1 / 2009
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Descrizione
La Corte Costituzionale interviene su congedo biennale per diabilità grave e pensione di inabilità civile per extracomunitari Il contratto a termine non può essere risolto per giustificato motivo oggettivo Interessanti casi di condotta antisindacale avanti i Tribunali di Forlì e Siena
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Il lavoratore non può essere ritenuto corresponsabile dell’infortunio per avere eseguito operazioni imprudenti impartitegli
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Il dirigente pubblico rimasto privo di incarichi ha diritto di ottenere la valutazione la sua posizione e il risarcimento
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C. D., dirigente del Ministero dell'Economia e delle Finanze, nel periodo dall'ottobre 1999 al febbraio 2001 è rimasto privo di incarichi.Egli ha chiesto al Tribunale di Grosseto di condannare l'amministrazione ad attribuirgli un incarico dirigenziale e al risarcimento del danno da demansionamento. Il Tribunale, con sentenza del gennaio 2002, ha condannato l'amministrazione a conferire a C. D. l'incarico richiesto e a risarcirgli il danno, in misura di euro 15.000. Questa decisione è stata parzialmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze che, con sentenza del dicembre 2004, ha escluso la configurabilità  di un diritto del dirigente pubblico al conferimento di un incarico dirigenziale, ma ha ritenuto che l'amministrazione fosse comunque tenuta ad adibire C. D. a compiti di studio, ricerca, consulenza, ispezione; pertanto ha confermato soltanto la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, nella misura prevista dal Tribunale. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Firenze, per averlo ritenuto inadempiente. Il dirigente ha proposto ricorso incidentale sostenendo che l'amministrazione avrebbe dovuto essere condannata non solo al risarcimento del danno, ma anche all'adempimento dei suoi obblighi. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell'amministrazione e ha parzialmente accolto l'impugnazione incidentale del dirigente. La Corte ha confermato il suo orientamento secondo cui il dirigente pubblico non ha diritto al conferimento di un incarico, ma ha precisato che, in materia, la pubblica amministrazione deve esercitare i suoi poteri attenendosi alle regole che li disciplinano, nonché ai principi di correttezza e buona fede, come un datore di lavoro privato. Nella specie ' ha osservato la Corte ' vengono in considerazione le norme contenute nel d.lgs. n. 165 del 2001, art. 19, comma 1: «Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione almeno la natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità  professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del ministro»; queste disposizioni obbligano, dunque, l'amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizzano» l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte). Nella prospettiva giuridica cosà ricostruita ' ha affermato la Corte ' il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme al diritto, essendo rimasto accertato che nessuna giustificazione l'amministrazione aveva fornito, neppure in giudizio, circa i criteri seguiti e le motivazioni della scelta di non attribuire incarico alcuno al dirigente; in questo comportamento è stato correttamente ravvisato inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile. Per quanto attiene al risarcimento dei danni da demansionamento, la Corte, richiamando le sentenze delle Sezioni Unite n. 6572 del 2006 e n. 19596 del 2008 ' in materia di danno professionale ed esistenziale ' ha ritenuto che la Corte di Firenze abbia correttamente accertato la loro esistenza in base ad elementi di presunzione; per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ' ha affermato la Corte ' non occorre che l'esistenza del fatto ignoto rappresenti l'unica conseguenza possibile di quello noto, ma è sufficiente un giudizio di probabilità  basato sull'id quod plerumque accidit (in virtù della regola dell'inferenza probabilistica). La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte ' non si è discostata dai principi sopra enunciati, ritenendo accertato il risarcimento richiesto relativo al danno alla professionalità  subàto per essere rimasto senza l'attribuzione di compiti lavorativi dall'ottobre 1999 al febbraio 2001, con liquidazione equitativa fondata sulla prova del pregiudizio, sia con riguardo alla perdita dei compensi collegati all'espletamento di incarichi, sia valutando l'impossibilità  di acquisire un'esperienza professionale nella qualifica dirigenziale e l'oggettivamente non breve durata del periodo di assoluta inattività . Pronunciando sul ricorso incidentale, la Corte ha anzitutto precisato che, in via generale, è ammissibile la pronuncia di condanna resa dal giudice nell'ipotesi di infungibilità  (e, dunque, di incoercibilità ) del facere dell'obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresà funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti dall'inosservanza dell'ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile, successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento. In particolare ' ha affermato la Corte ' nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, poiché art. 63, comma 2, d.lgs. n. 165 del 2001 prevede espressamente che il giudice adotti, nei confronti delle medesime, tutti i provvedimenti di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati, il giudice del lavoro ha il potere di emanare qualsiasi tipo di provvedimento, ivi compresa la sentenza di condanna ad un facere, essendo irrilevante l'insuscettibilità  di esecuzione forzata, che ne condiziona, eventualmente, soltanto l'esecuzione. Pertanto ' ha concluso la Corte ' la sentenza impugnata va cassata nella parte in cui ha respinto la pretesa di condanna dell'amministrazione all'adempimento dell'obbligo di valutare la posizione di C. D. ai fini del conferimento di incarico dirigenziale, o di altra natura (studio, consulenza, ecc.) e, versandosi nell'area della violazione di norme giuridiche, la causa è decisa nel merito sulla questione, emanando la statuizione di condanna nei termini sopra precisati, da ritenere compresa nel più ampio petitum formulato da C. D. Il dispositivo della sentenza è stato formulato nei seguenti termini: «Rigetta il ricorso principale e accoglie in parte il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso parzialmente accolto e, decidendo la causa nel merito, condanna il Ministero dell'Economia e delle Finanze a valutare la posizione di C. D. ai fini del conferimento degli incarichi e delle funzioni di cui all'art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, con l'osservanza delle disposizioni di cui al primo comma del detto articolo».
Il contratto di lavoro del dirigente di un Ente parco non può contenere clausole di proroga o di rinnovo
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Il conferimento delle funzioni di direttore generale dell'Ente nazionale Parco del Pollino è disciplinato dall'art. 9 della legge 6 dicembre 1991 n. 394(legge quadro sulle aree protette) secondo cui: «Il direttore del parco è nominato, con decreto, dal ministro dell'Ambiente, scelto in una rosa di tre candidati proposti dal consiglio direttivo tra soggetti iscritti ad un albo di idonei all'esercizio dell'attività  di direttore del parco istituito presso il Ministero dell'Ambiente, al quale si accede mediante procedura concorsuale per titoli. Il presidente del parco provvede a stipulare con il direttore nominato un apposito contratto di diritto privato per una durata non superiore a cinque anni». Il provvedimento ministeriale (peraltro ricondotto all'area dei poteri privati dell'amministrazione pubblica da Cass. Ss.Uu. 27 febbraio 2008, n. 5087) investe della carica il soggetto prescelto costituendo il rapporto organico, o di ufficio, in relazione alle attribuzioni gestionali previste dallo statuto dell'ente, mentre in posizione accessiva al provvedimento si colloca il contratto di lavoro, espressamente qualificato dalla legge come di «diritto privato», che definisce le rispettive obbligazioni e, particolarmente, gli aspetti patrimoniali, determinando la nascita del rapporto di servizio. La disciplina speciale colloca il contratto in questione fuori dall'area di quelli stipulati a seguito di conferimento degli incarichi ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni, sottraendolo alla specifica disciplina di cui all'art. 9 d.lgs. n. 165 del 2001. Questo contratto, poi, per espresso disposto legislativo, deve essere a tempo determinato ed il termine non può essere superiore a cinque anni. Ne consegue che il contratto non è abilitato in alcun modo ad introdurre deroghe alla disciplina legislativa, neppure mediante clausole di proroga o di rinnovo. Il «rinnovo», del resto, si sostanzia nella stipulazione di un nuovo contratto con lo stesso soggetto parte del precedente e con i medesimi contenuti. Proprio per essere un nuovo contratto, trova applicazione il principio per il quale la volontà  negoziale della pubblica amministrazione non può desumersi da comportamenti concludenti, ma deve essere espressa in forma scritta a pena di nullità , con la conseguenza che nei suoi riguardi non è radicalmente ipotizzabile la rinnovazione tacita. Alla stregua delle disciplina speciale, poi, se certamente la legge non vieta il «rinnovo» dell'incarico al soggetto già  nominato direttore di un ente parco, è certo tuttavia che ciò deve avvenire con l'osservanza dello stesso procedimento previsto per la prima stipulazione, indipendentemente da quanto eventualmente previsto dal contratto individuale in contrasto con norma inderogabile.
Anche il giornalista ha diritto di rimanere in servizio sino a 65 anni, Se ha esercitato l’opzione prevista dalla legge
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L’azione di annullamento del licenziamento deve essere promossa con ricorso notificato entro il quinquennio
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L’ordine dei giornalisti ha il compito di salvaguardare la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica
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Non è possibile proporre più di una domanda per il ricalcolo del tfr, in base ai principi del giusto processo
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G. M. dipendente della Spa Compagnia trasporti pubblici con qualifica di agente di movimento,ha ottenuto nel 1990, mentre era in servizio, dal pretore di Caserta, una sentenza che ha accertato il suo diritto all'inserimento nella base di calcolo dell'indennità  di anzianità  accantonata al 31 maggio 1982, di alcune indennità  previste dall'accordo autoferrotranvieri del 21 maggio 1981 ed erogate in via continuativa. La sentenza è passata in giudicato. Successivamente, cessato il rapporto, egli ha promosso, nei confronti dell'azienda, davanti al pretore di Santa Maria Capua Vetere, un nuovo giudizio al fine di fare accertare che egli aveva percepito per trattamento di fine rapporto, una somma inferiore a quella dovutagli, in quanto nel calcolo dell'indennità  di anzianità  accantonata al 31 maggio 1982 non era stato incluso il compenso per lavoro straordinario da lui continuativamente percepito. Il pretore ha dichiarato improponibile la domanda in quanto ha ritenuto che nell'entità  del Tfr accantonata al 31 maggio 1982 si fosse formato il giudicato in seguito alla sentenza del pretore di Caserta pronunciata nel 1990, pur se il relativo giudizio aveva avuto ad oggetto indennità  diverse dal compenso per lavoro straordinario. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che ha escluso di poter attribuire effetti preclusivi alla sentenza del 1990, in quanto concernente elementi retributivi diversi, ed ha pertanto condannato l'azienda al pagamento delle differenze richieste. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale Santa Maria Capua Vetere per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Secondo un principio da ritenersi ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità  ' ha ricordato la Corte ' non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità  con unilaterale determinazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l'esecuzione del contratto ma anche nell'eventuale fase dell'azione giudiziale per ottenere l'adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l'ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale. Tale principio ' ha affermato la Corte ' è venuto in emersione in un quadro normativo evolutosi negli ultimi tempi sotto un duplice profilo: da un lato si è assistito ad una sempre più accentuata valorizzazione della regola di correttezza e buona fede in ragione del suo porsi in sinergia con il dovere inderogabile di solidarietà  di cui all'art. 2 della Costituzione; dall'altro, l'affermarsi del canone del «giusto processo», di cui al novellato art. 111 della Costituzione, ha comportato una lettura «adeguata» della normativa di riferimento (in particolare art. 88 cod. proc. civ.), nel senso del suo allinearsi al duplice obiettivo della ragionevolezza della durata del procedimento e della giustezza del processo, «inteso come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che giusto non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi». In applicazione del suddetto principio, nelle sue varie articolazioni ' ha affermato la Corte ' deve ritenersi che, qualora il Tfr formi oggetto di un'azione giudiziaria di condanna proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto, resta preclusa una nuova domanda di riliquidazione dello stesso trattamento, ancorché fondata su ragioni non dedotte ' ma tuttavia deducibili ' nel precedente giudizio e ciò in base all'ulteriore principio (da intendersi in maniera rigorosa) secondo cui la cosa giudicata copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile. Nel caso in oggetto ' ha osservato la Corte ' G. M., come è pacifico tra le parti, aveva richiesto, con un precedente giudizio al pretore del lavoro di Capua l'accertamento del suo diritto a vedersi computare correttamente l'accantonamento consolidato al «31 maggio 1982», attraverso l'inserimento nella base del calcolo delle indennità  previste ai punti 3, 4 e 5 dell'Accordo autoferrotranvieri del 21 maggio 1981 ed erogate in maniera fissa e continuativa; e tale domanda era stata accolta con sentenza di detto pretore, passata in giudicato. Orbene ' ha rilevato la Corte ' è pur vero che, nella concreta fattispecie, il dedotto giudicato riguarda un accertamento svolto nel corso del rapporto lavorativo e non al termine di esso, ma è anche vero che G. M., cosà come all'epoca della prima azione giudiziaria innanzi al pretore del lavoro di Capua aveva avuto possibilità  di sapere le componenti retributive incluse o escluse dal calcolo al 31 maggio 1982 (ed, in particolare, che in quella base di calcolo il Ctp non aveva inserito le reclamate indennità  previste dal richiamato accordo del 21 maggio 1981), analogamente sapeva che neppure i compensi per lavoro straordinario erano stati inclusi. Pertanto ' ha concluso la Corte ' la domanda, volta all'inserimento anche di tali compensi, avanzata con il secondo giudizio, temporalmente limitati al 31 maggio 1982, concernendo pretese creditorie sicuramente deducibili con la formulazione della prima azione giudiziaria, deve ritenersi ormai preclusa.
Le somme versate a titolo di risarcimento del danno professionale da demansionamento non vanno assoggettate a ritenute fiscali
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M. V. dipendente della Banca nazionale dell'agricoltura, avendo subito un demansionamento, ha chiesto al pretore di Milano di condannare l'aziendaal risarcimento dei danni alla professionalità  e all'immagine da lui subiti nell'ottobre del 1997. Il pretore di Milano ha accolto la domanda condannando la banca al risarcimento dei danni da demansionamento in misura di lire 101.385.309. La Banca nazionale dell'agricoltura, datrice di lavoro di M. V., gli ha accreditato la somma detraendo le ritenute fiscali pari a lire 41.567.976, che ha versato all'Esattoria imposte dirette di Roma. M. V. ha presentato quindi istanza di rimborso dell'Irpef per lire 45.380.000 e ha impugnato il silenzio rifiuto dell'amministrazione finanziaria. Egli ha sostenuto che la somma di cui alla condanna emessa dal pretore di Milano non era soggetta a imposizione fiscale ai fini Irpef in quanto non rappresentava alcuna reintegrazione di reddito patrimoniale non percepita ma piuttosto il risarcimento del danno alla professionalità  e all'immagine derivato dal demansionamento. Il ricorso del contribuente è stato respinto in primo grado dalla Commissione tributaria provinciale e in appello dalla Commissione tributaria regionale di Milano che hainterpretato le disposizioni dell'articolo 6, secondo comma, del d.P.R. 917/1986 e quelle del d.l. n. 41/1995 nel senso dell'imponibilità  dell'indennità  percepita dal contribuente per essere in generale soggette «a tassazione le somme e i valori comunque percepiti anche a titolo risarcitorio a seguito di provvedimento dell'autorità  giudiziaria relativa a questioni di lavoro». M. V. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Commissione tributaria regionale per violazione di legge. Egli ha sottolineato la natura di risarcimento di danno non patrimoniale e non derivante dall'accertamento di una perdita reddituale del suo credito accertato in giudizio nei confronti del datore di lavoro e ha rivendicato quindi il suo diritto al rimborso delle ritenute illegittimamente detratte dalla somma corrisposta dal datore di lavoro e non restituite dall'amministrazione finanziaria. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ricordando che la giurisprudenza di legittimità  è ferma nel ritenere che in tema di imposte sui redditi, in base al dettato dell'art. 6, comma secondo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio possono costituire reddito imponibile solo quando abbiano la funzione di reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi; sicché ad esempio non sono assoggettabili a tributo l'indennità  corrisposta dal datore di lavoro, a titolo di risarcimento del danno, per la reintegrazione delle energie psichiche spese dal lavoratore oltre l'orario massimo di lavoro da lui esigibile. La Corte ha cassato la decisione impugnata e, decidendo nel merito, ha affermato il diritto di M. V. al rimborso delle ritenute fiscali effettuate dalla datrice di lavoro.
Ai fini della collocabilità dell’invalido nell’organizzazione aziendale, non assume rilievo la vacanza dei posti in organic
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È passibile di licenziamento il dipendente che lede l’immagine dell’azienda con pubbliche accuse prive di fondamento
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Pubblicazione delle sanzioni disciplinari degli ordini professionali
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Il Garante ha respinto il ricorso avverso il Consiglio dell'Ordine degli architetti di Bergamo proposto da un architettoper la pubblicazione di due sanzioni disciplinari di sospensione comminategli dal Consiglio nella newsletter inviata agli iscritti all'ordine e pubblicata sul sito web dell'ordine, chiedendo di cancellare dal sito tali dati. L'art. 61 del Codice della privacy, con riferimento ai dati personali che devono essere inseriti in un albo professionale, precisa che gli stessi possono essere comunicati o diffusi anche mediante reti di comunicazione elettronica e che è possibile, in tale contesto, fare menzione dell'«esistenza di provvedimenti che dispongono la sospensione o che incidono sull'esercizio della professione». Il Garante ha quindi concluso che i provvedimenti disciplinari si configurano quali atti pubblici soggetti a un regime di piena conoscibilità  da parte di altri professionisti e di terzi e che, nel caso di specie, i dati personali del ricorrente relativi alle sanzioni disciplinari comminategli non risultano essere stati diffusi in violazione di legge, tenuto anche conto che l'informazione fornita dall'Ordine nella newsletter era esatta e completa.
Rapporto tra il diritto alla comunicazione dei propri dati personali e diritto all’accesso di cui alla legge n. 241/90
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Diritto del lavoratore alla comunicazione di dati personali finalizzati ad agire contro il proprio datore di lavoro
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Un lavoratore ha proposto ricorso avverso l'azienda datrice di lavoro perché non aveva soddisfatto la sua richiesta di comunicazionein forma intelligibile dei dati personali che lo riguardavano, con particolare riferimento ai turni di servizio giornalieri (ivi compresa la specificazione degli orari di inizio e di fine turno, del luogo di partenza e di destinazione e della relativa distanza). L'azienda ha controdedotto che a) la documentazione richiesta non rientrerebbe, a suo avviso, fra i dati personali di cui all'art. 4, comma 1, lett. b) del Codice in materia di protezione dei dati personali «giacché attiene esclusivamente alle condizioni e modalità  di espletamento dell'attività  lavorativa»; b) la richiesta comporterebbe per la società  la «ricostruzione dell'impegno lavorativo quotidiano dell'interessato e per di più per l'arco temporale di oltre 10 anni»; c) ricorrerebbero le condizioni per il differimento dell'accesso di cui all'art. 8, comma 2, lett. e) del Codice giacché lo stesso ricorrente ha dichiarato che «è necessario produrre i turni in questione nel giudizio da promuovere innanzi al Tribunale del lavoro [â?¦] per il riconoscimento di una indennità  sostitutiva per ogni mancato riposo giornaliero e/o settimanale, come riconosciuto in numerose sentenze a favore di altri dipendent». Il Garante ha accolto il ricorso rilevando che l'art. 8, comma 2, lettera e), del Codice, consente il temporaneo differimento dell'esercizio dei diritti previsti dall'art. 7 per il solo periodo durante il quale potrebbe derivarne pregiudizio per lo svolgimento di cd. «indagini difensive» o, comunque, per far valere un diritto in sede giudiziaria e che la valutazione dell'esistenza di un effettivo pregiudizio. Nel caso in esame, invece, non è risultata la ricorrenza di nessuno di questi presupposti idonei a giustificare un differimento del diritto di accesso, né è stato comprovato un «pregiudizio effettivo e concreto» allo svolgimento di investigazioni difensive o, comunque, per l'esercizio del diritto in sede giudiziaria; la società  resistente si è solo limitata a ritenere possibile l'instaurazione di una controversia giudiziaria per la corresponsione all'interessato di una indennità  sostitutiva per ogni mancato riposo giornaliero e/o settimanale. Il Garante ha quindi condannato la società  a consentire all'interessato l'accesso ai dati personali che lo riguardano relativi all'ordinaria gestione del rapporto di lavoro, con particolare riferimento ai turni di servizio giornalieri (ivi compresa la specificazione degli orari di inizio e di fine turno, del luogo di partenza e di destinazione e della relativa distanza).
Partecipazione delle associazioni datoriali di categoria alle procedure di raffreddamento per vertenze ultraziendali
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La Commissione ha rilevato che nei settori caratterizzati dalla presenza sul territorio nazionale di un elevato numero di impreseche erogano il servizio pubblico è necessario, in sede di esperimento delle procedure preventive alla proclamazione di uno sciopero, l'intervento di un'associazione che le rappresenti e che già  alcuni accordi stipulati ai sensi dell'art. 2 comma 2 della legge 146/1990 prevedono l'adempimento da parte delle associazioni di datori di lavoro di importanti obblighi per l'esperimento delle procedure preventive alla proclamazione dello sciopero e per la comunicazione della proclamazione di sciopero alle singole aziende. La Commissione ha pertanto adottato una deliberazione di indirizzo secondo cui, in occasione della richiesta da parte delle organizzazioni sindacali di procedure di raffreddamento e conciliazione relative a vertenze nazionali (o ultraziendali), devono ritenersi legittimate a partecipare a tali procedure anche le associazioni di categoria datoriali, con la conseguenza che in caso di mancata partecipazione si riterranno comunque espletate le procedure in questione.
Scioperi spontanei e sanzionibilità dei partecipanti
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Quando un'astensione dal lavoro non è riconducibile ad una o più organizzazioni sindacalima è stata posta in essere dai lavoratori spontaneamente nel mancato rispetto delle disposizioni contenute nella legge n. 146/1990, secondo l'orientamento dalla Commissione (v. delibera n. 08/518) in tal caso l'apertura di un procedimento di valutazione nei confronti di tutti i lavoratori che si sono astenuti non può comportare l'adozione dei provvedimenti previsti dall'art. 4 della stessa legge. La Commissione può soltanto invitare il datore di lavoro a procedere disciplinarmente nei confronti dei soggetti responsabili dell'astensione ritenuta illegittima.
Interpretazione «integrativa » all’accordo di regolamentazione dello sciopero per i servizi di igiene ambientale
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Diritto alle ferie annuali retribuite – Congedo per malattia – Ferie coincidenti con congedo per malattia- Indennità sostit
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Borsa di mantenimento agli studi – Cittadinanza dell’Unione – Certezza del diritto
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Licenziamento individuale – Tutela cautelare – Danno grave ed irreparabile – Insussistenza – Rigetto
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Trasferimento del lavoratore – Discriminazione di genere cd. «alla rovescia» – Sussistenza
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Licenziamento giustificato motivo oggettivo per completamento fase esecutiva lavori presso cantiere – Illegittimità
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Impugnativa di licenziamento da parte di associazione sindacale con la lettera di esperimento del tentativo di conciliazione
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Un ex dipendente di un'azienda di autotrasporti, licenziato per motivi di natura disciplinare,chiedeva al Tribunale di Pescara l'annullamento del licenziamento in quanto non preceduto dal procedimento ex art. 7 legge n. 300/70. Nel costituirsi in giudizio, la società  resistente eccepiva la decadenza dall'impugnativa di licenziamento in quanto effettuata fuori termine da parte di associazione sindacale. Nell'accogliere il ricorso, il Tribunale di Pescara ha affermato che la legittimazione dell'associazione sindacale non può essere messa in dubbio alla luce del chiaro disposto dell'art. 6 della legge 604/66 che conferisce un espresso potere di rappresentanza al sindacato. Trattandosi, quindi, di rappresentanza ex lege, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata dall'associazione sindacale nell'interesse del proprio associato può ritenersi idonea a produrre effetti diretti nella sfera giuridica del rappresentato e, conseguentemente, a norma dell'art. 410 cod. proc. civ., comma 2, tale richiesta sospende il decorso di ogni termine di decadenza laddove depositata prima dello spirare del termine di sessanta giorni. A tale ultimo proposito, il Tribunale ha recepito i principi della giurisprudenza di legittimità  secondo cui è sufficiente il solo deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la commissione di conciliazione.
Cessione ramo di azienda – Insussistenza – Cessione singoli rapporti giuridici – Sussistenza – Necessità consenso cedut
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Lavoro pubblico – Lavoratore con procedimento penale pendente – Sentenza definitiva di proscioglimento – dimissioni
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Provvedimento di riorganizzazione aziendale – Esclusione negoziazione sindacale – Ipotesi di condotta antisindacale – Escl
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sospensione cautelare dal lavoro – natura giuridica – motivazione – mancanza – essenzialità
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Dimissioni – Situazione di transitoria incapacità di intendere e di volere – Vizio del consenso – Sussistenza
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Dequalificazione professionale – Demansionamento – Sussistenza – Danno «interno» all’immagine: risarcibilità –
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Patto di prova – Necessità di anteriorità o contestualità della sottoscrizione – Dimissioni – forma scritta convenziona
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Dequalificazione professionale – Danno non patrimoniale – Risarcibilità – Criteri di valutazione equitativa
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Impugnazione delibera di esclusione da socio e di conseguente licenziamento – Competenza del giudice del lavoro
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Appalto pubblico – Fallimento dell’appaltatore – Azione degli ausiliari – Responsabilità committente – Configurabilit
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Modifica distribuzione orario di lavoro – Introduzione orario spezzato – Mancata motivazione – Illegittimità – Sussiste
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Tardività della notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza – Eccezione di nullità –
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Licenziamento per assenza ingiustificata – Procedura d’urgenza – Assenza per malattia –
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Questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Roma sul d.lgs. n. 368 del 2001
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6. M. D. è stata assunta dalla Spa Poste italiane a tempo determinato,per il periodo ottobre 2003 ' gennaio 2004, con contratto riferito all'art. 1 del d.lgs. n. 368/2001 e recante quale causale «ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al servizio di recapito presso l'Ufficio recapito di Pozzuoli, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro». Alla scadenza prevista dal contratto, l'azienda ha posto termine al rapporto di lavoro. La lavoratrice ha chiesto la Tribunale di Roma di dichiarare la nullità  del termine apposto al contratto di lavoro e conseguentemente l'esistenza di un rapporto di lavoro indeterminato, con condanna dell'azienda a riammetterla in servizio e a pagarle le retribuzioni maturate successivamente alla scadenza del contratto. A sostegno della domanda ella ha rilevato la genericità  della causale addotta dall'azienda e la sua inesistenza, in quanto in realtà  la sua assunzione era stata effettuata per far fronte a una cronica carenza di personale. L'azienda si è difesa sostenendo la validità  della motivazione addotta per l'assunzione. Prima dell'udienza fissata per la discussione, è entrato in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, che, come convertito in legge n. 133/2008, ha introdotto, nel d.lgs. n. 368/2001, dopo l'art. 4, un art. 4-bis, che recita che «con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità  di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità  dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri di cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1996, n. 604 e successive modificazioni». In sede di discussione, la difesa della parte ricorrente ha chiesto giudicarsi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale di tale disposizione, per violazione degli artt. 3, 4, 10, 24, 35 e 75 della Costituzione. Il Tribunale ha dichiarato «rilevante e nonmanifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis della legge n. 133/2008, inserente dopo l'art. 4 del decreto legislativo n. 368/2001 un art. 4-bis, per contrasto con gli articoli 3, comma 1, 24, comma 2, 101, 102, comma 2, 104, comma 2, e 117, comma 1, della Costituzione». Inoltre, la stessa ordinanza del Tribunale di Roma, differenziandosi da altri analoghi provvedimenti ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale altresà degli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368/2001, per contrasto con gli artt. 76, 77 e 117 comma 1 della Costituzione.
Ravvisato anche dal Tribunale di Trieste il contrasto della nuova normativa sui contratti a termine con gli artt. 3 e 117
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3. A. D. ha lavorato alle dipendenze del Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia nel periodo dal febbraio 2002 al maggio 2006,in base a una serie di contratti a termine. Egli ha chiesto, nel maggio del 2007, al Tribunale di Trieste di accertare la nullità  dei termini apposti ai vari contratti ' anche per mancanza, nelle lettere di assunzione, dell'indicazione delle ragioni giustificative a termini dell'art. 1 legge n. 368 del 2001 ' di dichiarare l'esistenza di un rapporto a tempo indeterminato e di condannare l'azienda a riammetterlo in servizio e a risarcirgli i danni. Per la discussione della causa il Tribunale ha fissato l'udienza del 15 ottobre 2008. Nel frattempo è entrata in vigore la legge 6 agosto 2008 n. 133, che ha aggiunto al decreto legislativo n. 368/01 l'art. 4-bis, in base al quale, limitatamente alle cause in corso, è stato precluso al giudice di disporre, in caso di accertata nullità  del termine, la riammissione in servizio del lavoratore. Il Tribunale di Trieste, giudice Annalisa Multari ' come già  altri giudici, da ultimo la Corte d'Appello di Milano ' con ordinanza del 15 ottobre 2008, ha sollevato d'ufficio la questione di legittimità  costituzionale ' per contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. ' del comma 1-bis dell'art. 21 legge 6 agosto 2008 n. 133 con cui, dopo l'art. 4 del d.lgs. n. 368/01 è stato inserito l'art. 4-bis. Nella motivazione dell'ordinanza il Tribunale ha rilevato che, stante la nullità  ' per violazione dell'art. 1 legge n. 368/01 ' dei termini apposti ai contratti di lavoro tra A. D. e il Teatro stabile, in base alla normativa precedente all'entrata in vigore della legge n. 133/08, il lavoratore aveva diritto ad essere riammesso in servizio e che l'esercizio di tale diritto è stato precluso dalla nuova legge. La normativa sopravvenuta ' ha osservato il giudice ' è stata adottata in violazione dell'art. 3 Cost. poiché ha introdotto una regolamentazione normativa che non riguarda tutti i rapporti a termine stipulati ad una certa data ma solamente quelli per i quali il giudizio è in corso indipendentemente dalla data di loro stipulazione, penalizzando quindi coloro che hanno sollecitamente adito il giudice a tutela dei propri diritti rispetto a quelli che invece sono rimasti inerti e ciò senza alcuna giustificazione, in piena violazione del canone di ragionevolezza che consente al legislatore di differenziare anche situazioni eguali, ancorando il trattamento differenziato nelle conseguenze ad un fatto puramente casuale. La disposizione citata ' ha rilevato il giudice ' risulta anche in contrasto conl'art. 117 Cost., comma 1, secondo cui la potestà  legislativa è esercitata da Stato e Regioni nel rispetto della Costituzione e dei vincoli che derivano dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà  fondamentali del 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848. Tale disposizione, cui lo Stato italiano deve conformarsi, prevede che ogni persona abbia diritto ad avere un giusto processo innanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, e si traduce in un obbligo per il legislatore di non intromettersi nell'amministrazione della giustizia per influire sull'esito di una controversia o di determinate categorie di controversie.
La nuova normativa sui contratti a termine contrasta con gli artt. 3, 24, 11 e 117 della Costituzione
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2. G. G. è stato assunto alle dipendenze della Spa Poste italiane «per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione di personaleinquadrato nell'area Operativa e addetto al servizio recapito, presso la Regione Sud, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo dal 1° ottobre 2003 al 31 dicembre 2003». Alla scadenza prevista dal contratto l'azienda ha posto termine al rapporto di lavoro. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare la nullità  del termine in base all'art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 per mancata specificazione delle ragioni dell'assunzione, di disporre la sua riammissione in servizio e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. Il Tribunale ha rigettato la domanda. Il lavoratore ha proposto appello, censurando la decisione impugnata per disapplicazione del d.lgs. n. 368/01. Prima dell'udienza di discussione è entrato in vigore l'art. 21 del d.l. n. 112/2008, come convertito in legge n. 133/2008, che ha introdotto nel d.lgs. 368/2001 l'art. 4-bis che titola: «Disposizione transitoria concernente l'indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine» e dispone che «1. Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità  di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità  dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». La Corte d'Appello di Roma con ordinanza del 21 ottobre 2008 ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 21 comma 1-bis della legge 6 agosto 2008 n. 133 con il quale dopo l'art. 4 del d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368 è stato inserito l'art. 4-bis , per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 1, 111, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione. Nella motivazione dell'ordinanza la Corte ha rilevato che nella lettera di assunzione di G. G. le ragioni di carattere sostitutivo non erano precisate nel concreto e con riferimento specifico alla struttura alla quale il lavoratore sarebbe stato addetto (filiale di Salerno 2 - Sala Consilina) tale non potendosi considerare il generico riferimento ad una esigenza di provvedere alla sostituzione di personale inquadrato nell'Area operativa e addetto al servizio di recapito presso la Regione Sud con diritto alla conservazione del posto; la «Regione Sud» comprende un'area ben più vasta di quella di destinazione (filiale di Salerno), né è stato, neppure indirettamente, precisato se e per quali specifiche aree della Regione tali esigenze si sarebbero manifestate. La genericità  delle espressioni utilizzate ' ha affermato la Corte ' non sembra consentire, poi, l'individuazione del nesso causale tra l'assunzione del G. e le concrete esigenze della Società  Poste italiane, con specifico riferimento al preciso ambito organizzativo; non è dato conoscere neppure numericamente l'incidenza delle assenze sull'organico della filiale di destinazione di tal che è interdetto al lavoratore in prima battuta, e al giudice poi, di verificare la effettività  delle ragioni giustificatrici esercitando quel controllo che, quanto meno ex post, deve essere effettuato dal giudice in relazione alla sussistenza della causale giustificativa della limitazione temporale del rapporto. La Corte ha osservato che i rilevati vizi della lettera di assunzione sono tali da comportare la dichiarazione di nullità  del termine e la condanna dell'azienda a riammettere il lavoratore in servizio, ma che tali conseguenze sono oggi precluse per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21-bis del decreto legge n. 112/2008, convertito con modificazioni nella legge 133/2008 che ha introdotto nel decreto legislativo n. 368/2001 l'art. 4-bis; non solo, quindi, sarebbe esclusa la possibilità  di ripristinare il rapporto di lavoro, ma l'indennità  riconoscibile sarebbe necessariamente limitata nel minimo a 2,5 e nel massimo a 6 mensilità . Pertanto la Corte ha deciso di sollevare la questione di legittimità  costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 1, 111, comma 1, e 117, comma 1, della Costituzione, nel significato che assumono anche per effetto delle proclamazioni contenute nell'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, e negli artt. 20 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000. A tali norme sovranazionali ' ha osservato la Corte di Roma ' la giurisprudenza costituzionale ha indubbiamente assegnato il valore di parametro di riferimento nel giudizio di costituzionalità  (v. Corte Cost. 135/2002), implicitamente riconoscendo che i diritti e le libertà  fondamentali derivanti dalle fonti di convenzioni e trattati sovranazionali, affiancandosi quali valori-diritti alla dignità  delle persone, compongono un quadro di proclamazioni assimilabili al livello costituzionale. Con riferimento al ritenuto contrasto della nuova legge con l'art. 3 Cost., la Corte d'Appello ha escluso che per tale disposizione possa essere ravvisata una giustificazione razionale nel fatto che la disposizione modifichi la regola sostanziale rispetto ad una categoria di soggetti, riducendo la tutela mentre pendono i giudizi, proprio e solo per il fatto di avere una causa in corso (ché se avessero tardato a proporla, il loro diritto sarebbe stato fatto salvo); con l'aggravante che proprio per il modo in cui interviene «con riferimento ai soli giudizi in corso», il comma 1-bis dell'art. 21 della legge n. 133 del 2008 finisce per amplificare ulteriormente, anche sul piano dell'utilizzo degli strumenti processuali di tutela e pertanto sul piano del diritto alla difesa e dell'«equo processo» (artt. 3, 24, comma 1, e 111, comma 1, 117 Cost.), gli effetti discriminatori di un intervento provvedimentale mirato alle applicazioni del sistema sanzionatorio relativo agli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368 del 2001. La Corte di Roma ha altresà ritenuto che l'art. 4-bis del d.lgs. 368/2001 viola il principio costituzionale del giusto processo (artt. 11 e 24 Cost.) perché nel corso del procedimento giudiziario modifica la tutela sostanziale accordabile al diritto azionato senza che siano ravvisabili ragioni oggettive e generali che sostengono tale scelta del legislatore; nel caso in esame infatti l'intervento legislativo determina un'alterazione della condizione di parità  nell'esercizio del diritto di difesa tra la parti in causa, condizione che, al contrario, deve essere sempre assicurata. È evidente ' ha osservato la Corte ' che il legislatore a fronte del consistente contenzioso pendente in tutti gli uffici giudiziari italiani è intervenuto allo scopo di favorire una definizione delle controversie pendenti in termini di minor impatto economico per le parti datoriali, senza che tuttavia tale scelta risulti sorretta da quelle imperiose ragioni d'interesse generale, che, ad esempio, la Corte europea di Strasburgo richiede come condizione per superare il divieto d'ingerenza (in tal senso si legga l'ordinanza della Corte Cass. n. 22260/2008 relativamente all' art. 1, comma 218, legge 266 /2005). Per analoghe considerazioni ' ha aggiunto la Corte ' deve ravvisarsi la violazione dell'art. 117, primo comma Cost., con riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo che garantisce l'indipendenza della magistratura; come più volte statuito anche dalla Corte di Strasburgo (cfr. per tutte Scordino c. Italia, 29 marzo 2006), gli Stati aderenti alla Convenzione devono astenersi dall'esercitare ingerenze normative finalizzate ad ottenere una determinata soluzione delle controversie in corso, salvo che l'intervento retroattivo sia giustificato da motivi di carattere imperioso e generale. Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' il legislatore con una disposizione che, non interpreta norme di legge esistenti ma muta il quadro normativo di riferimento, esclude quelli che nel diritto vivente sono i normali effetti della declaratoria di illegittimità  del termine apposto al contratto e cosà impedisce al giudice di adottare la tutela prevista dall'ordinamento generale (tutela irragionevolmente temporaneamente sospesa); in tal modo la norma in esame determina una ingiustificata modificazione della tutela dei diritti azionati e incide soltanto sui giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge realizzando una inammissibile intromissione del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia allo scopo d'influire sulla risoluzione di una specifica categoria di controversie.
Legittimità costituzionale della nuova normativa sui contratti a termine: alcuni casi di specie
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1. R. M. ha lavorato alle dipendenze della Spa Coin in base a una serie di nove assunzioni a tempo determinato intercorse tra il novembre 2000 e il marzo 2004.Cessato l'impiego alla scadenza dell'ultimo contratto, ella ha chiesto al Tribunale di Milano di dichiarare l'illegittimità  dei termini apposti alle varie assunzioni e di disporre la riattivazione del rapporto. Il Tribunale ha accertato che in occasione del terzo contratto, in data 18 febbraio 2002, R. M., pur essendo stata assunta per asserita necessità  di sostituire una lavoratrice in permesso per malattia del figlio, era stata impiegata in un reparto diverso da quello in cui lavorava la collega assente e non l'aveva di fatto sostituita, né direttamente, né indirettamente per «scorrimento». Conseguentemente il Tribunale ha dichiarato nullo, per violazione dell'art. 1 legge n. 368/01, il termine apposto a tale contratto, ha accertato l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e ha condannato l'azienda a riammettere R. M. in servizio nonché al risarcimento del danno. In grado di appello, la Corte di Milano, con ordinanza del 28 ottobre 2008, ha ritenuto di dover confermare la sentenza di primo grado, e ha rilevato che, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21 legge n. 133/08 le era preclusa la possibilità  di condannare l'azienda a riammettere la lavoratrice in servizio, essendole soltanto consentito di attribuire alla medesima una limitata indennità  pecuniaria ed ha sollevato la questione di legittimità  costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 24 e 117 Cost., dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368/2001 introdotto con l'art. 21 legge n. 133/08. Il legislatore ' ha osservato la Corte ' ha ritenuto di applicare la nuova e peggiorativa disciplina normativa del contratto di lavoro a tempo determinato soltanto a coloro che sono parte in un giudizio in corso, indipendentemente dalla data di stipulazione del contratto. L'elemento di discrimine scelto dal legislatore evidenzia il primo profilo di illegittimità  costituzionale, la violazione dell'art. 24, primo comma, della Costituzione; l'avere tempestivamente proposto azione per la tutela giurisdizionale dei diritti di cui agli artt. 1, 2 o 4 del d.lgs. n. 368 del 2001 diventa in sé causa di trattamento deteriore rispetto a chi alla data di entrata in vigore della legge non ha proposto domanda giudiziale, a fronte della identica situazione in fatto e in diritto. Nella medesima situazione di diritto sostanziale ' ha aggiunto la Corte ' l'avere agito in giudizio per la tutela del proprio diritto è in sé causa di esclusione dalla tutela ordinaria, con evidente lesione del diritto all'azione di cui all'art. 24, primo comma, della Costituzione; sotto un concorrente aspetto, il tempo del processo, che secondo i principi generali mutuati dall'art. 24 dalla stessa Corte Costituzionale (v. sent. 28 giugno 1985, n. 190) non deve andare a danno dell'attore che ha ragione, diventa con la norma impugnata, che definisce il suo ambito di applicazione esattamente nel tempo della pendenza del processo (dalla domanda al passaggio in giudicato), causa di deterioramento della posizione giuridica sostanziale. La Corte ha anche rilevato che la disposizione del quarto comma dell'art. 21, secondo il quale decorsi ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge il ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, all'esito della verifica degli effetti anche della disposizione in esame, può valutare l'opportunità  «della sua ulteriore vigenza», appare ulteriormente lesiva del principio di effettività  e certezza della tutela giurisdizionale e deterrente all'esercizio dell'azione, perché l'intraprendere nelle more un giudizio potrebbe comportare l'applicazione del regime deteriore anche a situazioni che ad oggi troverebbero la più estesa tutela. In considerazione della imprescrittibilità  dell'azione di nullità  e della possibilità  per il lavoratore di mettere in mora il datore di lavoro con atti stragiudiziali, la norma si traduce in un inammissibile condizionamento esterno a tempo indeterminato all'esercizio dell'azione. Sotto il profilo della violazione dell'art. 3 della Costituzione ' ha affermato la Corte ' è ravvisabile disparità  di trattamento di situazioni eguali (tertium comparationis), rappresentate dall'insieme dei soggetti che nel medesimo tempo hanno stipulato un contratto a termine disciplinato dal d.lgs. n. 368 del 2001, in violazione degli artt. 1, 2 o 4 del medesimo decreto legislativo e non avevano una causa pendente alla data di entrata in vigore della legge n. 133 del 2008; l'elemento di discrimine scelto dal legislatore, oltre che, come s'è detto, di per sé in contrasto con il diritto garantito dall'art. 24, primo comma, della Costituzione, non giustifica, ad un vaglio di ragionevolezza, una tutela del medesimo diritto sensibilmente diversa, laddove chi ha proposto la domanda giudiziale il giorno successivo all'entrata in vigore della legge godrà  della tutela ordinaria, fondata sulla nullità  parziale e sulle conseguenze che ne derivano secondo il diritto comune, mentre l'odierno appellante null'altro può pretendere che un indennizzo compreso fra 2,5 e 6 mensilità . La Corte ha anche ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità  costituzionale della norma denunciata per contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione e, per suo tramite, con l'art. 6, par. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà  fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (infra, Cedu), ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. L'art. 6 della Cedu ' ha osservato la Corte ' nell'affermare il diritto al «giusto processo» è stato interpretato dalla Corte europea di Strasburgo nel senso che «sebbene, in teoria, non è precluso al legislatore, in materia civile, di adottare nuove disposizioni retroattive per regolare diritti derivanti da una legge esistente, il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo sanciti dall'articolo 6 della Convenzione impedisce qualsiasi ingerenza del legislatore ' salvo che per impellenti motivi di interesse generale ' con l'amministrazione della giustizia volta ad influenzare la decisione giudiziaria di una controversia (§ 126 sent. 29 marzo 2006 Grande Camera, causa Scordino c. Italia e precedenti ivi richiamati). L'art. 6 della Convenzione, cosà come interpretato dalla Corte europea, viene in tal modo a costituire «fonte interposta» che fornisce contenuto al parametro costituzionale del rispetto degli obblighi internazionali (v. Corte Cost. n. 349 del 2007). Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' la norma denunciata modifica i diritti derivanti dalla legge esistente con efficacia limitata in via esclusiva ai processi in corso, senza che ricorrano e siano esplicitati gli «impellenti motivi di interesse generale» che giustifichino la conseguente differente soluzione della controversia.
non applicabilità del principio costituzionale del giusto compenso alle prestazioni autonome
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Un consulente in materie giuridiche dopo aver collaborato per alcuni anni con un ente locale conveniva lo stesso in giudizioal fine di vedere integrato il compenso sulla base delle tabelle professionali forensi e comunque per vedersi riconoscere i parametri retributivi previsti dalla contrattazione collettiva per il personale dirigenziale. La sentenza del Tribunale di Lecce che aveva respinto la domanda veniva confermata in sede di appello. La Corte di Cassazione, dopo aver escluso per la natura delle attività  svolte l'applicazione delle tariffe forensi, ha confermato la decisione dei giudici di appello che avevano escluso l'applicabilità  del precetto costituzionale sulla sufficiente retribuzione affermando che tale norma riguarda esclusivamente il lavoro subordinato mentre per tutte le altre prestazioni un intervento del giudice per la determinazione del compenso può ammettersi solo se specificamente previsto da disposizioni legislative. Nell'affermare tale principio i giudici di legittimità  hanno affermato che per le cd. prestazioni parasubordinate il giudice può determinare il corrispettivo in relazione al risultato ottenuto ed alla quantità  e qualità  del lavoro normalmente necessario per ottenerlo solo nel caso che non sia stato convenuto dalle parti. La Cassazione ha quindi respinto il ricorso sul rilievo che per le prestazioni autonome ancorchè rese con carattere di continuità  e coordinazione il giudice non può integrare il corrispettivo della prestazione ove comunque un compenso risulti pattuito.
assenza di un obbligo di creare un posto di lavoro per il lavoratore appartenente alle categorie protette
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Un lavoratore appartenente alla categoria degli «orfani» con diritto all'avviamento obbligatorioveniva inviato dalla locale struttura periferica del Ministero del Lavoro presso una società  specializzata nell'attività  di vigilanza e spegnimento fuochi a bordo delle navi. L'avviamento veniva rifiutato dalla società  destinataria del provvedimento sul rilievo che il lavoratore non possedeva un tesserino necessario per lo svolgimento della prestazione specialistica della società  che non possedeva altre possibilità  di ricollocazione del lavoratore disagiato sociale. Il Tribunale di Messina respingeva la domanda di risarcimento del danno avanzata dal lavoratore con sentenza confermata in sede di appello. La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei giudici di merito sul rilievo che la tutela dell'invalido non può spingersi sino a garantirgli l'obbligatorietà  dell'assunzione anche a fronte di assetti organizzativi aziendali caratterizzati da una situazione di oggettiva ed assoluta incompatibilità  con la sua qualificazione professionale e con le sue menomazioni, e che il datore di lavoro non è tenuto a modificare o adeguare, sostenendo costi aggiuntivi, la sua organizzazione aziendale alle condizioni di salute del lavoratore protetto né in particolare, a creare per lui un posto di lavoro, anche concentrando in una sola unità  mansioni non difficoltose già  facenti parte, con altre più complesse, dei compiti degli altri lavoratori. L'obbligo derivante dall'avviamento al lavoro ' conclude la Corte ' non può spingersi sino a imporre di modificare l'assetto aziendale dell'impresa né a creare appositamente un fittizio posto di lavoro.
La Cassazione esclude la risarcibilità del danno di un caposquadra adeguatamente formato e tenuto a vigilare sulla sicurezza
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Nel corso di una istallazione di alcuni cavi all'interno di un condominio che vedeva impegnata una squadra di operai,un lavoratore che si trovava ad operare all'interno di una canalina, riscontrata la pericolosità  delle condizioni in cui si trovava a operare, sospendeva il lavoro al fine di cercare delle scale per effettuare il lavoro in sicurezza. Il capo squadra, informato dell'accaduto, si sostituiva al lavoratore e calatosi nella canalina senza le scale nell'appoggiare il piede su una trave che cedeva al suo peso cadeva da una altezza di sette metri procurandosi gravi lesioni. Il lavoratore adiva quindi il Tribunale di Brescia al fine di ottenere il risarcimento del danno subito. Nel corso dell'istruttoria emergeva che il capo squadra, che ricopriva il ruolo anche di rappresentante della sicurezza dei lavoratori, era stato adeguatamente addestrato dall'azienda sui rischi lavorativi e sulla normativa antiinfortunistica e che gli strumenti protettivi erano a disposizione della squadra nel furgone aziendale. Alla luce di tali accertamenti il giudice di primo grado con sentenza confermata in sede di appello rigettava la domanda del lavoratore ritenendo che il ruolo di caposquadra costituiva un elemento che escludeva una responsabilità  in vigilando sugli obblighi di sicurezza dell'azienda. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  del lavoratore ha infatti ritenuto adeguatamente motivata la decisione della locale Corte di Appello in forza della quale un datore di lavoro con attività  aziendale complessa ed estesa, necessariamente opera per deleghe e può pertanto frazionare e ripartire queste deleghe nell'organizzazione generale secondo vari gradi di responsabilità . Sulla base di tale sistema la Cassazione ha, quindi, ritenuto che il preposto dell'azienda può anche essere un caposquadra quando sia adeguatamente addestrato e sia stato espressamente investito di tale ruolo. Dal momento che competeva al lavoratore infortunato la scelta delle modalità  esecutive dell'intervento e l'uso dei mezzi di protezione nella disponibilità  della squadra la condotta del dipendente non poteva dare luogo ad alcuna responsabilità  aziendale.
Il trattamento pensionistico non costituisce un aliunde perceptum rilevante nella quantificazione del danno da ripristino del ra
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Il rapporto di lavoro di un lavoratore assunto a termine dalla società  concessionaria del servizio postaleveniva ripristinato a seguito della dichiarazione di nullità  del termine apposto al rapporto di lavoro accertata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Il locale magistrato del lavoro nel ripristinare il rapporto di lavoro e nel condannare al risarcimento del danno disponeva il pagamento delle retribuzioni dalla data della messa in mora con sentenza confermata parzialmente in sede di appello. La società  soccombente adiva la Corte di Cassazione contestando la decisione del collegio partenopeo laddove non aveva limitato il danno per effetto del trattamento di quiescenza ottenuto dal lavoratore. Il motivo di gravame è stato respinto dalla Corte di Cassazione che richiamando precedenti specifici ha escluso la rilevanza della percezione del trattamento pensionistico ai fini della limitazione del danno risarcibile. L'irrilevanza del percepito pensionistico deriva ' a detta dei giudici di legittimità  ' dalla duplice circostanza che, da un lato, il diritto alla pensione non sorge per effetto della disponibilità  delle energie lavorative determinata dal rifiuto del datore di lavoro di riceverle, e, dall'altro, che la continuità  giuridica del rapporto di lavoro renderebbe indebita la prestazione pensionistica subordinata alla cessazione del rapporto di lavoro.
La Cassazione torna ancora sull’annosa questione della tempestività della contestazione disciplinare
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La concreta cessazione dell’attività aziendale limita il danno risarcibile dalla reintegra nel posto di lavoro
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Il tempo del trasferimento non rientra nell’orario di lavoro
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La motivazione di un licenziamento deve essere specifica e completa
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Il giudice del lavoro di Reggio Calabria nell'accogliere il ricorso promosso da un lavoratoredisponeva la sua reintegra nel posto di lavoro ritenendo la genericità  della motivazione addotta a base del recesso dalla società  datrice di lavoro. L'intimazione basata sulla «necessità  di contrarre i costi di esercizio eliminando l'onere eccessivamente oneroso costituito da un numero esorbitante di dipendenti» veniva ritenuta dal locale magistrato del lavoro, con sentenza confermata in sede di appello, del tutto inidonea a configurare una valida motivazione. La Corte di Cassazione nel richiamare propri specifici precedenti ha rigettato il ricorso di legittimità  della società  osservando che la motivazione deve essere sufficientemente specifica e completa, ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento sà da poter esercitare un'adeguata difesa svolgendo e offrendo idonee osservazioni o giustificazioni dovendosi ritenere equivalente alla materiale omissione della comunicazione dei motivi la comunicazione che, per la sua assoluta genericità , sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende.
Lo scarso rendimento di un lavoratore può essere desunto anche tramite presunzioni
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Un lavoratore con funzioni di impiegato commerciale, dopo aver subito una serie di provvedimenti disciplinariconservativi per non avere effettuato il numero di visite giornaliere previste dall'azienda e per non aver raggiunto l'obiettivo di fatturato stabilito unilateralmente dall'azienda, veniva licenziato per scarso rendimento. La domanda di reintegra nel posto di lavoro veniva respinta in entrambi i gradi di giudizio e la decisione della Corte di Appello di Torino veniva confermata anche in sede di legittimità . La Corte di Cassazione ha infatti reputato corretta la motivazione della decisione dei giudici di secondo grado che avevano ritenuto dimostrata una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferiti ad una media di attività  tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Nel giudizio valutativo ' ritiene la Corte di Cassazione ' i giudici di merito ben potevano correttamente assumere quale parametro della diligente collaborazione gli obiettivi fissati dai programmi di produzione ove considerati con la produttività  superiore degli altri colleghi e quanto dal lavoratore effettivamente realizzato, dal momento che la prova della negligenza del prestatore può essere provata solo attraverso presunzioni.
L’esclusione illegittima da un concorso selettivo non legittima automaticamente un danno risarcibile
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Sono illegittime le clausole elastiche che consentono una flessibilità «a comando» della prestazione lavorativa
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Una lavoratrice di un'azienda di ristorazione adiva il giudice del lavoro di Firenzelamentando l'illegittimità  della clausola del proprio contratto di lavoro a tempo parziale che consentiva all'azienda di variare discrezionalmente la distribuzione dell'orario giornaliero. I giudici di merito accoglievano il ricorso dichiarando la nullità  della clausola e condannando la società  al pagamento di un risarcimento in via equitativa derivante dalla potenziale penalizzazione della progettualità  della propria sfera esistenziale e vita extralavorativa. La Corte di Cassazione, pur riformando il capo della decisione della Corte di Appello fiorentina nella parte in cui non aveva condizionato il danno ad una rigorosa prova dell'impegno supplementare imposto al lavoratore per effetto della illegittima flessibilità  richiesta, confermava la decisione nella parte in cui aveva ritenuto la nullità  della clausola flessibile cd. «a comando». I giudici di legittimità  hanno, infatti, osservato, che le clausole che consentono al datore di lavoro di richiedere a comando la prestazione lavorativa dedotta in un contratto di lavoro a tempo parziale sono illegittime atteso che l'esigenza della previa pattuizione bilaterale della riduzione di orario comporta che, se le parti concordano per un orario giornaliero inferiore a quello ordinario, di tale orario deve essere determinata la collocazione nell'arco della giornata e che, se parimenti le parti convengono che l'attività  lavorativa debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o del mese, anche la distribuzione di tali giornate lavorative sia previamente stabilita. La previsione di una massima flessibilità  ' conclude la Corte ' che autorizza il datore di lavoro ad una ridistribuzione dell'orario di lavoro incontrollabile precludendo qualsiasi possibilità  di programmazione deve ritenersi nulla. La Cassazione ha quindi precisato che la nullità  non concerne le clausole elastiche in generale, ma quella che preclude ogni possibilità  di programmazione concordata.
Il contratto a termine non può essere risolto per giustificato motivo oggettivo
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Una cameriera assunta con contratto a termine alle dipendenze di un'azienda di ristorazionenel corso del contratto veniva licenziata a seguito di una ristrutturazione in forza della quale l'azienda aveva ritenuto di ridistribuire le mansioni sopprimendo la posizione lavorativa. Nel corso del giudizio promosso dalla dipendente il giudice di primo grado, con sentenza confermata in sede di appello, accoglieva il ricorso della dipendente condannando la società  al risarcimento del danno pari alle retribuzioni perdute ed al valore del vitto e dell'alloggio stabilito nel contratto di assunzione. La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso della società , ha affermato che, pur dovendosi ammettere il pieno diritto del datore di modificare l'organizzazione aziendale per ottimizzare l'efficienza, tale facoltà  non può spingersi fino a sacrificare rapporti di lavoro che per loro natura sono a scadenza certa. Secondo i giudici di legittimità , infatti, se in un rapporto assistito dalla garanzia di una stabilità , per il quale non sia previsto preventivamente un limite di durata, può pensarsi che sopravvengano delle ragioni che rendano oggettivamente non più conveniente mantenerlo in vita, ciò non vale quando la durata sia limitata nel tempo soprattutto se è il datore di lavoro che in considerazione di particolari sue esigenze si avvalga dello strumento del contratto a termine.
Pensione di inabilità civile per extracomunitari
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È illegittimo negare la pensione di inabilità  civile agli stranieri extracomunitarisoltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito stabiliti per la carta di soggiorno (ora permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo). Il caso di specie riguardava una domanda all'Inps proposta dal tutore di un cittadino albanese interdetto, regolarmente soggiornante in Italia dal 2000, non munito di carta di soggiorno, in stato vegetativo a seguito di incidente stradale, riconosciuto totalmente invalido e abbisognevole di assistenza continua. La Corte Costituzionale ha sottolineato il fatto che, essendo la pensione di inabilità  preclusa dalla titolarità  di un reddito superiore ad una misura fissata dalla legge, la subordinazione dell'attribuzione di tale prestazione al possesso, da parte dello straniero, di un titolo di soggiorno il cui rilascio presuppone il godimento di un reddito, rende ancor più evidente l'intrinseca irragionevolezza del complesso normativo.
Contratti di collaborazione
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P. B. ha sottoscritto il 1° gennaio 2003 con la Spa F.S. un contratto di collaborazione coordinata e continuativaCon lettera del 26 ottobre 2004 l'azienda gli ha comunicato la cessazione del rapporto «per sopraggiunta impossibilità  dell'oggetto» richiamando l'art. 86, comma 1, del decreto legislativo n. 276 del 2003 secondo cui: «Le collaborazioni coordinate e continuative stipulate ai sensi della disciplina vigente, che non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono efficacia fino alla loro scadenza e, in ogni caso, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente provvedimento». P. B. ha chiesto al Tribunale di Ascoli Piceno di dichiarare l'illegittimità  della risoluzione del rapporto. Il Tribunale ha sollevato la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 86, comma 1, del decreto legislativo n. 276/2003 con riferimento agli articoli 3 (principio di eguaglianza e ragionevolezza), 4 (diritto al lavoro) e 35 (tutela del lavoro) della Costituzione. La Corte Costituzionale con sentenza n. 399 del 5 dicembre 2008, ha ritenuto fondata la questione e ha dichiarato l'illegittimità  costituzionale dell'art. 86 comma primo del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276. Il d.lgs. n. 276 del 2003 ' ha osservato la Corte ' ha introdotto una disciplina restrittiva per il particolare tipo di lavoro autonomo costituito dalle collaborazioni coordinate e continuative, al di fuori delle eccezioni previste dall'art. 1, comma 2, e dall'art. 61, commi 1, 2 e 3, questo tipo di contratto può ora essere stipulato solamente se sia riconducibile ad uno o più progetti specifici o a programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art. 61, comma 1); la novità  cosà introdotta a regime dal d.lgs. n. 276 del 2003 è quella di vietare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, pur avendo ad oggetto genuine prestazioni di lavoro autonomo, non siano però riconducibili ad un progetto. Il primo periodo dell'art. 86, comma 1, del d. lgs. n. 276 del 2003 ' ha rilevato la Corte ' stabilisce l'anticipata cessazione dell'efficacia delle collaborazioni coordinate e continuative già  instaurate alla data della sua entrata in vigore; il predetto divieto è in tal modo esteso anche ai contratti di lavoro autonomo perfettamente leciti al momento della loro stipulazione. Il conseguente sacrificio degli interessi che le parti avevano regolato nel rispetto della disciplina dell'epoca risulta ' ha affermato la Corte ' sotto questo profilo, irragionevole per contraddittorietà  della norma con la sua ratio. Una normativa che lo stesso legislatore definisce come finalizzata «ad aumentare [â?¦] i tassi di occupazione e a promuovere la qualità  e la stabilità  del lavoro» (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003) ' ha osservato la Corte ' non può ragionevolmente determinare l'effetto esattamente contrario (perdita del lavoro) a danno di soggetti che, per aver instaurato rapporti di lavoro autonomo prima della sua entrata in vigore nel pieno rispetto della disciplina all'epoca vigente, si trovano penalizzati senza un motivo plausibile; quest'ultimo non può essere individuato nella mera esigenza di evitare la prosecuzione nel tempo di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa difformi dalla nuova previsione legislativa, poiché l'intento del legislatore di adeguare rapidamente la realtà  dei rapporti economici ai modelli contrattuali da esso introdotti non può giustificare, di per se stesso, il pregiudizio degli interessi di soggetti che avevano regolato i loro rapporti in conformità  alla precedente disciplina giuridica.
Congedo biennale per figli di disabili gravi
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È illegittimo escludere dai soggetti legittimati a fruire del congedo biennale retribuitoil figlio convivente con il genitore in situazione di disabilità  grave. La Corte Costituzionale ha quindi accolto la questione prospettata dal Tribunale di Tivoli per violazione degli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione. Ad avviso del giudice rimettente, infatti, la norma censurata, riconoscendo il diritto al congedo straordinario retribuito esclusivamente ai genitori della persona in situazione di disabilità  grave, o, in alternativa, in caso di loro scomparsa o impossibilità , ai fratelli e sorelle con essa conviventi, nonché al coniuge convivente del disabile, si porrebbe in contrasto con l'art. 3, primo comma, Cost., determinando un ingiustificato trattamento deteriore di un soggetto, il figlio convivente, tenuto ai medesimi obblighi di assistenza morale e materiale nei confronti del disabile. La Corte Costituzionale, dopo aver sottolineato che il congedo straordinario retribuito si iscrive negli interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie che si fanno carico dell'assistenza della persona diversamente abile e consiste essenzialmente nel favorire l'assistenza al disabile grave in ambito familiare e nell'assicurare continuità  nelle cure e nell'assistenza, ha concluso per l'illegittimità  della norma che non prevede tra i beneficiari del suddetto congedo il figlio convivente, anche qualora questi sia l'unico soggetto in grado di provvedere all'assistenza della persona affetta da handicap grave.
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