Descrizione
Incostituzionale la modifica alla «legge Treu» sulla forma del contratto di lavoro interinale Le Sezioni Unite escludono l'automaticità del risarcimento del danno esistenziale e professionale Prima applicazione dell'art. 420-bis cod. proc. civ. della Corte di Appello di RomaAnche il giornalista «collaboratore fisso» ha diritto al risarcimento del danno di demansionamento
La giornalista Michela G., assunta alle dipendenze della Hachette Rusconi Spa come «collaboratrice fissa» in base all'art. 2 C.c.N.L.G.,dopo avere svolto una normale attività articolistica, non è stata più utilizzata, per circa due anni, dal direttore
della testata cui era addetta; non le sono stati richiesti articoli e non sono state accolte
le proposte di servizi da lei avanzate.
Dopo il suo licenziamento ella ha chiesto al Tribunale di Roma, tra l'altro, di condannare
la società editrice al risarcimento del danno per demansionamento. Sia il Tribunale che,
la Corte d'Appello hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, affermando che il diritto
a svolgere la prestazione lavorativa sussiste soltanto per il redattore e non anche
per il collaboratore fisso, che non lavora quotidianamente e non ha orario. La Corte d'Appello
ha anche ritenuto che il mancato impiego della giornalista fosse giustificato da un
cambiamento del direttore della testata e da una riorganizzazione aziendale. La giornalista
ha proposto ricorso per Cassazione censurando la decisione della Corte d'Appello
per vizi di motivazione e per violazione dell'art. 2103 cod. civ., che sancisce il diritto del
lavoratore subordinato allo svolgimento delle sue mansioni.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 4975 dell'8 marzo 2006, Pres. Mattone, Rel. Balletti)
ha accolto, sul punto, il ricorso. Ogni lavoratore subordinato ' ha affermato la Corte
' ha un vero e proprio diritto ex art. 2103 cod. civ. allo svolgimento della prestazione
secondo la tipologia lavorativa propria della qualifica di appartenenza e la violazione di
tale diritto (c.d. «demansionamento») determina la configurazione di un danno risarcibile,
atteso che la negazione o l'impedimento allo svolgimento della prestazione lavorativa
ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità
del lavoratore nel luogo di lavoro determinando un pregiudizio che incide sulla vita
professionale e di relazione dell'interessato; con la ulteriore precisazione che la valutazione
di siffatto pregiudizio, per la sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità ,
non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo,
essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali.
La Corte territoriale ' ha osservato la Cassazione ' per respingere la domanda si è erroneamente
riportata al tipo di rapporto di lavoro intercorrente tra le parti (cioé, di «collaboratore
fisso» ex art. 2 del c.c.n.l.g.) non richiedente una quotidianità della prestazione
(anche perché, nella specie, non eseguita «con orario preciso») e, soprattutto, perché nel
periodo in contestazione l'inoperosità di Michela G. era dovuta al mutamento del direttore
della testata (alle cui dipendenze la giornalista prestava lavoro) e alla riorganizzazione
editoriale. La figura del «collaboratore fisso» ' ha aggiunto la Suprema Corte ' è
caratterizzata, in base all'art. 2 c.c.n.l.g., dalla responsabilità del servizio; deve ritenersi
«collaboratore fisso» colui che mette a disposizione le proprie energie lavorative per fornire
con continuità ai lettori della testata un flusso di notizie in una specifica e predetermina
area dell'informazione, attraverso la redazione sistematica di articoli o con la tenuta
di rubriche, con conseguente affidamento dell'impresa giornalistica, che si assicura
cosà la «copertura» di detta area informativa, rientrante nei propri piani editoriali e nella
propria autonoma gestione delle notizie da far conoscere, contando per il perseguimento
di tali obiettivi sulla piena disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione
e l'altra. Più in particolare, il «collaboratore fisso» assicura un contributo professionale
specifico e una continuità di apporto che lo rendono organizzabile in modo
strutturale dalla redazione giornalistica con riferimento ai requisiti previsti dall'art. 2 cit.
(costituiti dalla «prestazione continuativa», dalla «responsabilità di un servizio» e dal
«vincolo di dipendenza»), contando l'azienda giornalistica, per il perseguimento dei cennati
obiettivi, sulla piena disponibilità del lavoratore anche nell'intervallo tra una prestazione
e l'altra. Quindi ' ha concluso la Corte ' alcun esonero di responsabilità in capo al
datore di lavoro che lasci inoperoso un «collaboratore fisso» può derivare da tale tipo di
rapporto; parimenti l'azienda giornalistica non può ritenersi esonerata da siffatta responsabilità
se il mancato affidamento della collaborazione giornalistica (almeno entro
il limite fissato dall'ultimo comma dell'art. 2 del c.c.n.l.g.) sia dipeso dal mutamento del
direttore della testata e dalla riorganizzazione editoriale in quanto ogni lavoratore ha diritto
a eseguire la prestazione contrattuale per tutto il tempo del rapporto di lavoro.
Il consulente addetto alla rassegna stampa soggetto alle direttive del capo ufficio può ritenersi lavoratore subordinato
Il giornalista Francesco G. ha lavorato per la RAI Radiotelevisione italiana Spa per circa quattro anni,in base a una serie di contratti che indicavano, quale oggetto,
le prestazioni di consulenza, per un compenso fisso mensile. Egli è stato impiegato quotidianamente
presso l'ufficio stampa della Rai per la preparazione della rassegna stampa.
Alla scadenza dell'ultimo contratto, la Rai ha posto termine al rapporto. Francesco G.
ha chiesto al pretore di Roma di accertare che egli aveva lavorato in condizioni di subordinazione
in quanto, anziché prestare opera di «consulenza» come previsto dal contratto,
era stato inserito nell'ufficio stampa aziendale con il compito di preparare la rassegna,
in base alle disposizioni impartitegli dal capo dell'ufficio in ordine alla collocazione
degli articoli, alle modalità della loro presentazione ecc., e con impegno lavorativo quotidiano
di durata prestabilita ' dalle ore 5 alle 10 ' in relazione alla necessità di preparare
la prima edizione della rassegna stampa per le ore otto e la seconda per le ore 10. Conseguentemente
Francesco G. ha chiesto la condanna dell'azienda al pagamento delle differenze
di retribuzione da calcolare in base alle tabelle del contratto nazionale di lavoro
giornalistico e l'annullamento del licenziamento. Sia il pretore che, in grado di appello, il
Tribunale di Roma hanno ritenuta infondata la domanda, affermando, tra l'altro, che il ricorrente
non poteva ritenersi inserito nell'organizzazione aziendale e che non gli era stato
imposto l'obbligo di osservare un orario di lavoro. Francesco G. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3720 del 21 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Roselli)
ha accolto il ricorso. La motivazione della sentenza impugnata ' ha osservato la
Corte ' è infirmata da contraddizioni e lacune; infatti il Tribunale, dopo aver confermato
l'impegno giornaliero del lavoratore, nega il vincolo dell'orario ma osserva che la rassegna
stampa doveva essere «pronta per le otto di mattina e poi per le dieci, per il secondo
lancio», ciò significando evidentemente che il lavoratore non era libero di scegliere le
ore della sua giornata, da utilizzare per la preparazione della rassegna. Il giudice di appello
ha escluso inoltre l'assoggettamento a vincolo gerarchico, ma ha ammesso che la
rassegna stampa doveva uniformarsi a «linee di massima sui contenuti e le modalità di
impaginazione». Escluso che l'opera dell'addetto a una rassegna stampa possa ridursi al
ritaglio e incollatura di pezzi scelti da altri, per la quale basterebbe un operaio o comunque
un dipendente con mansioni puramente esecutive ' ha rilevato la Corte ' le direttive
su forme e contenuti della rassegna possono bastare, nell'insieme degli altri elementi
di fatto, per ravvisare l'inserimento del lavoratore nella gerarchia aziendale.
Un'indennità entra a far parte della retribuzione irriducibile se continua a essere corrisposta senza causa
Il giornalista Torello B., dipendente dell'ANSA è stato preposto nel 1982, con la qualifica di capo servizio,all'ufficio regionale di L'Aquila, con un trattamento economico
comprendente, tra l'altro, un compenso forfettario mensile per mancato godimento
della «settimana corta». Sin quanto è rimasto a L'Aquila egli non ha fruito della «settimana
corta» e ha percepito la relativa indennità . Nel 1986 egli è stato trasferito nella capitale,
presso la redazione Roma e Lazio, dove ha lavorato sino al 1991 con orario settimanale
distribuito su cinque giorni e pertanto con la fruizione della «settimana corta».
Nonostante ciò l'azienda ha continuato a corrispondergli, sino al 1991 l'indennità per
mancata fruizione della «settimana corta». Nell'ottobre 1991 egli è stato destinato alla
redazione centrale per l'estero dove ha continuato a lavorare con orario distribuito su
cinque giorni. Da quando ha preso servizio presso la redazione centrale per l'estero l'azienda
ha cessato di corrispondergli l'indennità per mancata fruizione della «settimana
corta». Nel dicembre 1992 Torello B. ha chiesto al pretore di Roma di riconoscere il suo
diritto di continuare a percepire l'indennità per mancata fruizione della settimana corta,
sostenendo che essa era divenuta un elemento irriducibile della retribuzione in quanto
nel periodo al 1986 al 1991 l'azienda aveva continuato a corrispondergliela, nonostante
che egli fruisse della settimana corta. Il pretore ha rigettato la domanda, ma la sua decisione
è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma che ha affermato il diritto
del giornalista di continuare a percepire l'indennità nel periodo successivo all'ottobre
1991. L'Ansa ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale
di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3050 del 13 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco)
ha rigettato il ricorso. È principio giurisprudenziale quale specificazione dell'art. 2103,
primo comma, prima parte cod. civ. ' ha affermato la Corte ' che la garanzia dell'irriducibilità
della retribuzione riguarda le indennità corrisposte in considerazione delle qualità
professionali intrinseche alle mansioni del lavoratore, e non si estende alle indennità erogate
in ragione di particolari modalità della prestazione lavorativa, le quali possono essere
soppresse allorché vengono meno le specifiche situazioni che le abbiano generate. Ha
natura retributiva qualsiasi compenso corrisposto in modo continuativo e in rapporto sinallagmatico
con la prestazione. Nell'ipotesi di mutamento delle mansioni e di cessazione
dell'attività in funzione della quale era erogata una particolare indennità , questa, ove
non attenga a qualità professionali del lavoratore, bensà a estrinseche modalità della prestazione,
ben può essere soppressa. Ove, pur con la cessazione di questa attività e pertanto
della ragione che giustificava la corresponsione dell'indennità , l'erogazione permane,
il relativo importo, divenendo compenso corrisposto in modo continuativo e in rapporto
sinallagmatico con la cosà ridotta prestazione, diventa retribuzione indipendente
dalle cessate estrinseche modalità della prestazione stessa. Assumendo questa connessione,
il predetto compenso resta coinvolto nella parte irriducibile della retribuzione.
Il licenziamento del giornalista deve essere preceduto dalla proposta del direttore di testata
Il giornalista Furio Camillo F., dipendente della RAI Radiotelevisione italiana Spa, addetto a una testata con la qualifica di vice direttore,è stato licenziato nell'ottobre 1996 con motivazione riferita a inadempienze asseritamente verificatesi nel luglio
1996. Egli ha chiesto al pretore di Roma l'annullamento del licenziamento per motivi formali
e sostanziali, la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna dell'azienda al risarcimento
del danno in base all'art. 18 St. Lav. Mentre la causa era in corso, la Rai gli ha
comunicato un nuovo licenziamento, per altre inadempienze asseritamente verificatesi
nel gennaio 1996. Il pretore ha annullato il primo licenziamento e ha condannato la RAI al
risarcimento del danno nella misura di cinque mensilità , in minimo previsto dalla legge;
non ha però ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto ha ritenuto che la
reintegrazione fosse impedita dal secondo licenziamento, che il giornalista aveva impugnato
solo in via extra-giudiziale, con lettera raccomandata. Questa decisione è stata impugnata
dal giornalista davanti alla Corte d'Appello di Roma, che l'ha riformata, ordinando
all'azienda di reintegrare l'appellante nel posto di lavoro e condannandola al risarcimento
in misura pari alla retribuzione relativa al periodo dal licenziamento alla reintegrazione.
La Corte d'Appello ha ritenuto che il secondo licenziamento non potesse avere effetto
perché quando era stato comunicato, il rapporto di lavoro non esisteva per effetto
del primo recesso. La Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento perché non era stato
preceduto dalla proposta del direttore responsabile della testata con conseguente violazione
dell'art. 6 del contratto nazionale di lavoro giornalistico. La Rai ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la sentenza della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione
di legge; essa ha tra l'altro sostenuto che il direttore generale dell'azienda si era
sostituito al direttore della testata nella proposta di licenziamento.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5125 del 9 marzo 2006, Pres. Mattone, Rel. Monaci)
ha rigettato il ricorso, osservando che la Corte d'Appello ha correttamente interpretato il
contratto di lavoro. In ogni caso ' ha affermato la Cassazione ' va escluso che il direttore
di testata, che era il soggetto legittimato a presentare la proposta di licenziamento, potesse
essere sostituito mediante avocazione dal direttore generale. La previsione della
proposta da parte del direttore di testata ha una precisa, ed evidente, ragion d'essere:
rientra nelle garanzie del giornalista il fatto che l'adozione di una serie di provvedimenti
decisivi per la sua posizione professionale, e tra essi, del recesso dell'azienda nei suoi
confronti, debba essere proposta da un superiore che rivesta anch'egli la qualifica, e svolga
l'attività , di giornalista, e sia come tale qualificato a valutare l'operato professionale di
un altro giornalista. Non è tale, evidentemente, il direttore generale, che non è un giornalista
(o, quanto meno, non lo è necessariamente), e che, anche se fosse iscritto all'albo dei
giornalisti, svolge in quel contesto funzioni di dirigente amministrativo.
Per quanto attiene agli effetti del secondo licenziamento, la Cassazione ha richiamato la
sua giurisprudenza secondo cui: «l'azione diretta a invalidare il licenziamento perché privo
di giusta causa o giustificato motivo è un'azione di annullamento, ha natura costitutiva
e pertanto, fino all'eventuale sentenza di accoglimento e salvi gli effetti retroattivi di
questa, il negozio produce regolarmente i suoi effetti; ne consegue che al licenziamento
segue la cessazione del rapporto di lavoro e che un ulteriore licenziamento, intimato in
corso di causa e prima della sentenza di accoglimento, deve considerarsi privo di ogni effetto
per l'impossibilità di adempiere la sua funzione; né la sentenza di annullamento fa
acquistare allo stesso efficacia, operando la retroattività solo in relazione alla ricostituzione
del rapporto e non anche alle manifestazioni di volontà datoriali poste in essere
quando il rapporto di lavoro era ormai estinto». Se, dunque ' ha osservato la Corte ' il
primo licenziamento comporta inevitabilmente l'interruzione del rapporto (che potrà eventualmente
essere ripristinato da una sentenza, definitiva, oppure provvisoriamente
esecutiva, di annullamento del licenziamento stesso), il secondo licenziamento che intervenga
a rapporto ormai interrotto, non potrà avere alcun effetto, e, di conseguenza, una
sentenza di reintegrazione e di risarcimento dei danni relativa al primo licenziamento
potrà dispiegare tutti i propri effetti.
La produzione di documenti in grado di appello è ammissibile se sono indispensabili in base agli artt. 421-437 cod. proc. civ.
Paolo C. dipendente della CICLT ha subito nel 1999 un licenziamento disciplinare.Egli ha impugnato il provvedimento sostenendo, tra l'altro, che l'azienda non aveva rispettato
il termine di 15 giorni previsto dal contratto collettivo per la contestazione, in
forma scritta, dell'addebito. Il pretore ha rigettato la domanda. Il lavoratore ha proposto
appello censurando la decisione di primo grado, tra l'altro, per avere omesso di considerare
la tardività dell'addebito. L'azienda si è costituita nel giudizio di appello chiedendo
di essere ammessa a produrre documentazione postale attestante che la lettera di
contestazione dell'addebito era pervenuta tempestivamente al domicilio del lavoratore,
senza poter essere consegnata per assenza del medesimo e che non era stata ritirata
dall'interessato nel periodo di giacenza. Il Tribunale ha ammesso la produzione dei documenti
e ha rigettato l'appello. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo
tra l'altro che la documentazione relativa alla ricezione della lettera di contestazione
dell'addebito avrebbe dovuto essere prodotta dall'azienda al momento della costituzione
nel giudizio di I grado e che al Tribunale non era consentito ammettere, in grado
di appello, tale prova.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3600 del 20 febbraio 2006, Pres. Ianniruberto,
Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. Il Tribunale ' ha osservato la Corte ' nell'ammettere
in grado di appello i documenti prodotti dall'azienda si è correttamente avvalso dei poteri
attribuitigli dagli artt. 421 e 437 cod. proc. civ., secondo cui il giudice può ammettere
anche d'ufficio, nuovi mezzi di prova, quando li ritenga indispensabili ai fini della
decisione della causa (Cassazione Sezione Lavoro n. 3600 del 20 febbraio 2006, Pres.
Ianniruberto, Rel. Vidiri).
Gli atti di conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali nella Pubblica amministrazione hanno natura privatistica
Rocco L. dirigente del Ministero delle Finanze, ha esercitato sino al settembre 1999 le funzioni di direttoredella Direzione regionale delle entrate per la Basilicata,
senza avere stipulato il relativo contratto. Con nota del 28 settembre 1999 l'Amministrazione
gli ha comunicato di non avere esercitato l'opzione prevista dall'art. 8 comma secondo
del d.p.r. n. 150/1999 per la conferma nell'incarico precedentemente ricoperto.
Successivamente, con atto del 14 ottobre 1999 l'Amministrazione ha revocato a Rocco L.
l'incarico di direttore della Direzione regionale delle entrate per la Basilicata e lo ha conferito
a Giuseppe C. Il 1 dicembre del 1999 Rocco L. è stato destinato alla Direzione regionale
delle entrate della Campania con funzioni di consigliere ministeriale aggiunto. Egli
ha chiesto al Tribunale di Potenza, Sezione Lavoro di dichiarare l'illegittimità ' per difetto
di motivazione, eccesso di potere e violazione delle norme del procedimento amministrativo
' del provvedimento con il quale era stato sostituito nell'incarico di Direttore
regionale delle entrate per la Basilicata. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Potenza
hanno ritenuto le domande prive di fondamento. La Corte di Appello ha affermato
che l'atto di conferimento dell'incarico dirigenziale di un ufficio non generale (quale la Direzione
delle entrate per la Basilicata) ha natura privatistica e pertanto non è soggetto
alle disposizioni della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, né ai principi
che regolano l'attività amministrativa in genere e i vizi che invalidano gli atti della
pubblica amministrazione (in particolare l'eccesso di potere).
Il d.lgs. n. 80/1998 ' ha osservato la Corte ' ha istituito il ruolo unico dei dirigenti presso
la Presidenza del Consiglio dei ministri, del quale le amministrazioni devono servirsi
per conferire incarichi dirigenziali e stipulare i relativi contratti individuali; l'istituzione
del ruolo unico ha comportato l'automatica decadenza ex lege dei dirigenti da tutti gli incarichi
dirigenziali attribuiti in precedenza e il successivo regolamento approvato con
d.p.r. 26.2.1999 n. 150 ha stabilito le modalità di utilizzazione dei dirigenti confluiti nel
ruolo unico che non siano stati confermati nell'incarico precedente entro 90 giorni dall'Amministrazione
di originaria appartenenza.
Rocco L., confluito nel ruolo unico, non aveva alcun diritto soggettivo ' secondo la Corte
d'Appello ' al mantenimento dell'incarico di Direttore della Direzione regionale delle entrate
per la Basilicata, poiché il conferimento dell'incarico dirigenziale costituiva attività
discrezionale dell'Amministrazione. La Corte ha inoltre ritenuto che l'Amministrazione,
non esercitando l'opzione per il mantenimento del dirigente e assegnando ad altro dirigente
l'incarico in questione, non aveva violato i principi di correttezza e buona fede in
quanto aveva tenuto presenti i criteri per l'assegnazione fissati dall'art. 19 del d.lgs. n.
80/1998 e aveva sufficientemente motivato i provvedimenti, come richiesto dall'art. 22
del c.c.n.l. 1994/1997. Rocco L. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza
della Corte di Appello di Potenza per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3880 del 22 febbraio 2006, Pres. De Luca, Rel. D'Agostino)
ha rigettato il ricorso, confermando il suo orientamento secondo cui gli atti di
conferimento o di revoca degli incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione hanno
natura privatistica; la conferma della natura privata degli atti di conferimento e revoca
deve ravvisarsi altresà nel fatto che neppure la riforma attuata con la legge n. 145 del
2002 ha assegnato detti atti all'area dei provvedimenti amministrativi, sebbene abbia
perseguito l'obiettivo di rafforzare i poteri organizzativi dell'Amministrazione, dichiarando
inderogabile la struttura unilaterale dell'atto di conferimento da parte della contrattazione
collettiva e rendendone preminente il ruolo rispetto al contratto.
La Corte di Appello di Potenza ' ha osservato la Cassazione ' ha correttamente accertato
che il provvedimento di sostituzione di Rocco L. nell'incarico di direttore della Direzione
regionale delle entrate per la Basilicata non si pone in contrasto con i criteri di scelta fissati
dall'art. 19 del d.lgs. n. 29/1993, come sostituito dall'art. 13 del d.lgs. n. 80/1998; il ricorrente,
infatti, non solo non ha provato, ma neppure ha allegato in qual modo tale provvedimento
sia in contrasto con la natura e le caratteristiche del programma da realizzare
(criterio c.d. oggettivo), né ha spiegato le ragioni per le quali le attitudini, le capacità professionali
e i risultati conseguiti dal dirigente designato (criterio c.d. soggettivo) siano meno
qualificanti di quelli del ricorrente pretermesso. La circostanza di avere già ricoperto
l'incarico, ora attribuito ad altro dirigente ' ha osservato la Corte ' lungi dal costituire motivo
di preferenza, rappresenta ragione legittima di esclusione in considerazione del criterio
della «rotazione degli incarichi» fissati dal citato art. 19 del d.lgs. n. 29/1993.
La Cassazione ha infine rilevato che la Corte di Appello ha ritenuto che i predetti atti di
conferimento e revoca dell'incarico dirigenziale siano stati conformi ai principi di correttezza
e buona fede, in quanto ispirati alla tutela degli interessi generali dell'Ufficio e non
diretti a favorire gli interessi di un candidato a scapito degli interessi del candidato pretermesso;
tale valutazione ' ha concluso la Suprema Corte ' involgendo un apprezzamento
di circostanze di fatto, è rimessa in via esclusiva al giudice del merito e non è sindacabile
in cassazione se congruamente e logicamente motivata.
La subordinazione si realizza anche mediante la destinazione del lavoratore presso terzi con predeterminazione degli orari
La società Lux ha svolto attività di pulizia in base a contratti di appalto con vari enti.Per la prestazione di questo servizio essa ha assunto, con contratti di collaborazione
coordinata e continuativa, vari lavoratori che ha dislocato presso gli enti appaltanti.
L'Inps ha ritenuto che, pur essendo inquadrati come collaboratori autonomi, i lavoratori
utilizzati dalla Lux dovessero considerarsi dipendenti e pertanto ha ingiunto all'azienda
di pagare i contributi previdenziali dovuti sulla retribuzione corrisposta, nella misura
prevista per i rapporti di lavoro subordinato. L'azienda ha proposto opposizione davanti
al Tribunale di Pavia, sostenendo che i lavoratori non erano assoggettati alle sue
direttive, ma a quelle loro impartite dai responsabili degli enti appaltanti e avevano utilizzato
materiali forniti dagli stessi enti; inoltre essa ha fatto presente che si era limitata
a organizzare il lavoro, garantendone la tempestiva esecuzione nel luogo e con le modalità
indicate dal committente e che l'esigenza di flessibilità di questa organizzazione le
imponeva di avvalersi di rapporti di lavoro flessibili, con prestazioni coordinate e continuative,
evitando la rigidità del rapporto di lavoro subordinato. Sia il Tribunale che la
Corte d'Appello di Milano hanno ritenuto infondata l'opposizione, affermando che in effetti
i lavoratori erano stati impiegati in condizioni di subordinazione. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte d'Appello di Milano per
vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3042 del 13 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Cuoco)
ha rigettato il ricorso, osservando che i giudici di merito hanno correttamente motivato
la loro decisione sul rilievo che, per disposizioni della società , i lavoratori si recavano
nel luogo e nel tempo loro indicati, per effettuare lavoro di pulizia a favore di terzi, con orari
accertati attraverso timbratura del cartellino, e con retribuzione commisurata al tempo
del lavoro prestato. Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' lo stesso carattere elementare
della prestazione non esigeva precisi ordini e direttive, oltre al tempo e al luogo
della relativa esecuzione; ben possono, poi, le direttive datoriali specificarsi attraverso
elementi personali o materiali indicati dallo stesso datore; e le persone alle quali è dal
datore delegata questa indicazione ben possono essere estranee alla stessa azienda. Il
fatto che gli «ordini su cosa fare» fossero poi concretamente dati dal committente ' ha aggiunto
la Corte ' è solo la proiezione della generale Direttiva datoriale (di recarsi nel luogo
e nel tempo indicati): non è pertanto idoneo a escludere il rapporto di subordinazione
con la stessa società ricorrente. La commisurazione del compenso alla durata delle prestazione
' ha osservato la Corte ' è indice significativo dell'oggetto contrattuale: non l'opus,
bensà le operae; non esclude bensà conferma la natura subordinata del rapporto. L'assoggettamento
del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo, esercitato dal
datore ' ha affermato la Corte ' si risolve in una predisposizione; il datore predispone, in
una misura maggiore o minore (a seconda del livello più o meno elevato del lavoro), i luoghi,
i tempi e le modalità della prestazione (che è pertanto eterodiretta); e l'oggetto della
prestazione in tal modo predisposta si risolve nelle operae (lavoro, nel senso puro del termine,
in quanto svincolato da interna ragione e finalità ); alla predisposizione non è necessaria
l'indefinita protrazione del rapporto nel tempo (il rapporto può anche essere costituito
in funzione dello specifico oggetto della prestazione, per tempi brevissimi).
L'attività del giornalista «collaboratore fisso» attiene a uno specifico settore informativo in base all'art 2 Ccnlg
Il giornalista Enzo C. è stato richiesto, nel luglio 1997, dai responsabili del TG3 di lavorare per il nuovo programma giornalistico «Morning News» realizzato
con le immagini fornite dal circuito internazionale Eveline. Dopo avere lavorato quotidianamente
e a tempo pieno sino al 28 luglio 1997, provvedendo alla elaborazione di servizi
dedicati agli avvenimenti di attualità , egli ha ricevuto una lettera di assunzione a termine
per il periodo dal 29 luglio al 31 ottobre 1997 con la qualifica di collaboratore fisso
(art. 2 c.c.n.l.g.) che prevedeva 16 prestazioni mensili consistenti in testi, servizi e interviste,
per la rubrica «Morning News». Egli ha continuato a lavorare quotidianamente e a
tempo pieno come in precedenza fino al 31 ottobre 1997; nelle ultime settimane del contratto
è stato impiegato anche per la realizzazione delle quattro edizioni del mattino del
Tg3, in sostituzione del capo servizio Claudio F. La Rai ha posto termine al rapporto alla
prevista scadenza del 31 ottobre. Dopo avere invano richiesto di essere reintegrato nel
posto di lavoro, offrendo la sua prestazione, egli ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare
la nullità del termine apposto al suo contratto per vari motivi: mancanza del requisito
di specificità del programma «Morning News», svolgimento dell'attività lavorativa
con le modalità previste per la qualifica di redattore anziché con quelle, indicate nel
contratto, di collaboratore fisso, inizio dell'attività lavorativa prima della data indicata
nel contratto. Tra l'altro egli ha rilevato di essere un normale giornalista, privo di specifiche
qualificazioni funzionali a particolari esigenze dei programmi e di avere prestato
mansioni del tutto generiche, quali il reperimento dei materiali filmati, il montaggio, la
preparazione della scaletta ecc. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma hanno ritenuto
nullo il termine apposto al contratto e affermato il diritto del giornalista di lavorare
a tempo indeterminato. La Rai ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che
il termine apposto al contratto doveva ritenersi legittimo in quanto il programma «Morning
News» aveva una sua specificità da ravvisarsi nella scelta di immagini fornite da circuito
internazionale e nella utilizzazione di notizie offerte da agenzie estere. L'azienda ha
inoltre osservato che il giornalista C. aveva particolari caratteristiche costituite dall'esperienza
acquisita lavorando per una testata europea in quel tipo di programma e nella
conoscenza delle lingue estere.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1092 del 20 gennaio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Lupi)
ha rigettato il ricorso osservando che i giudici di merito hanno correttamente accertato lo
svolgimento, da parte del giornalista, di mansioni di redattore anziché di quelle di collaboratore
fisso indicate nel contratto. Secondo il c.c.n.l.g. ' ha affermato la Corte ' l'attività
del collaboratore fisso deve essere attinente a un settore specifico; tale non è certamente
la partecipazione alla redazione di un notiziario avente per oggetto l'universo delle notizie
provenienti dalle televisioni estere, attività che richiede l'apporto di un redattore ordinario
di cui all'art. 1 del c.c.n.l.g. per la selezione e il commento delle notizie attinenti a
ogni argomento. La Corte ha ritenuto privo di fondamento l'argomento della Rai secondo
cui la specificità del programma doveva ravvisarsi nella sua natura sperimentale osservando
che tale natura è una caratteristica a ogni programma nuovo: l'oggetto del programma,
notiziario giornaliero delle televisioni estere ' ha aggiunto la Corte ' lo rende
tendenzialmente un programma fisso, la cui continuazione è affidata, come per ogni programma,
al suo successo circostanza che esclude logicamente una programmata temporaneità ;
un notiziario mattutino sulle notizie provenienti dalle televisioni estere ' ha rilevato
la Corte ' sia corretta o meno la qualifica di programma contenitore, manca di specificità ,
attesa l'universalità delle materie trattate; sul piano soggettivo, poi, la conoscenza
dell'inglese e del francese e qualche esperienza professionale all'estero sono bagaglio
professionale comune a molti giornalisti e non dava luogo alla necessità di avvalersi della
collaborazione di Enzo C., che poteva essere sostituito da personale in pianta stabile.
Il subagente ha diritto all'indennità di cessazione del rapporto di lavoro nei confronti dell'agente
Mario G. ha lavorato per alcuni anni come subagente di Giuseppe C., agente generale della società assicurativa SAI.Quest'ultimo nel 2001 ha posto termine al suo
rapporto con la Sai e ha cessato la sua attività , comunicando conseguentemente a Mario
G. la cessazione del rapporto di subagenzia. Giuseppe C. non ha peraltro corrisposto
a Mario G. l'indennità prevista dall'art. 1751 cod. civ., secondo cui: «All'atto della cessazione
del rapporto, il preponente è tenuto a corrispondere all'agente un'indennità se ricorrono
le seguenti condizioni: che l'agente abbia procurato nuovi clienti al preponente
o abbia sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora
sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti; che il pagamento di tale indennità
sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle provvigioni
che l'agente prevede e che risultano dagli affari con tali clienti». Il subagente Mario
G. ha ottenuto dal Tribunale di Verbania la condanna di Giuseppe C. a corrispondergli
l'indennità prevista dall'art. 1751 cod. civ. Questa decisione è stata riformata dalla
Corte d'Appello di Torino che ha escluso il diritto di Mario G. a tale indennità , osservando
che Giuseppe C., dato che aveva cessato ogni attività , non avrebbe ricevuto vantaggi
di carattere sostanziale dagli affari procuratigli dal subagente con nuovi clienti. Mario G.
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3196 del 14 febbraio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Monaci)
ha accolto il ricorso. L'art. 1751 cod. civ. ' ha osservato la Corte ' si applica anche al
subagente, che in realtà altro non è che se non un agente che opera in favore dell'agente
di livello superiore, e perciò non deve essere interpretato in senso restrittivo nella individuazione
delle due condizioni previste dal legislatore perché si verifichi il diritto dell'indennità
(quelle secondo cui occorre che «l'agente abbia procurato nuovi clienti al preponente
o sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e il preponente riceva ancora
sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti» e che «il pagamento di tale
indennità sia equo, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, in particolare delle
provvigioni che l'agente perde e che risultano dagli affari con tali clienti»).
I sostanziali vantaggi che il preponente (in questo caso l'agente) è necessario riceva ancora
dagli affari procurati dall'agente (in questo caso dal sub-agente) ' ha affermato la
Corte ' non consistono soltanto in vantaggi futuri che gli affari procurati dal sub-agente
possono procurare all'agente nel corso dello svolgimento della propria attività , che in
questo caso è ormai cessata, ma in vantaggi di qualsiasi genere, compresi quelli che l'agente
consegua nell'ambito della chiusura dei conti relativi al rapporto di agenzia; in particolare
vi rientrano tutti quegli importi, o maggiori importi, che l'agente di livello superiore
percepisca in sede di chiusura dei conti o dalla preponente o direttamente dall'agente
di pari livello che gli subentra. Invero nel settore assicurativo l'indennità a favore
dell'agente per la cessazione del rapporto è funzionale all'incremento del portafoglio, alla
differenza tra il volume di polizze che gli è stato consegnato all'inizio dell'attività , e
quello che restituisce alla cessazione dell'attività stessa; inoltre il portafoglio della subagenzia
confluisce in quello dell'agenzia. Ciò significa che gli incrementi di portafoglio
della sub-agenzia, ovvero le differenze (positive) tra il volume di affari che il subagente
ha ricevuto all'inizio della sua attività e quello che lascia alla cessazione dell'attività medesima,
si convertono in un maggior incremento del portafoglio su cui viene calcolata
l'indennità dovuta all'agente (o dalla preponente, o dall'agente subentrante) in occasione
della cessazione dall'attività di quest'ultimo.
La retribuzione degli animatori di villaggi turistici è soggetta ai contributi Enpals essendo attività di svago e ricreazione
Nel 1998 l'Enpals ha ingiunto alla società Isst di pagare i contributi previdenziali sulla retribuzionecorrisposta a cinque animatori impiegati in un villaggio turistico
nella stagione 1994/1995. L'azienda ha proposto opposizione davanti al Tribunale
di Bologna sostenendo che gli animatori turistici non potevano essere ritenuti lavoratori
dello spettacolo e pertanto non andavano assicurati presso l'Enpals. Essa ha anche eccepito
l'illegittimità del d.p.r. n. 203 del 1933 ha esteso l'obbligo di assicurazione presso
l'Enpals per gli animatori di strutture ricreative connesse all'attività turistica.
Il Tribunale ha assunto una prova testimoniale, dalla quale è emerso che i cinque animatori
svolgevano anche attività di intrattenimento mediante spettacoli serali; quindi ha
rigettato l'opposizione. La Corte d'Appello di Bologna ha confermato questa decisione
osservando che il d.p.r. n. 203 del 1933 deve ritenersi legittimo perché gli animatori svolgono
attività finalizzate allo svago e alla ricreazione, come giochi, gare e spettacoli diretti
a favorire la vita di gruppo a persone che se ne avvalgono contemporaneamente. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte d'Appello
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 3219 del 14 febbraio 2006, Pres. Ravagnani, Rel. La
Terza) ha rigettato il ricorso. L'evoluzione normativa ' ha rilevato la Corte ' è quella di estendere
sempre di più l'assicurazione Enpals, in relazione alla tendenza alla c.d. spettacolarizzazione
di settori che prima erano estranei allo spettacolo.
I programmi Rai «Più sani e più belli» e «Fantastico Enrico» non avevano le specificità previste dalla legge 230 del 1962
Giorgio M. è stato ripetutamente assunto alle dipendenze della Rai con vari contratti a termine come «curatore del programma» e «programmista regista»per realizzare i programmi «Più sani e più belli» e «Fantastico Enrico». In tali contratti l'azienda
ha fatto riferimento all'art. 1, secondo comma lettera e), della legge n. 230 del
1962 che consentiva l'apposizione del termine «nelle assunzioni di personale riferite a
pubblici spettacoli, ovvero a specifici programmi radiofonici o televisivi». Giorgio M. ha
chiesto al pretore di Roma di dichiarare la nullità dei termini apposti ai contratti, per difetto
dei requisiti previsti dalla legge e di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro a
tempo indeterminato con conseguente suo diritto a continuare a prestare l'attività lavorativa.
Sia il pretore che la Corte di Appello di Roma hanno ritenuto fondata la domanda.
La Rai ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che i giudici di merito erano incorsi
in errore escludendo l'esistenza del requisito di specificità dei programmi per i quali
Giorgio M. aveva lavorato.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1291 del 24 gennaio 2006, Pres. Mercurio, Rel. D'Agostino)
ha ritenuto priva di fondamento la tesi sostenuta dalla Rai e ha sul punto rigettato
il ricorso. Confermando la sua giurisprudenza, la Cassazione ha affermato che affinché
il rapporto di lavoro a termine possa ritenersi legittimo in base all'art. 1, secondo comma,
lettera e) della legge n. 230/62, è necessario che ricorra anzitutto il requisito della
temporaneità , ossia occorre che il rapporto si riferisca a una esigenza di carattere temporaneo
della trasmissione, da intendersi non nel senso di straordinarietà o occasionalità
dello spettacolo (che può essere anche diviso in più puntate e ripetuto nel tempo), bensà
nel senso che lo spettacolo abbia una durata limitata nell'arco di tempo della complessiva
programmazione fissata dall'azienda (c.d. palinsesto), per cui, essendo destinato a esaurirsi,
non consente lo stabile inserimento del lavoratore nell'impresa. Quanto poi al requisito
della specificità , la Corte ha ribadito che il programma, oltre a essere temporaneo,
deve essere anche caratterizzato dalla atipicità o singolarità rispetto a ogni altro programma
normalmente e correntemente organizzato dall'azienda nell'ambito della propria
ordinaria attività radiofonica e televisiva. I due requisiti sono tra loro strettamente connessi
perché solo se il programma è specifico, e quindi dotato di proprie caratteristiche, idonee
ad attribuirgli una propria individualità e unicità , esso si configura come un momento
episodico dell'attività imprenditoriale, e quindi risponde anche al requisito della
temporaneità . È necessario, inoltre ' ha affermato la Corte ' che l'assunzione riguardi soggetti
il cui apporto lavorativo si inserisca, con vincolo di necessità diretta, anche se complementare
e strumentale, nello specifico spettacolo o programma, sicché non può considerarsi
sufficiente a integrare l'ipotesi di legittimo ricorso al contratto a tempo determinato
la semplice qualifica tecnica o artistica del personale correlata alla produzione di
spettacoli o programmi radiofonici o televisivi; ossia è necessario che l'apporto del peculiare
contributo professionale, tecnico o artistico del soggetto esterno sia indispensabile
per il buon funzionamento dello spettacolo, in quanto non sia sostituibile con le prestazioni
del personale di ruolo dell'azienda. I giudici di merito ' ha osservato la Cassazione '
hanno correttamente motivato la loro decisione pervenendo alla conclusione che nel caso
di specie non ricorreva il requisito della temporaneità degli spettacoli cui il lavoratore
era stato addetto («Più sani e più belli» e «Fantastico Enrico»), in quanto reiterati nel tempo
e rientranti nella normale programmazione della Rai, mentre l'azienda dal canto suo
non aveva provato la necessità diretta dell'apporto del lavoratore assunto, non essendo
sufficiente un generico apporto creativo connesso alle mansioni.
La lavoratrice 60enne con diritto a pensione può essere licenziata se non ha optato per il mantenimento in servizio fino ai 65
Rosa C., dipendente della srl Italstamp, è stata licenziata nel luglio 2001, in età di oltre 61 anni.Ella ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Milano chiedendone
l'annullamento per difetto di giusta causa o giustificato motivo. Il Tribunale ha
rigettato la domanda, osservando che la lavoratrice aveva raggiunto l'età pensionabile
(60 anni) il 17 gennaio 2000 e che ella non aveva provveduto, nei sei mesi precedenti il
sessantesimo compleanno, a esercitare l'opzione per il mantenimento in servizio sino a
65 anni in base all'art. 6 della legge n. 54 del 1982 richiamato dall'art. 4, comma 2, della
legge n. 108 del 1990. La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Milano.
La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza d'appello per
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2472 del 6 febbraio 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri),
ha rigettato il ricorso. Il secondo comma dell'art. 4 della legge 11 maggio 1990 n. 108
(«Disciplina dei licenziamenti individuali») ' ha osservato la Corte ' statuisce che: «Le disposizioni
di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, come modificato dall'art. 1
della presente legge e dall'art. 2 non si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni,
in possesso dei requisiti pensionistici, sempre che non abbiano optato
per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981 n.
791, convertito con modificazioni della legge 26 febbraio 1982 n. 54. Sono fatte salve le
disposizioni dell'art. 3 della presente legge e dell'art. 9 della legge 15 luglio 1966 n. 604».
E a sua volta l'art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 («Norme sui licenziamenti individuali
») statuisce che: «Le disposizioni della presente legge non si applicano ai datori di
lavoro che occupano sino a trentacinque dipendenti e nei riguardi dei prestatori di lavoro
che siano in possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia
o che abbiano comunque superato il sessantacinquesimo anno di età , fatte salve le disposizioni
di cui agli artt. 4 e 9». Come si evince dagli atti del giudizio e dalla sentenza impugnata
' ha rilevato la Corte ' Rosa C. aveva raggiunto l'età pensionabile il 17 gennaio
2000, senza avere esercitato, entro il termine di cui all'art. 6 della legge n. 54 del 1982,
l'opzione per la prosecuzione al lavoro; alla stregua dell'indicato quadro normativo, e delle
incontestate circostanze fattuali ora precisate, deve concludersi che la sentenza impugnata
si sottrae a ogni censura in questa sede di legittimità per risultare congruamente
motivata e rispettosa dei principi giuridici vigenti in materia. Né può addursi ' ha aggiunto
la Cassazione ' che l'interpretazione seguita dalla Corte territoriale finisce per tradursi
in una lettura del dato normativo contraria alla Costituzione; e invero, appare pienamente
condivisibile l'assunto dei giudici dell'appello, che hanno evidenziato come sia una
scelta «ragionevole ed equilibrata» tutelare in modo forte i lavoratori che trovano nel lavoro
l'unica fonte del loro sostentamento ed escludere, invece, da tale tutela quei lavoratori
«che ' dopo una vita lavorativa protetta da norme limitative del recesso ' hanno acquisito
quel trattamento istituzionalmente sostitutivo del reddito da lavoro».
Un agente addetto alla vendita di autoveicoli può ritenersi subordinato se soggetto alle direttive del responsabile di settore
Sergio S. si è rivolto il Tribunale di Firenze esponendo di avere lavorato alle dipendenze della Srl Automecdal 1.10.1993 al 3.4.1998, formalmente inquadrato come agente,
ma in realtà nella posizione di lavoratore subordinato, addetto alla vendita di autoveicoli.
Ha chiesto quindi la condanna di controparte al pagamento delle retribuzioni,
del lavoro straordinario, delle mensilità aggiuntive, ferie e festività non godute, preavviso
e Tfr. Il Tribunale ha accolto la domanda, dichiarando la natura subordinata del rapporto.
Questo accertamento è stato confermato dalla Corte d'Appello di Firenze che ha posto in
evidenza che il presunto mandato di agenzia aveva per oggetto la promozione della vendita
di autoveicoli nuovi e usati, ma di fatto l'attore si era sempre occupato soltanto della
vendita di autovetture usate. In particolare la Corte ha rilevato: che Sergio S. era stabilmente
inserito nei locali di vendita e utilizzava un proprio ufficio all'interno dell'azienda;
che la sua presenza in ufficio era continua ed egli doveva attenersi alle direttive del responsabile
del settore «usato»; che l'attore doveva pianificare le ferie coordinandosi con
il restante personale e comunicare le proprie assenze dall'ufficio; che era vincolato a un
orario lavorativo e percepiva un fisso mensile di lit. 1.250.000 cui si aggiungeva un compenso
di lit. 125.000 di provvigione per ogni autovettura usata venduta. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione
e violazione di legge nell'accertamento della subordinazione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1261 del 23 gennaio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Di Nubila)
ha rigettato, sul punto, il ricorso in quanto ha ritenuto che la Corte di Appello abbia
correttamente motivato la sua decisione.
La mancata comunicazione alle Ooss dei criteri di scelta dei lavoratori rende illegittimo il loro collocamento in cigs
Ernesto P., dipendente della Spa Ansaldo Energia, è stato collocato in Cassa Integrazione Straordinaria il 30 ottobre 1992.Egli ha chiesto al Tribunale di Genova,
nel 1999, di dichiarare illegittimo e inefficace tale provvedimento per omessa comunicazione
alle Organizzazioni Sindacali dei criteri di scelta. Il Tribunale ha ritenuto fondata la
domanda e ha condannato l'azienda al risarcimento del danno in misura pari alla differenza
fra quanto il lavoratore avrebbe dovuto percepire in corso di rapporto e quanto da
lui percepito a titolo di Cigs per il periodo dal 30 ottobre 1992 al 30 marzo 1996. Questa
decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Genova. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1550 del 26 gennaio 2006, Pres. Senese, Rel. Amoroso)
ha rigettato il ricorso, richiamando l'art. 1, settimo comma, della legge n. 223/91
secondo cui i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere devono formare oggetto
della comunicazione e dell'esame congiunto previsti dall'art. 5 della legge n.
164/75. I criteri ' ha osservato la Corte ' non devono essere generici né basati su fattori
discrezionali e non verificabili. La comunicazione dei criteri ' ha aggiunto la Corte richiamando
la sentenza delle Sezioni Unite n. 302 del 2000 ' è stata prevista per assolvere
a una duplice funzione, essendo diretta, per un verso, a porre le Organizzazioni Sindacali
in grado di concordare la scelta dei lavoratori da sospendere e, per un altro verso,
ad assicurare la tutela degli interessi dei lavoratori in relazione alla crisi dell'impresa.
La violazione dell'obbligo della comunicazione (e, del pari, l'esistenza di vizi inerenti al
contenuto di tale obbligo) ' ha affermato la Corte ' da un lato, integra una vera e propria
ipotesi di condotta antisindacale, che può formare oggetto dell'azione prevista dall'art.
28 St. Lav. e, dall'altro, investendo un elemento essenziale (e non meramente formale o
marginale) della complessa fattispecie, è causa diretta di illegittimità del provvedimento
finale, perché preclude la verifica del corretto esercizio del potere del datore di lavoro e
impedisce il perseguimento dello scopo previsto dalla legge (la tutela della posizione dei
singoli lavoratori coinvolti nella procedura). Pertanto ' ha rilevato la Corte ' considerato
che l'atto conclusivo del procedimento (il decreto di concessione dell'integrazione salariale)
immediatamente determina la sospensione delle contrapposte prestazioni che formano
il contenuto del rapporto di lavoro ' nel senso che il lavoratore sospeso non è obbligato
a svolgere la prestazione lavorativa e contemporaneamente il datore di lavoro
non è tenuto a corrispondere la retribuzione ' l'inosservanza della suddetta garanzia
precedimentale, implicante la mancata attuazione del principio di trasparenza, incide direttamente
sul medesimo provvedimento finale di concessione del beneficio.
Il lavoratore risponde in sede disciplinare del suo comportamento e non della sentenza penale cui esso abbia dato luogo
Giuseppe M., dipendente della Spa Poste Italiane, è stato sottoposto nel dicembre 1993 a processo penale davanti al Tribunale di Agrigentocon l'imputazione di concorso nel reato di falsità ideologica per avere sollecitato e ottenuto un certificato medico
attestante un'inesistente malattia (lombosciatalgia) al fine di giustificare un'assenza
dal lavoro di dieci giorni verificatasi nel febbraio del 1985. Egli è stato riconosciuto colpevole
del reato attribuitogli e condannato alla pena di otto mesi di reclusione. La condanna
è stata confermata in appello ed è divenuta definitiva per effetto di sentenza della
Corte di Cassazione in data 12.12.1998. La Spa Poste italiane ha sottoposto il lavoratore
a procedimento disciplinare con lettera di contestazione in data 12 gennaio 2001 con
cui, richiamata la vicenda processuale penale si affermava che il lavoratore, mentre in
base a un certificato medico era risultato impedito al servizio per dieci giorni a partire dal
19 febbraio 1985, in realtà si era recato in quel periodo in un altro comune per svolgervi
un diverso tipo di attività lavorativa, che peraltro comportava un impegno fisico superiore
a quello richiesto dalle mansioni svolte per il servizio postale. Il procedimento disciplinare
si è concluso con il licenziamento di Giuseppe M. Questi si è rivolto al Tribunale
di Agrigento chiedendo l'annullamento del licenziamento, tra l'altro, per violazione
di principio di immediatezza nella contestazione dell'addebito. Sia il Tribunale che la Corte
di Appello di Palermo hanno ritenuto la domanda priva di fondamento e dichiarato la
legittimità del licenziamento.
La Corte di Appello ha rilevato che l'art. 54 del contratto collettivo, richiamato nella lettera
di licenziamento, prevedeva il licenziamento senza preavviso nel caso di «condanna
passata in giudicato, quando i fatti costituenti reato possono assumere rilievo ai fini della
lesione del rapporto fiduciario, nell'ipotesi in cui la loro gravità , in relazione alla natura
del rapporto, alle mansioni, al grado di affidamento, sia tale da far ritenere il lavoratore
professionalmente inidoneo alla prosecuzione del rapporto». La Corte riteneva quindi
che presupposto del licenziamento fosse la sentenza penale di condanna divenuta definitiva,
cosicché era dal momento della sua conoscenza da parte del datore di lavoro che
doveva essere valutata la tempestività della contestazione, escluso ogni riferimento all'epoca
di Commissione dei fatti penalmente sanzionati; nella specie tale conoscenza era
avvenuta solo con il rilascio di copia della sentenza da parte della cancelleria della
Cassazione e quindi doveva ritenersi tempestiva la contestazione del 12.1.2001. Il lavoratore
ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l'altro, che il giudice di merito
non aveva correttamente valutato il requisito dell'immediatezza della contestazione con
il riferimento ai fatti di causa; egli ha rilevato che il datore di lavoro aveva prestato acquiescenza
a quanto verificatosi nel 1985 e agli accertamenti penali di cui alle sentenze
penali di primo e secondo grado, continuando ad accettare la prestazione del ricorrente
e non ricorrendo alla sospensione cautelare dal servizio prevista come possibile dal
c.c.n.l. del 1994 anche con riferimento a procedimenti e condanne per reati di falsità , e
che quindi la successiva contestazione dell'addebito era stata tardiva.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2023 del 30 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel.
Toffoli) ha accolto il ricorso. Il giudice di merito ' ha osservato la Corte ' nel valutare
la tempestività della contestazione disciplinare, ha ritenuto di poter fare esclusivo e diretto
riferimento alla data in cui era diventata definitiva la sentenza penale di condanna,
sulla base della previsione come ipotesi di licenziamento in tronco, da parte di norma
disciplinare contrattuale, della ricorrenza di una condanna passata in giudicato. Una
simile impostazione del problema ' ha affermato la Cassazione ' non è conforme ai
principi di diritto che regolano la materia nell'ambito dei rapporti di lavoro regolati dal
codice civile e dalla legge n. 300 del 1970; in questi rapporti, poiché fatto costitutivo
in concreto del potere disciplinare deve ritenersi in ogni caso il comportamento del lavoratore
e non la sua condanna penale, che può assurgere solo a mezzo di prova dei
fatti disciplinarmente rilevanti, la verifica della tempestività della contestazione deve
essere compiuta, in linea di principio, con riferimento alla adeguata conoscenza della
Commissione dell'infrazione disciplinare da parte del datore di lavoro. In proposito la
Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: «Nei rapporti di lavoro privati, nei
quali non trovano applicazione le regole dettate dalla legge 27 marzo 2001 n. 97 in materia
di rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare e di effetti del
giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, il datore
di lavoro ' anche nel caso in cui il contratto collettivo indichi come ipotesi di licenziamento
in tronco la condanna penale passata in giudicato per fatti idonei a incrinare
il rapporto fiduciario ', una volta che abbia avuto la notizia, munita di un ragionevole
tasso di attendibilità (da valutarsi a seconda delle circostanze) della Commissione da
parte del lavoratore di fatti di potenziale rilievo disciplinare, al fine di rispettare la regola
della necessaria tempestività dell'esercizio del potere disciplinare, e ferma restando
la regola della necessaria tempestività dell'esercizio del potere disciplinare, e
ferma restando la rilevanza della sospensione cautelare del dipendente, ha l'onere di
assumere, con adeguata diligenza e tempestività , le iniziative necessarie per l'accertamento
e la valutazione dei fatti, ivi compresa, ove non sia possibile o ragionevole un
diretto accertamento dei fatti da parte sua, l'assunzione di adeguate informazioni circa
l'andamento del procedimento penale in corso per gli stessi fatti; coerentemente, il
datore di lavoro, ove sussista un rilevante intervallo temporale tra i fatti di rilievo disciplinare
e l'esercizio dei poteri disciplinari, deve fornire la prova delle circostanze evidenzianti
la tempestività in concreto di questo esercizio». Nella specie, caratterizzata
dalla applicabilità delle norme disciplinari previste per i rapporti di lavoro privati a
seguito della trasformazione dell'Amministrazione postale in ente pubblico economico
e alla successiva stipulazione di un nuovo contratto collettivo di lavoro ' ha osservato
la Corte ' questo principio di diritto è stato disatteso dal giudice d'appello sia, nel
momento in cui, in relazione a fatti di molti anni antecedenti all'epoca della contestazione
disciplinare, ha ritenuto di poter valutare la tempestività di quest'ultima facendo
riferimento all'epoca del giudicato penale, senza alcun previo accertamento circa le
circostanze che potessero giustificare l'adozione in concreto di tale criterio, sia, specificamente,
per avere escluso la rilevanza dell'intervallo di oltre due anni intercorrente
tra loro stesso giudicato penale e la contestazione disciplinare, senza tenere conto al
riguardo che era onere del datore di lavoro anche la dimostrazione di avere con adeguata
diligenza seguito gli sviluppi del processo penale di cui, come è pacifico, era a
conoscenza e i cui accertamenti era intenzionato a valorizzare ai fini della prova dell'illecito
disciplinare poi posto a base del licenziamento in tronco.
Carriera dirigenziale penitenziale
Il decreto, che dà attuazione alla delega al governo contenuta nella legge n. 154/2005, disciplina la carriera dirigenziale penitenziaria.Il decreto definisce i compiti e le funzioni dei dirigenti, nonché i ruoli e le qualifiche. L'accesso alla carriera dirigenziale
penitenziale avviene unicamente mediante concorso pubblico. Gli incarichi sono
conferiti per un periodo di tempo non inferiore a tre anni e non superiore a cinque anni,
rinnovabili una volta sola per non oltre cinque anni.
(Gazzetta Ufficiale n. 52 del 3 marzo 2006)
Processo di Cassazione e arbitrato
Con tale decreto vengono introdotte rilevanti «modifiche al codice di procedura civilein materia di processo di Cassazione in funzione normofilattica e di arbitrato, a
norma dell'art. 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80». Effetto particolarmente rilevante
del decreto è, tra gli altri, l'introduzione dell'art. 420-bis cod. proc, civ. che pone
delicatissimi problemi interpretativi.
(Gazzetta Ufficiale n. 38 del 21 febbraio 2006)
Totalizzazione dei periodi assicurativi
I lavoratori iscritti a due o più forme di assicurazione obbligatoria, che non siano già titolari di trattamento pensionistico,possono cumulare i periodi assicurativi
non coincidenti al fine di conseguire un'unica pensione. Mediante la totalizzazione
dei periodi assicurativi possono essere conseguite la pensione di vecchiaia, la pensione
di anzianità , la pensione di inabilità , la pensione indiretta ai superstiti. Per la pensione
di anzianità e di vecchiaia possono essere incluse nel cumulo le gestioni nelle quali
si è in possesso di anzianità contributiva pari ad almeno sei anni.
(Gazzetta Ufficiale n. 39 del 16 febbraio 2006)
Perché un'associazione sindacale possa essere ritenuta nazionale non è sufficiente la sua diffusione sul territorio
Nel giugno del 1995 il sindacato Slai Cobas di Cassino ha promosso nei confronti della Spa Fiat Auto,davanti al locale pretore, un procedimento per repressione di
comportamento antisindacale in base all'art. 28 Stat. Lav., sostenendo che l'azienda aveva
indebitamente limitato il diritto dei propri delegati a fruire di permessi retribuiti e non
aveva messo a disposizione un locale all'interno dell'azienda, per fini sindacali. La Fiat Auto
Spa si è difesa sostenendo che il Flai non era legittimato a proporre un ricorso in base
all'art. 28 Stat. Lav. in quanto non poteva essere ritenuto «associazione sindacale nazionale
» e negando la fondatezza degli addebiti mossile. Nella fase cautelare il pretore ha accolto
la domanda del sindacato, accertando la natura antisindacale del comportamento
denunciato. L'opposizione proposta dall'azienda è stata rigettata. La decisione emessa
nel giudizio di primo grado è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Cassino
che, tra l'altro, ha ritenuto priva di fondamento la tesi aziendale secondo cui il Flai non
poteva essere ritenuto «associazione sindacale nazionale». In proposito il Tribunale ha rilevato
che il sindacato presentava «una notevole, anche se non uniforme, diffusione sull'intero
territorio nazionale, essendo presente in 35 Province e 13 Regioni, con una concentrazione
particolarmente significativa in alcuni settori produttivi, quale quello metalmeccanico
». L'azienda ha proposto ricorso per Cassazione censurando la decisione del
Tribunale di Cassino per violazione dell'art. 28 Stat. Lav. e per vizi di motivazione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1307 del 24 gennaio 2006, Pres. Mileo, Rel. Amoroso)
ha accolto il ricorso, osservando che il Tribunale ha errato nell'attribuire al sindacato
Slai la natura di «associazione sindacale nazionale» in base a un rilievo meramente
topografico. Il carattere «nazionale» dell'associazione sindacale ' ha affermato la Corte
' è un dato attinente non solo alla mera dimensione territoriale, ma anche all'attività in
concreto svolta dalla stessa che deve avere un orizzonte «nazionale» e non già «locale».
L'art. 28 della legge n. 300 del 1970 ' com'è noto ' non riconosce la legittimazione ad agire
a tutte le associazione sindacali, ma la limita agli organismi locali delle associazioni
sindacali nazionali che vi abbiano interesse, dettando cosà una disciplina differenziata
che opera una distinzione tra associazioni sindacali che hanno accesso (anche) a questo
strumento processuale di rafforzata e incisiva tutela dell'attività sindacale (tutela peraltro
presidiata anche da una sanzione penale) e altre associazioni sindacali che hanno
l'accesso (solo) alla tutela ordinaria di un giudizio promosso ex art. 414 cod. proc. civ.
Dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenze n. 54 del 1974, n. 334 del 1988
e n. 89 del 1995) emerge ' ha osservato la Cassazione ' che la ragione giustificatrice sottesa
alla limitazione della legittimazione dell'art. 28 è anche sostanziale (legata all'attività
del sindacato e agli interessi collettivi tutelati) e non già solo formale (discendente
dalla mera dislocazione del sindacato sul territorio); e anzi è soprattutto la ragione sostanziale
della differenziazione che rende la stessa compatibile con il principio di eguaglianza
(art. 3, primo comma, Cost.) e con quello della libertà di azione sindacale (art. 39,
primo comma, Cost.). In breve ' ha affermato la Corte ' la dimensione territoriale nazionale
deve necessariamente coniugarsi a un'attività orientata alla tutela dei lavoratori a
quello stesso livello; pertanto un mero collegamento federativo pur a livello nazionale di
plurimi sindacali locali, in ipotesi (come sembra essere nella specie) anche di categorie
diverse, se vale a conferire al sindacato cosà federato la dimensione territoriale nazionale,
non implica di per sé anche un'azione sindacale connotata dal carattere nazionale. Ove
l'attività sindacale sia in concreto solo quella delle associazioni sindacali locali, scollegata
da qualsivoglia politica sindacale nazionale perché inesistente ' ha aggiunto la
Corte ' viene meno il carattere nazionale di siffatto sindacato «federato» ancorché le locali
associazioni sindacali, legate dal vincolo federativo, siano plurime e diffuse su tutto
il territorio nazionale; se cosà non fosse la mera creazione di un coordinamento nazionale
costituirebbe un passe-partout per l'accesso alla legittimazione al ricorso all'art. 28 cit.
a qualsivoglia associazione sindacale meramente locale e verrebbe frustrata quell'esigenza
di fondo che giustifica, anche a livello costituzionale, la limitazione della legittimazione.
Certo il legislatore dello Statuto dei lavoratori ' ha osservato la Corte ' non
pensava a una costellazione di plurime associazioni sindacali locali raccolte sotto un'etichetta
unitaria, bensà a un sindacato autenticamente «nazionale» che, avendo una visione
ampia degli interessi dei lavoratori associati, ne perseguisse la tutela non già in
un'area limitata, ma in tutto il paese e quindi con un'attività sindacale estrinsecantesi
anche su tutto il territorio nazionale e non già solo localmente.
Tutela della maternità ai dirigenti
La legge estende la tutela previdenziale di cui al d.lgs n. 151/200 in materia di maternità e paternità ai dirigenti del settore privato.Dal primo aprile 2006 la le competenze per il congedo di maternità , parentale e di allattamento sono a carico
dell'Inps. I datori di lavoro del settore privato sono tenuti al versamento del contributo
per l'assicurazione per la maternità delle donne dirigenti, a valere sulle retribuzioni
dei dirigenti stessi.
(Gazzetta Ufficiale n. 64 del 17 marzo 2006)
Attività agrituristiche
La legge definisce attività agrituristichequelle «attività di ricezione e ospitalità esercitate
dagli imprenditori agricoli di cui all'art. 2135 del cod. civ., anche nella forma di
società di capitali o di persone, oppure associati fra loro, attraverso l'utilizzazione della
propria azienda in rapporto di connessione con le attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura
e di allevamento di animali».
(Gazzetta Ufficiale n. 63 del 16 marzo 2006)
Attività di tintolavanderia
La legge, nell'ambito della legislazione esclusiva in materia di tutela della concorrenza e della legislazione concorrente in materia di professioni,di cui all'art. 117 della Costituzione, reca i principi fondamentali di disciplina dell'attività professionale
di tintolavanderia. Viene data la definizione dell'attività di tintolavanderia e
per l'esercizio dell'attività le imprese devono designare un responsabile tecnico, in
possesso della relativa idoneità professionale, che deve svolgere prevalentemente la
propria attività lavorativa nell'impresa.
(Gazzetta Ufficiale n. 60 del 13 marzo 2006)
Pubblica amministrazione
La legge converte il decreto legge n. 4 del 10 gennaio 2006.L'art. 4 del testo coordinato della legge di conversione inserisce al d.lgs. n. 165 del 30 marzo 2001, il comma
4-bis all'art. 35 e il comma 1-bis all'art. 36. Il comma 4-bis specifica che, presso le pubbliche amministrazioni,
anche alle procedure concorsuali di reclutamento di personale a
tempo determinato per contingenti superiori alle cinque unità , inclusi i contratti di formazione
e lavoro, le procedure concorsuali devono essere avviate mediante l'emanazione
di apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro
dell'economia e delle finanze. Il comma 1-bis dispone che l'attivazione di forme contrattuali
flessibili di assunzione e di impegno del personale è ammessa solo per esigenze
temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti all'assegnazione
di personale anche temporanea, tramite le agenzie di somministrazione di lavoro,
ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi. Tale disposizione costituisce una norma
di principio per l'utilizzo di forme contrattuali flessibili negli enti locali. L'art. 6 del testo
coordinato della legge di conversione specifica che l'accertamento dell'invalidità civile
ovvero dell'handicap, riguardante soggetti con patologie oncologiche, deve essere
effettuato dalle apposite commissioni mediche entro quindici giorni dalla domanda dell'interessato
e gli esiti dell'accertamento hanno efficacia immediata per il godimento dei
benefici da essi derivanti.
(Gazzetta Ufficiale n. 59 dell'11 marzo 2006)
Insegnanti di religione cattolica
Il decreto autorizza il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca«ad assumere, nell'anno scolastico 2005-2006, n. 3.077 insegnanti di religione
cattolica a seguito del superamento della procedura concorsuale prevista dall'art. 5 della
legge 18 luglio 2003, n. 186».
(Gazzetta Ufficiale n. 57 del 9 marzo 2006)
Carriera diplomatica
Il decreto recepisce l'accordo sindacale,per il quadriennio giuridico 2004-2007 e
per il biennio economico 2004-2005, riguardante il personale della carriera diplomatica,
relativamente al servizio prestato in Italia.
(Gazzetta Ufficiale n. 66 del 20 marzo 2006)
Rilevanza delle cause di insorgenze del conflitto ai fini della quantificazione della sanzione
La Commissione ha valutato illegittimo lo sciopero del 19 gennaio 2006indetto
avverso la società Alitalia da Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uilt-Trasporti, Ugl-Ta, Up, in quanto effettuato
in un giorno nel quale era stata precedentemente proclamata, da diversa organizzazione
sindacale, altra astensione collettiva. La Commissione ha valutato negativamente
anche le «assemblee permanenti» del personale convocate per le giornate del 19, 20,
21, 22, 23 e 24 gennaio 2006, in quanto per le modalità con cui si sono svolte e, in particolare,
per la loro durata, non possono ritenersi effettuate ai sensi dell'art. 20 della legge
n. 300 del 1970 e devono, quindi, essere valutate come astensioni collettive dal lavoro,
soggette alla disciplina della legge n. 146 del 1990. La Commissione, però, ha ritenuto
attendibile che lo stato di tensione esistente tra i lavoratori e la conseguente protesta
che le organizzazioni sindacali hanno ritenuto di dover rappresentare, fossero da attribuire,
almeno prevalentemente, al timore che, in violazione di precedenti accordi, la Società
Alitalia non conservasse la disponibilità di più del 50% del capitale sociale della AZ
Service, con possibili riflessi sui rapporti di lavoro. Tale circostanza, ad avviso della Commissione,
non può valere a escludere la responsabilità delle organizzazioni sindacali, ma
invece rileva ai fini della determinazione dell'entità della sanzione.
Disciplina per l'ammissione all'esame di Stato delle professioni intellettuali
L'Autorità ha segnalato i profili di contrasto con i principi della concorrenza e del libero mercatocontenuti nello schema di d.p.r. approvato in via preliminare dal
Consiglio dei ministri in data 22 dicembre 2005, recante «Disciplina dei requisiti per l'ammissione
all'esame di Stato, ai sensi dell'art. 1, comma 18, della legge 14 gennaio 1999, n.
4 », che modifica il d.p.r. 5 giugno 2001, n. 328. L'Autorità è già intervenuta più volte in
materia di libere professioni per censurare le significative restrizioni che ancora caratterizzano
il settore delle professioni intellettuali, nonostante le reiterate sollecitazioni di liberalizzazione
provenienti anche dagli organismi internazionali (Ue, Ocse, Fmi). Il d.p.r. in
esame disciplina aspetti di estrema rilevanza nell'ottica della liberalizzazione per un numero
considerevole di professioni e in particolare disciplina i requisiti per l'ammissione all'esame
di Stato e le relative prove, la composizione delle commissioni esaminatrici e le
modalità di svolgimento degli esami per le professioni di dottore agronomo e dottore forestale,
agrotecnico e agrotecnico laureato, architetto, pianificatore paesaggista conservatore,
assistente sociale, attuario, biologo, chimico, consulente del lavoro, farmacista,
geologo, geometra e geometra laureato, giornalista, ingegnere, perito agrario e perito agrario
laureato, perito industriale e perito industriale laureato, psicologo, tecnologo alimentare
e veterinario, nonché per l'abilitazione nelle discipline statistiche. Per quanto riguarda
la disciplina dell'accesso alla professione, il nuovo d.p.r. introduce un tirocinio
professionale obbligatorio per diverse professioni per le quali in precedenza non era previsto
(ad esempio ingegneri, architetti, biologi, chimici, geologi, agronomi, statistici, periti
industriali ecc.). L'Autorità ha ravvisato in tale onere un ingiustificato rallentamento dell'entrata
dei professionisti nel mondo del lavoro. L'Autorità ha al riguardo evidenziato che
i requisisti qualitativi all'accesso nelle professioni debbano essere tali da evitare che per
loro tramite vengano surrettiziamente introdotte restrizioni di tipo quantitativo. Ciò implica
che i requisiti richiesti per l'ammissione all'esame di Stato, tra cui il tirocinio professionale
obbligatorio, debbano essere proporzionati alle esigenze delle attività professionali
che esso abilita a esercitare e non debbano essere ingiustificatamente restrittivi. Al riguardo
non appare giustificata la previsione di un tirocinio obbligatorio laddove attualmente
non previsto per l'accesso alla medesima attività o un'eccessiva durata dello stesso.
Ad avviso dell'Autorità , inoltre, il nuovo d.p.r. non coglie neppure l'occasione per limitare
la presenza degli Ordini Professionali nell'ambito delle Commissioni esaminatrici.
L'art. 39, infatti, stabilisce che le Commissioni esaminatrici siano composte da un Presidente
scelto tra professori ordinari o associati anche fuori ruolo o a riposo, da non più di
cinque anni, appartenenti ai settori relativi alle materie oggetto d'esame e da quattro
membri scelti da terne designate dagli Ordini o Collegi professionali competenti per territorio
e trasmesse al Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. Per ogni Commissione
esaminatrice sono poi nominati membri supplenti nell'ambitodi terne designate
dagli Ordini o Collegi professionali competenti per territorio. L'Autorità già nell'indagine
conoscitiva nel settore degli Ordini e Collegi professionali del 1997 aveva rilevato che «il
controllo circa il possesso da parte dell'aspirante professionista dei necessari requisiti dovrebbe
essere effettuato al di fuori di eventuali pressioni corporative da un organo amministrativo
imparziale. Il principio di imparzialità al quale deve essere informata la composizione
della Commissione esaminatrice, impone che nella formazione della stessa il carattere
esclusivamente tecnico del giudizio debba risultare salvaguardato da ogni rischio
di deviazione verso interessi di parte o comunque diversi da quelli propri dell'esame. In
tal senso non può certo essere riservato agli ordini un ruolo dominante nella fase di accertamento
del possesso dei requisiti del candidato. Ciò infatti equivale a sacrificare la
terzietà di chi contribuisce a stabilire il numero di coloro che sono ammessi a entrare nel
mercato». L'Autorità ha infine criticato la scelta di rendere la professione di «informatico»
una professione protetta che non può esser esercitata senza essere iscritti a un albo professionale.
Al riguardo, l'Autorità osserva che le limitazioni poste dal legislatore all'esercizio
di una professione devono avere carattere eccezionale e trovare giustificazione nella
particolare rilevanza dell'attività svolta. Poiché le riserve di attività si giustificano solo
in presenza di comprovate esigenze di tutela di interessi generali risulta difficile riscontrare
dette esigenze con riguardo a professioni, quale appunto quella di «informatico», rispetto
alle quali, prima del d.p.r. n. 328/2001, non era stata avvertita la necessità di creare
esclusive.
Lavoratori ultracinquantenni
La legge converte il decreto legge n. 68 del 6 marzo 2006.Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali promuove in collaborazione con Italia lavoro
un programma sperimentale per il sostegno del reddito, finalizzato al reimpeigo di tremila lavoratori adulti
che compiono cinquanta anni entro il 31 dicembre 2006.
(Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 marzo 2006)
Magistrati
Il decreto disciplina gli illeciti disciplinari dei magistrati, commessi sia nell'esercizio che fuori l'esercizio delle funzioni,le relative sanzioni e la procedura
per la loro applicabilità , nonché modifica la disciplina in tema di incompatibilità , dispensa
dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati. «Il magistrato che viola i
suoi doveri è soggetto alle seguenti sanzioni disciplinari: a) l'ammonimento; b) la censura;
c) la perdita dell'anzianità ; d) l'incapacità temporanea a esercitare un incarico
direttivo o semidirettivo; e) la sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni; f) la
rimozione.
(Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2006)
Sicurezza sociale dei lavoratori migranti - Prestazioni speciale a carattere non contributivo
1. Un assegno di assistenza come quello previsto dal Salzburger Pflegegeldgesetz,che ha lo scopo di compensare forfetariamente le maggiori spese dovute alla mancanza
di autonomia dei beneficiari e, in particolare, le spese collegate all'aiuto che è necessario
fornire loro, non costituisce una prestazione speciale a carattere non contributivo
ai sensi dell'art. 4, n. 2-ter, del regolamento n. 1408/71/Cee, relativo all'applicazione
dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro
familiari che si spostano all'interno della Comunità , ma una prestazione di malattia ai
sensi dell'art. 4, n. 1, lett. a), di detto regolamento.
2. Il familiare di un lavoratore dipendente impiegato nel Land Salisburgo, il quale risieda
con la famiglia in Germania, può, qualora possieda gli altri requisiti per la concessione,
richiedere all'istituzione competente del luogo di impiego del lavoratore dipendente il
pagamento di un assegno di assistenza come quello previsto dal Salzburger Pflegegeldgesetz,
in quanto prestazione di malattia in denaro, ai sensi dell'art. 19 del regolamento
n. 1408/71, purché il familiare non abbia diritto a una prestazione analoga in base alla
normativa dello Stato nel cui territorio risiede.
Parità di trattamento tra uomini e donne - Dipendente temporanea in congedo di maternità che accede a un impiego permanente
La Direttiva 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamentofra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione
e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, osta a una normativa
nazionale che non riconosce a un lavoratore di sesso femminile che si trova in congedo
di maternità gli stessi diritti riconosciuti ad altri vincitori dello stesso concorso di assunzione
per quanto riguarda le condizioni di accesso alla carriera di dipendente di ruolo posticipando
la sua entrata in servizio alla scadenza di questo congedo, senza prendere in
considerazione la durata del detto congedo nel calcolo dell'anzianità di servizio di questo
lavoratore.
Inidoneità dell'accordo Aris-Aiop per le prestazioni indispensabili in caso di sciopero
La Commissione ha affermato che, con riferimento alla mancata osservanza dell'obbligo di assicurare le prestazioni indispensabili in caso di scioperoindetto in
una azienda che fornisce prestazioni terapeutiche e sanitarie, deve disattendersi la tesi,
secondo cui, poiché il contratto collettivo Aris-Aiop prevede che i contingenti di personale
debbano essere commisurati al turno festivo, nei casi, come quello esaminato, in cui il
servizio non venga erogato nei giorni festivi non dovrebbe essere previsto alcun contingente
di personale. Ad avviso della Commissione, infatti, la disciplina del contratto Aris-
Aiop è inapplicabile in quanto mai valutata dalla Commissione stessa, con conseguente
applicabilità dell'accordo nazionale per i servizi socio-sanitari, assistenziali ed educativi
Anffas del 23.2.2005, valutato idoneo dalla Commissione con delibera n. 311 del 15 giugno
2005. Pertanto, le organizzazioni sindacali che indicono scioperi del personale nel
settore sanitario debbono osservare le prestazioni indispensabili di cui all'accordo nazionale
Anffas, in particolare, garantendo le prestazioni terapeutiche riabilitative in atto e
non differibili, nonché l'assistenza ai disabili. La Commissione ha però ritenuto che per poter
sanzionare le organizzazioni sindacali proclamanti e lo sciopero e ' sul piano disciplinare
' i lavoratori che hanno aderito allo sciopero l'azienda deve aver preventivamente emanato
(e deve fornirne prova) l'ordine di servizio con l'indicazione del personale che deve
esser esonerato dallo sciopero. Nel caso in esame, in assenza di tale prova, la Commissione
ha deciso che non sussistono i presupposti per una valutazione negativa.
Trasferimento di imprese - Contratto collettivo applicabile
L'art. 3, n. 1, della Direttiva, 77/187/CEE,concernente il ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti
di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti, dev'essere interpretato nel
senso che esso non osta a che, qualora il contratto di lavoro rinvii a un contratto collettivo
che vincola il cedente, il cessionario che non è parte del contratto collettivo non sia
vincolato da contratti collettivi successivi a quello in vigore al momento del trasferimento
dell'azienda.
Direttiva 93/104/Ce - Diritto a ferie annuali retribuite - Inclusione del pagamento nella paga oraria o giornaliera
1. L'art. 7, n. 1, della Direttiva, 93/104/CE, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro,osta a che una parte della paga versata al lavoratore
per il lavoro svolto sia imputata al pagamento delle ferie annuali senza che il lavoratore
percepisca, a tale titolo, un pagamento aggiuntivo a quello versato per il lavoro
svolto. Non si può derogare a tale diritto con un accordo contrattuale. Tale disposizione
osta inoltre a che il pagamento delle ferie annuali minime ai sensi di tale disposizione sia
effettuato mediante versamenti parziali scaglionati nel corrispondente periodo annuale
di lavoro e pagati insieme alla retribuzione per il lavoro svolto, e non mediante un versamento
per un periodo determinato durante il quale il lavoratore prende effettivamente
le ferie.
2. L'art. 7 della Direttiva 93/104 non osta, in linea di principio, a che somme pagate, in
modo trasparente e comprensibile, come retribuzione delle ferie annuali minime ai
sensi di tale disposizione mediante versamenti parziali scaglionati nel corrispondente
periodo annuale di lavoro e pagati insieme alla retribuzione per il lavoro svolto siano
imputate al pagamento di determinate ferie che sono state effettivamente prese dal lavoratore.
Attività autonoma in due diversi Stati membri - Soggezione alla legislazione in materia di previdenza sociale di ciascuno Stato
Gli art. 39 Ce e 43 Ce, relativi rispettivamente alla libera circolazione dei lavoratori e alla libertà di stabilimento,e l'art. 14-quater, lett. b), del regolamento n.
1408/71/Cee, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati
e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , devono essere interpretati
nel senso che non ostano alla legislazione di uno Stato membro che include nella
base di calcolo dei contributi sociali interessi come quelli versati da una società con
sede in detto Stato membro a un proprio cittadino residente in un altro Stato membro e
soggetto, in applicazione del detto regolamento e tenuto conto della natura delle sue attività
lavorative, alle legislazioni in materia di previdenza sociale di ambedue gli Stati.
Contratto a tempo determinato - Nullità del termine - Conversione in contratto a tempo indeterminato
La questione dell'apposizione del termine ai contratti di lavoro subordinato stipulati dalle Poste Italiane è da tempo, ormai, al centro di un ampio dibattitodottrinale e giurisprudenziale. La sentenza in commento ha il merito di fornire una soluzione
al problema che si differenzia in maniera sostanziale dalle decisioni sinora adottate
e di tratteggiare un quadro completo della normativa, nazionale e comunitaria, in vigore.
La fattispecie riguarda la stipulazione di tre contratti a termine per il soddisfacimento
di «ragioni di carattere sostitutivo», che i ricorrenti affermano essere «del tutto
infondate, pretestuose e contraddittorie e finalizzate alla elusione di quanto previsto dal
d.lgs. n. 368/2001»; ragion per cui lamentano l'illegittimità dei suddetti contratti in quanto
posti in essere in violazione della disciplina legislativa in materia di lavoro a tempo determinato.
Il giudice, nel pronunciarsi, ripercorre le vicende che hanno condotto al d.lgs.
368/2001 per meglio illustrare le ragioni della propria decisione. Come noto, in principio,
la legge n. 230/1962 perseguiva apertamente un intento fortemente restrittivo di ricorso
allo schema negoziale del contratto a tempo determinato che poteva essere stipulato solo
in ricorrenza di particolari ipotesi puntualmente disciplinate; di seguito, poi, l'art. 23
della legge n. 56/1987 ha aperto alla possibilità che il termine venisse apposto anche
«nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali
o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale
». In virtù di tale previsione, l'art. 8 del c.c.n.l. 26.11.1994 per i dipendenti dell'Ente
Poste italiane aveva individuato nuove fattispecie, integrate dalle ipotesi previste dal
successivo accordo collettivo del 25.09.1997 che giustificava l'apposizione del termine
in presenza di «esigenze eccezionali collegate alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione
degli assetti occupazionali in corso». È indubitabile che l'art. 23 citato abbia i connotati
di una «delega in bianco», ma, coerentemente con quanto affermato più volte dalla
giurisprudenza di legittimità , «non si è in presenza di una liberalizzazione dell'assunzione
a termine nel settore dei servizi postali e di un capovolgimento del rapporto di regola
' eccezione tra contratto a tempo indeterminato e lavoro a tempo determinato»
(Cass. 14011/2004). L'accordo è, invece, destinato a garantire gli interessi dei lavoratori,
il che rappresenta l'esatto opposto della liberalizzazione, già ritenuta inammissibile dalla
Corte Costituzionale, stante l'obbligo dell'Italia di rispettare la Direttiva n. 99/70/Ce
(Corte Cost. 41/2000). L'autorizzazione, ottenuta mediante accordo sindacale, peraltro,
non è sine die, ma necessariamente temporanea, anche se riguarda un intero settore
produttivo (il servizio postale). La recente modifica legislativa (d.lgs. n. 368/2001) non
scardina il principio fondamentale del sistema secondo il quale, conformemente a quanto
affermato dalla fonte comunitaria, «i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno
a essere la forma comune dei rapporti di lavoro». Nonostante numerose voci
in dottrina abbiano ritenuto recuperato allo schema del contratto a termine il carattere
della normalità , dal raffronto con la Direttiva comunitaria, che il decreto afferma di volere
attuare, «appare assolutamente smentito l'assunto secondo il quale la storia del contratto
a termine è connotata da un percorso verso la sua generalizzazione ed è, invece,
confermato come il nostro ordinamento sia ispirato al principio contrario e cioè alla affermazione
dell'esistenza di un unico tipo contrattuale che è rappresentato dal contratto
a tempo indeterminato, conseguendone la permanente operatività dei criteri di tipicità ,
tassatività e determinatezza delle ipotesi consentite» (Trib. Pisa 6 novembre 2002).
Se la tecnica normativa utilizzata dal legislatore delegato è quella della c.d. normazione
a clausola generale, non vuol dire che le ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive
che autorizzano l'apposizione delle termine debbano risultare vaghe; anzi, il decidente
sottolinea, da una parte, che dette ragioni devono in concreto essere esplicitate
e motivate e, dall'altra, che il carattere aperto dell'art. 1, comma 1 del decreto citato implica
la sindacabilità giudiziale della sussistenza e permanenza della ragione oggettiva
indicata nel contratto, dell'esistenza di un nesso causale tra le esigenze stesse e il contratto
individuale stipulato, nonché della coerenza ed effettività dei motivi addotti. Il lavoro
a termine in presenza di un'occasione permanente di lavoro è da ritenersi inammissibile.
Nella specie, le ragioni sostitutive addotte dalla parte resistente risultano generiche
e l'unico elemento che si ritiene provato è l'ordinarietà con cui la società sceglie
di sopperire a carenze strutturali di organico attraverso contratti a termine, determinando
un uso distorto di tale fattispecie negoziale. Per queste ragioni, il giudice dichiara la
nullità del termine, con conversione in contratto a tempo indeterminato, in virtù del combinato
disposto degli artt. 1344 cod. civ. e 1419, comma 2, cod. civ., a mente del quale «la
nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle
sono sostituite di diritto da norme imperative».
Diritto del cittadino di uno Stato terzo, coniuge di un cittadino comunitario, ad accedere a un'attività subordinata
L'art. 11 del regolamento n. 1612/68/CEE, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità ,ai sensi del quale il coniuge e i figli minori
di anni 21 o a carico di un cittadino di uno Stato membro che eserciti sul territorio di uno
Stato membro un'attività subordinata o non subordinata, hanno il diritto di accedere
a qualsiasi attività subordinata su tutto il territorio di tale Stato, anche se non
possiedono la cittadinanza di uno Stato membro, deve essere interpretato nel senso
che non conferisce al cittadino di uno Stato terzo il diritto di accedere a un'attività subordinata
in uno Stato membro diverso da quello in cui il suo coniuge, cittadino comunitario
che si sia avvalso del proprio diritto alla libera circolazione, svolge o ha svolto
un'attività subordinata.
Violazione della normativa comunitaria in materia di diritto di soggiorno dei cittadini dell'Unione
1. Viene meno ai suoi obblighi derivanti dall'art. 18 CE e dalla Direttiva 90/364relativa al diritto di soggiorno, uno Stato membro che, nel valutare se un cittadino di un
altro Stato membro che intende avvalersi dei diritti derivanti dalla Direttiva nonché dall'art.
18 Ce dispone risorse personali sufficienti, non prende in considerazione i redditi di
un partner residente nello Stato membro ospitante, in mancanza di un atto negoziale stipulato
dinanzi al notaio contenente una clausola di assistenza.
2. Viene meno agli obblighi che a esso incombono in forza dell'art. 2 della Direttiva
90/364, dell'art. 4 della Direttiva 68/360, dell'art. 4 della Direttiva 73/148, dell'art. 2 della
Direttiva 93/96, e dell'art. 2 della Direttiva 90/365 uno Stato membro che prevede la
possibilità di notificare in maniera automatica un ordine di lasciare il territorio nazionale
ai cittadini dell'Unione che non abbiano prodotto, entro un dato termine, i documenti richiesti
per il rilascio di un titolo di soggiorno.
Adeguamento retroattivo della retribuzione all'art. 3 legge 241/2001 - Insussistenza
La sig.ra C. A. conveniva in giudizio la società cooperativa Virtus Servizi per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinatoe il conseguente
pagamento delle differenze retributive ai sensi dell'art. 3 della legge 241/2001 e dell'art.
36 della Costituzione. La società convenuta, nel contestare la domanda, eccepiva l'inapplicabilità
alla fattispecie dell'art.3 della legge 241/2001 trattandosi di rapporto sorto in
epoca antecedente e cessato in pendenza del termine concesso alle società cooperative
per l'adozione del regolamento interno finalizzato a recepire i principi stabiliti dalla nuova
disciplina. Il Tribunale di Pescara, nel rigettare la domanda della ricorrente circa la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ha comunque ritenuto di riconoscere il
diritto all'adeguamento del trattamento economico alla qualità e quantità della prestazione
resa, ritenendo comunque applicabile al socio lavoratore il precetto di cui all'art.
36 Cost. atteso che, anche per il periodo pregresso all'entrata in vigore della nuova normativa,
ben può il giudice fare riferimento ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva
in relazione a quegli istituti che sono appunto espressione dei principi costituzionali
(retribuzione base, lavoro straordinario, riposo settimanale, ferie annuali, tredicesima
mensilità ).
Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Possesso dei requisiti pensionistici
Nell'ambito dell'esperimento di una procedura di licenziamenti collettivi,l'accordo sindacale raggiunto ex artt. 4 e 5 della legge n. 223/1991 per l'individuazione dei
lavoratori da porre in mobilità prevedeva come criterio prevalente il possesso dei requisiti
soggettivi per l'accesso al pensionamento durante o alla fine della mobilità . Un lavoratore,
licenziato perché in possesso dei requisiti contributivi necessari per il conseguimento
della pensione di anzianità , impugnava il licenziamento deducendo l'illegittimità
dei criteri di scelta adottati dall'accordo, in quanto essi non specificavano se i requisiti
pensionistici si riferissero alla pensione di vecchiaia o di anzianità . Il Tribunale non accoglieva
la domanda sul presupposto che il criterio individuato in sede collettiva si riferisse
inequivocabilmente al possesso dei requisiti per il pensionamento di anzianità . Di
diverso avviso si dichiarava la Corte d'Appello di Napoli che, a seguito di gravame, riesaminava
la questione. Innanzitutto, rilevava il Collegio, il testo del verbale di accordo
non conteneva alcun riferimento né al conseguimento dei requisiti necessari ai fini del
trattamento pensionistico di anzianità né al trattamento pensionistico di vecchiaia. Esso,
inoltre, non distingueva nemmeno in ordine al momento in cui tali requisiti venivano a
maturazione, ovvero se durante o alla fine della mobilità . Per tali ragioni, essendo possibile
estrarre diverse graduatorie di lavoratori, l'accordo consentiva al datore di esercitare
una ampia discrezionalità nella definizione della graduatoria e, in definitiva, nell'individuazione
dei lavoratori da licenziarsi. Inoltre, proseguiva la Corte sottolineando l'equivoco
nel quale era incorso il giudice di primo grado, le ambiguità della previsione collettiva
non potevano ritenersi risolte dal fatto che l'art. 4 della legge n. 108/1990 prevedesse
il regime di libera recedibilità nei riguardi dei lavoratori che abbiano maturato il diritto
alla pensione di vecchiaia: per costoro, infatti, il raggiungimento del requisito pensionistico
non determina l'automatica risoluzione del rapporto. Dunque, atteso che la finalità
della procedura ex artt. 4 e 24 della legge n. 223/1991, non è quella di ampliare le
possibilità di recesso del datore di lavoro ma soltanto quella di disciplinarne il potere per
il caso di esigenza di ridimensionamento dell'organico, la Corte evidenziava come anche
i lavoratori per i quali non sia più applicabile il regime di stabilità reale rientrino a pieno
titolo tra gli esuberi individuati dall'imprenditore. In conclusione, non essendo possibile
verificare che l'estromissione dei lavoratori fosse fondata sull'applicazione di un omogeneo
criterio oggettivo, la Corte riformava la sentenza del Tribunale dichiarando l'inefficacia
del licenziamento intimato all'appellante, con conseguente condanna del datore
alla reintegrazione del lavoratore e al risarcimento del danno in misura pari alle mensilità
maturate e non riscosse dal recesso alla reintegra.
Pubblico impiego - Dirigente - Incarico di direttore amministrativo di azienda sanitaria - Recesso ante tempus
Al direttore amministrativo a cui sia stato revocato l'incarico prima del termine finale di scadenza del contratto non spetta la reintegra in sede cautelare.L'ordinanza del Tribunale di Messina affronta alcune questioni importanti in tema di reintegra
del dirigente di un'azienda sanitaria con incarico a tempo determinato. Il giudice si
sofferma solo ed esclusivamente sulle questioni relative al danno grave e irreparabile,
affermando alcuni principi pacifici nella giurisprudenza di merito e di legittimità ma, comunque,
meritevoli di essere ribaditi. Si afferma, infatti, che, nella fattispecie, non possa
trovare applicazione l'istituto della reintegra, perché il recesso datoriale, a prescindere
dall'illegittimità o meno di tale recesso, non rientra nell'area assistita dalla tutela reale.
Si deve presupporre (il provvedimento non lo chiarisce) che il giudice abbia voluto con
ciò riferirsi al fatto che il lavoratore era un dirigente, cioè apparteneva a una di quelle categorie
di soggetti per i quali la legge consente il recesso ad nutum. Nell'ordinanza si
precisa, inoltre, che l'inoperatività dell'istituto della reintegra deriverebbe, in ogni caso,
dal fatto che l'incarico di direttore amministrativo non si inscrive nell'alveo del rapporto
di lavoro subordinato, per cui è non è possibile nemmeno che si configuri un diritto alla
reintegra nelle mansioni ex art. 2103 cod. civ., norma che riconosce, a determinate condizioni,
lo ius variandi al datore di lavoro. Nell'ordinanza si chiarisce, infatti, che l'incarico
conferito rientra nella categoria dei contratti di collaborazione ex art. 409 n. 3 cod.
proc. civ. con una durata predeterminata. Il giudicante ha ritenuto, infine, che al ricorrente
non spetti la tutela reintegratoria, poiché il recesso ante tempus, ancorché illegittimo,
è insuscettibile di causare un danno irreversibile; in tal caso, in capo al lavoratore
sorge soltanto un diritto al risarcimento del danno. Si precisa, peraltro, che, nel caso di
specie, il dirigente è dipendente dell'Università di Messina, per cui il recesso non determina
un danno grave e irreparabile, nemmeno sotto il profilo della perdita retributiva.
Decorso prescrizione - Legittimità costituzionale
Il Tribunale di Roma ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionaledell'art. 937 cod. nav. «nella parte in cui stabilisce
che i diritti derivanti dal contratto di lavoro del personale di volo si prescrivono col
decorso di due anni dal giorno dello sbarco nel luogo di assunzione successivamente alla
cessazione o alla risoluzione per contrasto con l'art. 3 Costituzione». Il giudice, nel rimettere
il giudizio innanzi alla Corte Costituzionale, ha precisato che «nel nuovo contesto
normativo la non decorrenza del termine prescrizionale in corso di rapporto confligge
persino con l'originaria ratio della disposizione che come osservato dalla Corte Costituzionale
n. 98/1973 mirava a tutelare l'interesse delle imprese di navigazione aerea a una
rapida definizione dei rapporti di debito-credito» e che «l'attuale realtà delle imprese
di navigazione aerea impedisce di ravvisare una ragionevole giustificazione della regola
». Ha affermato, inoltre, il giudice che «la regola di non decorrenza della prescrizione
in costanza di rapporto di lavoro appare anch'essa di dubbia coerenza coi principi fondanti
di un evoluto consesso civile che ritiene invece differito sine die anche per decenni
con effetti disfunsionali sul diritto alla prova e lesivi di ogni concreta possibilità di reciproco
affidamento oltre che possibile fonte per il datore di lavoro di gravi ingiustificate
e imprevedibili conseguenze sul piano patrimoniale con negativi riflessi sulla corretta e
sana gestione dell'impresa e con potenziale danno anche per tutti i lavoratori occupati».
Outsourcing - Consenso
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un lavoratore chiedeva al Tribunale di Roma di accertare l'illegittimità della propria assegnazione a una unità produttiva, oggetto
di successiva esternalizzazione, e il ripristino del rapporto di lavoro in capo all'originario
datore di lavoro. Le società convenute si costituivano chiedendo il rigetto delle
domande avanzate dal dipendente e affermando che tra le parti era stato posto in essere
un trasferimento d'azienda. Il giudice, accogliendo le richieste del ricorrente, ha affermato
che la creazione di una società effettuata appositamente per acquisire un certo numero
di lavoratori, prima dipendenti di un'altra società , che di fatto continuano a prestare
la stessa attività lavorativa precedente, induce a ritenere che non ci si trovi di fronte
a una cessione di ramo d'azienda, nel senso voluto dal legislatore con l'art. 2112 cod.
civ., ma a una vera e propria cessione dei lavoratori, che come tale richiede per perfezionarsi
il consenso degli stessi ai sensi dell'art. 1406 cod. civ.
Trasferimento di ramo d'azienda - Condotta antisindacale - Sospensione di efficacia del trasferimento d'azienda
Con ricorso ex art. 28 legge n. 300/70 le OO.SS. convenivano in giudiziole società
Zuritel Spa e Innovaconsulting Srl, rispettivamente società cedente e società cessionaria,
affinché venisse accertata la condotta antisindacale posta in essere al momento del
trasferimento d'azienda per violazione dell'art. 47 legge n. 428/90 e per l'effetto chiedevano
che venisse dichiarata la nullità del contratto di trasferimento. Assumevano le rappresentanze
sindacali ricorrenti che la sola cedente aveva provveduto a effettuare le comunicazioni
richieste per legge a tutte le sigle sindacali mentre la cessionaria si era limitata
a informare la sola Fisac-Cgil. Il giudice, dichiarando la condotta antisindacale della
sola società cessionaria, ha affermato che le comunicazioni di trasferimento d'azienda
non rappresentano una mera formalità procedurale priva di importanza sostanziale.
L'assenza della società cessionaria alle consultazioni con le Oo.Ss. appare sintomatica
del fatto che ci si trovi di fronte non a una cessione di ramo d'azienda tra due società di
«pari grado», che garantiscano ai dipendenti una stabilità lavorativa analoga, bensà di
fronte a un'esternalizzazione di lavoratori verso una società che, per dimensioni e natura,
non fornisce le medesime garanzie della cedente. Ciononostante, tale condotta non
comporta la nullità del contratto di trasferimento essendo sufficiente sospenderne l'efficacia
al fine di rinnovare la procedura prevista dall'art. 47 legge n. 428/90.
Lavoro temporaneo - Insussistenza - Subordinazione - Sussistenza
La sig.ra T. P. conveniva in giudizio la società cooperativa Tribù a r.l.per far accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La società convenuta si costituiva in giudizio contestando la domanda della lavoratrice e sostenendo
in particolare che le prestazioni della T. P. avevano avuto natura occasionale in
quanto richieste solo per sopperire a esigenze gestionali. Il Tribunale di Lanciano, nell'accogliere
il ricorso, accertata la durata della prestazione lavorativa di natura subordinata
superiore a dodici giorni, ha ritenuto l'assenza dei presupposti formali e sostanziali
previsti dal d.lgs 368/01 nel contratto concluso tra le parti, in quanto carente dell'indicazione
del termine della prestazione lavorativa e della specificazione delle ragioni di carattere
produttivo, organizzativo o sostitutivo.
Violazione divieto intermediazione - Sussistenza
Il sig. T. G. conveniva in giudizio le società Metalsangro Spa e S.L.A. Srlper far accertare
la nullità del contratto di formazione ' lavoro concluso con la S.L.A. Srl per violazione
del divieto di intermediazione previsto dalla legge 1369/60, con richiesta di costituzione
di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società Metalsangro Spa.
Le società convenute, costituitesi in giudizio, contestavano la domanda del lavoratore. Il
Tribunale di Lanciano nell'accogliere la domanda del ricorrente ha ritenuto che, al di là
della titolarità formale del rapporto in capo alla S.L.A. Srl, la società interponente Metalsangro
Spa avesse organizzato e gestito le prestazioni del ricorrente a proprio rischio,
con esercizio di poteri e posizioni tipiche del rapporto di lavoro subordinato, con diretta
appropriazione del risultato dell'attività del T.G.
Dall'accertamento della violazione della legge 1369/60 ne è derivata la novazione legale
del rapporto mediante la sostituzione soggettiva dell'interponente all'interposto e
quella oggettiva del contenuto economico e normativo tipico dei contratti di lavoro dell'imprenditore
reale. Il Tribunale di Lanciano ha quindi accertato la costituzione del rapporto
sin dall'inizio con l'imprenditore interponente.
Dirigenti industriali - Impugnazione licenziamento - Rapporto tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario
Un dirigente industriale ha impugnato il licenziamento avanti il Collegio arbitrale previsto dal contratto di categoria.Il lodo ha degradato il licenziamento
dalla tipologia fondata dalla giusta causa a quella fondata sul giustificato motivo. Tale
lodo è stato impugnato per errori di diritto e di valutazione dei fatti e per la prima volta
avanti il giudice è stata proposta domanda di accertamento di nullità del recesso perché
fondato su motivi discriminatori. Il Tribunale di Firenze ha precisato che gli errori
per cui può essere impugnato un lodo emesso da un Collegio arbitrale libero sono solo
quelli «precettivi di diritto attinenti alla erronea supposizione di esistenza di una norma
che non vi è ragione di escludere dall'area dell'impugnabilità per vizi della volontà ». Il
Tribunale ha poi ritenuto ammissibile, anche se proposta per la prima volta avanti il Tribunale
in sede di impugnazione del lodo, la domanda di accertamento che il licenziamento
fondato su motivi discriminatori poiché essa implica, se accolta, la declaratoria
di nullità del recesso, per cui non può essere ritenuta mai tardiva.
Trattamento di fine rapporto - Disciplina contrattuale
La Corte d'Appello di Roma ha applicato per la prima volta l'art. 420-bis.La decisione
è stata pronunciata in una controversia fra l'Istituto Poligrafico e Zecca dello
Stato e l'impiegato Alessandro F., avente a oggetto la computabilità , ai fini della determinazione
del Tfr, dei compensi percepiti per lavoro straordinario e del compenso
«carta valori». In seguito all'accoglimento, nel giudizio di primo grado, della domanda
proposta dal lavoratore, l'Ipzs ha proposto appello sostenendo che per il periodo successivo
al maggio 1982, la contrattazione collettiva aveva escluso la computabilità dei
compensi nel Tfr.
Sul punto la Corte, all'udienza del 21 marzo 2006 ha pronunciato una «sentenza di interpretazione
ex art. 420-bis, primo comma, cod. porc. civ.», dando lettura del seguente
dispositivo: «Decidendo ai sensi del combinato disposto degli artt. 359 e 420-bis, primo
comma, cod. porc. civ., ritenuta la necessità di risolvere in via pregiudiziale l'interpretazione
della contrattazione collettiva applicata tra le parti, cosà provvede: dichiara che il
combinato disposto delle clausole contrattuali applicate tra le parti per le ragioni interpretative
di cui in motivazione, deve essere inteso nel senso che il Tfr deve essere calcolato
con il computo dei compensi percepiti per lavoro straordinario e del compenso 'carta
valori».
Esigenze sostitutive - Specificità delle ragioni
Una lavoratrice adiva il Tribunale di Roma affinché venisse accertata l'inefficacia del termine apposto a due contratti di assunzione sottoscrittisotto la vigenza del d.lgs 368/01. In particolare, la ricorrente riteneva che l'indicazione della mera
esigenza di «sostituzione di lavoratrice in maternità » non rispettasse i paramentri di specificità
richiesti dalla nuova normativa in materia di contratti a tempo determinato essendo
necessario a tal fine l'indicazione del soggetto sostituito.
Il giudice, nel rigettare le richieste della lavoratrice, ha affermato che, al fine di potere ritenere
rispettato il dettato dell'art. 1, comma 2, del d.lgs 368/01 è sufficiente la mera indicazione
della finalità perseguita dall'azienda senza ulteriori requisiti e in particolare
senza le limitazioni contenutistiche contemplate dall'art.1, comma 1, lett. b della legge n.
230/1962, tenuto altresà conto dell'abrogazione espressa dell'intera precedente normativa.
Ha ritenuto il Giudicante che, ai sensi dell'art.1 del d.lgs 368/01, non è necessario,
per la valida apposizione del termine al contratto di lavoro, l'indicazione del nome del lavoratore
o dei lavoratori sostituiti, potendo l'esigenza sostitutiva essere riferita alla posizione
di più soggetti.
Lavoro cooperativo - Qualificazione della fattispecie - Regime assicurativo e contributivo applicabile
Nel procedimento di qualificazione della fattispecie lavoro subordinato,persiste
il principio di prevalenza della realtà concreta, quale cioè effettivamente svoltosi tra le
parti, rispetto al nomen iuris formalmente attribuitogli. Vero è che in alcuni settori si registra
da parte sia della dottrina, sia della giurisprudenza una crescente valorizzazione della
volontà delle parti; in particolare si tende ad accordare rilevanza prioritaria alla volontà
contrattuale in tutte le ipotesi di comprovata parità di forza negoziale fra le parti. La ricerca
della natura subordinata/autonoma del rapporto di lavoro muove dunque da una rinnovata
attenzione alla componente negoziale volontaristica, pur sottoposta al vaglio della
prevalenza della realtà fattuale. Pertanto, il giudice, valorizzando, in relazione alla specificità
del progetto lavorativo femminile nel settore dei servizi sociali, l'espressione di una
forte volontà delle donne interessate contraria all'assunzione del vincolo della subordinazione,
ha ritenuto legittima, anche in concomitanza di una serie confermativa di indici
tipologici, l'instaurazione di forme di collaborazione coordinata e continuativa.
La pronuncia si segnala, soprattutto, per il superamento delle implicazioni che da tempo
la giurisprudenza di legittimità traeva sul piano assicurativo-contributivo, nel configurare
le società cooperative quali datori di lavoro anche nei riguardi dei loro soci che
impiegano in lavori da esse assunti, a prescindere dalla effettiva sussistenza di un rapporto
di lavoro subordinato (si richiamano Cass. 2003/nn. 3053, 3491, 4767, 5351,
16676). Si ritiene, infatti, che la fattispecie si inserisca nelle coordinate concettuali oggi
imposte dalla evoluzione del sistema normativo, dovendosi rigettare l'incondizionata
fictio iuris di equiparare in ogni caso, ai fini assicurativo-previdenziali, la posizione
del socio lavoratore a quella del lavoratore dipendente, in particolare escludendola
quando debba applicarsi il regime assicurativo-contributivo proprio del tipo di lavoro
effettivamente prestato (nella specie il regime di gestione separata). In tal senso si
richiamano Cass. S.U. 2004/n. 13967, Sez. Lav. 2004/n. 18538; infine Sez. Lav.
2005/n. 2991.
Contratto a termine per pretesa sostituzione di lavoratori in ferie - Mancata prova del datore di lavoro: nullità del termine
Una lavoratrice ha chiesto accertarsi la nullità del termine apposto ai contratti di lavoro sottoscritti con Autostrade per l'Italiain un arco di tempo tra il
giugno 1989 e il maggio 2002, di cui il primo con durata di tre mesi motivato dalla necessità
dell'espletamento del servizio in concomitanza di assenza per ferie. La società resistente
ha eccepito, preliminarmente, l'esistenza di un mutuo consenso allo scioglimento
del rapporto, avendo la lavoratrice dichiarato la propria indisponibilità a essere
assunta con contratto a tempo determinato in replica all'ennesima chiamata al lavoro, e
avendo inoltre rilasciato delle quietanze liberatorie alla cessazione di ogni contratto a
termine. Questi comportamenti sarebbero incompatibili con la pretesa alla continuità ininterrotta
del rapporto di lavoro e implicherebbe necessariamente adesione della lavoratrice
alle disdette dei rapporti. Rispetto a tale eccezione il Tribunale ha precisato che
perché si possa parlare di una volontà rettamente formata in relazione all'oggetto di causa,
occorrerebbe che la ricorrente fosse a conoscenza della supposta costituzione di un
rapporto a tempo indeterminato: «e pertanto ogni manifestazione di volontà della ricorrente,
sia essa espressa o tacita, non può che produrre effetti entro l'economia dei contratti
formalmente intercorsi tra le parti, e quindi con riguardo ai diritti e facoltà in essi
contemplati». Venendo al merito, il giudice, dopo aver osservato che le ipotesi previste
dall'art. 2 del contratto collettivo si aggiungono a quelle già previste dalla legge, e conseguentemente
escluso che sia richiesto il requisito dell'indicazione, nel contratto di lavoro
a termine, del nome del lavoratore sostituito e della causa della sostituzione, ha peraltro
ritenuto «che debba essere fornita la prova delle necessità di espletamento del
servizio in concomitanza di assenza per ferie, e cioè del nesso causale tra le assenze per
ferie e l'assunzione a termine». Ciò premesso, ha ritenuto non provata la causale invocata,
in quanto nessuno dei tabulati relativi alla stazione presso la quale era stata addetta
la lavoratrice riguardava il periodo contemplato nel primo contratto a termine, e
che doveva considerarsi generica la prova testimoniale richiesta «perché non viene fornita
alcuna informazione sul numero di ore lavorate, sul numero e sull'identità dei lavoratori
assenti e sostituiti». Conseguentemente ho dichiarato nullo il termine apposto al
primo contratto e che il rapporto doveva ritenersi a tempo indeterminato sin dall'inizio,
condannando la società al pagamento della retribuzione a far data dalla notifica del ricorso
introduttivo del giudizio.
Imposizione di fruizione di ferie arretrate e Rol maturati - Diritto del lavoratore al preavviso - Sussiste
A una lavoratrice ' che è a capo di uno degli uffici amministrativi di un'impresa metalmeccanica' una certa mattina viene imposto di lasciare immediatamente il servizio
e di fruire delle ferie arretrate (in ragione di 37,5 ore) e dei Rol maturati (in ragione di
195 ore). La lavoratrice reagisce con un ricorso d'urgenza, chiedendo l'immediata reintegrazione
in servizio.
Il ricorso viene accolto, sul presupposto che l'imprenditore deve organizzare il periodo
delle ferie in modo utile per le esigenze dell'impresa, ma non ingiustificatamente vessatorio
nei confronti del lavoratore e dimentico delle legittime esigenze di questi. Il giudice
ha infatti considerato illegittimo e contrario all'obbligo di correttezza e buona fede il
comportamento del datore di lavoro, che «ha unilateralmente imposto le ferie senza alcun
minimo preavviso, senza nemmeno interpellare (la) dipendente sulla compatibilità
del periodo di ferie con le esigenze personali, apparentemente senza neppur nessuna
necessità aziendale». Quanto ai Rol, in base alla normativa collettiva, afferma che «in
nessun caso» è «consentito impor(ne) unilateralmente [â?¦] la fruizione».
Osservato che la lavoratrice dovrebbe restare assente per quasi 6 settimane, ne ordina
il reintegro in servizio per la «gravità » ed «irreparabilità » del danno, derivante da ciò:
' che «l'assenza non prevista e senza programmazione della lavoratrice (responsabile
dell'ufficio acquisti) in un periodo di piena attività lavorativa [â?¦] determiner(ebbe), al suo
rientro, la necessità di riorganizzare tutto il proprio lavoro, con aggravio di attività , di
stress, accumulo di problemi, di appuntamenti e di scadenze»;
' che l'imposta assenza «è lesiv(a) del ruolo e della dignità » della dipendente, «atteso
che in ambito lavorativo un allontanamento coatto di sà lungo periodo (e riservato solo a
lei) è vissuto come una precisa volontà di punire ipotetiche mancanze commesse: ne deriva
discredito nell'ambiente di lavoro e frustrazione nel lavoratore».
Contratto a termine di giornalista professionista - Infondatezza della causale indicata
Il Tribunale di Bologna ha dichiarato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminatodal 14.12.2000 di un giornalista che aveva prestato
la sua attività con quattro contratti a termine stipulati nell'arco di un anno con la Poligrafici
editoriale, ordinando alla società di rassegnare il lavoratore nel proprio posto
presso la redazione maceratese de Il Resto del Carlino con le mansioni precedentemente
svolte, condannandola a pagargli le retribuzioni dovute per la qualifica di redattore ordinario
dal 14.12.2000, detratte le somme già corrisposte. La società ha proposto appello
eccependo, da un lato, l'inammissibilità della domanda per aver nel frattempo ottenuto
il riconoscimento di altro rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con
altra testata giornalistica dal 5.10.1998, e dall'altro negando la finalità elusiva della legge
n. 230/1962 in quanto ogni contratto sarebbe stato stipulato con una diversa motivazione:
non poteva quindi, per questo, ravvisarsi la volontà di una surrettizia integrazione
dell'organico della redazione di Macerata, non desumibile neppure dalla stipulazione
di un altro contratto di collaborazione autonoma per meno di due mesi. Esaminando
i singoli contratti, il Tribunale aveva ritenuto legittimo il primo, stipulato per sostituire
un giornalista ammalato, mentre aveva ravvisato l'illegittimità del secondo, per
violazione dell'art. 23 legge 56/1987 e dell'art. 3 del c.c.n.l.g., che consente l'apposizione
del termine «nella fase di avviamento di nuove iniziative editoriali» in relazione alle
«nuove iniziative editoriali connesse alla fase di avviamento del tabloid», evidenziando
che per le Marche la fase connessa all'avviamento del tabloid era iniziata nel febbraio
2000, mentre tale contratto era del 14.12.2000. Il Tribunale aveva infine ravvisato l'illegittimità
del terzo contratto (in quanto proroga del primo e fondato sugli stessi motivi) e
del quarto, stipulato per sostituire lavoratori in ferie perché, contrariamente a quanto
previsto dall'art. 23 cit., il c.c.n.l. non aveva previsto la percentuale dei lavoratori da poter
assumere a tempo determinato rispetto al numero di quelli a tempo indeterminato.
La Corte, rispetto all'accertamento di altro rapporto giornalistico, ha innanzi tutto evidenziato
non sussistere la prova che sia divenuta definitiva la sentenza con cui è stato
accertato un rapporto con altra testata sin da prima dell'instaurazione di quello oggetto
di causa. «A questo si aggiunga ' precisa la Corte ' che la sussistenza dei due rapporti
non è motivo di illiceità di alcuno degli stessi, potendo solo eventualmente venire in rilievo
per le future determinazioni delle parti in ordine alla relativa prosecuzione». Quindi
non vi sarebbe violazione dell'art. 8 del c.c.n.l.g. ' il cui primo comma pone il divieto
di contrarre più di un rapporto a tempo pieno disciplinato dall'art. 1 dello stesso c.c.n.l.
' in quanto tale divieto viene in rilievo «nei rapporti tra le parti e segnatamente in ordine
alle determinazioni che le stesse ' come già evidenziato ' vorranno eventualmente
assumere per la prosecuzione dei rapporti in questione». Per quanto concerne la riconducibilità
dell'adozione del formato tabloid tra le nuove iniziative editoriali cui fa riferimento
l'art. 3 del c.c.n.l.g., la Corte ha ritenuto infondato il motivo d'appello ' confermando
quindi la sentenza di primo grado ' dal momento che il riferimento alla fase di avviamento
di nuove iniziative editoriali «porta a ritenere che la stessa non possa estendersi
sino al dicembre successivo, soprattutto ove si consideri che normalmente ogni fase
di avviamento presuppone anche un'estensione temporale precedente il lancio dell'iniziativa:
in altri termini, se l'adozione del formato tabloid presso la redazione di Macerata
è intervenuta nel febbraio 2000, il relativo avviamento non può che essere iniziato
prima». Pur ritenendo assorbiti gli ulteriori motivi di appello sollevati in ordine alla legittimità
degli altri contratti a termine, la Corte osserva anche che pure la proroga del contratto
a termine con originaria scadenza al 31.3.2001 è da ritenersi comunque illegittima,
perché intervenuta per le stesse esigenze ' l'avviamento di una nuova iniziativa editoriale
' già sussistenti al momento della stipulazione del contratto prorogato, contrariamente
a quanto prevedeva la legislazione dell'epoca (cfr. Cass. 12.7.2002, n. 10189; cfr.
pure Cass. 15.5.2001, n. 6689). Conclusivamente la Corte ha confermato parzialmente la
sentenza del Tribunale dichiarando la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato dal 14.12.2000, condannando la società al «risarcimento del danno
in misura pari alle retribuzioni che, quale redattore ordinario, avrebbe maturato se avesse
potuto rendere dette prestazioni».
Solo, però, a partire dal 13.11.2001, data di notifica di un ricorso ai sensi dell'art. 700 cod.
proc. civ. con il quale il lavoratore ha offerto le proprie prestazioni lavorative. La sentenza,
pur riguardando la legislazione precedente quella attuale (d.lgs. n. 368/2001) assume
importanza alla luce della recente giurisprudenza della Suprema Corte, e in particolare
della sentenza Cass. 21 maggio 2002 n. 7868 che ' in conformità con quanto previsto
dalla Direttiva Ce 99/70 ' ha ribadito il principio per cui il contratto di lavoro per sua
natura non è a termine, ma a tempo indeterminato, e anche di Cass. S.U. n. 4588 del 2
marzo 2006, secondo cui «il richiedere la forma scritta delle ragioni giustificatrici del contratto
a termine (di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo)â?¦» ha il
«chiaro fine di agevolare il controllo giudiziario (chiamato a sostituire quello sindacale
che si concretizzava nella tipicizzazione delle diverse forme di assunzione al lavoro) sull'operato
del datore di lavoro (cfr. al riguardo: art. 1 comma 2, d.lgs. n. 368 del 2001)».
In sostanza resta ' ancora oggi ' attribuito al giudice il potere di sindacare la legittimità
e rispondenza al vero della causale indicata nel contratto a termine.
Contratto a termine - Riferimento generico ad accordo interconfederale che prevede più causali
Il Tribunale di Rimini ha respinto la richiesta di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminatodi un dipendente,
ritenendo che il contratto fosse stato legittimamente stipulato a termine ' per una
delle ipotesi, aggiuntive rispetto a quelle dell'art. 1 legge 230/62, previste, ai sensi dell'art.
23 legge 56/97, dall'art. 10 dell'accordo interconfederale 18.12.88 ' e per la durata
di sei mesi, nonostante che nella copia in suo possesso fosse indicato un termine trimestrale,
rilevando a tale riguardo che la durata semestrale del termine pattuito si ricavava:
da un telefax dell'agosto 1996 con il quale il lavoratore aveva dichiarato la propria disponibilità
a essere assunto per mesi 6 più 6; dall'indicazione del termine semestrale
nella successiva lettera di assunzione, consegnata al dipendente dopo la sottoscrizione
del contratto; dalla comunicazione effettuata dalla società all'ufficio di collocamento;
dall'indicazione, nel contratto, di un periodo di prova di tre mesi, che contrastava con un
termine di pari durata perché lo avrebbe interamente esaurito. Il primo giudice ha poi ritenuto
legittima la proroga ' oralmente comunicata al lavoratore ' a fronte dell'incremento
degli ordini verificatisi agli inizi del 1997, in quanto ha ravvisato negli stessi le ragioni
contingenti e imprevedibili richieste dall'art. 2 della legge 230/62, e ha tratto conferma
del consenso del lavoratore dalla disponibilità da questi manifestata ' nell'agosto
precedente ' a lavorare per un periodo di mesi 6 più 6; ha quindi ravvisato all'1.9.97 la
naturale scadenza del rapporto e non un illegittimo recesso della società . A seguito di impugnazione
della sentenza da parte del lavoratore, la Corte d'Appello di Bologna ha in
primo luogo osservato che, pur sussistendo astrattamente, in presenza di determinate
condizioni, la possibilità di stipulare un contratto a termine anche in applicazione di un
accordo interconfederale (Cass. 25.2.2005 n. 4025; cfr. pure Cass. 23.3.2002 n. 4199) nel
caso specifico la società aveva richiamato, nel contratto di assunzione, l'art. 10 dell'Accordo
interconfederale del 18.12.1988, senza peraltro indicare di quale delle tre ipotesi '
A), B) o C) ' previste da tale articolo ricorresse nella fattispecie. A questo si aggiunga che
l'indicazione di un termine trimestrale nel contratto di assunzione sottoscritto dalle parti
in possesso del lavoratore non può ritenersi frutto di un errore, desumibile dalla diversa
indicazione di un termine semestrale nella copia dello stesso contratto in possesso
della società datrice di lavoro, soprattutto ove si consideri che quest'ultima è stata
corretta dopo la sottoscrizione, senza avvisare il lavoratore. Né può rilevare ' sempre secondo
la Corte ' la disponibilità originariamente prestata dal lavoratore con il fax del 6 agosto
1996 «perché nessuna delle parti ha mai dedotto che il contratto poi sottoscritto il
2.9.1996 fosse la mera riproduzione di un contratto già perfezionato» in quanto una simile
ricostruzione teorica «oltre a sottolineare l'assenza di una causa legittimante la valida
apposizione di un termine inferiore a quello annuale oggetto di dette intese, soprattutto
rende non solo prevedibile, ma addirittura prevista, la successiva proroga, con la
conseguente violazione [â?¦] di quanto disposto dagli artt. 1 e 2 legge 230/62». Conseguentemente
la Corte ha riformato la sentenza di primo grado, stabilendo la sussistenza
di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato a partire dal 2.9.1996 e riconoscendo il
diritto del lavoratore a percepire, a titolo risarcitorio, un importo pari alle retribuzioni
spettanti a far data dalla lettera con cui, contestando la comunicazione della cessazione
del rapporto, ha specificatamente offerto la sua prestazione lavorativa.
Prescrizione e tenativo di conciliazione
La Corte di Cassazione nell'affrontare gli effetti della comunicazione del tentativo di conciliazione obbligatoriosulla prescrizione e sulla decadenza ha ritenuto che la mera presentazione
della richiesta in assenza di una comunicazione non può avere
gli effetti interruttivi della prescrizione e sospensivi della decadenza che vengono, viceversa,
rimessi alla comunicazione dell'atto alla controparte.
In assenza di siffatto ulteriore adempimento non potranno realizzarsi quindi gli effetti sostanziali
stabiliti dalla norma.
L'analisi del carattere nazionale di una organizzazione sindacale è legata alla verifica dell'ambito di attività
Nell'ambito di un procedimento per la repressione della condotta antisindacalela società convenuta eccepiva l'assenza del requisito della diffusione nazionale all'associazione
ricorrente. La Corte di Appello di Roma respingeva l'eccezione rilevando
che l'associazione aveva fornito prova di una diffusione capillare nel territorio nazionale.
La Suprema Corte investita del gravame ha accolto il ricorso di legittimità della società
rilevando, sulla base di una analisi della giurisprudenza in materia di legislazione di sostegno
e richiamando uno specifico recente precedente (RGLNews 1/2006), che il carattere
nazionale dell'associazione è un dato attinente non solo alla mera dimensione territoriale,
ma anche all'attività in concreto svolta dalla stessa associazione che deve avere
un orizzonte nazionale e non locale. Rileva, infatti, la Suprema Corte che la ragione giustificatrice
sottesa alla limitazione della legittimazione dell'art. 28 è anche sostanziale
(legata all'attività del sindacato e agli interessi collettivi tutelati) e non già solo formale
(discendente dalla mera dislocazione del sindacato sul territorio). Conclude quindi la
Corte che proprio l'esigenza di verifica una sostanziale attività a carattere nazionale che
rende la legittimazione nazionale compatibile con il principio di uguaglianza e con quello
di libertà dell'iniziativa sindacale.
Lavoro temporaneo - Successione di contratti - Differenze retributive
Con ricorso avanti il giudice del Lavoro un lavoratore esponeva di aver prestato la propria attività alle dipendenze della Società convenutain forza di successivi
contratti di lavoro a tempo determinato, venendo utilizzato presso un'azienda operante
nel settore tessile. Ritenendo pertanto nella fattispecie applicabile, anche per espressa
ammissione della Società convenuta, l'applicabilità del c.c.n.l. Settore tessile, il
lavoratore reclamava la maturazione di alcuni crediti di lavoro per una errata quantificazione
del calcolo della retribuzione dovutagli nel periodo lavorativo. La resistente opponeva
una diversa quantificazione delle differenze retributive rivendicate, alla luce del fatto
che dalla lettura congiunta della legge 196/97 e del c.c.n.l. Lavoratori interinali si evinceva
che, pur a fronte di una equivalenza tra trattamento retributivo dei lavoratori interni
con quelli interinali, era prevista una differente modalità di calcolo per i secondi (su
base oraria) rispetto ai primi (mensilizzata). Il ricorrente quindi andava semmai creditore
di un minor credito, avendo egli erroneamente effettuato i conteggi su base mensilizzata.
Veniva pertanto disposta Ctu contabile per accertare se il ricorrente avesse ricevuto
l'esatta retribuzione spettante in base al disposto del c.c.n.l. Tessile industria e della
clausola del c.c.n.l. Lavoro temporaneo.
Il giudice del lavoro rilevava che ai sensi del c.c.n.l. Lavoratori interinali, ai lavoratori dipendenti
da imprese fornitrici è riconosciuto il diritto a un trattamento economico e normativo
complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell'impresa
utilizzatrice, inquadrati al corrispondente livello secondo la contrattazione collettiva
applicata alla stessa. Poiché, come sottolineato dal Ctu, nella contrattazione collettiva di
settore la retribuzione per i lavoratori è calcolata su base fissa mensile, senza alcuna riparametrazione
rispetto all'orario effettivamente prestato, se ne deve desumere secondo
il giudice che il calcolo del trattamento retributivo spettante al lavoratore dovesse essere
effettuato su base mensilizzata e non su base oraria come sostenuto dalla convenuta.
Per tale motivo, sulla base della quantificazione del credito esposta dal Ctu, è stata
disposta la condanna della Società di lavoro interinale alla corresponsione delle relative
somme, oltre interessi, rivalutazione e spese.
Rivalutazione contributiva per amianto - Inapplicabilità delle disposizioni del dl n. 269/03 alle cause avviate in precedenza
La causa rientra nell'ambito di un ampio filone di controversie instaurate per l'applicazione dell'art. 13 comma 8 legge n. 257 del 1992,che prevede la maggiorazione
dei periodi contributivi di esposizione all'amianto, mediante applicazione del moltiplicatore
dell'1,5 per ogni anno di esposizione. Il lavoratore aveva proposto ricorso avanti
al Tribunale di Ferrara nel 2001, dichiarando di essere rimasto esposto all'amianto
nello svolgimento delle sue mansioni alle dipendenze della Casaralta Spa (oggi Firema
Trasporti Spa: «Notissima azienda ' per usare le parole della Corte d'Appello di Bologna
' che si occupava della fabbricazione e manutenzione di carrozzerie ferroviarie e può ritenersi
ormai acquisito al notorio che, almeno fino all'entrata in vigore della normativa
sull'amianto, nel nostro come in altri paesi, l'amianto era massicciamente impegnato per
la coibentazione di tali carrozze») e chiedendo che gli venissero riconosciuti i benefici
previsti dalla citata legge da parte dell'Inps. Il Tribunale, affermato il difetto di legittimazione
passiva dell'Inail, aveva rigettato il ricorso, ritenendo che la legge invocata fosse
diretta a vantaggio soltanto di coloro che erano stati impegnati in operazioni di dismissioni
delle lavorazioni comportanti l'uso dell'amianto, nelle quali il ricorrente non risultava
coinvolto. Su ricorso del lavoratore la Corte riesamina l'intera vicenda alla luce delle
intervenute pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, nonché
delle modifiche legislative, dando una interessante lettura interpretativa.
Secondo il dibattito dottrinario e giurisprudenziale svoltosi in materia si è giunti, sulla
scia della Corte Costituzionale che ha configurato ' nella sentenza n. 5 del 2000, ribadendolo
con la sentenza n. 127 del 2002 ' una nozione di esposizione all'amianto qualificata,
il convincimento che non può, in alcun modo, essere sufficiente il mero dato temporale
dell'esposizione medesima, ma va strettamente vincolata al ricorrere della soglia
limite del rischio di esposizione.
La Corte conseguentemente critica quella giurisprudenza che non ritiene necessario l'accertamento
dei limiti di concentrazione previsto dal d.lgs. n. 277/91 (richiamato dall'art.
3 legge n. 257/1992) al di sotto del quale le fibre di amianto devono considerarsi «respirabili
» nell'ambiente di lavoro, tanto da non obbligare all'adozione di misure protettive
specifiche (n.d.r.: anche se, per la scienza medica, non esiste una soglia al di sotto della
quale l'amianto possa essere considerato respirabile).
Il giudice deve quindi, avuto riguardo alla singola collocazione lavorativa ' nel rispetto
dei criteri di ripartizione dell'onere della prova, ma anche avvalendosi anche dei poteri
d'ufficio a esso riconosciuti dal rito del lavoro ' verificare la sussistenza di due requisiti:
1) se l'ambiente in cui si svolgeva la prestazione lavorativa presentava una concentrazione
di polveri superiore ai valori limite indicati; 2) l'esistenza di una esposizione a quel
rischio «qualificato» per un periodo superiore a dieci anni, «con l'avvertenza che nel periodo
in questione dovranno essere computate le pause fisiologiche di attività (riposi, ferie,
festività ) che rientrano nella normale evoluzione del rapporto di lavoro» (Cass. n.
997/02). In tale accertamento non assume carattere vincolante il contenuto delle dichiarazioni
(eventualmente) rilasciate dall'Inail o dal datore di lavoro (v. Cass. n. 997/02
e anche Cass. n. 2677/02).
Il quadro normativo ha peraltro negli ultimi anni subito alcune modificazioni. In particolare
l'art. 47 comma 3 del d.l. n. 269/03, convertito nella legge n. 269/03, ha previsto che
per usufruire dei benefici di cui si tratta, l'esposizione all'amianto deve essere stata «in
concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre/litro come valore medio su otto ore
al giorno». La legge di conversione ha, in parte mitigato il contenuto del comma 3, escludendone
la sua applicazione retroattiva per coloro che alla data del 2 ottobre 2003 abbiano
maturato il diritto di trattamento pensionistico anche in base ai benefici previdenziali
di cui all'art. 13, comma 8 della legge n. 257/92, nonché per coloro che alla stessa data
usufruiscano dei trattamenti di mobilità ovvero che abbiano cessato il rapporto per
pensionamento. A risolvere ogni dubbio in ordine alla efficacia retroattiva o meno delle disposizioni
contenute nel d.l. n. 269/03 è poi intervenuto l'art. 3 comma 132 della legge 24
dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria). Tale ultima norma, pur proponendosi l'evidente
funzione di limitare gli effetti sui conti pubblici del contenzioso sviluppatosi nel decennio
precedente, ha peraltro stabilito che la normativa introdotta nel 2003 non trova applicazione
per coloro «che hanno avanzato la domanda di riconoscimento all'Inail o che ottengano
sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data».
La Corte d'Appello di Bologna, rilevando che nel caso di specie in cui il contenzioso aveva
avuto origine in epoca anteriore all'ottobre 2003, ha cosà appurato, innanzi tutto, che
l'appellante «può continuare ad avvalersi della più favorevole disciplina contenuta nelle
previgenti disposizioni anche ' se non soprattutto ' in ordine al requisito della intensità
della esposizione» ritenendo, a tale proposito, che «l'onere probatorio a suo carico dovrebbe
risultare meno gravoso, potendosi pervenire alla conclusione del superamento
della soglia prevista dal d.lgs. n. 277 del 1991 non solo sulla base delle indagini ambientali
' se esistenti ' ma anche mediante un meccanismo presuntivo ai sensi degli artt.
2727 e ss. cod. civ. [â?¦] avendo come riferimento, per risalire al fatto ignorato e, cioè, alla
quantità di fibre di amianto disperse nell'ambiente per ogni turno di lavoro, sia le risultanze
delle prove documentali (ad esempio relazioni ispettive, prescrizioni da parte
delle pubbliche autorità addetta alla vigilanza, esperienza tecnica e quant'altro), sia le emergenze
della prova orale, sia le conclusioni delle indagini eventualmente affidate a un
consulente tecnico». Il Ctu nominato dalla Corte ha necessariamente preso le mosse dal
rilievo che la ditta in esame non è più attiva e che nel corso degli ultimi anni le modalità
produttive erano notevolmente mutate rispetto a quelle necessariamente da prendere in
esame, stante la decorrenza della domanda, fin dall'inizio degli anni novanta. Peraltro il
Ctu ha utilizzato come fonti di indagine le valutazioni esposte dall'organo di vigilanza territorialmente
competenti; documenti di origine aziendale, acquisite agli atti; filiera documentale
Inail, pervenendo alla motivata conclusione della esistenza, tra il gennaio
1981 e il dicembre 1993, di una «esposizione complessiva e integrata a polveri respirabili
amiantifere, pericolose per la salute, superiore al valore medio indicato quale valore
soglia per i diritto previdenziale; come indicato, tale valore, integrato nel tempo, considerando
che i valori di esposizione sono sostanzialmente variati nel tempo, appare quasi
raddoppiato (circa 2000 ff/cc x 10 anni)» cosà, in sostanza, soddisfacendo persino il più
rigoroso parametro previsto dalla normativa sopravvenuta a cui, a parere della Corte,
sfugge il caso in esame. Conseguentemente la sentenza del Tribunale di Ferrara è stata
riformata e la domanda del lavoratore accolta.
Conseguenze della mancata notifica dell'appello incidentale
Nell'affrontare gli effetti di una omessa notifica dell'appello incidentaleritualmente e tempestivamente proposto nella memoria difensiva depositata la Corte di
Cassazione ha precisato che la sanzione della decadenza si verifica solo nell'ipotesi di
mancata tempestiva costituzione e non già nel caso cui alla stessa non si accompagni anche
la notifica del gravame.
In assenza della notifica il giudice di appello, osserva la Suprema Corte, rilevata la tempestività
della costituzione dovrà concedere un ulteriore termine per consentire all'appellante
incidentale il perfezionamento del gravame.
La Corte di Cassazione fornisce una nozione della condotta mobbizzante
Un lavoratore di un istituto bancario adiva il locale giudice del lavoro lamentando una condotta mobbizzanteconsistita in una serie di comportamenti posti in essere
dall'azienda nel corso del rapporto e in particolare sostanziatesi in un illegittimo trasferimento,
in una serie di visite mediche di controllo, nell'attribuzione di note di qualifiche
insufficienti, nell'applicazione di sanzioni ritenute illegittime e nell'abilitazione a operare
al pc. I giudici di merito, pur ritenendo illegittime alcune delle condotte aziendali,
hanno rigettato la domanda escludendo il carattere persecutorio e unitario dei comportamenti
dedotti dal lavoratore. La Corte di Cassazione ha respinto il gravame ritenendo
corretta la valutazione della Corte di Appello che aveva congruamente escluso la sussistenza
di un unitario disegno teso a ledere il lavoratore nei comportamenti evidenziati.
Nello sviluppo della propria decisione la Corte di Cassazione nel condividere la motivazione
dei giudici di merito qualifica la condotta mobbizzante ritenendola una condotta sistematica
e protratta nel tempo che per le sue caratteristiche concrete una lesione dell'integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore. Tale comportamento illecito '
prosegue la Corte ' si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del
datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali
previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione
del bene protetto e delle conseguenze dannose ' prosegue la Corte ' deve essere verificata
considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro che può essere
dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo dalle sue caratteristiche
oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specialmente da una connotazione
emulativa e pretestuosa, anche in assenza di una violazione di specifiche norme
di tutela del lavoratore.
Il carattere politico-sindacale dell'attività lavorativa svolta non esclude la subordinazione della prestazione
Un dirigente sindacale di una organizzazione sindacale adiva il Pretore di Santa Maria Capua Vetereal fine di vedere accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato. Nel costituirsi in giudizio l'organizzazione sindacale rilevava che il lavoratore
aveva svolto nel tempo incarichi di carattere politico-sindacale nell'ambito dell'ufficio
di presidenza di cui aveva fatto parte.
I giudici di merito, ritenuta la sussistenza di un rapporto continuativo con caratteristiche
di dipendenza, accoglievano parzialmente la domanda del lavoratore.
La Corte di Cassazione nel confermare la decisione del giudice di appello ha quindi ribadito
che nulla osta a che un dirigente politico o sindacale sia anche lavoratore dipendente
dell'organizzazione alla quale appartiene, una volta accertati i requisiti della collaborazione
e della subordinazione.
La Cassazione ritorna sulla nozione di dirigente convenzionale
Nell'ambito di un giudizio promosso da un dirigente innanzi al Tribunale di Ancona teso ad accertare l'avvenuta dequalificazione professionalela Corte di Cassazione
ha ritenuto corretta la decisione della locale Corte di Appello che aveva escluso
la configurabilità di una concreta dequalificazione ritenendo il carattere convenzionale
della categoria assegnata al lavoratore.
A fronte del c.d. dirigente apicale qualificabile in termini di alter ego dell'imprenditore i
giudici di legittimità hanno, infatti, ricordato che l'evoluzione della giurisprudenza ha
permesso l'ingresso del c.d. dirigente convenzionale caratterizzato dal possesso di elevate
capacità professionali preposto solo a un ramo o un servizio dell'aziendale in posizione
però di non potere influenzare significativamente l'intero andamento aziendale.
La Corte di Cassazione ha quindi condiviso la motivazione della Corte di Appello marchigiana
che avava escluso la dequalificazone professionale sul presupposto che la
peculiare figura convenzionale del dirigente non era stata sostanzialmente impoverita
nel suo contenuto professionale nell'ambito del riassetto aziendale.
La Cassazione attenua il rigore in ordine alle condizioni legittimanti l'assenza alla visita di controllo
Un lavoratore, assente a causa di malattia dal posto di lavoroveniva sanzionato a fronte dell'assenza alla visita di controllo richiesta dalla società datrice di lavoro.
Nell'impugnare la sanzione il lavoratore eccepiva che l'assenza non poteva ritenersi ingiustificata
in quanto causata dalla necessità di presentarsi a una visita medica di controllo.
La Corte di Appello di Genova nel riformare la sentenza di primo grado annullava
la sanzione intimata al dipendente. La Corte di Cassazione, nel rigettare il gravame proposto
dalla società , ha dato atto della progressiva attenuazione del rigore del principio
che imponeva al lavoratore la presenza nelle c.d. fasce orarie nel proprio domicilio. Precisa,
infatti, la Corte di Cassazione che il giustificato motivo di assenza dal proprio domicilio
non si giustifica più con lo stato di necessità potendo essere costituito alla stregua
della sentenza della Corte Costituzionale 78/98 anche da una seria e valida ragione socialmente
apprezzabile quale quella di fare constatare l'eventuale guarigione.
Pensione di anzianità per i geometri
I geometri, anche se percepiscono la pensione di anzianità dalla Cassa nazionale di previdenza, possono svolgere un'altra attività .L'incompatibilità del trattamento
pensionistico di vecchiaia con l'iscrizione agli albi professionali o con un'altra attività
lavorativa, prevista dalla norma impugnata dal Tribunale di Cuneo, comprime il diritto
al lavoro e quindi deve essere dichiarata incostituzionale in ragione di una limitazione
eccessivamente gravosa e a tempo indefinito della possibilità di lavoro del geometra
titolare di una pensione di anzianità . La disposizione, nel disciplinare la pensione
di anzianità , infatti, prevedeva che la corresponsione fosse subordinata alla cancellazione
dall'Albo dei geometri e fosse incompatibile con l'iscrizione a qualsiasi altro albo
professionale o elenco di lavoratori autonomi e con qualsiasi attività di lavoro dipendente.
La Corte, nell'accogliere la questione, ha ricordato che già in altre occasioni
è stata chiamata a decidere su disposizioni analoghe a quella in esame e le ha dichiarate
tutte incostituzionali.
Disoccupazione e part-time
La Corte costituzionale ha rigettato la questione di costituzionalità in relazione alla possibilità di ottenere, in caso di contratto di lavoro part-timeverticale su base annua, l'indennità di disoccupazione per i periodi di sospensione della prestazione
lavorativa. Si chiude quindi, purtroppo negativamente, una vicenda che prende
le mosse dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 1732 del 2003) la quale
aveva composto un contrasto sorto presso i diversi Collegi della Sezione lavoro dello
stesso giudice di legittimità . A questa interpretazione restrittiva delle Sezioni Unite, tuttavia,
diversi giudici avevano opposto degli argomentati rilievi di costituzionalità tendenti
a evidenziare l'impossibilità di considerare come «involontari» i periodi di non occupazione
durante il contratto a part-time verticale su base annua, sostenendo quindi la
spettanza ' per quei periodi ' dell'indennità di disoccupazione. La Corte, nel respingere
la questione, ha sostanzialmente rifiutato la possibilità di assimilare il contratto di lavoro
stagionale (per il quale, a seguito della sentenza Corte Cost. n. 160 del 1974, era stata
prevista la possibilità di godere dell'indennità di disoccupazione al termine del periodo
lavorativo) al contratto di lavoro a part-time verticale su base annua. A parere del giudice
costituzionale, rispetto al lavoro stagionale (soggetto a tale regola), il tipo contrattuale
del tempo parziale verticale presenta sicuri elementi di differenziazione. In particolare,
nel lavoro stagionale il rapporto cessa a «fine stagione», sia pure in vista di una probabile
nuova assunzione stagionale; nel lavoro a tempo parziale verticale invece il rapporto
«prosegue» anche durante il periodo di sosta, pur con la sospensione delle corrispettive
prestazioni, in attesa dell'inizio della nuova fase lavorativa. Pertanto il lavoratore
stagionale non può contare sulla retribuzione derivante dall'eventuale nuovo contratto,
mentre il lavoratore a tempo parziale può fare affidamento sulla retribuzione per il lavoro
che presterà dopo il periodo di pausa. L'esclusione del diritto all'indennità di disoccupazione
per i periodi di mancata prestazione dell'attività lavorativa nei rapporti di
lavoro a tempo parziale verticale su base annua non vàola quindi l'art. 3 della Costituzione,
per le differenze esistenti tra le due situazioni poste a confronto. Né vàola l'art. 38 Cost.,
perché nel tempo parziale verticale il rapporto di lavoro perdura anche nei periodi di
sosta, assicurando al lavoratore una stabilità e una sicurezza retributiva, che impediscono
di considerare costituzionalmente obbligata una tutela previdenziale (integrativa della
retribuzione) nei periodi di pausa della prestazione».
Pensione diretta di privilegio dei dipendenti degli enti locali
Ai fini della pensione diretta di privilegio dei dipendenti degli enti locali per infermità ascrivibili alla prima categoria della tabella A, di cui al d.p.r. 30 dicembre 1981,
n. 824, è legittimo prevedere che l'aliquota indicata alla lettera a) del primo comma dello
stesso articolo deve essere considerata in nessun caso inferiore a 0,66667, invece che
a 0,80, cosà come previsto per i dipendenti statali dall'art. 65 del d.p.r. 29 dicembre 1973,
n. 1092. Alla luce del principio da tempo affermato dalla giurisprudenza costituzionale,
secondo cui «la regola della non confrontabilità » dei sistemi previdenziali «incontra un
limite nei casi in cui dal confronto emerga una evidente irragionevolezza», va escluso che
nella specie tale limite sia stato superato, attesa la diversità di funzione cui assolve l'aliquota
prevista dalla norma come quella evocata come tertium comparationis. Infatti,il
trattamento pensionistico diretto di privilegio dei dipendenti degli enti locali per infermità
ascrivibili alla prima categoria della tabella A, di cui al d.p.r. 30 dicembre 1981, n.
834, non può essere posto a confronto con il trattamento pensionistico privilegiato dei
dipendenti statali, di cui all'art. 65 del d.p.r. n. 1092 del 1973, poiché per i dipendenti degli
enti locali l'aliquota indicata alla lettera a) del primo comma della norma censurata
(0,66667) assicura la soglia minima di quantificazione del trattamento privilegiato, mentre
per i dipendenti statali la percentuale prevista (0,80) per il calcolo della pensione di
privilegio costituisce l'unica aliquota applicabile.
Blocco delle assunzioni nel pubblico impiego
La norma della legge finanziaria 2005 che blocca le assunzioni a tempo indeterminatofino al 2008 non è valida per il Friuli Venezia Giulia. La Corte costituzionale, nel
dichiarare illegittima la disposizione impugnata, ha chiarito che lo Statuto speciale della
Regione in questione concede a essa un'autonomia non solo nel disciplinare i propri uffici,
ma anche nell'organizzarli. La norma censurata, invece, comprimeva illegittimamente
l'autonomia regionale del Friuli Venezia Giulia imponendo limiti precisi e puntuali, limiti
che non erano in alcun modo giustificabili dall'esigenza di coordinare la spesa pubblica.
Tale esigenza, a parere dei giudici costituzionali, può essere validamente perseguita
dallo Stato prescrivendo criteri e obiettivi, ma senza imporre nel dettaglio gli strumenti
concreti da utilizzare per raggiungere quegli scopi.
Dirigenti e personale Regione Abruzzo
La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale,per contrasto
con gli artt. 51 e 97 Cost., degli artt. 35 e 39 della legge della Regione Abruzzo n. 6 del
2005 (legge finanziaria regionale 2005), nella parte in cui prevedono, rispettivamente,
che: il 60% dei posti vacanti della qualifica di dirigente sia coperto mediante concorso interno
per titoli ed esami riservato al personale della Regione (di categoria D) in possesso
di determinate anzianità e di determinati titoli (laurea e 5 anni di anzianità o laurea e diploma
di specializzazione biennale post laurea e 3 anni di anzianità ); l'acceso ai ruoli organici
del Consiglio regionale, tramite procedura concorsuale corso-concorso, sia riservato
al personale attualmente in servizio presso le Commissioni consiliari permanenti e collocato
nelle strutture regionali. La Corte ha nella specie ribadito che il «principio del pubblico
concorso costituisce la regola per l'accesso all'impiego alle dipendenze delle pp.aa.,
da rispettare allo scopo di assicurare la loro imparzialità ed efficienza. Tale principio si è
consolidato nel senso che le eventuali deroghe possano essere giustificate solo da peculiari
e straordinarie ragioni di interesse pubblico. Nel caso di specie, non sussistono ragioni
che possano giustificare una deroga al principio innanzi rammentato».
Lavoro interinale e forma scritta
Il contratto per prestazioni di lavoro temporaneo, se non formulato in forma scritta, si trasforma a tempo indeterminatoe non a termine come prevedeva fino a
oggi la Finanziaria del 2001. Cosà la Corte Costituzionale ha accolto la questione sollevata
dal Tribunale di Torino ' nel corso di un giudizio promosso da una prestatrice di lavoro
temporaneo ' che dubitava della legittimità della norma nella parte in cui aveva sostituito,
nell'art. 10 comma 2 della legge 196/97 (c.d. «legge Treu»), le parole «a tempo indeterminato
» con quelle a «tempo determinato». Il rimettente sosteneva, infatti, che dopo
l'intervento del legislatore la norma è stata completamente stravolta ed è finita per pregiudicare
il lavoratore. La Corte ha stabilito che la norma vàola il principio di ragionevolezza
(art. 3 Cost.) e quello di tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35 Cost.).
Prevedere, in caso di rapporto di lavoro temporaneo non stipulato in forma scritta, come
sanzione la sua trasformazione in contratto a termine significa tutelare il datore piuttosto
che il lavoratore, che viene cosà ulteriormente danneggiato.
Le ipotesi di contratto a termine da far individuare alle Ooss possono essere delegate anche a livelli contrattuali inferiori
Un lavoratore assunto a termine sulla base di un accordo aziendaleche permetteva
l'assunzione di lavoratori a termine per lo svolgimento di funzioni di ufficiali addetti
alla riscossione adiva il Tribunale di Firenze rilevando la nullità del termine apposto
al proprio contratto in quanto non legato a una ipotesi oggettiva e comunque perché individuato
da un soggetto collettivo non legittimato.
La Corte di Cassazione nel confermare la pronunzia della Corte territoriale di Appello ha
ribadito che con l'art. 23 della legge 56/87 è stata riservata all'autonomia collettiva l'individuazione
di ipotesi di contratto a termine ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge
230/62 abbandonandosi cosà la necessità del presupposto obiettivo della temporaneità
dell'occasione di lavoro e aprendo spazio per la creazione di nuove fattispecie anche
basate su presupposti meramente soggettivi. Sulla base di tale rilievo la Suprema
Corte ha inoltre ritenuto che l'autonomia collettiva in quanto destinataria di una delega
in bianco ben può rimettere alla contrattazione locale o aziendale l'indviduazione del
presupposto di fatto per la legittima apposizione del termine al contratto di lavoro.
Le Sezioni unite escludono il carattere automatico del risarcimento del danno esistenziale e professionale
Un dirigente delle Ferrovie dello Stato Spa,licenziato dall'azienda di trasporto ferroviario
dopo un lungo periodo di totale inattività vedeva riconosciuto dalla Corte di Appello
di Roma un cospicuo risarcimento valutato sulla base del periodo di dequalificazione
accertato dai giudici di merito. L'azienda proponeva quindi ricorso innanzi alla Suprema
Corte lamentando l'illegittimità della decisione dei giudici rimani che in assenza
di una concreta prova del danno avevano ritenuto sussistente un danno valutato equitativamente
l'ammontare del danno.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, dopo una ampia digressione sui diversi orientamenti
della giurisprudenza di legittimità hanno accolto il ricorso delle Ferrovie dello Stato
aderendo all'orientamento restrittivo. In particolare la Corte di Cassazione ha affermato
che in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore
al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente
ne deriva ' non ricorrente automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale
' non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio,
sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo: mentre il risarcimento
del danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psicofisica
medicalmente accertabile, il danno esistenziale da intendere come ogni pregiudizio (di
natura non meramente emotiva e interiore ma oggettivamente accertabile) provocato nella
sfera areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazioni propri inducendolo
a scelte di vita ' va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento.
Assume peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva
valutazione di precisi elementi dedotti (cafratteristiche, durata, gravità , conoscibilità
all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione
di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni
poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse
relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) ' il cui artificioso
isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico ' sia possibile,
attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto (ossia all'esistenza
del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali
derivanti dall'esperienza delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove).
Indennità di mansione per centralinisti non vedenti
L'indennità di mansione non spetta solo ai centralinisti non vedentioccupati in base alle norme relative al loro collocamento obbligatorio, ma anche a quelli assunti in
via ordinaria. La Corte costituzionale, quindi, ha dichiarato la questione non fondata ritenendo
possibile un'interpretazione della norma impugnata coerente con gli stessi parametri
costituzionali indicati dal rimettente. La coerenza interna del sistema di protezione
e retribuzione dei lavoratori non vedenti, infatti, ha la sua ratio non già nelle modalità
costitutive del loro rapporto, ma piuttosto nella maggiore penosità del lavoro da
essi svolto in condizioni fisiche particolari. Una interpretazione della normativa impugnata,
pienamente coerente con il dettato costituzionale, induce a ritenere che l'indennità
di mansione si ponga essenzialmente quale «corrispettivo» dell'obiettiva gravosità
della prestazione lavorativa connessa alla menomazione visiva, oltre che della particolare
natura delle mansioni espletate, nonché dell'impossibilità per i non vedenti di essere
adibiti a mansioni alternative. Il che rende del tutto irrilevante la particolare modalità di
accesso all'occupazione dei centralinisti non vedenti. Non sarebbe ragionevole, infatti, la
distinzione tra un lavoratore non vedente che sia stato assegnato a mansioni di centralinista,
e altro lavoratore, ugualmente privo della vista, il quale, avviato obbligatoriamente
a copertura dei posti di riserva previsti dalla legge n. 113 del 1985, venga occupato nelle
medesime mansioni.
Ordinamento del personale comunale
Le Province autonome di Trento e Bolzano non possono disciplinare l'ordinamento del personale degli enti locali:dettare le regole sul proprio personale spetta
infatti al Comune, comunque nel rispetto dei principi generali dettati dalla legge regionale.
A sollevare la questione era stato il governo nella parte in cui la norma dispone che
le Province autonome di Trento e Bolzano disciplinano l'ordinamento del personale dei
Comuni e regolano le funzioni dei dirigenti e dei segretari comunali. Ciò, a giudizio del
governo, in violazione dell'art. 4, comma 1, n. 3 e dell'art. 65 del d.p.r. 670/72, i quali non
attribuiscono alle Province alcuna competenza legislativa sulla disciplina relativa al personale
comunale. La Corte, accogliendo la questione, ha stabilito che l'art. 4 del d.p.r.
670/72, come sostituito dall'art. 6 della legge costituzionale 2/1993, attribuisce alla
competenza legislativa esclusiva della Regione l'ordinamento degli enti locali. L'art. 65
dello stesso d.p.r. prevede, inoltre, che l'ordinamento del personale degli enti locali, nel
quale rientrano anche i dirigenti, è regolato dai Comuni che comunque sono tenuti a osservare
i principi generali dettati dalla legge regionale. Per queste ragioni la disposizione
impugnata è stata dichiarata illegittima.