesse subito, il 21 gennaio 2001, un infortunio sul lavoro, non erano residuati né postumi permanenti né una sia pur minima riduzione della capacità  lavorativa; che, secondo la certificazione medica acquisita, il lavoratore non presentava deficit di forza, lamentando costui solo una sofferenza alla spalla destra; che l'attività  cui dopo l'infortunio era stato assegnato Giuseppe F. (definita «a acqua e tappini») era più leggera della precedente e implicava un ridotto sforzo fisico; che non sussisteva la asserita sproporzione della sanzione erogata; che, infine, considerati anche tre provvedimenti di sospensione e tre di multa adottati nei confronti di Giuseppe F. nel biennio precedente, era giustificato il recesso della società  per il grave inadempimento del lavoratore conseguente alle violazioni ai suoi doveri di disciplina e di diligenza sul lavoro. La Corte ha peraltro escluso che al lavoratore sia stato addebitato di avere rifiutato di svolgere le mansioni affidategli. Giuseppe F. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (sez. lav. n. 24162 del 13 novembre 2006, Pres. Senese, Rel. Lamorgese) ha accolto il ricorso. La Corte di Milano ' ha osservato la Cassazione ' ha escluso che il lavoratore si sia reso inadempiente all'obbligo di svolgere le mansioni assegnategli, ma ha ritenuto che, chiedendo la verifica della gravosità  delle mansioni, abbia tenuto una condotta pretestuosa, tale da integrare un'infrazione disciplinare. Peraltro ' ha rilevato la Cassazione ' la Corte di Milano non spiega perché la richiesta di verifica era da considerare pretestuosa, tale da costituire una violazione alla disciplina e alla diligenza che il lavoratore deve osservare nell'espletamento del lavoro. Anche se indubbiamente l'insubordinazione non deve essere limitata al rifiuto di adempimento ' ha osservato la Suprema Corte ' ma può tradursi in qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento della prestazione, secondo le disposizioni impartite al lavoratore nel quadro della organizzazione aziendale, la Corte di Milano non chiarisce perché la sollecitazione, sebbene ripetuta, rivolta all'azienda per la verifica dell'esigibilità  della prestazione da parte dell'addetto a una determinata fase della lavorazione, potesse pregiudicare lo svolgimento dell'attività  lavorativa e integrare un grave inadempimento del medesimo lavoratore, tanto più che il datore di lavoro non era tenuto a soddisfare la richiesta di verifica ove l'avesse ritenuta priva di fondamento. Lo stesso dicasi ' ha aggiunto la Corte ' anche per quanto concerne l'obbligo di diligenza che fa carico al lavoratore, poiché la sentenza impugnata non fa riferimento né a un rendimento inadeguato del lavoratore, né a episodi dai quali desumere una sua inabilità  nella esecuzione della prestazione lavorativa, né a inosservanza delle regole di tecnica e di esperienza, o comunque delle disposizioni impartite dal datore di lavoro, ipotesi queste che, come si è rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, possono, tra le altre, valere a configurare una mancanza di diligenza nel disimpegno delle mansioni. La Suprema Corte ha annullato sentenza impugnata rinviando la causa alla Corte di Appello di Brescia, precisando che essa dovrà  accertare, dando congrua motivazione, se il comportamento ascritto al dipendente nella lettera di contestazione di addebito costituisca grave inadempimento del lavoratore agli obblighi contrattuali.
Nel giudizio di primo grado il datore deve dimostrare l'avvenuta contestazione degli addebiti disciplinari in forma scritta
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Mario T., dipendente del Consorzio di Bonifica Stornara e Tara, è stato licenziatocon motivazione riferita all'addebito di avere tenuto una condotta imprudente e priva della necessaria perizia nella direzione dei lavori di realizzazione di alcune vasche di accumulo. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Taranto di annullare il licenziamento sia per l'infondatezza della motivazione sia perché, pur avendo natura disciplinare, il provvedimento non era stato preceduto dalla contestazione in forma scritta dagli addebiti, come previsto dall'art. 7 Stat. lav. Il Consorzio, nel giudizio di primo grado, si è difeso nel merito, senza rispondere al rilievo di violazione della forma procedimentale prevista dall'art. 7 Stat. lav. Il Tribunale ha annullato il licenziamento. Il Consorzio ha proposto appello, sostenendo di avere rispettato l'obbligo di preventiva contestazione dell'addebito, in quanto, prima del licenziamento, aveva ripetutamente fatto presente al lavoratore che egli aveva tenuto un comportamento contrario ai suoi doveri nell'esecuzione dei lavori. La Corte d'Appello di Taranto ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda osservando che la tesi sostenuta dal Consorzio, di avere rispettato la procedura prevista dall'art. 7 Stat. lav., era inammissibile in quanto prospettata per la prima volta in grado di appello e che comunque dalle affermazioni dell'appellato emergeva che la contestazione degli addebiti sarebbe avvenuta in forma orale e non per iscritto come stabilito dall'art. 7 Stat. lav. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (sez. lav. n. 23717 del 7 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. L'azienda ' ha osservato la Cassazione ' avrebbe dovuto difendersi nel giudizio di primo grado sulla questione, sollevata dal ricorrente, del mancato rispetto della procedura prevista dall'art. 7 Stat. lav., contestando specificamente il rilievo di inosservanza dell'obbligo di preventiva comunicazione al lavoratore in forma scritta dell'addebito disciplinare; inoltre il giudice dell'appello ha motivatamente rilevato che l'eventuale comunicazione dell'addebito sarebbe avvenuto in forma orale. L'art. 7 Stat. lav., per la natura degli interessi tutelati ' ha affermato la Suprema Corte ' non consente in alcun modo che tempi, forme e modalità  della contestazione disciplinare siano diversi da quelli espressamente stabiliti dal legislatore, né permette che all'incolpato vengano assicurate garanzie difensive minori di quelle garantite.
L'opzione per l'indennità di 15 mensilità può esercitarsi prima del deposito della sentenza di annullamento del licenziamento
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Giuseppina B. ha chiesto al Pretore di Roma l'annullamento del licenziamento comunicatole dalla Spa Ferrovie dello Stato.Il Pretore ha accolto la domanda ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro con sentenza il cui dispositivo è stato letto il 12 marzo 1996 e la cui motivazione è stata depositata l'11 maggio 1996. Con lettera del 26 marzo 1996 la lavoratrice ha comunicato all'azienda l'esercizio del diritto di opzione previsto dall'art. 18 quinto comma Stat. lav. Secondo tale norma al lavoratore illegittimamente licenziato è data la facoltà  di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità  pari a quindici mensilità  di retribuzione globale di fatto, da richiedersi entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza di annullamento del licenziamento. La Spa Ferrovie dello Stato non ha pagato l'indennità  richiestale. La lavoratrice ha ottenuto dal Pretore di Roma un decreto ingiuntivo a carico dell'azienda per il pagamento dell'indennità . L'azienda ha proposto opposizione sostenendo, fra l'altro, che la lavoratrice non aveva rispettato il termine previsto dall'art. 18 Stat. lav., in quanto aveva chiesto il pagamento dell'indennità  il 26 marzo 1996 ossia prima del deposito della sentenza avvenuto l'11 maggio 1996. Il Pretore ha rigettato l'opposizione e la sua decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per violazione di legge. La Suprema Corte (sez. lav. n. 25210 del 28 novembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Di Cerbo) ha rigettato il ricorso. Il quinto comma dell'art. 18 Stat. lav. ' ha affermato la Corte ' si limita a fissare un termine di decadenza per l'esercizio dell'opzione (per l'ovvia esigenza di contenere in tempi ragionevoli la situazione di incertezza conseguente a una pronunzia di accoglimento), ma non stabilisce affatto un dies a quo in relazione all'attivazione di quel potere; in applicazione di tale principio deve ritenersi pienamente valida ed efficace l'opzione per l'indennità  sostitutiva esercitata prima del deposito della sentenza che ha accertato l'illegittimità  del licenziamento e ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro.
Le procedure di regolarizzazione e stabilizzazione nella Finanziaria 2007
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Tra i 1364 commi dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge Finanziaria per il 2007) rischiano di non trovare adeguata visibilità  quelli finalizzati a incentivare percorsi di regolarizzazione e riallineamento retributivo e contributivo per il «lavoro nero» ovvero quelli di stabilizzazione in rapporti di lavoro subordinato di prestazioni coordinate e continuative anche a progetto. In realtà  va dato atto a questa tanto vituperata legge Finanziaria che su tali materie è riuscita a mettere in cantiere proposte che vanno in controtendenza rispetto a un processo, le cui dimensioni sono nazionali, di espansione del lavoro precario, attraverso formule che ' quantomeno sulla carta ' potrebbero far convergere i contrapposti interessi in soluzioni di utilità  condivisa. Ma affinché questa opportunità  ' che può rivelarsi, lo si ripete, interessante anche per il fronte datoriale ' venga colta nel breve arco temporale messo a disposizione per godere delle agevolazioni (fino al 30 settembre 2007 per gli accordi di regolarizzazione e fino al 30 aprile 2007 per quelli di stabilizzazione) è necessario che tutti i soggetti protagonisti dei processi, e prime tra tutte le organizzazioni sindacali, si attrezzino per garantire sia che il maggior numero possibile dei lavoratori destinatari dei provvedimenti ne venga a conoscenza, sia che venga rispettata la libertà  di adesione agli accordi da parte dei medesimi sia, soprattutto, che non venga data per scontata la dismissione di loro diritti. Come si è detto il ruolo delle organizzazioni sindacali è fondamentale perché a esse (in assenza di Rsa o Rsu) viene attribuito il compito di stipulare accordi aziendali o territoriali che siano la «cornice» degli accordi individuali di contenuto transattivo (anche sul pregresso) da sottoscrivere in sede sindacale o avanti alla Dpl (ai sensi degli artt. 410 e 411 del codice di procedura civile) a fronte dell'assunzione a tempo indeterminato per non meno di ventiquattro mesi. Dunque le due vicende (assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e conciliazione individuale su differenze retributive eventualmente maturate negli anni di «sanatoria ») sono necessariamente connesse, nel senso che non è data la prima senza la seconda, ferma restando, ovviamente, la possibilità  per il lavoratore che non vuole transigere di rivolgersi all'Autorità  giudiziaria. L'istanza presentata all'Inps ai sensi dei commi 1191 e 1193 dal datore di lavoro privato che intende regolarizzare del personale «in nero» presuppone quindi un accordo sindacale che, a mio avviso, nell'alternativa tra dimensione territoriale o aziendale dovrebbe privilegiare quest'ultima, anche in assenza di rappresentanze sindacali o unitarie (e invero faccio fatica a immaginare l'esistenza di una rappresentanza sindacale che abbia consapevolmente tollerato la presenza di lavoratori non in regola): in questo caso è infatti previsto che a stipularlo siano le organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni nazionali comparativamente più rappresentative. La dimensione aziendale è del resto suggerita dalla circostanza che l'istanza deve contenere «le generalità  dei lavoratori» che si vogliono regolarizzare, e i rispettivi periodi oggetto di regolarizzazione, e appare difficile immaginare un accordo territoriale con una simile specifica indicazione. Lo stesso dicasi per gli accordi sindacali finalizzati a promuovere la stabilizzazione di contratti a progetto in essere (evidentemente non con tutti i crismi dell'autonomiaâ?¦) nelle singole aziende, anch'essi stipulabili dalle rappresentanze aziendali ovvero dalle Oo.Ss. territoriali. Anche se in questo caso non esiste un elenco di lavoratori, pur tuttavia si presuppone che il sindacato abbia preventivamente interpellato i co.pro presenti nel luogo di lavoro, recependo l'interesse di tutti o di alcuni a un percorso di «trasformazione» del contratto a progetto in contratto di lavoro subordinato. In questo caso l'accordo aziendale dovrà  essere tarato su tali specifiche esigenze, dando agli interessati l'opportunità  di utilizzare la «finestra» (che resterà  aperta solo il primo quadrimestre dell'anno 2007) e prevedendo quindi le condizioni oggetto degli atti di conciliazione individuali che i singoli vorranno sottoscrivere. Alla luce di tali considerazioni si deve dedurre che le intese territoriali hanno un senso solo se hanno natura di «intese cornice» delle intese aziendali che a esse devono ispirarsi. Ma quale deve essere il contenuto delle seconde e/o delle prime? Sia negli accordi di regolarizzazione che in quelli di stabilizzazione occorrerà  innanzi tutto disciplinare, in modo più preciso possibile, il rapporto futuro, ovverosia il Ccnl applicato, l'inquadramento professionale, l'ammontare della retribuzione, l'orario di lavoro e la sua articolazione (che dovrebbero essere tendenzialmente conformi alla situazione precedente), il tipo di contratto di lavoro subordinato. Infatti anche se vengono previsti incentivi finalizzati a favorire il contratto di lavoro a tempo indeterminato, la legge non vieta la possibilità  di stipulazione di un contratto a termine (sussistendone i presupposti) né, in ipotesi, di un contratto di apprendistato (che peraltro non troverebbe giustificazione nel caso in cui, a esempio, una collaborazione coordinata e continuativa si sia protratta per lungo tempo). È evidente che non potrà  prevedersi un periodo di prova (essendo stato il lavoratore, sia esso non in regola oppure a progetto, adeguatamente sperimentato) ma sarà  anzi opportuno ribadire, anche se previsto dalla legge (commi 1200 e 1210, rispettivamente per la regolarizzazione e per la stabilizzazione), la clausola di durata minima garantita per un periodo non inferiore ai 24 mesi, salve le ipotesi di dimissioni o di licenziamento per giusta causa. L'accordo sindacale dovrà  certo prevedere la regolarizzazione contributiva per il pregresso secondo quanto previsto dalla legge, vale a dire due terzi di quanto dovuto per le regolarizzazioni (comma 1196) e la metà  della quota di contribuzione a carico del committente, nella misura dovuta anno per anno per le stabilizzazioni (comma 1205; il comma 1206 prevede poi risorse aggiuntive da parte dell'Inps fino a copertura totale della contribuzione) con le modalità  ivi previste (un quinto subito e il resto in sessanta rate mensili senza interessi per le regolarizzazioni; un terzo subito e il resto in trentantesei rate mensili per le stabilizzazioni). Come si è visto l'accordo sindacale dovrà  prevedere anche che il verbale di conciliazione individuale regolamenti in via transattiva il pregresso. Non si tratta, in questo caso di un «obbligo a contrarre» ovvero a transigere, bensà di un onere a trattare la conciliazione: nessuna delle due parti è infatti costretta a farlo, ma ciascuna di esse è indotta alla trattativa per poter conseguire, rispettivamente, un vantaggio. Non va infatti dimenticato che il datore di lavoro, oltre a preservarsi dal rischio di ben più pesanti sanzioni per le passate (eventuali) omissioni contributive, trae dall'accordo un'utilità  non indifferente anche per il futuro, ove l'assunzione avvenga a tempo indeterminato: è infatti previsto che egli usufruisca del cd. «cuneo fiscale» ovvero di un notevole abbattimento forfetario della base imponibile Irap (aumentato fino a cinque o sette volte in caso di assunzione di personale femminile) nonché di una significativa deduzione dei contributi Inail. Essendo quindi l'accordo individuale nell'interesse di entrambi i contraenti, questo consente al lavoratore e a chi lo rappresenta di far valere le proprie ragioni e le proprie rivendicazioni da posizioni di non subalternità : l'oggetto della transazione, e la quantificazione di quanto riconosciuto a titolo di risarcimento per il pregresso (da zero a cento) sarà  quindi il risultato dei rapporti di forza, e misurerà  l'interesse che ognuno avrà  per l'accordo. Il lavoratore, da parte sua, dovrà  considerare che, scaduti i termini rispettivamente del 30 aprile e del 30 settembre 2007, verrà  meno questa opportunità  di «forzare» la decisione del datore di lavoro e di conseguire in tempi rapidi il risultato non indifferente di avere un rapporto di lavoro subordinato per almeno un biennio, con la copertura contributiva integrale (per gli accordi di stabilizzazione) o per 2/3 (per gli accordi di regolarizzazione) per tutto il periodo pregresso «non in regola». Il (forse) migliore risultato potrà  infatti essere conseguito solo all'esito di una probabilmente lunga controversia giudiziaria individuale, nella quale graverà  sul lavoratore l'onere di dimostrare, attraverso una approfondita istruttoria, la sussistenza degli indici di subordinazione pretesi dalla giurisprudenza (prova che invece non dovrà  essere fornita nelle procedure di regolarizzazione e stabilizzazione, che avvengono con il consenso della controparte). Come potrà  il sindacato farsi parte attiva per «dare gambe» agli accordi previsti dalla legge n. 296/06? Innanzi tutto con una capillare attività  di informazione che intercetti il lavoro irregolare per stimolare la denuncia al sindacato o alla Direzione del lavoro (l'esperienza ci insegna che ciò normalmente avviene a rapporto risolto). Ma presumo che gli accordi di regolarizzazione saranno nella maggior parte delle volte sollecitati dai Servizi ispettivi ministeriali in occasione di controlli e ispezioni, ovvero dallo stesso datore di lavoro che si trova in tale situazione, nel tentativo di evitare di pagare integralmente i contributi evasi, oltre alle sanzioni di legge. Dal momento che ' come si è detto ' il datore di lavoro, per la presentazione dell'istanza di cui al comma 1192, deve aver proceduto alla stipula di un accordo sindacale (aziendale o territoriale) indicando i nominativi dei lavoratori che intende mettere in regola, è certamente questo il momento per verificare se esistono margini per conseguire qualche risultato ulteriore rispetto al semplice impegno all'assunzione, con particolare riferimento alle retribuzioni pregresse, tenendo conto che l'accordo individuale produce effetto conciliativo con riferimento ai diritti di natura retributiva, a quelli «a essa connessi» e a quelli di natura risarcitoria (comma 1194) per i periodi oggetto di regolarizzazione. Un lavoro più incisivo e mirato, di natura preventiva, potrà  e dovrà  certamente essere fatto per promuovere la stabilizzazione dell'occupazione a carattere subordinato, sia nei confronti dei lavoratori «autonomi» (magari con contratto a progetto) iscritti alla gestione separata dell'Inps, dipendenti economicamente da un solo committente, che utilizzano i suoi strumenti di lavoro e non partecipano al rischio d'impresa, sia nei confronti dei committenti-datori di lavoro per i quali viene resa la prestazione lavorativa. Sia gli uni che gli altri sono consapevoli trattarsi di una «realtà  a rischio» che nella migliore delle ipotesi si colloca nella zona grigia tra autonomia e subordinazione. Anche in considerazione del fatto che il programma dell'attuale Governo tende col tempo a ridurre a zero il vantaggio di costo contributivo rispetto al lavoro subordinato, con la legge Finanziaria per il 2007 viene data a committenti e collaboratori una possibilità  di sanare, oggi, tale situazione, senza necessità  di un accertamento giudiziale. Occorre pertanto in primo luogo individuare i soggetti potenzialmente interessati: e questo è un risultato facilmente raggiungibile accedendo ' appunto ' territorio per territorio, alla lista delle imprese che versino i contributi dei loro collaboratori nella gestione separata dell'Inps. A dette imprese dovrebbe essere inviata una comunicazione ' calibrata nei toni in modo da non farli risultare estorsivi ' di semplice informativa sui vantaggi che la legge offre loro ove i propri collaboratori siano a loro volta interessati a una trasformazione-stabilizzazione del loro contratto in contratto di lavoro subordinato. Va considerato che le realtà  con cui avremo a che fare possono spaziare dal professionista con uno o due collaboratori a progetto alla grande impresa (magari di call center, ma non solo) con centinaia di addetti. Nelle realtà  di dimensioni più ridotte è prevedibile che, se il contatto ha buon esito, si possa avere un quadro dei nominativi dei collaboratori eventualmente interessati alla stabilizzazione: in questa ipotesi, dopo aver parlato direttamente con i co.pro e verificato la loro opzione per un assunzione stabile, l'accordo potrebbe anche indicare i loro nominativi ' analogamente a quanto previsto per l'istanza di regolarizzazione di cui ai commi 1192 e 1193 ' o comunque richiamare genericamente le corrispondenti figure professionali e le condizioni di cui all'assunzione. Nelle realtà  con decine o centinaia di collaboratori, invece, dovendo gli accordi di stabilizzazione essere impostati come opportunità  per tutti i co.pro che ne abbiano interesse, essi potrebbero avere, a mio avviso, la struttura dell'«offerta al pubblico » prevedendo quindi una offerta (che non possiamo pretendere abbia natura confessoria sulla pregressa irregolarità ) rivolta ai co.pro che ne facciano richiesta e si dichiarino disponibili a sottoscrivere la conciliazione individuale, di assunzione a tempo indeterminato da parte del committente. A questo proposito dobbiamo mettere nel conto che potremmo imbatterci in un notevole numero di collaboratori non minimamente sfiorati dall'idea di diventare lavoratori dipendenti: in tale ipotesi peraltro è previsto che, anche attraverso accordi interconfederali, vengano adottate «misure atte al corretto utilizzo delle predette tipologie di lavoro nonché stabilire condizioni più favorevoli per i collaboratori». In merito è il caso di rammentare che il comma 772 ha previsto che per valutare la congruità  dei compensi corrisposti ai lavoratori «iscritti alla gestione separata» dovrà  tenersi conto anche «dei contratti collettivi nazionali di riferimento»: si apre quindi uno spazio, per la contrattazione collettiva, di negoziazione dei compensi minimi dei collaboratori para-subordinati con dei parametri (quelli dei lavoratori subordinati) che non possono essere violati al ribasso. È quindi possibile, se verrà  fatto un buon lavoro di informazione, immaginare (con l'ottimismo della volontà â?¦) uno scenario in cui, a fronte di una forbice sempre più stretta di «risparmio» sia sotto il profilo contributivo sia sotto il profilo dei compensi, molti datori di lavoro-committenti colgano l'occasione loro fornita dalle nuove disposizioni per sanare quelle situazioni in cui i contratti di collaborazione coordinata e continuativa resi illegittimi dal decreto legislativo n. 276/2003 erano stati impropriamente travasati in contratti a progetto in assenza dei presupposti previsti. Ove ciò non avvenga, nei confronti di quanti decideranno di continuare a operare nella irregolarità , è auspicabile un più incisivo intervento dei ' potenziati (cfr. commi 544 e 545) ' Servizi ispettivi del ministero del Lavoro.
Pubblicazione delle graduatorie dei disabili
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La Regione Puglia ha pubblicato nel proprio Bollettino ufficiale consultabile anche via Internet sul sito web della Regioneun avviso pubblico di approvazione di tre graduatorie di persone disabili per corrispondere loro un contributo per l'acquisto di personal computer. Tali graduatorie riportavano il nome e cognome dei disabili che hanno presentato domanda alla regione di concessione del contributo per l'acquisto di personal computer e di relativi ausili, nonché i motivi di esclusione dalla concessione del beneficio (es. «disabilità  non grave», «disabilità  non uditiva»). Sono stati «mascherati» sul sito i dati relativi al codice fiscale, al comune di residenza e alla data di nascita dei disabili; gli stessi dati sono, tuttavia, visibili integralmente senza limitazioni di sorta, sulla base della semplice visualizzazione del testo del documento, se trasposto sul personal computer dell'utente mediante l'utilizzo di un word processor. Considerato che in tal modo indirettamente viene operata una diffusione di dati idonei a rivelare lo stato di salute degli interessati, il Garante ha vietato alla Regione Puglia, ai sensi degli artt. 143, comma 1, lett. c) e 154, comma 1, lett. d), del codice, la diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute dei soggetti disabili conoscibili mediante la consultazione del Bollettino ufficiale della Regione.
Privacy, indagini aziendali e contestazioni disciplinari
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A un dipendente di un istituto di credito è stato contestato disciplinarmente di aver prestato,durante un periodo di assenza dal servizio per malattia (legata a un intervento chirurgico subito a un ginocchio), «attività  non compatibili con lo stato di malattia certificato» (ovvero per aver prestato la sua opera in favore di una società  di cui la moglie è socia, utilizzando anche uno scooter). Il lavoratore ha proposto ricorso al Garante con cui ha chiesto all'impresa datrice di comunicare l'origine dei dati personali afferenti il presunto svolgimento di un'attività  lavorativa, le finalità  e le modalità  del trattamento, la logica applicata in caso di trattamento effettuato mediante l'ausilio di strumenti elettronici, gli estremi identificativi del titolare e del responsabile del trattamento, se designato, nonché i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati possono essere comunicati. Ritenendo che tali informazioni personali siano state raccolte in violazione di legge, il lavoratore si è opposto all'ulteriore trattamento dei dati, chiedendo anche il blocco dello stesso. L'azienda datrice ha controdedotto di aver effettuato dei controlli effettuati attraverso una agenzia investigativa autorizzata al fine di verificare i comportamenti tenuti dal lavoratore in occasione di un periodo di assenza dal lavoro per certificata malattia; tali controlli non avrebbero invece riguardato aspetti in alcun modo afferenti lo stato di infermità  denunciato. L'azienda ha inoltre affermato di ritenere lecita la mancata comunicazione delle informazioni richieste dal lavoratore in considerazione del fatto che gli accertamenti effettuati rappresentano il materiale probatorio sulla base del quale la banca intende sostenere le proprie ragioni in giudizio. L'art. 8, comma 2, lettera e), del codice della privacy consentirebbe appunto il temporaneo differimento dell'esercizio dei diritti di accesso ai propri dati personali per il periodo durante il quale potrebbe derivarne pregiudizio per lo svolgimento delle cd. «indagini difensive» o, comunque, per far valere un diritto in sede giudiziaria. Il Garante ha disatteso quest'ultima difesa dell'azienda convenuta in quanto la stessa non ha fornito elementi concreti volti a giustificare il differimento dell'esercizio dei diritti di accesso esercitati dal ricorrente, avendo dichiarato, in modo generico, solo che «un pregiudizio» potrebbe derivarle dalla comunicazione dei dati personali del ricorrente raccolti dall'agenzia di investigazione. Il ricorso è stato dunque accolto limitatamente alla richiesta dell'interessato di conoscere gli estremi identificativi del responsabile del trattamento, nonché i soggetti o le categorie di soggetti ai quali i dati possono essere comunicati. Il Garante ha invece dichiarato non luogo a provvedere sul ricorso ai sensi dell'art. 149, comma 2, del codice in ordine alle richieste di conoscere l'origine dei dati e le modalità , le finalità  e la logica del trattamento, nonché gli estremi identificativi del titolare, avendo la resistente fornito su tali punti un sufficiente riscontro. Infine, il Garante ha dichiarato infondate la richiesta di blocco e l'opposizione all'ulteriore trattamento dei dati personali in questione, dal momento che non è risultato che lo stesso sia stato effettuato in violazione di legge. I dati personali raccolti ' senza il consenso dell'interessato alla luce di quanto previsto dall'art. 24, comma 1, lett. f), del codice ' non sono risultati essere stati trattati in violazione del principio di pertinenza e non eccedenza rispetto alla finalità  di tutelare il diritto della società  al corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Quanto alla ritenuta violazione delle disposizioni di cui alla legge n. 300/1970, il Garante ha rilevato che, in diverse occasioni, la giurisprudenza di legittimità  ha affermato che le disposizioni sul divieto di accertamenti del datore di lavoro circa l'infermità  per malattia o infortunio del lavoratore dipendente non precludono al datore stesso la possibilità  di contestare le risultanze di accertamenti sanitari «anche valorizzando ogni circostanza di fatto ' pur non risultante da un accertamento sanitario ' atta a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità  di quest'ultima a determinare uno stato di incapacità  lavorativa, e quindi a giustificare l'assenza, quale in particolare lo svolgimento di un'altra attività  lavorativa». Alla luce di ciò è stata quindi riconosciuta la «facoltà  del datore di lavoro di prendere conoscenza di siffatti comportamenti del lavoratore che, pur estranei allo svolgimento dell'attività  lavorativa, sono rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro». Tale facoltà  ' come ribadito dal Garante in una recente decisione (cfr. provv. del 9 novembre 2006) ' può essere esercitata anche per mezzo del lecito utilizzo dell'attività  di un'agenzia investigativa privata, laddove la stessa non sia volta ' come vietato dall'art. 5 della legge n. 300/1970 ' ad accertare l'idoneità  e l'infermità  per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, limitandosi piuttosto, come risulta dagli atti nel caso di specie, alla sola osservazione di comportamenti esteriori potenzialmente e apparentemente incompatibili con lo stato di malattia (cfr. Cass. 3 maggio 2001, n. 6236). Il Garante ha precisato che la constatata infondatezza sia della richiesta di blocco, sia dell'opposizione all'ulteriore trattamento, lasciano comunque impregiudicata la facoltà  del ricorrente di far valere nella competente sede giudiziaria i profili relativi alla fondatezza della contestazione disciplinare ricevuta.
Vincoli relativi all’orario di apertura degli esercizi farmaceutici
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Rilevanza della causa dello sciopero ai soli fini della quantificazione della sanzione
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La Commissione ha sanzionato una organizzazione sindacale del settore trasporti per uno sciopero indetto senza alcun preavvisoquando i dipendenti di un'azienda del settore, al loro ingresso in azienda, hanno trovato affisso un ordine di servizio del tutto illegittimo in quanto contrario a precedenti accordi sindacali. Sebbene l'azienda, consapevole dell'errore compiuto, non abbia adottato alcun provvedimento nei confronti dei lavoratori, ma abbia retribuito la giornata come lavorativa, la Commissione ha ritenuto ' conformemente a una sua precedente decisione (cfr. delibera n. 59/2005) ' che il fatto che l'astensione improvvisa dal lavoro sia stata cagionata da ordine di servizio illegittimo non costituisce causa di giustificazione, in quanto le cause di insorgenza del conflitto sono meritevoli di considerazione ai fini della graduazione della sanzione, ma non esonerano le parti sociali dal rispetto delle previsioni della a legge 146/1990.
Quantificazione del personale da comandare
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Le segreterie nazionali di Filt-Cgil, Uiltrasporti, Fist-Confail e Ugl hanno denunciato alla Commissione il comportamento dell'azienda Aci Global Spa di Roma,la quale in occasione di uno sciopero nazionale ha comandato in servizio ' presso le centrali operative e telefoniche di Roma e Milano e del Ciss viaggiare informati ' un numero di dipendenti (93 unità  su 203, pari a quasi il 50% del personale mediamente impiegato) «abnorme» rispetto all'esigenza di garantire il soccorso meccanico in autostrada, secondo quanto previsto dalla regolamentazione di settore. L'azienda si è giustificata deducendo che tali livelli di presenza del personale erano indispensabili alla garanzia della funzionalità  delle centrali operative, non potendosi assicurare, al di sotto di quella soglia minima di personale comandato, alcun servizio, con conseguente grave pregiudizio per l'utenza. La Commissione ha sanzionato la condotta dell'azienda perché le comandate sono risultate eccessive con riferimento all'esigenza di garantire il soccorso autostradale. Ad avviso della Commissione, l'assenza di un sistema di smistamento delle chiamate volto a differenziare le richieste di intervento in autostrada da quelle in strade stradali, con conseguente impossibilità  di quantificare la consistenza delle chiamate attribuibili a ogni tipo di soccorso, non poteva essere invocata dall'azienda a giustificazione dell'eccessiva quota di personale comandato in servizio; poiché il solo soccorso autostradale deve cosiderarsi servizio essenziale da garantire, l'azienda era tenuta all'adozione di strumenti che consentano la differenziazione delle chiamate di soccorso.
Libertà di stabilimento – Cittadino di uno Stato membro residente in un altro Stato membro
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Versamento da parte dello Stato membro del compenso dovuto a un’agenzia privata di collocamento a seguito di un'assunzione
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Libera circolazione dei lavoratori – Indennità giornaliere di malattia e reddito netto determinato dalla categoria fiscale
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Tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro – Regimi complementari di previdenza
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Licenziamento individuale – Requisito della tempestività – Sussistenza – Giusta causa di licenziamento – Insussistenza
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Licenziamento per giusta causa – Mancato adempimento obbligo derivante da accordo aziendale – Prevalenza su diritto alla pri
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Licenziamento dirigente – Giustificatezza del recesso – Insussistenza – Effetti della tutela
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Inadempimento del datore di lavoro e dimissioni – Indennità sostituiva del preavviso – Presupposti
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Differenze retributive – Applicabilità Ccnl rivendicato – Omessa adesione – Irrilevanza
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Procedimento cautelare – Accertamento del diritto – Audizione sommaria informatori
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Contratto a progetto – Patto di prova – Compatibilità – Recesso – Risarcimento danni
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Individuazione del datore di lavoro
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In un contesto costituito da una pluralità  di soggetti religiosi collegati, il collaboratore assunto dall'economo di una famiglia religiosa resta dipendente di quest'ultimo, anche se utilizzato occasionalmente, in regime di comando o distacco presso la comunità  di appartenenza dell'economo, o presso un istituto scolastico da essa gestito. Il Tribunale ha dichiarato la carenza di legittimazione passiva dell'Istituto convenuto in giudizio in una controversia avente a oggetto la regolarizzazione economica e previdenziale del rapporto.
Giusta causa di licenziamento – Mancata affissione del codice disciplinare: irrilevanza
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Licenziamento per superamento comporto – Giorni non lavorativi: computabilità
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Licenziamento individuale per sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione – Lesione all’identità professionale
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Condanna a pena detentiva – Lesione elemento fiduciario – Licenziamento
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Lavoro pubblico – Mobilità del personale – Illegittimità dell’assegnazione – Potere autotutela della Pubblica amminist
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Licenziamento discriminatorio – Fattispecie – Esclusione
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Licenziamento individuale – Ordine di reintegrazione - Diritto alla ripresa delle stesse mansioni nella stessa sede precedente
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Inosservanza degli obblighi di protezione – Diritto del lavoratore a rifiutare la prestazione
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Demansionamento – Risarcimento del danno – Prova
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Benefici previdenziali lavoratori esposti all’amianto – Legittimazione passiva – Requisiti
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Opposizione a decreto ingiuntivo
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In relazione a un decreto ingiuntivo emesso dal giudice del lavoro del Tribunale di Treviso,con il quale era stato ingiunto alla ditta debitrice, in solido con l'effettiva datrice di lavoro degli istanti, alcune somme dagli stessi rivendicate, l'odierna opponente deduceva che le buste paga dimesse dai lavoratori non costituivano prova dei crediti azionati; che non trovasse applicazione l'art. 29 d.lgs. 276/03 in ordine alla obbligazione solidale tra committente e appaltatore per i trattamenti retributivi e previdenziali spettanti ai lavoratori; che la solidarietà  era comunque esclusa per le indennità  di maternità  e malattia, dovute dall'Inps. I lavoratori si costituivano sostenendo sia il valore confessorio delle buste paga in ordine alla esistenza e alla entità  del debito che la sussistenza di una responsabilità  solidale tra committente e appaltatore per le retribuzioni e indennità  maturate dai lavoratori nel corso dell'appalto. Assunte le prove testimoniali e riformulati i conteggi, il giudice accoglieva la domanda, confermando in primo luogo il carattere confessorio delle indicazioni riportate sui prospetti paga consegnati ai dipendenti, citando sul punto la sentenza n. 739/93 della Suprema Corte. In ordine ala solidarietà  esistente tra appaltante e committente, secondo il giudicante non vi era dubbio che nel caso di specie trovasse applicazione l'art. 29, 2° comma, d.lgs. 276/03; infatti, dalla documentazione in atti e dalla prova per testi era indiscutibile il fatto che tra la opponente e la ditta datrice di lavoro degli istanti fossero intercorsi diversi contratti di appalto di servizi. Il vincolo di solidarietà , veniva precisato, deve essere operante per tutte le somme richieste dai lavoratori, ivi compreso il trattamento di fine rapporto, posto che gli opposti avevano reso tutta la loro prestazione presso lo stabilimento della committente, a eccezione delle indennità  di malattia e maternità  dovute dall'Inps. Riformulate pertanto in corso di causa le richieste economiche degli istanti, entrambe le società  in base al principio sopra espresso sono state condannate a corrispondere ai lavoratori gli emolumenti stipendiali precisati secondo quanto emerso dalla nuova quantificazione dei conteggi prodotti.
La Cassazione ribadisce le ripetibilità delle somme erogate in caso di riforma della sentenza di reintegra
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A seguito di una riforma in appello di una decisione che aveva disposto la reintegra nel posto di lavoro del dipendentel'azienda conveniva in giudizio il proprio ex dipendente al fine di vedere ripetute le somme versate in ottemperanza all'ordine di reintegra. Nel costituirsi in giudizio il lavoratore richiamava la giurisprudenza della Suprema Corte che in passato aveva ritenuto l'irripetibilità  delle somme versate a titolo di retribuzioni maturate tra la sentenza di reintegra e la sentenza di riforma. La Corte di Cassazione, adita dal dipendente, soccombente in tutti i gradi di giudizio, ha invero, affermato che il nuovo testo dell'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 attribuisce chiaramente alle somme dovute dal datore di lavoro il carattere di risarcimento dovuto solo ed esclusivamente in presenza di un fatto ingiusto costituito appunto dal licenziamento illegittimo. In caso di riforma, quindi, le somme prive di titolo devono essere ripetute dal lavoratore.
La sentenza che decide in via pregiudiziale l’interpretazione del ccnl può essere pronunciata solo nel giudizio di primo grad
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Giurisdizionale per le controversie di contenuto patrimoniale dei dipendenti di ambasciate
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Una lavoratrice dipendente di un'ambasciata straniera in Italia adiva il Tribunale di Roma allo scopo di vedere condannare lo Stato esteroal pagamento di una somma a titolo di differenze retributive. Nel costituirsi in giudizio l'ente sovranazionale contestava la giurisdizione e la domanda della dipendente veniva dichiarata inammissibile nei giudizi di merito. La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso della dipendente ha ricordato la propria giurisprudenza in forza della quale il in caso di controversie inerenti al rapporto di lavoro del personale italiano e straniero operante alle dipendenze di stati esteri in Italia, sussiste il difetto di giurisdizione esclusivamente allorché la pronuncia comporti interferenze nell'organizzazione dell'ente non è viceversa invocabile con riferimento alle richieste aventi a oggetto il pagamento di somme per differenze retributive.
La Cassazione limita il diritto al trasferimento del lavoratore che assiste un disabile
Abbonati
La Suprema Corte ha accolto un ricorso promosso da un ente pubblico avverso la sentenza della Corte di Appello di Catanzaroche aveva accertato il diritto di un lavoratore a essere riavvicinato dopo l'assunzione al domicilio della persona disabile. Nel cassare la decisione la Corte ha ritenuto che il lavoratore assegnato lontano da casa non può invocare, per essere trasferito, il diritto di assistenza di un familiare handicappato quando abbia appena accettato il posto e per questo temporaneamente interrotto la convivenza. «In materia di assistenza alle persone handicappate» ' afferma infatti la Suprema Corte ' «la norma contenuta nell'articolo 33, comma quinto, della legge 104/92, sul diritto del genitore o familiare lavoratore che assista con continuità  un parente o un affine entro il terzo grado handicappato di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, non è applicabile nel caso in cui la convivenza sia stata interrotta per effetto dell'assegnazione, al momento dell'assunzione, della sede lavorativa e il familiare tenda successivamente a ripristinarla attraverso il trasferimento in una sede vicina al domicilio dell'handicappato».
La negazione di un fatto in sede di procedimento disciplinare non costituisce violazione del dovere di fedeltà
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Un'azienda contestava a un lavoratore l'aver affermato in violazione al dovere di fedeltà  una circostanza non veritieranel corso di un precedente procedimento disciplinare. Nel giudizio promosso avverso dal lavoratore avverso il provvedimento di licenziamento, scaturito dalla seconda contestazione, il Tribunale di Genova dichiarava la illegittimità  del licenziamento. La sentenza veniva riformata dalla locale Corte di Appello che riteneva la condotta del lavoratore lesiva del principio di correttezza e buona fede escludendo che il diritto di non autoaccusarsi legittimasse una «rappresentazione di circostanze sostanzialmente false». La Suprema Corte nel cassare la decisione del giudice di appello ha ritenuto violato il principio della proporzionalità  nella decisione dichiarativa della legittimità  del licenziamento. Nell'affermare la centralità  del diritto di difesa del lavoratore la Corte di Cassazione ha ritenuto che il diritto di difesa «valore essenziale per la persona del lavoratore» non può ridursi a «un'utopistica attività  difensiva di cui all'antica tralaticia definizione del difensore quale vir bonus dicendi».
È illegittimo un accordo sindacale che esclude dal passaggio di azienda i dirigenti
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Le affermazioni contenute in uno scritto difensivo non possono costituire una giusta causa di licenziamento
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Un lavoratore nel corso di un giudizio avverso una sanzione disciplinare promosso da un istituto di creditonel difendersi in giudizio deduceva nel proprio scritto difensivo pesanti accuse e sospetti all'azienda. A seguito delle affermazioni contenute l'istituto di credito intimava al lavoratore il suo licenziamento. Con sentenza del Tribunale di Udine, confermata in sede di appello, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo. La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione dei giudici di merito ha ritenuto che la memoria è un atto difensivo riconducibile a una difesa tecnica e quindi innanzi tutto al difensore, ancorché risulti sottoscritta anche dalla parte. L'eventuale presenza di frasi sconvenienti ' prosegue la Corte ' trova la sua disciplina nell'art. 89 cod. proc. civ., che prevede in capo al magistrato il potere di stralcio e condanna a una somma a titolo di risarcimento danno non patrimoniale quando le espressioni offensive non riguardano l'oggetto della causa. Il Collegio ha altresà richiamato la non punibilità  in sede penale delle offese contenute in scritti difensivi. In forza di tali principi la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di appello affermando che l'esercizio del diritto di difesa ha comunque carattere scriminante.
Misura dell’indennità integrativa speciale sui trattamenti di reversibilità
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Opposizione a decreto ingiuntivo contributivo
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In caso di opposizione a decreto ingiuntivo in materia contributiva,il ricorso deve essere depositato in cancelleria e non può essere recapitato attraverso il servizio postale, come avviene, invece, per l'ordinanza-ingiunzione. Cosà la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità  degli articoli 415 e 645 del codice di procedura civile. A sollevare la questione era stata la Cassazione nella parte in cui le norme non consentono la proposizione del ricorso in opposizione a decreto ingiuntivo ' emesso su richiesta di ente previdenziale per crediti aventi a oggetto contributi omessi e relative sanzioni ' anche attraverso l'utilizzo del servizio postale per il deposito in cancelleria. La Corte ha chiarito che l'ente previdenziale, per la riscossione di crediti aventi a oggetto contributi omessi e relative sanzioni, ha la possibilità  di scegliere fra l'ordinanza- ingiunzione, il cui ricorso di opposizione può essere inviato attraverso il servizio postale, e il decreto ingiuntivo la cui opposizione può essere proposta attraverso il ricorso depositato direttamente in cancelleria. Inoltre, a parere della Corte, l'introduzione della possibilità  di utilizzare il servizio postale nel processo di lavoro, caratterizzato da una struttura piuttosto complessa, finirebbe da un lato per incidere negativamente sul funzionamento del sistema processuale e dall'altro determinerebbe una irragionevole disparità  di trattamento tra controversie soggette allo stesso rito.
Apprendistato, formazione e competenze regionali
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Contratto di apprendistato: la disciplina delle regole per la formazione da impartire all'interno delle aziende spetta allo Stato,mentre la disciplina esterna rientra nelle competenze delle Regioni. La Corte costituzionale ha cosà dichiarato non fondate le questioni di legittimità  delle impugnate leggi regionali. A sollevare le questioni era stata la presidenza del Consiglio dei ministri nella parte in cui le norme prevedono come compiti riservati alla Regione la valorizzazione e la certificazione dei profili formativi dei contratti di apprendistato e l'individuazione dei criteri e requisiti di riferimento per la capacità  formativa delle imprese. La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione, ha affermato che «mentre la formazione da impartire all'interno delle aziende attiene precipuamente all'ordinamento civile, la disciplina di quella esterna rientra nella competenza regionale in materia di istruzione professionale, con interferenze però con altre materie, in particolare con l'istruzione, per la quale lo Stato ha varie attribuzioni: norme generali, determinazione dei principi fondamentali».
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