
Descrizione
Anche gli extracomunitari hanno diritto ai servizi sociali del sistema integrato regionale La Cassazione rimette alla Consulta la forfettizzazione retroattiva del danno da contratto a termine illegittimo Procedura di concertazione sindacale e condotta antisindacale di ente locale avanti il Tribunale dì ModicaL’attività di istruttore di «body building» svolta durante un’assenza per malattia può essere ritenuta non compatibile
La situazione di precarietà occupazionale pregiudica l’esercizio dei diritti tutelati dall’art. 21 Cost.
È lecita l’assunzione a termine per un programma televisivo non specifico, in quanto consentita da un accordo sindacale
Il licenziamento di una lavoratrice disabile durante il periodo di prova può essere ritenuto illegittimo
I. M., disabile, è stata assunta con patto di prova dalla Srl Policlinico San
Marco,per collocamento obbligatorio. Successivamente, nel luglio del 2003, al termine
del periodo di prova, ella è stata licenziata per mancato superamento della stessa;
ha quindi impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Bergamo, facendo presente
di avere sempre correttamente svolto le mansioni assegnatele. Il Tribunale, con
sentenza del dicembre 2004, ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata
riformata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia che, con sentenza del marzo 2006,
ha dichiarato illegittimo il licenziamento e ha condannato l'azienda al risarcimento del
danno, in misura pari alle retribuzioni non percepite sino all'intervenuto reperimento
di altra occupazione. La Corte territoriale ha osservato che il licenziamento doveva ritenersi
elusivo delle disposizioni poste a tutela dei lavoratori disabili, atteso che la la-voratrice aveva sin dall'inizio del giudizio sostenuto di aver svolto del tutto correttamente
le mansioni affidatele, senza alcun richiamo o contestazione, e che tale circostanza
non solo non era stata contrastata dalla controparte, ma era stata data per certa
dallo stesso giudizio di primo grado; ragion per cui doveva ritenersi che la prova aveva
avuto esito positivo. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo
che la Corte di Brescia non avrebbe dovuto limitarsi a condannare l'azienda al
risarcimento del danno, ma avrebbe dovuto ordinare la sua reintegrazione nel posto di
lavoro, in base all'art. 18 Stat. lav. L'azienda ha resistito proponendo ricorso incidentale
e sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di recesso nel periodo di
prova e che incombeva alla lavoratrice provare l'eventuale illiceità del motivo del licenziamento.
La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi. Se il licenziamento del lavoratore in
prova, per effetto dell'art. 10 legge n. 604/66, rientra nell'area della recedibilità acausale
' ha affermato la Corte ' non per questo può ammettersi che l'esercizio del diritto
potestativo riconosciuto al datore di lavoro possa risolversi nel mero arbitrio del suo
titolare, dal momento che l'ordinamento, comunque, assegna «garanzia costituzionale
al diritto di non subire un licenziamento arbitrario» (Corte Cost. n. 541/2000); ne deriva
che, pur restando l'atto di recesso del datore di lavoro estraneo al regime comune
del licenziamento ' fra l'altro in punto di motivazione, oneri probatori e di sanzioni
' il lavoratore potrà sempre dimostrare che l'atto di recesso sia stato determinato da
motivi illeciti, fra i quali ben può rientrare lo svolgimento della prova in mansioni incompatibili
con lo stato di invalidità o la finalizzazione del recesso, adottato nonostante
il positivo superamento dell'esperimento, alla mera elusione della disciplina sul
collocamento dei disabili, dovendosi qualificare per definizione (come avvertito dalla
stessa Corte Costituzionale), licenziamento in frode alla legge quello finalizzato al solo
obiettivo di aggirare il sistema delle assunzioni obbligatorie. In tal contesto ' ha affermato
la Cassazione ' è riservato al giudice di merito, il cui apprezzamento, se correttamente
motivato, resta esente dal sindacato di legittimità , verificare l'effettiva idoneità
dei fatti allegati dal lavoratore a dar conto, anche attraverso presunzioni, del
superamento dei limiti posti al potere dell'imprenditore.
Nel caso in esame ' ha osservato la Cassazione ' la Corte territoriale ha accertato che,
avendo la ricorrente sin dall'atto introduttivo allegato di aver svolto correttamente tutte
le mansioni affidatele, senza ricevere alcun richiamo o contestazione, tale circostanza
non solo non aveva rinvenuto contestazione nelle difese della controparte, ma
«era stata data per certa dallo stesso giudice» di primo grado; ragion per cui dalla
mancata contestazione del datore di lavoro ben poteva inferirsi che il recesso non trovava
altra motivazione «se non la stessa invalidità ». Le sanzioni applicabili in caso di
licenziamento illegittimo nel periodo di prova ' ha aggiunto la Corte ' sono quelle proprie
della nullità degli atti negoziali contrari a norme di diritto (art. 1418 cod. civ.); escluso
che l'illegittimità del recesso trovi sanzioni nei rimedi ripristinatori previsti dall'art.
18 dello Statuto, ben può, tuttavia, riconoscersi, a fronte della nullità del licenziamento,
il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, secondo i principi comuni
(artt. 1223 ss. cod. civ.) e, quindi, tenendo conto anche delle utilità economiche che lo
stesso avrebbe percepito ove il recesso non fosse stato determinato da finalità illecite
o, comunque, fraudolente e l'esperimento avesse avuto regolare svolgimento. Più in
particolare, ove si accerti, come nel caso, il positivo superamento della prova ' ha affermato
la Corte ' deve ritenersi che correttamente il giudice di merito provveda a
quantificare il danno con riferimento alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito
ove il rapporto di lavoro avesse avuto regolare esecuzione, ricollegandosi lo scioglimento
del rapporto a un comportamento antigiuridico del datore di lavoro e determinando
tale comportamento un danno risarcibile qualificabile come pregiudizio da mancata assunzione.
Il patto di prova contenuto nella lettera di assunzione è nullo se la sottoscrizione avviene dopo l’inizio del rapporto
NOTA
Con Nota del 25 novembre 2010 il Segretario generale del ministero del Lavoro e
delle Politiche socialiha dettato le prime istruzioni operative per dare attuazione all'art.
31 della legge n. 183 del 2010, cd. Collegato lavoro, relativo alle Conciliazioni presso
le Direzioni provinciali del lavoro.
CIRCOLARE N. 41
La Circolare n. 41 del 2010detta al personale ispettivo istruzioni operative in ordine all'accesso
ispettivo, al potere di diffida e la verbalizzazione unica di cui all'art. 33 della legge
n. 183 del 2010, cd. Collegato lavoro.
La liquidazione di sinistri inesistenti non può essere giustificata da pressioni mafiose
N. R., dipendente dalla Spa Fondiaria Sai, addetto all'Ispettorato sinistri di Caserta,è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l'addebito, tra l'altro, di avere
proceduto alla liquidazione di sinistri senza una adeguata verifica e di non avere mai tenuto
conto di situazioni gravemente sospette, di concatenazione di sinistri e di coinvolgimento
delle stesse persone, in termini risarcitori, in un numero molto elevato di incidenti,
omettendo altresà di segnalare tali anomalie alla direzione. Il lavoratore si è difeso sostenendo
che si era venuto a trovare in una situazione di indebito condizionamento a causa
della forte pressione di organizzazioni criminali. L'azienda non ha accolto le giustificazioni
e ha licenziato il dipendente. Questi ha chiesto al Tribunale di Napoli di annullare il
licenziamento. L'azienda, costituitasi in giudizio, ha chiesto il rigetto dalla domanda e, in
via riconvenzionale, la condanna del lavoratore al risarcimento del danno derivatole dall'indebita
liquidazione di sinistri. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato
sia la domanda principale che quella riconvenzionale. Questa decisione è stata parzialmente
riformata dalla Corte di Appello di Napoli che ha annullato il licenziamento, in
quanto ha ritenuto che l'azienda conoscesse la realtà della situazione lavorativa e che la
liquidazione dei sinistri fosse stata previamente verificata dai superiori dell'ispettore. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Napoli
per difetto di motivazione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, rilevando, tra l'altro, che la Corte di Napoli non aveva
adeguatamente considerato la nota del 1° dicembre 94 indirizzata dall'azienda agli ispettori
liquidatori di Caserta, nella quale si prescrivevano una serie di raccomandazioni
legate «all'attuale fenomenologia delittuosa in accoglimento di alcune istanze emerse in
sede associativa Ania nella riunione tenutasi a Napoli il 13 ottobre 94; estrarre fotocopia
carta di circolazione, scattare fotografie con data, effettuare pagamenti con quietanze separate,
a mezzo bonifico o comunque senza diretta consegna di assegni pro manibus, estrarre
fotocopia documento d'identità del percipiente o del beneficiario in caso che il pagamento
tramite bonifico non possa essere effettuato, favorire lo scambio d'informazioni
e di documentazioni nonché la partecipazione di liquidatori di zona a incontri periodici per
concordare iniziative operative comuni».
La liquidazione di sinistri palesemente inesistenti ' ha affermato la Corte ' è certamente
circostanza che va a minare irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra il dipendente e il
datore di lavoro e che, dunque, giustifica l'intimazione di licenziamento per giusta causa;
l'analisi delle risultanze istruttorie, compiuta dai giudici di secondo grado, in nessun modo
si è incentrata sulla persona di N. R. e sui suoi comportamenti nei riguardi della società ,
risolvendosi, invece, nella disamina in termini generali delle difficoltà nello svolgimento
dell'attività assicurativa nell'area di Caserta, con pressoché totale condanna dei comportamenti
della Compagnia. Sennonché ' ha osservato la Corte ' l'imperversare della crimi-nalità non può giustificare la liquidazione di falsi sinistri, effettuata senza alcuna tempestiva
richiesta di intervento della società e senza la denuncia dei singoli casi agli organi di
polizia giudiziaria. In conclusione la Corte ha affermato il principio secondo cui «costituisce
illecito disciplinare il ripetuto pagamento di indennizzi da parte del liquidatore dipendente
di una società di assicurazioni, con pacifica irregolarità delle relative procedure e a
causa di attività estorsiva da parte di associazioni delinquenziali, quando il liquidatore
non abbia tempestivamente informato dei singoli fatti, ossia delle pressioni ricevute, la
datrice di lavoro né gli organi di polizia, e quand'anche la detta attività delinquenziale costituisse
fatto genericamente notorio».
La Corte ha cassato la sentenza impugnata, accertando la legittimità del licenziamento e
rinviando la causa, per l'esame della domanda di risarcimento del danno, che la datrice di
lavoro ha proposto in riconvenzionale, alla Corte d'Appello di Napoli in diversa composizione.
Il rifiuto di eseguire una delle prestazioni lavorative dovute può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari
Un’annunciatrice traduttrice assunta con contratto di «lavoro autonomo» può essere ritenuta lavoratrice subordinata
D.P.C.M.
Con il d.p.c.m. n. 226 del 2010 è stato adottato il Regolamento per dare attuazione
alla previsione dell'articolo 74,comma 3, del d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, in relazione
al Titolo IV, Capi I, IV e V del medesimo decreto legislativo. Il Regolamento determina
limiti e modalità di applicazione delle disposizioni, anche inderogabili, del decreto
legislativo n. 150 del 2009, anche con riferimento alla definizione del comparto autonomo
di contrattazione collettiva.
La dequalificazione è lecita se attuata per evitare il licenziamento e accettata dal lavoratore
V. T., dipendente della Spa editoriale Friuli Venezia Giulia come impiegato di alto
livello addetto all'ufficio grafici,al rientro in azienda dopo un periodo di cassa integrazione
è stato destinato, in base a un accordo sindacale, ai servizi generali con mansioni
di fattorino e centralinista. Dopo un periodo di adibizione a tali mansioni, nettamente
inferiori a quelle in precedenza svolte, egli ha chiesto al Tribunale di Trieste di condannare
l'azienda al risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Sia il Tribunale
che, in grado di appello, la Corte di Trieste hanno ritenuto la domanda priva di fondamento,
rilevando che il demansionamento doveva ritenersi giustificato dall'esigenza di
conservare il posto di lavoro, dopo la soppressione del servizio grafico ed era stato attuato
in base a un accordo sindacale, accettato dal lavoratore. V. T. ha proposto ricorso
per cassazione censurando la decisione della Corte di Trieste per vizi di motivazione e violazione
di legge. In particolare egli ha sostenuto che l'accordo sindacale diretto a consentire
il rientro anticipato dalla Cigs con assegnazione di mansioni inferiori non poteva disporre
dei diritti dei singoli lavoratori, tutelati dall'art. 2103 cod. civ.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Le deduzioni del ricorrente ' ha osservato la Corte
' sono esatte nella parte in cui sostengono che la nullità di patti contrari al divieto di
declassamento di mansioni, previsto dal capoverso dell'art. 2103 cod. civ., si applica anche
alla contrattazione collettiva, come si desume, in positivo, dal dettato normativo dell'art.
40 della legge n. 300 del 1970, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli
accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché, «a contrario», da altre disposizioni
con cui, eccezionalmente, il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva
a introdurre una disciplina in deroga al disposto del comma primo dell'art. 2103 cod.
civ., quale l'art. 4, comma 11, della legge n. 223 del 1991, secondo cui «gli accordi sindacali
stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento
totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in
deroga al comma secondo dell'art. 2103 cod. civ., la loro assegnazione a mansioni diverse
da quelle svolte». Tuttavia ' ha ricordato la Corte ' la giurisprudenza di legittimità è ormai
definitivamente orientata nel senso che l'impossibilità della prestazione lavorativa
quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro
subordinato (art. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 e art. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile
per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro,
perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore a una diversa attività ,
che sia riconducibile ' alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona
fede ' alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.)
o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile
nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore.
Si è anche precisato che il cosiddetto patto di dequalificazione, quale unico
mezzo per conservare il rapporto di lavoro, costituisce non già una deroga all'art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello jus variandi del datore di lavoro e, come
tale, inderogabile secondo l'espresso disposto del comma secondo delle stesso articolo,
bensà un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso
e dall'interesse del lavoratore; pertanto, la validità del patto presuppone l'impossibilità
sopravvenuta di assegnare mansioni equivalenti alle ultime esercitate e la manifestazione
' sia pure in forma tacita ' della disponibilità del lavoratore ad accettarle. La sentenza
impugnata ' ha affermato la Corte ' non si è discostata dai richiamati principi e ha
fondato la decisione sopra accertamenti di fatto correttamente eseguiti o comunque non
contestati dal ricorrente; in primo luogo, la sentenza menziona l'accordo sindacale avente
a oggetto la possibile assegnazione a mansioni di livello inferiore, ma non lo considera
fonte del patto in deroga; l'impossibilità di adibire V. T. alle stesse mansioni o ad altre equivalenti
viene espressamente esclusa dal giudice del merito, che ritiene la dequalificazione
unica alternativa al licenziamento senza che sul punto vi siano censure del ricorrente;
la disponibilità del dipendente alla continuazione del rapporto di lavoro è stata desunta
dalla mancata reazione immediata al trasferimento ai servizi generali, con assegnazione
a mansioni inferiori.
Astensioni spontanee: limiti ed effetti della valutazione negativa della commissione
La Commissione ha ribadito che, quando dai dati in suo possesso non emerga la
partecipazione di soggetti collettivinell'organizzazione dell'astensione dal lavoro,
bensà l'attuazione improvvisa di quest'ultima da parte dei lavoratori che si sono rifiutati di
rendere la prestazione lavorativa, non ricorrono i presupposti per una valutazione del
comportamento di organizzazioni sindacali o di altri soggetti collettivi. A ogni modo, secondo
l'orientamento espresso dalla Commissione con delibera n. 08/518, «nel caso di astensioni
spontanee collettive di lavoratori in relazione alle quali non sia possibile individuare
il soggetto promotore, la Commissione, riscontrata l'illegittimità dell'astensione, inviterà
il datore di lavoro ad adottare i previsti provvedimenti disciplinari». La Commissione,
dunque, deve invitare il legale rappresentante dell'azienda ad adottare i provvedimenti
disciplinari a carico di tutti i lavoratori che si sono astenuti dalle prestazioni lavorative
aderendo allo sciopero illegittimo. Il legale rappresentante della stessa azienda è poi
tenuto a comunicare alla Commissione, ai sensi dell'art. 2, c. 6, legge n. 146 del 1990, l'esito
del procedimento disciplinare avviato nei confronti dei lavoratori, fornendone prova
documentale entro trenta giorni dalla conclusione del procedimento medesimo. La Commissione,
in caso di inottemperanza dell'azienda a questi obblighi, è legittimata ad applicare
le sanzioni previste dall'art. 4, c. 4-sexies, legge n. 146 del 1990 nei confronti del datore
di lavoro.
Nuovo piano tariffario dei taxi del comune di Roma
L'Autorità ha formulato alcune osservazioni in merito al Regolamento per il
servizio di trasporto pubblico non di lineaapprovato con deliberazione del Consiglio
comunale n. 58 del 14 luglio 2010 e alla conseguente deliberazione dell'Assemblea
capitolina n. 21 del 19/20 novembre 2010, che ha rimesso alla Giunta comunale l'istituzione
di una Commissione tecnica con l'incarico di verificare analiticamente la congruità
delle tariffe previste. L'Autorità ha rammentato di esser più volte intervenuta per suggerire
la rimozione di misure ingiustificatamente restrittive relativamente alla prestazione del
servizio di trasporto tramite taxi. In particolare, le preoccupazioni dell'Autorità si sono
concentrate sui vincoli posti a un aumento delle licenze e alla conseguente carenza di taxi
per cittadino (particolarmente marcata se confrontata con quanto accade in larga parte
delle altre città europee), sui criteri con i quali sono organizzati i turni e sui riflessi negativi
che tali criteri producono nelle ore e nei luoghi ad alta domanda, sulla totale assenza di
spazi per una competizione di prezzo, almeno per i servizi che possono consentirla (ad es.
i collegamenti da e per gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino, che prevedono il pagamento
di tariffe a forfait). Con specifico riguardo alla competizione di prezzo, l'Autorità è intervenuta
più volte sulle problematiche concorrenziali derivanti dalla definizione di prezzi
minimi e massimi. La fissazione di prezzi costituisce, come è noto, una delle più rilevanti
tipologie di restrizione del gioco concorrenziale; infatti, secondo i consolidati orientamenti
giurisprudenziali comunitari e nazionali, il prezzo rappresenta una delle principali
variabili competitive e numerose sono state, nel corso del tempo, le pronunce volte a stigmatizzare
la fissazione dei prezzi dei servizi. Se la determinazione per via amministrativa
di un livello minimo delle tariffe per lo svolgimento del servizio taxi non può trovare alcuna
giustificazione sul piano della tutela della concorrenza, l'imposizione amministrativa di
livelli tariffari massimi ' cosà come individuati dal Comune di Roma nel caso di specie 'può secondo la valutazione dell'Autorità , almeno in linea di principio, trovare giustificazione
nella necessità di tutelare il consumatore quale parte debole del rapporto. In quest'ottica
l'Autorità ha rilevato che la deliberazione del Consiglio comunale di riforma del
sistema tariffario del servizio taxi nel Comune di Roma presenta alcuni profili migliorativi
sotto il profilo concorrenziale rispetto alla situazione attuale laddove, da un lato, stabilisce
espressamente che il livello delle tariffe fissato in via in via regolamentare è quello
«massimo» e i conducenti in astratto sono liberi di applicare tariffe inferiori, dall'altro, non
prevede più la necessità di richiedere l'autorizzazione all'Amministrazione Comunale per
l'applicazione di sconti rispetto alla tariffa massima. Anche la maggiore trasparenza tariffaria,
con l'introduzione dell'obbligo a carico del conducente di emettere ricevute automatiche
complete di numero di licenza, giorno e ora del viaggio, durata in chilometri e minuti,
tariffe effettivamente applicate e specifici riferimenti per eventuali reclami, appare sicuramente
una misura apprezzabile sotto il profilo concorrenziale. Tuttavia, ad avviso dell'Autorità ,
le potenzialità di tali misure rischiano di essere completamente vanificate dai
criteri stabiliti dalla deliberazione dell'Assemblea capitolina n. 21 del 20 novembre 2010
che la Commissione tecnica è chiamata a utilizzare per la valutazione di congruità degli
aumenti tariffari. L'Autorità , in particolare, ritiene che il criterio per cui eventuali modifiche
tariffarie dovrebbero tener conto del «rapporto domanda e offerta a seguito dell'ampliamento
dell'organico con rilascio di nuove licenze» non può che essere interpretato nel
senso di suggerire riduzioni delle tariffe massime a seguito di aumenti dell'offerta. Qualsiasi
altra interpretazione ' aumenti tariffari giustificati da un aumento del numero delle
licenze ' sarebbe volta esclusivamente a mantenere rendite di posizione e quindi in contrasto
con i principi più volte richiamati dalla stessa Autorità per ottenere una migliore organizzazione
del servizio e dinamiche virtuose in termini di prezzo nell'interesse dei consumatori.
L'Autorità ha dunque auspicato che le osservazioni formulate possano essere
utilmente tenute in considerazione nell'ambito dell'emanazione definitiva della riforma
del trasporto pubblico locale non di linea con riguardo al trasporto passeggeri con taxi.
Previdenza sociale – «personale assimilato» agli impiegati pubblici – Contratto concluso con una pubblica amministrazione
avvocato – Normativa nazionale che vieta l’esercizio concomitante della professione e di un impiego come lavoratore pubblico
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)
La cd. legge di stabilità 2011 contiene disposizioni in materia lavoro che riguardano,
essenzialmente, i controlli di contratti di solidarietà difensiviex
art. 5, comma 5, della legge n. 236/1993 e le casse integrazioni in deroga. In attesa
della riforma organica degli ammortizzatori sociali, all'articolo 1, comma 30, viene autorizzata
per tutto il 2011 la concessione per un massimo di dodici mesi, in deroga alla
normativa vigente e senza soluzione di continuità , di trattamenti di Cig, mobilità e
disoccupazione speciale, anche con riferimento ad aree regionali e settori produttivi.
È poi prevista la possibilità di prorogare i trattamenti concessi ex art. 2, comma 138,
della legge n. 191/2009, per un massimo di dodici mesi, sulla base di accordi stipulati
a livello governativo e con decreto «concertato» tra Lavoro ed economia. La misura del
trattamento è ridotta del 10% nel caso di prima proroga, del 30% in caso di seconda
proroga e del 40% in caso di ulteriori proroghe. Dopo la seconda proroga il trattamento
integrativo è condizionato esclusivamente alla frequenza di corsi finalizzati al reimpiego
o alla riqualificazione professionale. Il comma 31, invece, si occupa dei criteri necessari
per il godimento della Cig e della mobilità in deroga: sono gli stessi previsti per
la casistica generale (90 giorni di rapporto per il godimento di Cig) e 12 mesi (di cui 6
di lavoro effettivo ' art. 16, comma 1, della legge n. 223/1991) per la mobilità , comprensive
delle eventuali mensilità contributive versate alla gestione separata (art. 2,
comma 26, della legge n. 335/1995) a seguito di rapporti di collaborazione coordinata
e continuativa in regime di mono committenza con un reddito superiore a 5.000 euro.
Inoltre è stabilito che anche per il 2011 sono riconosciuti gli incentivi per chi assume lavoratori
in trattamento in deroga (licenziati o sospesi per cessazione totale o parziale
dell'attività o per intervento di procedura concorsuale al di fuori delle ipotesi indicate
dall'art. 3 della legge n. 223/1991). Il comma 37 allarga la platea di lavoratori in mobilità
ai quali non si applicano le nuove disposizioni che regolano l'accesso alla pensione,
rinviando a un decreto «concertato» del ministro del Lavoro con quello dell'Economia.
Il comma 39, invece, abroga il comma 10 dell'art. 1 della legge n. 247/2007, norma
che prevedeva, a far data dal 1° gennaio 2011, l'aumento dell'aliquota contributiva
per i lavoratori subordinati dello 0,09%.
CIRCOLARE N. 3 13 GENNAIO 2011
Con la Circolare n. 3 del 2011 il ministro del Lavoro e delle Politiche socialiha fornito
chiarimenti operativi attinenti alle novità normative contenute nella legge 4 novembre
2010, n. 183 (cd. Collegato lavoro) in materia di regimi di autorizzazione all'incontro
tra la domanda e l'offerta di lavoro di cui agli artt. 4, 5, 6 e 15 del d.lgs. 276/2003.
Nozione di «giurisdizione nazionale» ai sensi dell’art. 234 Ce – Riconoscimento dei diplomi – Avvocato
Università – Procedura di stabilizzazione – Controversia – Giudice amministrativo – Difetto di giurisdizione
Politica sociale Principio di non discriminazione Applicazione dell’accordo quadro al personale di una comunità autonoma
Ente locale – Determinazione in materia di dotazioni organiche – Mancato esperimento della procedura di concertazione sindac
Licenziamento per appropriazione indebita e pagamenti non dovuti
La società Datalogic Spa ha convenuto in giudizio una propria dipendente, licenziata
per essersi sistematicamente appropriata di rilevanti somme di denaroe aver
effettuato pagamenti non dovuti, chiedendo il risarcimento dei danni e la declaratoria
di giusta causa di licenziamento ovvero in subordine la conversione in licenziamento per
giustificato motivo. Si costituiva nel giudizio la lavoratrice, la quale pur ammettendo di aver
effettuato i prelievi contestatile, sosteneva di aver sempre prelevato il denaro su indicazione
proveniente da dirigenti aziendali al fine di corrompere sistematicamente funzionari
pubblici, come peraltro accertato nel corso del procedimento penale instaurato nei
suoi confronti per appropriazione indebita e calunnia, archiviato dal Gip; la convenuta
quindi chiedeva il rigetto delle domande aziendali e in via riconvenzionale impugnava il licenziamento
per giusta causa intimatole. Il Tribunale di Bologna ha ritenuto plausibile la
versione dei fatti sostenuta dalla lavoratrice accertata anche in sede penale, considerato
anche che i prelievi si erano prolungati per un considerevole lasso di tempo senza che alcun
rilievo le venisse mosso e che la società comunque non aveva fornito precisi elementi
tali da far ritenere che il denaro fosse finito nella personale disponibilità della ex dipendente.
Pertanto ritenendo la lavoratrice un mero strumento di soggetti a essa gerarchicamente
sopra ordinati, il giudice ha rigettato la domanda di risarcimento danni, in quanto
la natura meramente strumentale ed eventualmente fungibile delle sue condotte escludeva
il nesso causale tra esse e il danno subito dalla società . Invece il Tribunale ha ritenuto
sussistente una responsabilità disciplinare della lavoratrice, la quale avrebbe avuto
il dovere di astenersi dall'eseguire ordini illeciti, dovendo l'obbligo del lavoratore di cui al
secondo comma dell'art. 2104 cod. civ. arrestarsi di fronte a ordini manifestamente illeciti;
pertanto pur escludendo la giusta causa di licenziamento per l'aver la lavoratrice eseguito
ordini altrui, il Tribunale di Bologna ha ritenuto comunque che il comportamento
della convenuta costituisse un notevole inadempimento che giustifica la conversione del
recesso in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Contratto a tempo determinato – Inerzia nel proporre ricorso – Risoluzione per mutuo consenso – insussistenza –
Mancanza di tempestività della sanzione disciplinare – Illegittigiudimità del licenziamento – Reintegra in via d’urgenza
Opposizione a decreto ingiuntivo – Obbligazioni pecuniarie – Inadempimento impossibilità sopravvenuta per cause non imputab
Inapplicabilità dell’art. 18 al socio asolo se l’esclusione dalla cooperativa sia deliberata per ragioni estranee al rappor
Diritto di sciopero – Servizi pubblici essenziali – Individuazione dei contingenti minimi nella totalità degli addetti
Pagamento crediti di lavoro – Responsabilità solidale del committente – Applicabilità della norma alle pubbliche amministr
Lavoro somministrato – genericità e insussistenza delle ragioni giustificatrici – Ripristino rapporto di lavoro
Contratto a termine Cri – Principio di parità di trattamento retributivo – Applicazione senza limiti o deroghe
Contrasto di giurisprudenza sulla efficacia di un licenziamento in costanza di giudizio su altro licenziamento
Un lavoratore nelle more di un giudizio avverso un licenziamento per giusta
causa veniva nuovamente licenziatoda un istituto di credito per raggiungimento dei
requisiti pensionistici all'esito del giudizio di legittimità che aveva cassato la decisione
della Corte di Appello disponendo contestualmente alla reintegra nel posto di lavoro un
rinvio al giudice di merito per la quantificazione del danno. La Corte di Appello di Ancona
adita in sede di riassunzione nel quantificare il risarcimento respingeva l'eccezione dell'i-stituto bancario che richiedeva una limitazione del danno alla data del compimento dei requisiti
pensionistici e disponeva la condanna al risarcimento fino alla data del successivo
licenziamento intimato all'esito del giudizio di legittimità . Nel respingere il gravame dell'istituto
la Suprema Corte rilevava che la decisione doveva ritenersi conforme laddove aveva
imputato alla società gli effetti della mancata reiterazione di un licenziamento per
motivi diversi prima dell'ordine di reintegrazione nonostante la pendenza del giudizio avverso
il primo recesso. La Suprema Corte nel respingere il ricorso si è posta in dichiarato
contrasto con precedenti della stessa sezione sul dichiarato presupposto che la continuità
e la permanenza del rapporto non osta all'irrogazione di un secondo licenziamento per
giusta causa o giustificato motivo, ove basato su una nuova e diversa ragione giustificatrice,
dal quale solamente, in mancanza di tempestiva impugnazione, deriverà l'effetto estintivo
del rapporto. Sulla base di tali principi la Corte di Cassazione ha ritenuto che la reiterazione
di licenziamenti è in sé astrattamente idonea a raggiungere lo scopo della risoluzione
del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo
nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.
La Cassazione ammette le dimissioni condizionate sospensivamente
Nell'ambito di un complesso accordo che prevedeva l'acquisizione di un pacchetto
azionario di una aziendadella quale un dirigente era proprietario si concordava che
all'esito della procedura di acquisto il dipendente avrebbe cessato il proprio rapporto di
lavoro dimettendosi altresà da ogni carica societaria. All'esito del perfezionamento della
vendita il lavoratore veniva informato dell'avvenuta cessazione del rapporto di lavoro con
comunicazione che veniva impugnata innanzi al Tribunale di Genova. La domanda del lavoratore
veniva respinta nei giudizi di merito nei quali veniva ritenuto valido l'accordo raggiunto
in sede di vendita delle azioni. La Corte di Cassazione nel respingere il gravame del
dirigente ha rilevato la piena validità ed efficacia di dimissioni condizionate sospensivamente.
Affermano, infatti, i giudici di legittimità che l'atto di recesso condizionato a un evento
futuro e incerto costituisce un atto lecito dal momento che si realizza un negozio potestativo
di recesso idoneo a determinare la risoluzione del rapporto indipendentemente
dalla volontà del datore di lavoro. Le dimissioni condizionate sospensivamente devono ritenersi
lecite dal momento che l'atto di recesso non deve contenere un effetto immediatamente
risolutorio mentre le dimissioni condizionate risolutivamente, viceversa ' osservano
i giudici di legittimità ' devono ritenersi inammissibile dal momento che porrebbe
nel nulla un effetto risolutivo già avvenuto.
La Cassazione esclude la legittimità dello sciopero delle mansioni
Un'organizzazione sindacale adiva il Tribunale di Cremona al fine di vedere accertare
l'antisindacalità della condotta di un'aziendaconsistente nell'applicazione
di sanzioni disciplinari nei confronti di alcuni portalettere che nell'ambito di uno sciopero
delle mansioni si erano astenuti dallo svolgere alcune prestazioni accessorie. La domanda
dell'organizzazione sindacale veniva respinta in ogni fase e grado. La Corte di Cassazione
nel confermare la decisione della Corte di Appello di Brescia ha respinto il gravame
dell'organizzazione sindacale sul presupposto della illegittimità della condotta dei portalettere
non riconducibile nell'ambito del diritto di sciopero e quindi configurante un inadempimento
parziale. La Suprema Corte nel pervenire a tale conclusione ha rilevato che
in assenza di una definizione legislativa della nozione di sciopero i lineamenti del concetto
sono stati individuati sul piano giuridico tenendo conto della storia e delle prassi delle
relazioni industriali in forza della quale non può essere definita sciopero ogni manifestazione
di lotta che i soggetti agenti designino tale. Sulla base di tale prospettiva la Corte di
Cassazione perviene alla conclusione che lo sciopero si risolve nella mancata prestazione
in forma collettiva della prestazione lavorativa con corrispondente perdita della retribuzione.
L'astensione si estende ' prosegue la Corte ' a tutte le attività richieste per una determinata
unità di tempo minima al di sotto della quale l'attività lavorativa non ha significato
esaurendosi in una erogazione di energie senza scopo. Si colloca quindi fuori dall'alveo
dello sciopero ' a detta dei giudici di legittimità ' il rifiuto di rendere la prestazione
per una data unità di tempo non integrale ma solo di uno o più compiti che il lavoratore è
tenuto a svolgere. Sulla base di tale ricostruzione della nozione di sciopero costituisce
mero inadempimento non già esercizio di un diritto l'astensione di una parte di attività dovute
nell'arco di una unità di tempo.
Sono utilizzabili le riprese di una azienda terza al fine di accertare condotte illecite dei lavoratori
Alcuni lavoratori addetti alla vigilanza presso un'azienda committente venivano
ripresi da un sistema di videosorveglianza dell'aziendaappaltante mentre erano
intenti a penetrare senza autorizzazione all'interno di uffici che dovevano sorvegliare
per compiere condotte illegittime. All'esito di tali riprese i lavoratori venivano assoggettati
a un procedimento disciplinare e licenziati per giusta causa. Nel corso del giudizio la
Corte di Appello di Torino confermando la decisione del giudice di primo grado rigettava
la domanda proposta dai lavoratori rilevando la legittimità e l'efficacia probatoria del controllo
difensivo. La Corte di Cassazione nel respingere il gravame dei lavoratori ha escluso
che il controllo effettuato tramite le videocamere costituisse un controllo a distanza.
Osserva, infatti, il collegio che non è configurabile una violazione della norma statutaria
in un sistema di ripresa con finalità difensiva attuato da un sistema di videosorveglianza
a opera di un soggetto terzo, rispetto alla società datrice di lavoro che si realizza all'interno
di un ufficio non facente parte della struttura organizzativa della società datrice di lavoro
e nella quale i sorveglianti potevano accedere solo in caso di necessità
La Cassazione torna ancora sul contratto di associazione in partecipazione
Nel respingere un ricorso di legittimità di un lavoratore che rivendicava la sussistenza
di un rapporto di lavoro subordinatoaffermando l'illegittimità del contratto
di associazione in partecipazione stipulato con sola partecipazione al fatturato senza
partecipazione alle perdite, la Cassazione ha stabilito che l'unico elemento rilevante ai
fini della configurabilità di un rapporto di associazione è costituito dalla sussistenza di un
rischio non impedito dal patto di partecipazione al fatturato e dall'esclusione dell'associato
alle perdite. Afferma, infatti, la Suprema Corte che non vale a escludere la causa del
contratto di associazione in partecipazione la mancanza di una effettiva possibilità di controllo
dell'associato sulla gestione dell'impresa dal momento che il codice non disciplina
le modalità del rendiconto cosà come non vale la circostanza che la partecipazione dell'associato
sia commisurata al ricavo anziché agli utili netti dell'associante. L'art. 2553
cod. civ. prevede, infatti, ' osservano i giudici ' che le parti possano determinare liberamente
una partecipazione agli utili. La previsione di una clausola di miglior favore legata
al fatturato cosà come quella che esclude la partecipazione alle perdite non è incompatibile
con il carattere della partecipazione dell'associato.
Servizi sociali regionali per extracomunitari
Anche gli extracomunitari hanno diritto ai servizi sociali previsti dal sistema integrato
regionale.La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato incostituzionale l'art. 9,
comma 5, legge Regione Friuli Venezia Giulia 16 luglio 2010 n. 12, in quanto esclude dalle
provvidenze in parola i cittadini extracomunitari ovvero» gli stessi cittadini europei «se
non residenti da trentasei mesi nel territorio regionale. La disciplina censurata individua i
requisiti soggettivi dei destinatari del sistema integrato dei servizi regionali, da collocare
nel più generale ambito dei servizi sociali, attribuito alla competenza legislativa residuale
delle Regioni. A giudizio della Corte si introduce una illegittima preclusione destinata a
discriminare tra i fruitori del sistema integrato dei servizi concernenti provvidenze sociali
fornite dalla Regione nei confronti dei cittadini extracomunitari in quanto tali, nonché dei
cittadini europei non residenti da almeno trentasei mesi. Risulta quindi palesemente violato
il principio di uguaglianza, giacché sono introdotti nel tessuto normativo elementi di
distinzione arbitrari, mancando ogni ragionevole correlabilità tra quelle condizioni di ammissibilità
al beneficio (la cittadinanza europea congiunta alla residenza protratta da almeno
trentasei mesi, appunto) e gli altri peculiari requisiti (integrati da situazioni di bisogno
e di disagio riferibili direttamente alla persona in quanto tale) che costituiscono il presupposto
di fruibilità di provvidenze che, per la loro stessa natura, non tollerano distinzioni
basate né sulla cittadinanza, né su particolari tipologie di residenza. In questo modo,
quindi, si escludono proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni
di bisogno e di disagio.
Contratto a termine e forfettizzazione del danno
Il Tribunale di Trani, con ordinanza del 20 dicembre 2010, ha sollevato questione
di costituzionalità dei commi da 5 a 7 dell'articolo 32 della legge n. 183/2010 (cd.
Collegato lavoro) per violazione degli art. 3, 11, 24, 101, 102, 111 e 117 della Costituzione. Il
giudice pugliese ha confermato tutti i dubbi di costituzionalità già da più parti rilevati in
relazione al nuovo regime di forfettizzazione del danno in caso di conversione del contratto
a termine illegittimo in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Con un'operazione
molto simile a quella già tentata nel 2008, il Governo Berlusconi ha infatti voluto ridurre
il risarcimento del danno (da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità ) in caso
di conversione del contratto, questo indipendentemente dalle retribuzioni maturate (e
dovute al lavoratore) dalla scadenza del contratto illegittimo alla dichiarazione di nullità
del termine da parte del giudice. Il Tribunale ha quindi sollevato questione di costituzionalità
per violazione di molteplici parametri costituzionali, primo fra tutti, come dice lo
stesso giudice nell'ordinanza, l'articolo 3 della Costituzione. Esiste infatti una irragionevole
discriminazione tra il regime di risarcimento del danno per quanto riguarda l'ambito
della stabilità reale in caso di licenziamento e questo nuovo sistema di forfettizzazione del
danno che punisce quei lavoratori a termine che si vedono liquidare un danno molto modesto
anche di fronte di un lungo periodo in cui, pur avendo messo a disposizione del datore
le proprie energie lavorative, non hanno trovato nuova occupazione.
La transazione sindacale implica la presenza contestuale del rappresentante dei lavoratori
Nell'ambito di un giudizio finalizzato al pagamento di differenze retributive
un'azienda eccepiva la sussistenza di una conciliazione sindacalerelativamente a
un periodo di tempo oggetto della rivendicazione del lavoratore. Il giudice di Napoli, nell'accogliere
la domanda del lavoratore, riteneva l'inidoneità del verbale di conciliazione a
produrre gli effetti estintivi dei diritti rivendicati dal lavoratore non risultando il deposito
del verbale presso la sede sindacale ed essendo emerso che la firma del rappresentante
sindacale non era contestuale a quella del dipendente. La Corte di Cassazione ha confermato
la decisione dei giudici partenopei che avevano escluso il carattere sindacale al verbale
di transazione in quanto non sottoscritto contestualmente e in presenza del rappresentante
sindacale sul rilievo che l'assenza di una effettiva assistenza sindacale, a prescindere
dal luogo in cui viene formalizzato, l'atto conciliativo è inidoneo a produrre gli effetti
tipici di una conciliazione sindacale.