Descrizione
La Corte Costituzionale interviene su congedo biennale per diabilità grave e pensione di inabilità civile per extracomunitari Il contratto a termine non può essere risolto per giustificato motivo oggettivo Interessanti casi di condotta antisindacale avanti i Tribunali di Forlì e SienaIl lavoratore non può essere ritenuto corresponsabile dell’infortunio per avere eseguito operazioni imprudenti impartitegli
Il dirigente pubblico rimasto privo di incarichi ha diritto di ottenere la valutazione la sua posizione e il risarcimento
C. D., dirigente del Ministero dell'Economia e delle Finanze, nel periodo dall'ottobre
1999 al febbraio 2001 è rimasto privo di incarichi.Egli ha chiesto al
Tribunale di Grosseto di condannare l'amministrazione ad attribuirgli un incarico dirigenziale
e al risarcimento del danno da demansionamento. Il Tribunale, con sentenza
del gennaio 2002, ha condannato l'amministrazione a conferire a C. D. l'incarico richiesto
e a risarcirgli il danno, in misura di euro 15.000. Questa decisione è stata parzialmente
riformata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze che, con sentenza del
dicembre 2004, ha escluso la configurabilità di un diritto del dirigente pubblico al conferimento
di un incarico dirigenziale, ma ha ritenuto che l'amministrazione fosse comunque
tenuta ad adibire C. D. a compiti di studio, ricerca, consulenza, ispezione; pertanto
ha confermato soltanto la condanna dell'amministrazione al risarcimento del
danno, nella misura prevista dal Tribunale. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Firenze, per averlo ritenuto inadempiente.
Il dirigente ha proposto ricorso incidentale sostenendo che l'amministrazione avrebbe
dovuto essere condannata non solo al risarcimento del danno, ma anche all'adempimento
dei suoi obblighi.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell'amministrazione e ha parzialmente accolto
l'impugnazione incidentale del dirigente. La Corte ha confermato il suo orientamento
secondo cui il dirigente pubblico non ha diritto al conferimento di un incarico, ma ha
precisato che, in materia, la pubblica amministrazione deve esercitare i suoi poteri attenendosi
alle regole che li disciplinano, nonché ai principi di correttezza e buona fede,
come un datore di lavoro privato. Nella specie ' ha osservato la Corte ' vengono in
considerazione le norme contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 1: «Per il
conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione almeno la natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità
professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti
con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo
del ministro»; queste disposizioni obbligano, dunque, l'amministrazione datrice
di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per
il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizzano»
l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche
comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad
esternare le ragioni giustificatrici delle scelte). Nella prospettiva giuridica cosà ricostruita
' ha affermato la Corte ' il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme
al diritto, essendo rimasto accertato che nessuna giustificazione l'amministrazione
aveva fornito, neppure in giudizio, circa i criteri seguiti e le motivazioni della scelta
di non attribuire incarico alcuno al dirigente; in questo comportamento è stato correttamente
ravvisato inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile. Per
quanto attiene al risarcimento dei danni da demansionamento, la Corte, richiamando
le sentenze delle Sezioni Unite n. 6572 del 2006 e n. 19596 del 2008 ' in materia di
danno professionale ed esistenziale ' ha ritenuto che la Corte di Firenze abbia correttamente
accertato la loro esistenza in base ad elementi di presunzione; per la configurazione
di una presunzione giuridicamente valida ' ha affermato la Corte ' non occorre
che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di
quello noto, ma è sufficiente un giudizio di probabilità basato sull'id quod plerumque
accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica). La sentenza impugnata ' ha
osservato la Corte ' non si è discostata dai principi sopra enunciati, ritenendo accertato
il risarcimento richiesto relativo al danno alla professionalità subàto per essere rimasto
senza l'attribuzione di compiti lavorativi dall'ottobre 1999 al febbraio 2001, con
liquidazione equitativa fondata sulla prova del pregiudizio, sia con riguardo alla perdita
dei compensi collegati all'espletamento di incarichi, sia valutando l'impossibilità
di acquisire un'esperienza professionale nella qualifica dirigenziale e l'oggettivamente
non breve durata del periodo di assoluta inattività . Pronunciando sul ricorso incidentale,
la Corte ha anzitutto precisato che, in via generale, è ammissibile la pronuncia
di condanna resa dal giudice nell'ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità )
del facere dell'obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente
idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione
volontaria da parte del debitore, ma è altresà funzionale alla produzione di ulteriori
conseguenze giuridiche (derivanti dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che
il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile,
successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad
un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento. In particolare
' ha affermato la Corte ' nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni, poiché art. 63, comma 2, d.lgs. n. 165 del
2001 prevede espressamente che il giudice adotti, nei confronti delle medesime, tutti
i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti
tutelati, il giudice del lavoro ha il potere di emanare qualsiasi tipo di provvedimento,
ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere, essendo irrilevante l'insuscettibilità
di esecuzione forzata, che ne condiziona, eventualmente, soltanto l'esecuzione.
Pertanto ' ha concluso la Corte ' la sentenza impugnata va cassata nella parte
in cui ha respinto la pretesa di condanna dell'amministrazione all'adempimento dell'obbligo
di valutare la posizione di C. D. ai fini del conferimento di incarico dirigenziale,
o di altra natura (studio, consulenza, ecc.) e, versandosi nell'area della violazione
di norme giuridiche, la causa è decisa nel merito sulla questione, emanando la statuizione
di condanna nei termini sopra precisati, da ritenere compresa nel più ampio petitum
formulato da C. D. Il dispositivo della sentenza è stato formulato nei seguenti termini: «Rigetta il ricorso
principale e accoglie in parte il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione
al ricorso parzialmente accolto e, decidendo la causa nel merito, condanna il
Ministero dell'Economia e delle Finanze a valutare la posizione di C. D. ai fini del conferimento
degli incarichi e delle funzioni di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, con
l'osservanza delle disposizioni di cui al primo comma del detto articolo».
Il contratto di lavoro del dirigente di un Ente parco non può contenere clausole di proroga o di rinnovo
Il conferimento delle funzioni di direttore generale dell'Ente nazionale Parco
del Pollino è disciplinato dall'art. 9 della legge 6 dicembre 1991 n. 394(legge quadro
sulle aree protette) secondo cui: «Il direttore del parco è nominato, con decreto, dal
ministro dell'Ambiente, scelto in una rosa di tre candidati proposti dal consiglio direttivo tra soggetti iscritti ad un albo di idonei all'esercizio dell'attività di direttore del parco istituito
presso il Ministero dell'Ambiente, al quale si accede mediante procedura concorsuale
per titoli. Il presidente del parco provvede a stipulare con il direttore nominato un
apposito contratto di diritto privato per una durata non superiore a cinque anni». Il provvedimento
ministeriale (peraltro ricondotto all'area dei poteri privati dell'amministrazione
pubblica da Cass. Ss.Uu. 27 febbraio 2008, n. 5087) investe della carica il soggetto prescelto
costituendo il rapporto organico, o di ufficio, in relazione alle attribuzioni gestionali
previste dallo statuto dell'ente, mentre in posizione accessiva al provvedimento si colloca
il contratto di lavoro, espressamente qualificato dalla legge come di «diritto privato»,
che definisce le rispettive obbligazioni e, particolarmente, gli aspetti patrimoniali, determinando
la nascita del rapporto di servizio. La disciplina speciale colloca il contratto in
questione fuori dall'area di quelli stipulati a seguito di conferimento degli incarichi ai dirigenti
delle pubbliche amministrazioni, sottraendolo alla specifica disciplina di cui all'art.
9 d.lgs. n. 165 del 2001. Questo contratto, poi, per espresso disposto legislativo, deve essere
a tempo determinato ed il termine non può essere superiore a cinque anni. Ne consegue
che il contratto non è abilitato in alcun modo ad introdurre deroghe alla disciplina
legislativa, neppure mediante clausole di proroga o di rinnovo. Il «rinnovo», del resto, si
sostanzia nella stipulazione di un nuovo contratto con lo stesso soggetto parte del precedente
e con i medesimi contenuti. Proprio per essere un nuovo contratto, trova applicazione
il principio per il quale la volontà negoziale della pubblica amministrazione non può
desumersi da comportamenti concludenti, ma deve essere espressa in forma scritta a pena
di nullità , con la conseguenza che nei suoi riguardi non è radicalmente ipotizzabile la
rinnovazione tacita. Alla stregua delle disciplina speciale, poi, se certamente la legge non
vieta il «rinnovo» dell'incarico al soggetto già nominato direttore di un ente parco, è certo
tuttavia che ciò deve avvenire con l'osservanza dello stesso procedimento previsto per
la prima stipulazione, indipendentemente da quanto eventualmente previsto dal contratto
individuale in contrasto con norma inderogabile.
Anche il giornalista ha diritto di rimanere in servizio sino a 65 anni, Se ha esercitato l’opzione prevista dalla legge
L’azione di annullamento del licenziamento deve essere promossa con ricorso notificato entro il quinquennio
L’ordine dei giornalisti ha il compito di salvaguardare la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica
Non è possibile proporre più di una domanda per il ricalcolo del tfr, in base ai principi del giusto processo
G. M. dipendente della Spa Compagnia trasporti pubblici con qualifica di agente di
movimento,ha ottenuto nel 1990, mentre era in servizio, dal pretore di Caserta, una sentenza
che ha accertato il suo diritto all'inserimento nella base di calcolo dell'indennità di
anzianità accantonata al 31 maggio 1982, di alcune indennità previste dall'accordo autoferrotranvieri
del 21 maggio 1981 ed erogate in via continuativa. La sentenza è passata in
giudicato. Successivamente, cessato il rapporto, egli ha promosso, nei confronti dell'azienda,
davanti al pretore di Santa Maria Capua Vetere, un nuovo giudizio al fine di fare accertare
che egli aveva percepito per trattamento di fine rapporto, una somma inferiore a
quella dovutagli, in quanto nel calcolo dell'indennità di anzianità accantonata al 31 maggio
1982 non era stato incluso il compenso per lavoro straordinario da lui continuativamente
percepito. Il pretore ha dichiarato improponibile la domanda in quanto ha ritenuto che nell'entità
del Tfr accantonata al 31 maggio 1982 si fosse formato il giudicato in seguito alla
sentenza del pretore di Caserta pronunciata nel 1990, pur se il relativo giudizio aveva avuto
ad oggetto indennità diverse dal compenso per lavoro straordinario. Questa decisione
è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che ha escluso
di poter attribuire effetti preclusivi alla sentenza del 1990, in quanto concernente elementi
retributivi diversi, ed ha pertanto condannato l'azienda al pagamento delle differenze
richieste. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del
Tribunale Santa Maria Capua Vetere per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Secondo un principio da ritenersi ormai acquisito
nella giurisprudenza di legittimità ' ha ricordato la Corte ' non è consentito al creditore di
una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di
frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento contestuali o scaglionate
nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore
per sua esclusiva utilità con unilaterale determinazione aggravativa della posizione
del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve
improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche
nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio
costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda
giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti
processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. Tale principio ' ha affermato la Corte ' è venuto in emersione in un
quadro normativo evolutosi negli ultimi tempi sotto un duplice profilo: da un lato si è assistito
ad una sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede
in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art.
2 della Costituzione; dall'altro, l'affermarsi del canone del «giusto processo», di cui al novellato
art. 111 della Costituzione, ha comportato una lettura «adeguata» della normativa
di riferimento (in particolare art. 88 cod. proc. civ.), nel senso del suo allinearsi al duplice
obiettivo della ragionevolezza della durata del procedimento e della giustezza del processo,
«inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che giusto
non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione
in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna
il limite, oltre che la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi».
In applicazione del suddetto principio, nelle sue varie articolazioni ' ha affermato la Corte
' deve ritenersi che, qualora il Tfr formi oggetto di un'azione giudiziaria di condanna
proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto, resta
preclusa una nuova domanda di riliquidazione dello stesso trattamento, ancorché fondata
su ragioni non dedotte ' ma tuttavia deducibili ' nel precedente giudizio e ciò in base
all'ulteriore principio (da intendersi in maniera rigorosa) secondo cui la cosa giudicata copre
non solo il dedotto, ma anche il deducibile.
Nel caso in oggetto ' ha osservato la Corte ' G. M., come è pacifico tra le parti, aveva richiesto,
con un precedente giudizio al pretore del lavoro di Capua l'accertamento del suo
diritto a vedersi computare correttamente l'accantonamento consolidato al «31 maggio
1982», attraverso l'inserimento nella base del calcolo delle indennità previste ai punti 3,
4 e 5 dell'Accordo autoferrotranvieri del 21 maggio 1981 ed erogate in maniera fissa e continuativa;
e tale domanda era stata accolta con sentenza di detto pretore, passata in giudicato.
Orbene ' ha rilevato la Corte ' è pur vero che, nella concreta fattispecie, il dedotto
giudicato riguarda un accertamento svolto nel corso del rapporto lavorativo e non al
termine di esso, ma è anche vero che G. M., cosà come all'epoca della prima azione giudiziaria
innanzi al pretore del lavoro di Capua aveva avuto possibilità di sapere le componenti
retributive incluse o escluse dal calcolo al 31 maggio 1982 (ed, in particolare, che in
quella base di calcolo il Ctp non aveva inserito le reclamate indennità previste dal richiamato
accordo del 21 maggio 1981), analogamente sapeva che neppure i compensi per lavoro
straordinario erano stati inclusi. Pertanto ' ha concluso la Corte ' la domanda, volta
all'inserimento anche di tali compensi, avanzata con il secondo giudizio, temporalmente
limitati al 31 maggio 1982, concernendo pretese creditorie sicuramente deducibili con la
formulazione della prima azione giudiziaria, deve ritenersi ormai preclusa.
Le somme versate a titolo di risarcimento del danno professionale da demansionamento non vanno assoggettate a ritenute fiscali
M. V. dipendente della Banca nazionale dell'agricoltura, avendo subito un demansionamento,
ha chiesto al pretore di Milano di condannare l'aziendaal risarcimento
dei danni alla professionalità e all'immagine da lui subiti nell'ottobre del 1997. Il
pretore di Milano ha accolto la domanda condannando la banca al risarcimento dei danni
da demansionamento in misura di lire 101.385.309. La Banca nazionale dell'agricoltura,
datrice di lavoro di M. V., gli ha accreditato la somma detraendo le ritenute fiscali pari a lire
41.567.976, che ha versato all'Esattoria imposte dirette di Roma. M. V. ha presentato
quindi istanza di rimborso dell'Irpef per lire 45.380.000 e ha impugnato il silenzio rifiuto
dell'amministrazione finanziaria. Egli ha sostenuto che la somma di cui alla condanna emessa
dal pretore di Milano non era soggetta a imposizione fiscale ai fini Irpef in quanto
non rappresentava alcuna reintegrazione di reddito patrimoniale non percepita ma piuttosto
il risarcimento del danno alla professionalità e all'immagine derivato dal demansionamento.
Il ricorso del contribuente è stato respinto in primo grado dalla Commissione tributaria
provinciale e in appello dalla Commissione tributaria regionale di Milano che hainterpretato le disposizioni dell'articolo 6, secondo comma, del d.P.R. 917/1986 e quelle
del d.l. n. 41/1995 nel senso dell'imponibilità dell'indennità percepita dal contribuente per
essere in generale soggette «a tassazione le somme e i valori comunque percepiti anche
a titolo risarcitorio a seguito di provvedimento dell'autorità giudiziaria relativa a questioni
di lavoro». M. V. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della
Commissione tributaria regionale per violazione di legge. Egli ha sottolineato la natura di
risarcimento di danno non patrimoniale e non derivante dall'accertamento di una perdita
reddituale del suo credito accertato in giudizio nei confronti del datore di lavoro e ha rivendicato
quindi il suo diritto al rimborso delle ritenute illegittimamente detratte dalla
somma corrisposta dal datore di lavoro e non restituite dall'amministrazione finanziaria.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ricordando che la giurisprudenza di legittimità è
ferma nel ritenere che in tema di imposte sui redditi, in base al dettato dell'art. 6, comma
secondo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le somme percepite dal contribuente a titolo
risarcitorio possono costituire reddito imponibile solo quando abbiano la funzione di
reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi; sicché ad esempio
non sono assoggettabili a tributo l'indennità corrisposta dal datore di lavoro, a titolo di risarcimento
del danno, per la reintegrazione delle energie psichiche spese dal lavoratore
oltre l'orario massimo di lavoro da lui esigibile.
La Corte ha cassato la decisione impugnata e, decidendo nel merito, ha affermato il diritto
di M. V. al rimborso delle ritenute fiscali effettuate dalla datrice di lavoro.
Ai fini della collocabilità dell’invalido nell’organizzazione aziendale, non assume rilievo la vacanza dei posti in organic
È passibile di licenziamento il dipendente che lede l’immagine dell’azienda con pubbliche accuse prive di fondamento
Pubblicazione delle sanzioni disciplinari degli ordini professionali
Il Garante ha respinto il ricorso avverso il Consiglio dell'Ordine degli architetti
di Bergamo proposto da un architettoper la pubblicazione di due sanzioni disciplinari
di sospensione comminategli dal Consiglio nella newsletter inviata agli iscritti all'ordine
e pubblicata sul sito web dell'ordine, chiedendo di cancellare dal sito tali dati.
L'art. 61 del Codice della privacy, con riferimento ai dati personali che devono essere inseriti
in un albo professionale, precisa che gli stessi possono essere comunicati o diffusi
anche mediante reti di comunicazione elettronica e che è possibile, in tale contesto, fare
menzione dell'«esistenza di provvedimenti che dispongono la sospensione o che incidono
sull'esercizio della professione». Il Garante ha quindi concluso che i provvedimenti disciplinari
si configurano quali atti pubblici soggetti a un regime di piena conoscibilità da
parte di altri professionisti e di terzi e che, nel caso di specie, i dati personali del ricorrente
relativi alle sanzioni disciplinari comminategli non risultano essere stati diffusi in violazione
di legge, tenuto anche conto che l'informazione fornita dall'Ordine nella newsletter
era esatta e completa.
Rapporto tra il diritto alla comunicazione dei propri dati personali e diritto all’accesso di cui alla legge n. 241/90
Diritto del lavoratore alla comunicazione di dati personali finalizzati ad agire contro il proprio datore di lavoro
Un lavoratore ha proposto ricorso avverso l'azienda datrice di lavoro perché
non aveva soddisfatto la sua richiesta di comunicazionein forma intelligibile dei
dati personali che lo riguardavano, con particolare riferimento ai turni di servizio giornalieri
(ivi compresa la specificazione degli orari di inizio e di fine turno, del luogo di partenza
e di destinazione e della relativa distanza). L'azienda ha controdedotto che a) la documentazione
richiesta non rientrerebbe, a suo avviso, fra i dati personali di cui all'art. 4,
comma 1, lett. b) del Codice in materia di protezione dei dati personali «giacché attiene esclusivamente
alle condizioni e modalità di espletamento dell'attività lavorativa»; b) la richiesta
comporterebbe per la società la «ricostruzione dell'impegno lavorativo quotidiano
dell'interessato e per di più per l'arco temporale di oltre 10 anni»; c) ricorrerebbero le
condizioni per il differimento dell'accesso di cui all'art. 8, comma 2, lett. e) del Codice giacché
lo stesso ricorrente ha dichiarato che «è necessario produrre i turni in questione nel
giudizio da promuovere innanzi al Tribunale del lavoro [â?¦] per il riconoscimento di una indennità
sostitutiva per ogni mancato riposo giornaliero e/o settimanale, come riconosciuto
in numerose sentenze a favore di altri dipendent». Il Garante ha accolto il ricorso rilevando
che l'art. 8, comma 2, lettera e), del Codice, consente il temporaneo differimento
dell'esercizio dei diritti previsti dall'art. 7 per il solo periodo durante il quale potrebbe derivarne
pregiudizio per lo svolgimento di cd. «indagini difensive» o, comunque, per far valere
un diritto in sede giudiziaria e che la valutazione dell'esistenza di un effettivo pregiudizio.
Nel caso in esame, invece, non è risultata la ricorrenza di nessuno di questi presupposti
idonei a giustificare un differimento del diritto di accesso, né è stato comprovato un
«pregiudizio effettivo e concreto» allo svolgimento di investigazioni difensive o, comunque,
per l'esercizio del diritto in sede giudiziaria; la società resistente si è solo limitata a
ritenere possibile l'instaurazione di una controversia giudiziaria per la corresponsione all'interessato
di una indennità sostitutiva per ogni mancato riposo giornaliero e/o settimanale.
Il Garante ha quindi condannato la società a consentire all'interessato l'accesso
ai dati personali che lo riguardano relativi all'ordinaria gestione del rapporto di lavoro, con
particolare riferimento ai turni di servizio giornalieri (ivi compresa la specificazione degli
orari di inizio e di fine turno, del luogo di partenza e di destinazione e della relativa distanza).
Partecipazione delle associazioni datoriali di categoria alle procedure di raffreddamento per vertenze ultraziendali
La Commissione ha rilevato che nei settori caratterizzati dalla presenza sul
territorio nazionale di un elevato numero di impreseche erogano il servizio pubblico
è necessario, in sede di esperimento delle procedure preventive alla proclamazione
di uno sciopero, l'intervento di un'associazione che le rappresenti e che già alcuni
accordi stipulati ai sensi dell'art. 2 comma 2 della legge 146/1990 prevedono l'adempimento
da parte delle associazioni di datori di lavoro di importanti obblighi per
l'esperimento delle procedure preventive alla proclamazione dello sciopero e per la
comunicazione della proclamazione di sciopero alle singole aziende. La Commissione
ha pertanto adottato una deliberazione di indirizzo secondo cui, in occasione della richiesta
da parte delle organizzazioni sindacali di procedure di raffreddamento e conciliazione
relative a vertenze nazionali (o ultraziendali), devono ritenersi legittimate a
partecipare a tali procedure anche le associazioni di categoria datoriali, con la conseguenza
che in caso di mancata partecipazione si riterranno comunque espletate le procedure
in questione.
Scioperi spontanei e sanzionibilità dei partecipanti
Quando un'astensione dal lavoro non è riconducibile ad una o più organizzazioni
sindacalima è stata posta in essere dai lavoratori spontaneamente nel mancato
rispetto delle disposizioni contenute nella legge n. 146/1990, secondo l'orientamento
dalla Commissione (v. delibera n. 08/518) in tal caso l'apertura di un procedimento
di valutazione nei confronti di tutti i lavoratori che si sono astenuti non può
comportare l'adozione dei provvedimenti previsti dall'art. 4 della stessa legge. La
Commissione può soltanto invitare il datore di lavoro a procedere disciplinarmente nei
confronti dei soggetti responsabili dell'astensione ritenuta illegittima.
Interpretazione «integrativa » all’accordo di regolamentazione dello sciopero per i servizi di igiene ambientale
Diritto alle ferie annuali retribuite – Congedo per malattia – Ferie coincidenti con congedo per malattia- Indennità sostit
Licenziamento individuale – Tutela cautelare – Danno grave ed irreparabile – Insussistenza – Rigetto
Licenziamento giustificato motivo oggettivo per completamento fase esecutiva lavori presso cantiere – Illegittimità
Impugnativa di licenziamento da parte di associazione sindacale con la lettera di esperimento del tentativo di conciliazione
Un ex dipendente di un'azienda di autotrasporti, licenziato per motivi di natura
disciplinare,chiedeva al Tribunale di Pescara l'annullamento del licenziamento in quanto
non preceduto dal procedimento ex art. 7 legge n. 300/70. Nel costituirsi in giudizio, la
società resistente eccepiva la decadenza dall'impugnativa di licenziamento in quanto effettuata
fuori termine da parte di associazione sindacale. Nell'accogliere il ricorso, il Tribunale
di Pescara ha affermato che la legittimazione dell'associazione sindacale non può
essere messa in dubbio alla luce del chiaro disposto dell'art. 6 della legge 604/66 che
conferisce un espresso potere di rappresentanza al sindacato. Trattandosi, quindi, di rappresentanza
ex lege, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata dall'associazione
sindacale nell'interesse del proprio associato può ritenersi idonea a produrre effetti diretti
nella sfera giuridica del rappresentato e, conseguentemente, a norma dell'art. 410 cod.
proc. civ., comma 2, tale richiesta sospende il decorso di ogni termine di decadenza laddove
depositata prima dello spirare del termine di sessanta giorni. A tale ultimo proposito,
il Tribunale ha recepito i principi della giurisprudenza di legittimità secondo cui è sufficiente
il solo deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione,
contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la commissione di
conciliazione.
Cessione ramo di azienda – Insussistenza – Cessione singoli rapporti giuridici – Sussistenza – Necessità consenso cedut
Lavoro pubblico – Lavoratore con procedimento penale pendente – Sentenza definitiva di proscioglimento – dimissioni
Provvedimento di riorganizzazione aziendale – Esclusione negoziazione sindacale – Ipotesi di condotta antisindacale – Escl
Dimissioni – Situazione di transitoria incapacità di intendere e di volere – Vizio del consenso – Sussistenza
Dequalificazione professionale – Demansionamento – Sussistenza – Danno «interno» all’immagine: risarcibilità –
Patto di prova – Necessità di anteriorità o contestualità della sottoscrizione – Dimissioni – forma scritta convenziona
Dequalificazione professionale – Danno non patrimoniale – Risarcibilità – Criteri di valutazione equitativa
Impugnazione delibera di esclusione da socio e di conseguente licenziamento – Competenza del giudice del lavoro
Appalto pubblico – Fallimento dell’appaltatore – Azione degli ausiliari – Responsabilità committente – Configurabilit
Modifica distribuzione orario di lavoro – Introduzione orario spezzato – Mancata motivazione – Illegittimità – Sussiste
Tardività della notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza – Eccezione di nullità –
Questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma sul d.lgs. n. 368 del 2001
6. M. D. è stata assunta dalla Spa Poste italiane a tempo determinato,per il periodo
ottobre 2003 ' gennaio 2004, con contratto riferito all'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001
e recante quale causale «ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza
di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al
servizio di recapito presso l'Ufficio recapito di Pozzuoli, assente con diritto alla conservazione
del posto di lavoro». Alla scadenza prevista dal contratto, l'azienda ha posto termine
al rapporto di lavoro. La lavoratrice ha chiesto la Tribunale di Roma di dichiarare la
nullità del termine apposto al contratto di lavoro e conseguentemente l'esistenza di un
rapporto di lavoro indeterminato, con condanna dell'azienda a riammetterla in servizio e
a pagarle le retribuzioni maturate successivamente alla scadenza del contratto. A sostegno
della domanda ella ha rilevato la genericità della causale addotta dall'azienda e la
sua inesistenza, in quanto in realtà la sua assunzione era stata effettuata per far fronte
a una cronica carenza di personale. L'azienda si è difesa sostenendo la validità della motivazione
addotta per l'assunzione. Prima dell'udienza fissata per la discussione, è entrato
in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, che, come convertito in legge n. 133/2008, ha
introdotto, nel d.lgs. n. 368/2001, dopo l'art. 4, un art. 4-bis, che recita che «con riferimento
ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e
fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui
agli artt. 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di
lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri di cui all'art. 8
della legge 15 luglio 1996, n. 604 e successive modificazioni». In sede di discussione, la
difesa della parte ricorrente ha chiesto giudicarsi rilevante e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale di tale disposizione, per violazione degli
artt. 3, 4, 10, 24, 35 e 75 della Costituzione. Il Tribunale ha dichiarato «rilevante e nonmanifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, comma
1-bis della legge n. 133/2008, inserente dopo l'art. 4 del decreto legislativo n. 368/2001
un art. 4-bis, per contrasto con gli articoli 3, comma 1, 24, comma 2, 101, 102, comma 2,
104, comma 2, e 117, comma 1, della Costituzione». Inoltre, la stessa ordinanza del Tribunale
di Roma, differenziandosi da altri analoghi provvedimenti ha dichiarato rilevante
e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale altresà degli
artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368/2001, per contrasto con gli artt. 76, 77 e 117 comma
1 della Costituzione.
Ravvisato anche dal Tribunale di Trieste il contrasto della nuova normativa sui contratti a termine con gli artt. 3 e 117
3. A. D. ha lavorato alle dipendenze del Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia
nel periodo dal febbraio 2002 al maggio 2006,in base a una serie di contratti a termine.
Egli ha chiesto, nel maggio del 2007, al Tribunale di Trieste di accertare la nullità
dei termini apposti ai vari contratti ' anche per mancanza, nelle lettere di assunzione,
dell'indicazione delle ragioni giustificative a termini dell'art. 1 legge n. 368 del 2001 ' di
dichiarare l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato e di condannare l'azienda
a riammetterlo in servizio e a risarcirgli i danni. Per la discussione della causa il Tribunale
ha fissato l'udienza del 15 ottobre 2008. Nel frattempo è entrata in vigore la legge
6 agosto 2008 n. 133, che ha aggiunto al decreto legislativo n. 368/01 l'art. 4-bis, in base
al quale, limitatamente alle cause in corso, è stato precluso al giudice di disporre, in
caso di accertata nullità del termine, la riammissione in servizio del lavoratore. Il Tribunale
di Trieste, giudice Annalisa Multari ' come già altri giudici, da ultimo la Corte d'Appello
di Milano ' con ordinanza del 15 ottobre 2008, ha sollevato d'ufficio la questione
di legittimità costituzionale ' per contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. ' del
comma 1-bis dell'art. 21 legge 6 agosto 2008 n. 133 con cui, dopo l'art. 4 del d.lgs. n.
368/01 è stato inserito l'art. 4-bis. Nella motivazione dell'ordinanza il Tribunale ha rilevato
che, stante la nullità ' per violazione dell'art. 1 legge n. 368/01 ' dei termini apposti
ai contratti di lavoro tra A. D. e il Teatro stabile, in base alla normativa precedente all'entrata
in vigore della legge n. 133/08, il lavoratore aveva diritto ad essere riammesso
in servizio e che l'esercizio di tale diritto è stato precluso dalla nuova legge. La normativa
sopravvenuta ' ha osservato il giudice ' è stata adottata in violazione dell'art. 3
Cost. poiché ha introdotto una regolamentazione normativa che non riguarda tutti i rapporti
a termine stipulati ad una certa data ma solamente quelli per i quali il giudizio è in
corso indipendentemente dalla data di loro stipulazione, penalizzando quindi coloro
che hanno sollecitamente adito il giudice a tutela dei propri diritti rispetto a quelli che
invece sono rimasti inerti e ciò senza alcuna giustificazione, in piena violazione del canone
di ragionevolezza che consente al legislatore di differenziare anche situazioni eguali,
ancorando il trattamento differenziato nelle conseguenze ad un fatto puramente
casuale. La disposizione citata ' ha rilevato il giudice ' risulta anche in contrasto conl'art. 117 Cost., comma 1, secondo cui la potestà legislativa è esercitata da Stato e Regioni
nel rispetto della Costituzione e dei vincoli che derivano dall'ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848. Tale disposizione, cui lo Stato italiano deve
conformarsi, prevede che ogni persona abbia diritto ad avere un giusto processo innanzi
ad un tribunale indipendente ed imparziale, e si traduce in un obbligo per il legislatore
di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia per influire sull'esito di
una controversia o di determinate categorie di controversie.
La nuova normativa sui contratti a termine contrasta con gli artt. 3, 24, 11 e 117 della Costituzione
2. G. G. è stato assunto alle dipendenze della Spa Poste italiane «per ragioni di
carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione
di personaleinquadrato nell'area Operativa e addetto al servizio recapito,
presso la Regione Sud, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo
dal 1° ottobre 2003 al 31 dicembre 2003». Alla scadenza prevista dal contratto l'azienda
ha posto termine al rapporto di lavoro. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Roma
di dichiarare la nullità del termine in base all'art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368
per mancata specificazione delle ragioni dell'assunzione, di disporre la sua riammissione
in servizio e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. Il Tribunale ha rigettato la
domanda. Il lavoratore ha proposto appello, censurando la decisione impugnata per disapplicazione
del d.lgs. n. 368/01. Prima dell'udienza di discussione è entrato in vigore
l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, come convertito in legge n. 133/2008, che ha introdotto nel
d.lgs. 368/2001 l'art. 4-bis che titola: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo
per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine» e dispone
che «1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente
disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle
disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare
il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed
un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri
indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni».
La Corte d'Appello di Roma con ordinanza del 21 ottobre 2008 ha dichiarato rilevante e
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 21 comma
1-bis della legge 6 agosto 2008 n. 133 con il quale dopo l'art. 4 del d.lgs. 6 settembre
2001 n. 368 è stato inserito l'art. 4-bis , per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 1, 111, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione. Nella motivazione dell'ordinanza la Corte ha rilevato
che nella lettera di assunzione di G. G. le ragioni di carattere sostitutivo non erano
precisate nel concreto e con riferimento specifico alla struttura alla quale il lavoratore sarebbe
stato addetto (filiale di Salerno 2 - Sala Consilina) tale non potendosi considerare il
generico riferimento ad una esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato
nell'Area operativa e addetto al servizio di recapito presso la Regione Sud con diritto
alla conservazione del posto; la «Regione Sud» comprende un'area ben più vasta di
quella di destinazione (filiale di Salerno), né è stato, neppure indirettamente, precisato se
e per quali specifiche aree della Regione tali esigenze si sarebbero manifestate. La genericità
delle espressioni utilizzate ' ha affermato la Corte ' non sembra consentire, poi, l'individuazione
del nesso causale tra l'assunzione del G. e le concrete esigenze della Società
Poste italiane, con specifico riferimento al preciso ambito organizzativo; non è dato conoscere
neppure numericamente l'incidenza delle assenze sull'organico della filiale di destinazione
di tal che è interdetto al lavoratore in prima battuta, e al giudice poi, di verificare
la effettività delle ragioni giustificatrici esercitando quel controllo che, quanto meno
ex post, deve essere effettuato dal giudice in relazione alla sussistenza della causale giustificativa
della limitazione temporale del rapporto. La Corte ha osservato che i rilevati vizi
della lettera di assunzione sono tali da comportare la dichiarazione di nullità del termine
e la condanna dell'azienda a riammettere il lavoratore in servizio, ma che tali conseguenze
sono oggi precluse per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21-bis del decreto legge
n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge 133/2008 che ha introdotto nel
decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis; non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilità
di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l'indennità riconoscibile sarebbe necessariamente
limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilità . Pertanto la Corte ha deciso di sollevare
la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 1,
111, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione, nel significato che assumono anche per
effetto delle proclamazioni contenute nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo,
e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata
a Nizza il 7 dicembre 2000. A tali norme sovranazionali ' ha osservato la Corte di
Roma ' la giurisprudenza costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di parametro
di riferimento nel giudizio di costituzionalità (v. Corte Cost. 135/2002), implicitamente
riconoscendo che i diritti e le libertà fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni
e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori-diritti alla dignità delle persone,
compongono un quadro di proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. Con riferimento
al ritenuto contrasto della nuova legge con l'art. 3 Cost., la Corte d'Appello ha escluso
che per tale disposizione possa essere ravvisata una giustificazione razionale nel
fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti,
riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una
causa in corso (ché se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe stato fatto salvo);
con l'aggravante che proprio per il modo in cui interviene «con riferimento ai soli giudizi
in corso», il comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008 finisce per amplificare
ulteriormente, anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto
sul piano del diritto alla difesa e dell'«equo processo» (artt. 3, 24, comma 1, e 111,
comma 1, 117 Cost.), gli effetti discriminatori di un intervento provvedimentale mirato alle
applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001.
La Corte di Roma ha altresà ritenuto che l'art. 4-bis del d.lgs. 368/2001 viola il principio costituzionale
del giusto processo (artt. 11 e 24 Cost.) perché nel corso del procedimento
giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano
ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta del legislatore; nel caso
in esame infatti l'intervento legislativo determina un'alterazione della condizione di parità
nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, condizione che, al contrario, deve
essere sempre assicurata. È evidente ' ha osservato la Corte ' che il legislatore a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani è intervenuto allo
scopo di favorire una definizione delle controversie pendenti in termini di minor impatto
economico per le parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle
imperiose ragioni d'interesse generale, che, ad esempio, la Corte europea di Strasburgo
richiede come condizione per superare il divieto d'ingerenza (in tal senso si legga l'ordinanza
della Corte Cass. n. 22260/2008 relativamente all' art. 1, comma 218, legge 266
/2005). Per analoghe considerazioni ' ha aggiunto la Corte ' deve ravvisarsi la violazione
dell'art. 117, primo comma Cost., con riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei
diritti dell'Uomo che garantisce l'indipendenza della magistratura; come più volte statuito
anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino c. Italia, 29 marzo 2006), gli Stati
aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate
ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento
retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale. Nel caso in
esame ' ha affermato la Corte ' il legislatore con una disposizione che, non interpreta norme
di legge esistenti ma muta il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel
diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimità del termine apposto
al contratto e cosà impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale
(tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa); in tal modo la norma in esame
determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide
soltanto sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge realizzando una inammissibile
intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo
scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie.
Legittimità costituzionale della nuova normativa sui contratti a termine: alcuni casi di specie
1. R. M. ha lavorato alle dipendenze della Spa Coin in base a una serie di nove assunzioni
a tempo determinato intercorse tra il novembre 2000 e il marzo 2004.Cessato l'impiego alla scadenza dell'ultimo contratto, ella ha chiesto al Tribunale di Milano
di dichiarare l'illegittimità dei termini apposti alle varie assunzioni e di disporre la riattivazione
del rapporto. Il Tribunale ha accertato che in occasione del terzo contratto, in data
18 febbraio 2002, R. M., pur essendo stata assunta per asserita necessità di sostituire
una lavoratrice in permesso per malattia del figlio, era stata impiegata in un reparto diverso
da quello in cui lavorava la collega assente e non l'aveva di fatto sostituita, né direttamente,
né indirettamente per «scorrimento». Conseguentemente il Tribunale ha dichiarato
nullo, per violazione dell'art. 1 legge n. 368/01, il termine apposto a tale contratto,
ha accertato l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e ha condannato
l'azienda a riammettere R. M. in servizio nonché al risarcimento del danno. In grado
di appello, la Corte di Milano, con ordinanza del 28 ottobre 2008, ha ritenuto di dover confermare
la sentenza di primo grado, e ha rilevato che, a seguito dell'entrata in vigore dell'art.
21 legge n. 133/08 le era preclusa la possibilità di condannare l'azienda a riammettere
la lavoratrice in servizio, essendole soltanto consentito di attribuire alla medesima una
limitata indennità pecuniaria ed ha sollevato la questione di legittimità costituzionale,
con riferimento agli artt. 3, 24 e 117 Cost., dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001 introdotto
con l'art. 21 legge n. 133/08. Il legislatore ' ha osservato la Corte ' ha ritenuto di applicare
la nuova e peggiorativa disciplina normativa del contratto di lavoro a tempo determinato
soltanto a coloro che sono parte in un giudizio in corso, indipendentemente dalla data
di stipulazione del contratto. L'elemento di discrimine scelto dal legislatore evidenzia il
primo profilo di illegittimità costituzionale, la violazione dell'art. 24, primo comma, della
Costituzione; l'avere tempestivamente proposto azione per la tutela giurisdizionale dei diritti
di cui agli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 diventa in sé causa di trattamento deteriore
rispetto a chi alla data di entrata in vigore della legge non ha proposto domanda
giudiziale, a fronte della identica situazione in fatto e in diritto. Nella medesima situazione
di diritto sostanziale ' ha aggiunto la Corte ' l'avere agito in giudizio per la tutela del
proprio diritto è in sé causa di esclusione dalla tutela ordinaria, con evidente lesione del
diritto all'azione di cui all'art. 24, primo comma, della Costituzione; sotto un concorrente
aspetto, il tempo del processo, che secondo i principi generali mutuati dall'art. 24 dalla
stessa Corte Costituzionale (v. sent. 28 giugno 1985, n. 190) non deve andare a danno dell'attore
che ha ragione, diventa con la norma impugnata, che definisce il suo ambito di applicazione
esattamente nel tempo della pendenza del processo (dalla domanda al passaggio
in giudicato), causa di deterioramento della posizione giuridica sostanziale. La Corte
ha anche rilevato che la disposizione del quarto comma dell'art. 21, secondo il quale decorsi
ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge il ministro del Lavoro,
della Salute e delle Politiche sociali, all'esito della verifica degli effetti anche della disposizione
in esame, può valutare l'opportunità «della sua ulteriore vigenza», appare ulteriormente
lesiva del principio di effettività e certezza della tutela giurisdizionale e deterrente
all'esercizio dell'azione, perché l'intraprendere nelle more un giudizio potrebbe
comportare l'applicazione del regime deteriore anche a situazioni che ad oggi troverebbero
la più estesa tutela. In considerazione della imprescrittibilità dell'azione di nullità e
della possibilità per il lavoratore di mettere in mora il datore di lavoro con atti stragiudiziali,
la norma si traduce in un inammissibile condizionamento esterno a tempo indeterminato
all'esercizio dell'azione. Sotto il profilo della violazione dell'art. 3 della Costituzione
' ha affermato la Corte ' è ravvisabile disparità di trattamento di situazioni eguali (tertium
comparationis), rappresentate dall'insieme dei soggetti che nel medesimo tempo
hanno stipulato un contratto a termine disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001, in violazione
degli artt. 1, 2 o 4 del medesimo decreto legislativo e non avevano una causa pendente alla data di entrata in vigore della legge n. 133 del 2008; l'elemento di discrimine scelto
dal legislatore, oltre che, come s'è detto, di per sé in contrasto con il diritto garantito
dall'art. 24, primo comma, della Costituzione, non giustifica, ad un vaglio di ragionevolezza,
una tutela del medesimo diritto sensibilmente diversa, laddove chi ha proposto la
domanda giudiziale il giorno successivo all'entrata in vigore della legge godrà della tutela
ordinaria, fondata sulla nullità parziale e sulle conseguenze che ne derivano secondo il
diritto comune, mentre l'odierno appellante null'altro può pretendere che un indennizzo
compreso fra 2,5 e 6 mensilità . La Corte ha anche ritenuto non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale della norma denunciata per contrasto con l'art.
117, primo comma, della Costituzione e, per suo tramite, con l'art. 6, par. 1, della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali firmata
a Roma il 4 novembre 1950 (infra, Cedu), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto
1955, n. 848. L'art. 6 della Cedu ' ha osservato la Corte ' nell'affermare il diritto al
«giusto processo» è stato interpretato dalla Corte europea di Strasburgo nel senso che
«sebbene, in teoria, non è precluso al legislatore, in materia civile, di adottare nuove disposizioni
retroattive per regolare diritti derivanti da una legge esistente, il principio dello
stato di diritto e la nozione di giusto processo sanciti dall'articolo 6 della Convenzione
impedisce qualsiasi ingerenza del legislatore ' salvo che per impellenti motivi di interesse
generale ' con l'amministrazione della giustizia volta ad influenzare la decisione giudiziaria
di una controversia (§ 126 sent. 29 marzo 2006 Grande Camera, causa Scordino c.
Italia e precedenti ivi richiamati). L'art. 6 della Convenzione, cosà come interpretato dalla
Corte europea, viene in tal modo a costituire «fonte interposta» che fornisce contenuto al
parametro costituzionale del rispetto degli obblighi internazionali (v. Corte Cost. n. 349
del 2007). Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' la norma denunciata modifica i diritti
derivanti dalla legge esistente con efficacia limitata in via esclusiva ai processi in corso,
senza che ricorrano e siano esplicitati gli «impellenti motivi di interesse generale» che
giustifichino la conseguente differente soluzione della controversia.
non applicabilità del principio costituzionale del giusto compenso alle prestazioni autonome
Un consulente in materie giuridiche dopo aver collaborato per alcuni anni con
un ente locale conveniva lo stesso in giudizioal fine di vedere integrato il compenso
sulla base delle tabelle professionali forensi e comunque per vedersi riconoscere i parametri
retributivi previsti dalla contrattazione collettiva per il personale dirigenziale. La
sentenza del Tribunale di Lecce che aveva respinto la domanda veniva confermata in sede
di appello. La Corte di Cassazione, dopo aver escluso per la natura delle attività svolte
l'applicazione delle tariffe forensi, ha confermato la decisione dei giudici di appello che avevano
escluso l'applicabilità del precetto costituzionale sulla sufficiente retribuzione affermando
che tale norma riguarda esclusivamente il lavoro subordinato mentre per tutte
le altre prestazioni un intervento del giudice per la determinazione del compenso può ammettersi
solo se specificamente previsto da disposizioni legislative. Nell'affermare tale
principio i giudici di legittimità hanno affermato che per le cd. prestazioni parasubordinate
il giudice può determinare il corrispettivo in relazione al risultato ottenuto ed alla quantità
e qualità del lavoro normalmente necessario per ottenerlo solo nel caso che non sia
stato convenuto dalle parti. La Cassazione ha quindi respinto il ricorso sul rilievo che per
le prestazioni autonome ancorchè rese con carattere di continuità e coordinazione il giudice
non può integrare il corrispettivo della prestazione ove comunque un compenso risulti
pattuito.
assenza di un obbligo di creare un posto di lavoro per il lavoratore appartenente alle categorie protette
Un lavoratore appartenente alla categoria degli «orfani» con diritto all'avviamento
obbligatorioveniva inviato dalla locale struttura periferica del Ministero del Lavoro
presso una società specializzata nell'attività di vigilanza e spegnimento fuochi a bordo delle navi. L'avviamento veniva rifiutato dalla società destinataria del provvedimento
sul rilievo che il lavoratore non possedeva un tesserino necessario per lo svolgimento della
prestazione specialistica della società che non possedeva altre possibilità di ricollocazione
del lavoratore disagiato sociale. Il Tribunale di Messina respingeva la domanda di risarcimento
del danno avanzata dal lavoratore con sentenza confermata in sede di appello.
La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito sul rilievo che la
tutela dell'invalido non può spingersi sino a garantirgli l'obbligatorietà dell'assunzione
anche a fronte di assetti organizzativi aziendali caratterizzati da una situazione di oggettiva
ed assoluta incompatibilità con la sua qualificazione professionale e con le sue menomazioni,
e che il datore di lavoro non è tenuto a modificare o adeguare, sostenendo costi
aggiuntivi, la sua organizzazione aziendale alle condizioni di salute del lavoratore protetto
né in particolare, a creare per lui un posto di lavoro, anche concentrando in una sola
unità mansioni non difficoltose già facenti parte, con altre più complesse, dei compiti
degli altri lavoratori. L'obbligo derivante dall'avviamento al lavoro ' conclude la Corte '
non può spingersi sino a imporre di modificare l'assetto aziendale dell'impresa né a creare
appositamente un fittizio posto di lavoro.
La Cassazione esclude la risarcibilità del danno di un caposquadra adeguatamente formato e tenuto a vigilare sulla sicurezza
Nel corso di una istallazione di alcuni cavi all'interno di un condominio che vedeva
impegnata una squadra di operai,un lavoratore che si trovava ad operare all'interno
di una canalina, riscontrata la pericolosità delle condizioni in cui si trovava a operare,
sospendeva il lavoro al fine di cercare delle scale per effettuare il lavoro in sicurezza. Il
capo squadra, informato dell'accaduto, si sostituiva al lavoratore e calatosi nella canalina
senza le scale nell'appoggiare il piede su una trave che cedeva al suo peso cadeva da una
altezza di sette metri procurandosi gravi lesioni. Il lavoratore adiva quindi il Tribunale
di Brescia al fine di ottenere il risarcimento del danno subito. Nel corso dell'istruttoria emergeva
che il capo squadra, che ricopriva il ruolo anche di rappresentante della sicurezza
dei lavoratori, era stato adeguatamente addestrato dall'azienda sui rischi lavorativi e
sulla normativa antiinfortunistica e che gli strumenti protettivi erano a disposizione della
squadra nel furgone aziendale. Alla luce di tali accertamenti il giudice di primo grado con
sentenza confermata in sede di appello rigettava la domanda del lavoratore ritenendo che
il ruolo di caposquadra costituiva un elemento che escludeva una responsabilità in vigilando
sugli obblighi di sicurezza dell'azienda. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso
di legittimità del lavoratore ha infatti ritenuto adeguatamente motivata la decisione
della locale Corte di Appello in forza della quale un datore di lavoro con attività aziendale
complessa ed estesa, necessariamente opera per deleghe e può pertanto frazionare e ripartire
queste deleghe nell'organizzazione generale secondo vari gradi di responsabilità .
Sulla base di tale sistema la Cassazione ha, quindi, ritenuto che il preposto dell'azienda
può anche essere un caposquadra quando sia adeguatamente addestrato e sia stato espressamente
investito di tale ruolo. Dal momento che competeva al lavoratore infortunato
la scelta delle modalità esecutive dell'intervento e l'uso dei mezzi di protezione nella
disponibilità della squadra la condotta del dipendente non poteva dare luogo ad alcuna
responsabilità aziendale.
Il trattamento pensionistico non costituisce un aliunde perceptum rilevante nella quantificazione del danno da ripristino del ra
Il rapporto di lavoro di un lavoratore assunto a termine dalla società concessionaria
del servizio postaleveniva ripristinato a seguito della dichiarazione di nullità
del termine apposto al rapporto di lavoro accertata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.
Il locale magistrato del lavoro nel ripristinare il rapporto di lavoro e nel condannare
al risarcimento del danno disponeva il pagamento delle retribuzioni dalla data della messa
in mora con sentenza confermata parzialmente in sede di appello. La società soccombente
adiva la Corte di Cassazione contestando la decisione del collegio partenopeo laddove
non aveva limitato il danno per effetto del trattamento di quiescenza ottenuto dal lavoratore.
Il motivo di gravame è stato respinto dalla Corte di Cassazione che richiamando
precedenti specifici ha escluso la rilevanza della percezione del trattamento pensionistico
ai fini della limitazione del danno risarcibile. L'irrilevanza del percepito pensionistico deriva
' a detta dei giudici di legittimità ' dalla duplice circostanza che, da un lato, il diritto alla
pensione non sorge per effetto della disponibilità delle energie lavorative determinata
dal rifiuto del datore di lavoro di riceverle, e, dall'altro, che la continuità giuridica del rapporto
di lavoro renderebbe indebita la prestazione pensionistica subordinata alla cessazione
del rapporto di lavoro.
La Cassazione torna ancora sull’annosa questione della tempestività della contestazione disciplinare
La concreta cessazione dell’attività aziendale limita il danno risarcibile dalla reintegra nel posto di lavoro
La motivazione di un licenziamento deve essere specifica e completa
Il giudice del lavoro di Reggio Calabria nell'accogliere il ricorso promosso
da un lavoratoredisponeva la sua reintegra nel posto di lavoro ritenendo la genericità
della motivazione addotta a base del recesso dalla società datrice di lavoro. L'intimazione
basata sulla «necessità di contrarre i costi di esercizio eliminando l'onere
eccessivamente oneroso costituito da un numero esorbitante di dipendenti» veniva ritenuta
dal locale magistrato del lavoro, con sentenza confermata in sede di appello,
del tutto inidonea a configurare una valida motivazione. La Corte di Cassazione nel richiamare
propri specifici precedenti ha rigettato il ricorso di legittimità della società
osservando che la motivazione deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia
tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa
del suo licenziamento sà da poter esercitare un'adeguata difesa svolgendo e offrendo
idonee osservazioni o giustificazioni dovendosi ritenere equivalente alla materiale omissione
della comunicazione dei motivi la comunicazione che, per la sua assoluta genericità ,
sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende.
Lo scarso rendimento di un lavoratore può essere desunto anche tramite presunzioni
Un lavoratore con funzioni di impiegato commerciale, dopo aver subito una
serie di provvedimenti disciplinariconservativi per non avere effettuato il numero
di visite giornaliere previste dall'azienda e per non aver raggiunto l'obiettivo di fatturato
stabilito unilateralmente dall'azienda, veniva licenziato per scarso rendimento. La
domanda di reintegra nel posto di lavoro veniva respinta in entrambi i gradi di giudizio
e la decisione della Corte di Appello di Torino veniva confermata anche in sede di legittimità .
La Corte di Cassazione ha infatti reputato corretta la motivazione della decisione
dei giudici di secondo grado che avevano ritenuto dimostrata una evidente violazione
della diligente collaborazione dovuta dal dipendente in conseguenza dell'enorme
sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione e quanto effettivamente
realizzato nel periodo di riferimento avuto riguardo al confronto dei risultanti
dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente
dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Nel giudizio valutativo
' ritiene la Corte di Cassazione ' i giudici di merito ben potevano correttamente assumere
quale parametro della diligente collaborazione gli obiettivi fissati dai programmi
di produzione ove considerati con la produttività superiore degli altri colleghi
e quanto dal lavoratore effettivamente realizzato, dal momento che la prova della negligenza
del prestatore può essere provata solo attraverso presunzioni.
L’esclusione illegittima da un concorso selettivo non legittima automaticamente un danno risarcibile
Sono illegittime le clausole elastiche che consentono una flessibilità «a comando» della prestazione lavorativa
Una lavoratrice di un'azienda di ristorazione adiva il giudice del lavoro di Firenzelamentando l'illegittimità della clausola del proprio contratto di lavoro a tempo
parziale che consentiva all'azienda di variare discrezionalmente la distribuzione dell'orario
giornaliero. I giudici di merito accoglievano il ricorso dichiarando la nullità della
clausola e condannando la società al pagamento di un risarcimento in via equitativa
derivante dalla potenziale penalizzazione della progettualità della propria sfera esistenziale
e vita extralavorativa. La Corte di Cassazione, pur riformando il capo della
decisione della Corte di Appello fiorentina nella parte in cui non aveva condizionato il
danno ad una rigorosa prova dell'impegno supplementare imposto al lavoratore per
effetto della illegittima flessibilità richiesta, confermava la decisione nella parte in cui
aveva ritenuto la nullità della clausola flessibile cd. «a comando». I giudici di legittimità
hanno, infatti, osservato, che le clausole che consentono al datore di lavoro di richiedere
a comando la prestazione lavorativa dedotta in un contratto di lavoro a tempo
parziale sono illegittime atteso che l'esigenza della previa pattuizione bilaterale
della riduzione di orario comporta che, se le parti concordano per un orario giornaliero
inferiore a quello ordinario, di tale orario deve essere determinata la collocazione
nell'arco della giornata e che, se parimenti le parti convengono che l'attività lavorativa
debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o del mese, anche la distribuzione
di tali giornate lavorative sia previamente stabilita. La previsione di una massima
flessibilità ' conclude la Corte ' che autorizza il datore di lavoro ad una ridistribuzione
dell'orario di lavoro incontrollabile precludendo qualsiasi possibilità di programmazione
deve ritenersi nulla. La Cassazione ha quindi precisato che la nullità non
concerne le clausole elastiche in generale, ma quella che preclude ogni possibilità di
programmazione concordata.
Il contratto a termine non può essere risolto per giustificato motivo oggettivo
Una cameriera assunta con contratto a termine alle dipendenze di un'azienda
di ristorazionenel corso del contratto veniva licenziata a seguito di una ristrutturazione
in forza della quale l'azienda aveva ritenuto di ridistribuire le mansioni sopprimendo
la posizione lavorativa. Nel corso del giudizio promosso dalla dipendente il giudice
di primo grado, con sentenza confermata in sede di appello, accoglieva il ricorso
della dipendente condannando la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni
perdute ed al valore del vitto e dell'alloggio stabilito nel contratto di assunzione.
La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso della società , ha affermato che, pur dovendosi
ammettere il pieno diritto del datore di modificare l'organizzazione aziendale
per ottimizzare l'efficienza, tale facoltà non può spingersi fino a sacrificare rapporti di
lavoro che per loro natura sono a scadenza certa. Secondo i giudici di legittimità , infatti,
se in un rapporto assistito dalla garanzia di una stabilità , per il quale non sia previsto
preventivamente un limite di durata, può pensarsi che sopravvengano delle ragioni
che rendano oggettivamente non più conveniente mantenerlo in vita, ciò non vale
quando la durata sia limitata nel tempo soprattutto se è il datore di lavoro che in
considerazione di particolari sue esigenze si avvalga dello strumento del contratto a
termine.
Pensione di inabilità civile per extracomunitari
È illegittimo negare la pensione di inabilità civile agli stranieri extracomunitarisoltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito stabiliti per la carta
di soggiorno (ora permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo). Il caso di specie riguardava
una domanda all'Inps proposta dal tutore di un cittadino albanese interdetto,
regolarmente soggiornante in Italia dal 2000, non munito di carta di soggiorno, in stato
vegetativo a seguito di incidente stradale, riconosciuto totalmente invalido e abbisognevole
di assistenza continua. La Corte Costituzionale ha sottolineato il fatto che, essendo
la pensione di inabilità preclusa dalla titolarità di un reddito superiore ad una misura fissata
dalla legge, la subordinazione dell'attribuzione di tale prestazione al possesso, da
parte dello straniero, di un titolo di soggiorno il cui rilascio presuppone il godimento di un
reddito, rende ancor più evidente l'intrinseca irragionevolezza del complesso normativo.
Contratti di collaborazione
P. B. ha sottoscritto il 1° gennaio 2003 con la Spa F.S. un contratto di collaborazione
coordinata e continuativaCon lettera del 26 ottobre 2004 l'azienda gli ha comunicato
la cessazione del rapporto «per sopraggiunta impossibilità dell'oggetto» richiamando
l'art. 86, comma 1, del decreto legislativo n. 276 del 2003 secondo cui: «Le collaborazioni
coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente, che non
possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino
alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente
provvedimento». P. B. ha chiesto al Tribunale di Ascoli Piceno di dichiarare l'illegittimità
della risoluzione del rapporto. Il Tribunale ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 86, comma 1, del decreto legislativo n. 276/2003 con riferimento agli
articoli 3 (principio di eguaglianza e ragionevolezza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del
lavoro) della Costituzione.
La Corte Costituzionale con sentenza n. 399 del 5 dicembre 2008, ha ritenuto fondata la
questione e ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 86 comma primo del decreto
legislativo 10 settembre 2003 n. 276. Il d.lgs. n. 276 del 2003 ' ha osservato la Corte
' ha introdotto una disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito
dalle collaborazioni coordinate e continuative, al di fuori delle eccezioni previste
dall'art. 1, comma 2, e dall'art. 61, commi 1, 2 e 3, questo tipo di contratto può ora essere
stipulato solamente se sia riconducibile ad uno o più progetti specifici o a programmi
di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore
(art. 61, comma 1); la novità cosà introdotta a regime dal d.lgs. n. 276 del 2003
è quella di vietare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo
ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano però riconducibili ad un
progetto. Il primo periodo dell'art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 276 del 2003 ' ha rilevato
la Corte ' stabilisce l'anticipata cessazione dell'efficacia delle collaborazioni coordinate
e continuative già instaurate alla data della sua entrata in vigore; il predetto divieto è in
tal modo esteso anche ai contratti di lavoro autonomo perfettamente leciti al momento
della loro stipulazione. Il conseguente sacrificio degli interessi che le parti avevano regolato
nel rispetto della disciplina dell'epoca risulta ' ha affermato la Corte ' sotto questo profilo, irragionevole per contraddittorietà della norma con la sua ratio. Una normativa
che lo stesso legislatore definisce come finalizzata «ad aumentare [â?¦] i tassi di occupazione
e a promuovere la qualità e la stabilità del lavoro» (art. 1, comma 1, d.lgs. n.
276 del 2003) ' ha osservato la Corte ' non può ragionevolmente determinare l'effetto
esattamente contrario (perdita del lavoro) a danno di soggetti che, per aver instaurato
rapporti di lavoro autonomo prima della sua entrata in vigore nel pieno rispetto della disciplina
all'epoca vigente, si trovano penalizzati senza un motivo plausibile; quest'ultimo
non può essere individuato nella mera esigenza di evitare la prosecuzione nel tempo
di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa difformi dalla nuova previsione legislativa,
poiché l'intento del legislatore di adeguare rapidamente la realtà dei rapporti
economici ai modelli contrattuali da esso introdotti non può giustificare, di per se stesso,
il pregiudizio degli interessi di soggetti che avevano regolato i loro rapporti in conformità
alla precedente disciplina giuridica.
Congedo biennale per figli di disabili gravi
È illegittimo escludere dai soggetti legittimati a fruire del congedo biennale retribuitoil figlio convivente con il genitore in situazione di disabilità grave. La Corte Costituzionale
ha quindi accolto la questione prospettata dal Tribunale di Tivoli per violazione
degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione. Ad avviso del giudice rimettente, infatti, la norma
censurata, riconoscendo il diritto al congedo straordinario retribuito esclusivamente
ai genitori della persona in situazione di disabilità grave, o, in alternativa, in caso di loro
scomparsa o impossibilità , ai fratelli e sorelle con essa conviventi, nonché al coniuge convivente
del disabile, si porrebbe in contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost., determinando
un ingiustificato trattamento deteriore di un soggetto, il figlio convivente, tenuto ai
medesimi obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti del disabile. La Corte Costituzionale,
dopo aver sottolineato che il congedo straordinario retribuito si iscrive negli
interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie che si fanno carico dell'assistenza
della persona diversamente abile e consiste essenzialmente nel favorire l'assistenza al
disabile grave in ambito familiare e nell'assicurare continuità nelle cure e nell'assistenza,
ha concluso per l'illegittimità della norma che non prevede tra i beneficiari del suddetto
congedo il figlio convivente, anche qualora questi sia l'unico soggetto in grado di provvedere
all'assistenza della persona affetta da handicap grave.