Descrizione
Verifica di costituzionalità della disciplina di reversibilità Inail: figlio naturale e convivente La Cassazione precisa ambito e condizioni del repêchage in mansioni inferiori Revirement in sede di legittimità sugli effetti dell’opzione alternativa al licenziamentoLa comunicazione di cessazione del rapporto alla scadenza di un contratto di lavoro autonomo costituisce licenziamento
F. S. ha lavorato per la Srl Dettori Market dal 23 maggio 2001 al 7 agosto 2002 come commessa addetta al reparto ortofrutta.Nei periodi dal 4 luglio al 23 settembre 2001 e dal 2 novembre al 4 dicembre 2001 essa è stata inquadrata come dipendente in base a due contratti a tempo determinato; dal 15 maggio al 7 agosto 2002
ha avuto un contratto di «collaborazione coordinata e continuativa»; nel periodo precedente
alla sua assunzione e negli intervalli tra un contratto e l'altro ha percepito, per
il suo lavoro, compensi per «prestazioni occasionali» di facchinaggio e volantinaggio.
Alla scadenza dell'ultimo contratto, quello definito di «collaborazione coordinata e
continuativa» le è stata consegnata una lettera recante la comunicazione della cessazione
del rapporto per scadenza del termine. La lavoratrice ha impugnato la comunicazione
finale, ritenendola un licenziamento e ha chiesto al Tribunale di Tempio Pausania
di accertare che ella aveva lavorato in condizioni di subordinazione nell'intero
periodo dal 23 maggio 2001 al 7 agosto 2002, svolgendo sempre le stesse mansioni e
di annullare il licenziamento perché privo di giusta causa o giustificato motivo. Il Tribunale,
dopo avere assunto la prova testimoniale offerta dalla lavoratrice, ha rigettato
la domanda. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello,
dalla Corte di Cagliari che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di
F. S. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. A sostegno
della sua decisione, la Corte ha affermato quanto segue: «La lavoratrice ha dato piena prova del carattere sostanzialmente unitario del rapporto di lavoro, che, per la
sua intera durata ' contro le diverse forme che aveva avuto, costituenti mere apparenze
volte a sciogliere il datore di lavoro dai suoi obblighi in punto di giusta retribuzione
e di recedibilità condizionata alla sussistenza quanto meno di un giustificato motivo
' aveva sempre avuto natura di lavoro subordinato; è risultato provato che la lavoratrice
ha prestato con continuità attività lavorativa avente natura subordinata,
stante il suo inserimento nell'organizzazione aziendale con l'assegnazione di mansioni
circoscritte e non implicanti alcuna autonomia decisionale o anche solo operativa,
per un periodo ben più lungo di quello risultante dal libretto di lavoro e dai due contratti
a tempo determinato prodotti dalla parte datoriale (nei quali il rapporto stesso era
stato formalizzato come subordinato), senza che fosse dato cogliere differenza alcuna
fra i diversi periodi di lavoro quanto alle mansioni svolte; la comunicazione datoriale
del 3 agosto 2002 aveva natura di licenziamento, peraltro intimato in difetto di
giusta causa o giustificato motivo e motivato invece con l'espresso richiamo ad un inesistente
spirare del termine apposto ad un rapporto di lavoro autonomo, mai instaurato
fra le parti». L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Cagliari per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Cagliari ha correttamente
motivato l'accertamento della continuità del rapporto e l'esistenza della subordinazione,
sia evidenziando l'avvenuto inserimento di F. S. nella organizzazione aziendale,
con assegnazione di mansioni circoscritte e non implicanti alcuna autonomia
decisionale o anche solo operativa, sia rilevando che non era dato cogliere alcuna differenza
fra i diversi periodi di lavoro quanto alle mansioni svolte e che il rapporto stesso,
in base ai due contratti a tempo determinato prodotti dalla parte datoriale, era stato
formalizzato come subordinato, con ciò conformandosi al condiviso orientamento
della giurisprudenza di legittimità , secondo cui un rapporto di lavoro subordinato può
essere sostituito da uno di lavoro autonomo, ma a tal fine è necessario che all'univoca
volontà delle parti di mutare il regime giuridico del rapporto si accompagni un effettivo
mutamento delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, quale
conseguenza del venir meno del vincolo di assoggettamento del lavoratore al datore
di lavoro, dovendosi altrimenti presumere, con presunzione semplice, che il rapporto
sia proseguito col regime precedente. Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e
subordinato ' ha ricordato la Corte ' non deve prescindersi dalla volontà delle parti
contraenti e, sotto questo profilo, va tenuto presente il nomen juris utilizzato, il quale
però non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi conto altresà, sul piano della interpretazione
della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle
medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 1362, secondo
comma, cod. civ. e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle
caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario dare prevalente rilievo ai
secondi, dato che la tutela relativa al lavoro subordinato, per il suo rilievo pubblicistico
e costituzionale, non può essere elusa per mezzo di una configurazione formale non
rispondente alle concrete modalità di esecuzione del contratto. Si deve tenere conto '
ha osservato la Corte ' che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato,
potrebbero aver simulatamente dichiarato di voler un rapporto autonomo al fine
di eludere la disciplina legale in materia, ovvero, pur esprimendo al momento della
conclusione del contratto una volontà autentica, potrebbero, nel corso del rapporto,
aver manifestato, con comportamenti concludenti, una diversa volontà ; a tali principi
si è sostanzialmente attenuta la Corte territoriale, che, pur non ignorando l'avvenuta
conclusione di un contratto a tempo determinato di collaborazione coordinata e
continuativa, con motivazione congrua e scevra da elementi di illogicità e contraddittorietà ,
ha evidenziato come, (anche) nel lasso di tempo regolato da tale contratto, F.
S. avesse in effetti continuato a svolgere le mansioni di commessa (addetta al reparto ortofrutta) già in precedenza svolte, riguardo alle quali il rapporto era stato formalizzato
come di natura subordinata, e nient'affatto quelle, diverse, contemplate dal contratto
di collaborazione coordinata e continuativa. La ritenuta prosecuzione del rapporto
lavorativo (subordinato) anche al di là dei termini fittiziamente apposti nel corso
del suo svolgimento, secondo quanto accertato in punto di fatto dalla Corte territoriale
' ha affermato la Cassazione ' comporta che il rapporto stesso, nella sua unitarietà ,
deve essere considerato come a tempo indeterminato; ne consegue che l'avvenuta
stipulazione, nel corso del già costituitosi rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, di un fittizio (e perciò privo di valenza novativa) contratto di collaborazione
coordinata e continuativa non può essere considerata idonea a determinare
la diversa qualificazione del rapporto stesso (in termini, appunto, di lavoro autonomo),
cosicché alla formale comunicazione di risoluzione (per spirare del termine) del
contratto di collaborazione fittiziamente stipulato non possono essere applicati i principi
elaborati dalla Suprema Corte in tema di disdetta comunicata per scadenza del termine
illegittimamente apposto ad un contatto di lavoro subordinato. Pertanto ' ha
concluso la Corte ' nel caso in esame, la comunicazione datoriale, siccome unilateralmente
produttiva della cessazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
effettivamente costituito, va qualificata, come licenziamento, nella specie illegittimo
siccome non determinato da giusta causa o giustificato motivo.
Il lavoratore demansionato ha diritto al risarcimento del danno non patrimoniale
G. B., dipendente dell'Ilva con inquadramento nella sesta categoria impiegatizia,
dal 1990 al 2000 è stato tenuto in una situazione di inattività oppure adibito a mansioni
di basso livello (fotocopiatura) certamente non rispondenti alla sua qualifica. Dopo avere
richiesto di assegnargli mansioni adeguate, poiché l'azienda non ha a ciò provveduto, dal
marzo 2000 non si è presentato in ufficio. L'azienda lo ha licenziato il 3 aprile 2000 per assenza
ingiustificata. Egli ha chiesto al Tribunale di Genova di annullare il licenziamento, di
ordinare all'azienda di reintegrarlo in servizio con mansioni adeguate alla sua qualifica e
di condannarla al risarcimento dei danni (biologico, esistenziale, morale) prodotti dal prolungato
demansionamento. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la richiesta
reintegrazione e disponendo il risarcimento del danno a termini dell'art. 18 Stat. lav.
(mancata retribuzione), in quanto ha ritenuto che il lavoratore, essendo l'azienda gravemente
inadempiente, aveva il diritto di non presentarsi in ufficio. La Corte d'Appello di Genova
ha confermato questa decisione ed ha anche condannato la società al risarcimento
del danno esistenziale in misura pari al 50% della retribuzione relativa al periodo del demansionamento,
nonché del danno morale liquidato in 15.000 euro. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per avere affermato l'illegittimità del licenziamento, per avere ritenuto configurabile un danno morale in assenza
di reato e per avere liquidato il risarcimento del danno in mancanza di prova della sua esistenza.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso nella parte concernente il licenziamento, in quanto
ha ritenuto che la Corte di Genova abbia adeguatamente motivato l'accertamento della
gravità dell'inadempienza aziendale e della proporzionalità della reazione del lavoratore.
Per quanto attiene al danno da demansionamento, la Corte ha rigettato la censura relativa
alla configurabilità del danno morale, mentre ha ritenuto fondata quella relativa alla
mancata prova del danno. La Corte ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite
(n. 26972 dell'11 novembre 2008) secondo cui: il danno non patrimoniale deve essere
inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti
la persona non connotati da rilevanza economica, anche in assenza di reato, sempre
che si tratti di interessi presi in considerazione negli specifici casi determinati dalla
legge o in via di interpretazione dal parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza,
alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona.
Le Sezioni Unite ' ha affermato la Corte ' hanno evidentemente confermato quel principio
ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità per il quale «il danno morale consegue
alla ingiusta lesione di un interesse inerente la persona, costituzionalmente garantito
e, per essere risarcito, non è soggetto al limite derivante dalla riserva di legge correlata
all'art. 185 cod. pen. e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del danno illecito
come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non
patrimoniale ben può essere riferito, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle
previsioni della stessa, ove si consideri che il riconoscimento, ivi contenuto, dei diritti
inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente,
ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge,
al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale».
Va pertanto escluso ' ha affermato la Corte ' che la risarcibilità del danno morale debba
essere subordinata alla ricorrenza di un fatto reato. Per quanto attiene alla liquidazione
del danno ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di Appello, avendo accertato il
demansionamento, per tale solo fatto ha liquidato somme di vario importo imputandole
a titolo di danno esistenziale e morale; con tale conclusione essa, non affrontando
il problema ulteriore dell'allegazione del danno, della prova della sua esistenza in
concreto e del nesso causale con il denunziato demansionamento, si è posta in palese
contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità , che, a partire da Cass. Ss.
Uu. 24 marzo 2006 n. 6572, ha affermato che «in tema di demansionamento e di dequalificazione,
il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno
non patrimoniale, che asseritamente ne deriva ' non ricorrendo automaticamente in
tutti i casi di inadempimento datoriale ' non può prescindere da una specifica allegazione,
nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio
medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza
di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale
(n.d. che, a seguito di Cass. 26972/2008 non ha una sua autonomia concettuale,
ma è un elemento da considerare, ove ricorra il presupposto della sua 'serietà ,
nel danno non patrimoniale) ' da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente
emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale
del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo
a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno ' va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui
dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità ,
conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione,
frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta
lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del
soggetto) ' il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento
logico ' si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al
fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod.
proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel
ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove». La tesi della necessità di allegazione
e prova ' ha ricordato la Corte ' è stata seguita dalla successiva giurisprudenza
di legittimità (Cass. 2 agosto 2006 n. 17564 e puntualmente richiamata e condivisa
dalla richiamata Cass. Ss.Uu. 26972/2008) e significativamente da Cass. 14 luglio
2006 n. 14729, la quale, in particolare, ha ribadito che il lavoratore ha diritto a svolgere
le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente
svolte ' e, quindi, a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività
e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione:
e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all'esecuzione della propria
prestazione lavorativa ' cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo ' costituendo
il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione
della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore
all'esecuzione della propria prestazione ' ha affermato la Corte ' è fonte di responsabilità
risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall'inadempimento
di un'obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in
materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento
di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la
responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa ' oltre che nei casi in cui possa
ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa
all'esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall'art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari
' anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa
non imputabile all'obbligato, fermo restando che, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., l'onere
della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro,
in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. La Cassazione ha rinviato la
causa alla Corte di Appello di Torino perché accerti, se possa ritenersi acquisita la prova,
anche attraverso presunzioni dei danni da demansionamento.
La limitazione del risarcimento a un lavoratore assunto con contratto a termine illegittimo deve essere adeguatamente motivata
G. G. ha lavorato alle dipendenze della Spa Poste italiane in base a due contratti a termine: dal 20 luglio 1998 al 30 settembre 1998«per necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno-settembre», e dal 6
ottobre 1999 al 20 febbraio 2000 «per esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione
». Alla scadenza del secondo contratto l'azienda ha cessato di utilizzare la
prestazione del lavoratore. Questi con lettera dell'11 ottobre 2000 ha chiesto di essere
riammesso in servizio offrendo la sua prestazione lavorativa. Successivamente egli ha
chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare la nullità del termine apposto ai due contratti e
di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con la condanna
della società al ripristino del rapporto nonché al pagamento, anche a titolo risarcitorio,
delle retribuzioni globali di fatto relative al periodo di mancata ammissione al lavoro. Il Tribunale
di Roma, con sentenza del gennaio 2002, ha rigettato la domanda. Questa decisione
è stata riformata dalla Corte d'Appello di Roma che, con sentenza depositata nel novembre
2004, ha dichiarato la nullità del termine apposto ai contratti e l'esistenza di un unico
rapporto a tempo indeterminato con il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio.
La domanda di risarcimento del danno è stata peraltro accolta dalla Corte in misura
ridotta; essa infatti ha condannato la società a risarcire il danno al lavoratore in misura pari
alle retribuzioni, per euro mensili 1.436,00, dalla messa in mora dell'11 ottobre 2000 sino
alla scadenza del triennio successivo alla scadenza dell'ultimo contratto oltre accessori.
Pertanto la Corte ha attribuito al ricorrente soltanto la retribuzione relativa al periodo
dall'11 ottobre 2000 al 29 febbraio 2003, circa due anni e quattro mesi anziché quattro
anni e 9 mesi richiesti dal lavoratore. Tale limitazione è stata motivata con il rilievo che un
triennio fosse il periodo presumibilmente necessario per raggiungere il ripristino della
precedente condizione reddituali. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo
che l'apposizione del termine fosse consentita dalla contrattazione collettiva. Il lavoratore
ha proposto ricorso incidentale censurando la decisione impugnata per avere immotivatamente
limitato il risarcimento del danno.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell'azienda limitatamente al primo contratto, mentre
lo ha rigettato nella parte relativa al secondo contratto in quanto ha ritenuto che la Corte
di Roma abbia correttamente escluso l'applicabilità dell'accordo collettivo invocato dall'azienda.
La Cassazione ha invece accolto il ricorso incidentale del lavoratore. La limitazione
del risarcimento del danno ' ha affermato la Cassazione ' è basata su una motivazione
del tutto insufficiente, atteso che la Corte d'Appello non ha spiegato affatto le ragioni
per cui è fissato in tre anni dalla data di cessazione del rapporto il periodo presumibile
«fino al ripristino della precedente condizione reddituale», cosà configurando, in sostanza,
in modo assolutamente astratto ed apodittico, una presunzione in ordine a tale ripristino.
La Suprema Corte ha rinviato la causa per nuovo esame alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
L’applicazione dei criteri di scelta in caso di riduzione del personale richiede un analitico raffronto
Il dirigente bancario che consente esposizioni debitorie anomale è tenuto a risarcire il danno prodotto
La Banca Nazionale del Lavoro ha promosso, nel 1994, un giudizio davanti al pretore di Roma, sezione lavoro, nei confronti del suo ex dipendente F. A.facendogli carico di avere concesso, quale direttore di filiale, esuberi di fido non autorizzati al Gruppo
M. risultato poi insolvente, nonostante i richiami ripetutamente rivoltigli. Il convenuto
si è difeso sostenendo di non essere responsabile delle operazioni contestate e negando
l'esistenza di un danno, dal momento che il patrimonio del Gruppo M. era superiore al credito
concessogli. Il pretore ha dichiarato la nullità del ricorso per indeterminatezza dell'oggetto
e mancata specificazione dei fatti. Questa decisione è stata riformata, in grado
di appello, dal Tribunale di Roma, che, dopo avere disposto una consulenza tecnica, ha
condannato l'ex dirigente al risarcimento del danno in misura di euro 45.144.909. F. A. ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per non
avere considerato che dai documenti prodotti emergeva la conoscenza, da parte della
Banca, sin dall'inizio, delle operazioni con il Gruppo M. e per avere comunque determinato
in misura eccessiva l'importo del risarcimento.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso limitatamente alla parte concernente la determinazione
del risarcimento. La Corte ha ricordato preliminarmente la sua giurisprudenza secondo
cui la violazione da parte del lavoratore degli obblighi di fedeltà e diligenza comporta,
oltre all'applicabilità di sanzioni disciplinari, anche l'insorgere del diritto dell'azienda
al risarcimento del danno; obblighi questi che sono particolarmente accentuati nel caso
in cui il dipendente abbia la qualifica di dirigente che lo pone in un diretto e stretto rapporto
di collaborazione con il datore di lavoro. Nel caso del dirigente di un'azienda di credito
' ha osservato la Corte ' l'obbligo di diligenza può dirsi violato allorché egli consenta
alla clientela della banca la formazione di una esposizione debitoria anomala facendo
assumere alla banca stessa rischi eccedenti l'ordinata e corrente gestione dei rapporti creditizi;
in tale evenienza si determina un danno risarcibile pari alla perdita che l'istituto di
credito subisce a causa della situazione di insolvenza di beneficiari del credito assentito
dal suo dirigente con violazione dell'obbligo di diligenza. In applicazione di questi principi
' ha affermato la Corte ' correttamente il Tribunale ha verificato in concreto la sussistenza
della violazione dell'obbligo di diligenza da parte del direttore della filiale e, con tipica
valutazione di merito non censurabile in cassazione perché assistita da motivazione
sufficiente e non contraddittoria, è pervenuto al convincimento che dalla documentazione
prodotta in causa emergeva con sufficiente chiarezza la responsabilità del dirigente
nella creazione di un abnorme esposizione nei confronti del Gruppo M. Per quanto attiene
al danno, la Corte ha ritenuto erronea la determinazione operata dalla sentenza impugnata
in quanto essa ha incluso nell'importo liquidato, gli interessi maturati per la Banca,
ai tassi correnti, nell'arco di dieci anni.
La Corte ha ritenuto che il Tribunale non abbia valutato pienamente l'efficienza causale
del comportamento inerte della banca protrattosi per tutto il periodo in cui è maturato il
danno risarcibile; pertanto ha cassato, in questa parte, la sentenza impugnata, rinviando
la causa per nuovo esame alla Corte d'Appello di Roma.
Il riferimento alla «necessità di una più economica gestione della produzione» non costituisce valido motivo di licenziament
S. S. dipendente della Cooperativa Risciò Srl, avendo ricevuto una lettera di licenziamento, ha chiesto alla datrice di lavoro di precisarne i motivi.L'azienda ha risposto comunicando la seguente motivazione: «Riduzione del personale determinata
dalla necessità di una più economica gestione dell'attività produttiva». La lavoratrice ha
chiesto al Tribunale di Reggio Calabria di dichiarare l'inefficacia del licenziamento sostenendo
che la motivazione del licenziamento non rispondeva ai requisiti di legge. Ella ha
invocato l'art. 2 della legge n. 604/66, secondo cui il prestatore di lavoro può chiedere,
entro quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento, i motivi che lo hanno determinato
e in tal caso il datore di lavoro deve, nei sette giorni dalla richiesta, comunicarli per
iscritto; ove l'azienda non adempia a tale obbligo il licenziamento è inefficace. Il Tribunale
ha accolto la domanda, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando
l'azienda al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Reggio Calabria ha confermato
questa decisione richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo cui «la motivazione
del licenziamento ' nel caso in cui il lavoratore licenziato chieda al datore di lavoro la
comunicazione dei motivi del recesso ' deve essere sufficientemente specifica e completa,
ossia tale da consentire al lavoratore di individuare con chiarezza e precisione la causa del suo licenziamento, sà da poter esercitare un'adeguata difesa svolgendo ed offrendo
idonee osservazioni o giustificazioni, dovendosi ritenere equivalente alla materiale omissione
della comunicazione dei motivi la comunicazione che, per la sua assoluta genericità ,
sia totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende». L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Reggio Calabria per
vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigetto il ricorso. Il giudice di merito ' ha osservato la Corte ' ha seguito
lo stesso iter argomentativo suggerito dalla giurisprudenza ed è pervenuto alla conclusione,
congruamente motivata e pertanto incensurabile in sede di legittimità , che i motivi
offerti non erano idonei a consentire all'interessata di conoscere con precisione i fatti
concreti da cui era stato originato il licenziamento.
Un ente pubblico non può sottrarsi agli obblighi derivanti da un concorso adducendo difficoltà finanziarie
M. T. ha vinto un concorso bandito dalla Comunità montana Trigno - Medio Biferno per il posto di responsabile dei servizi urbanistici.L'assunzione è stata però negata con delibera di giunta motivata con riferimento a difficoltà di bilancio. M. T. ha chiesto
al Tribunale di Campobasso l'accertamento del suo diritto all'assunzione con decorrenza
dal febbraio 2007 e alla costituzione del rapporto di lavoro, nonché la condanna della
Comunità al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione perduta. La Comunità
si è difesa sostenendo di essere impossibilitata all'assunzione per mancanza di mezzi
finanziari. Il Tribunale di Campobasso, con sentenza del 2002, ha accolto la domanda dichiarando la costituzione del rapporto di lavoro con effetto dal febbraio 2007 e condannando
la Comunità al risarcimento commisurato al 100% della retribuzione non percepita,
con sottrazione dell'aliunde perceptum. Questa decisione è stata confermata, in grado
di appello, dalla Corte di Campobasso che, con sentenza del giugno 2005, ha ritenuto insussistente
l'impossibilità assoluta dell'adempimento, non riscontrabile peraltro nelle allegate
difficoltà di bilancio, già esistenti nei termini indicati dalla Comunità al tempo del
bando di concorso e contraddette da successivi comportamenti dell'ente (nuove assunzioni
e affidamento di incarichi a professionisti esterni). La Comunità ha proposto ricorso
per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di
legge; tra l'altro essa ha sostenuto che la Corte di Campobasso era incorsa in violazione
dell'art. 1463 cod. civ. (sopravvenuta impossibilità ) avendo erroneamente escluso che la
mancata assunzione fosse stata determinata dalla sopravvenuta situazione finanziaria
dell'ente.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Nel sistema del lavoro pubblico contrattualizzato
' ha osservato la Corte ' al bando di concorso per l'assunzione, diretto a dare attuazione
alla decisione (di per sé non impegnativa nei confronti dei terzi) di far fronte al fabbisogno
attuale di personale dipendente, va riconosciuta duplice natura giuridica: di provvedimento
amministrativo nella parte in cui concreta un atto del procedimento di evidenza
pubblica, del quale regola il successivo svolgimento, di atto negoziale negli aspetti sostanziali,
in quanto concreta proposta al pubblico, condizionata negli effetti all'espletamento
del procedimento concorsuale e all'approvazione della graduatoria. Anche l'approvazione
della graduatoria presenta questa duplicità di natura giuridica: provvedimento
terminale del procedimento concorsuale e atto negoziale di individuazione del futuro
contraente. Dall'approvazione della graduatoria discende, quindi ' ha affermato la Corte
' il diritto all'assunzione del partecipante collocato in posizione utile della graduatoria, cui
corrisponde l'obbligo di adempimento dell'amministrazione assoggettato al regime di cui
all'art. 1218 cod. civ. (responsabilità del debitore). L'applicazione alla fattispecie di questo
principio di diritto ' ha osservato la Cassazione ' rende il motivo di ricorso palesemente
infondato perché, secondo i principi generali, le difficoltà finanziarie non sono idonee a
produrre l'estinzione dell'obbligazione per impossibilità sopravvenuta, essendo pur sempre
nella disponibilità del debitore l'adozione dei mezzi adeguati per farvi fronte, né, comunque,
ai fini del risarcimento del danno, è stata offerta la prova della non imputabilità
del ritardo nell'adempimento, considerato altresà che non risulta neppure contestato l'accertamento
di merito secondo cui nel periodo vi sono state altre assunzioni, nonché il ricorso a consulenze esterne.
In caso di riduzione di personale la comunicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta non può essere ritarda
L. N., dipendente di Poste italiane Spa, è stato licenziato il 10 novembre 2001 nell'ambito di una procedura di riduzione del personale attuata con riferimento alla legge n. 223/91.Trenta giorni dopo il licenziamento, l'azienda ha inviato all'ufficio
del lavoro e alle organizzazioni sindacali la comunicazione, prevista dall'art. 4, comma 9,
della legge n. 223/91, delle modalità di applicazione dei criteri di scelta nei confronti dei
lavoratori licenziati. L. N. ha chiesto al Tribunale di Bologna di dichiarare il licenziamento
inefficace per violazione dell'art. 4, comma 9, legge n. 223/91, in quanto tale norma prevede
che la comunicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta debba essere
contestuale a quella dei licenziamenti, mentre nel caso in esame si era verificato un ritardo
di 30 giorni. L'azienda si è difesa affermando che si era trattato di un ritardo ragionevole,
che non aveva leso i diritti del lavoratore. Il Tribunale di Bologna ha accolto la
domanda, ordinando la reintegrazione di L. N. nel posto di lavoro e condannando l'azienda
al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello,
dalla Corte di Bologna, che ha ritenuto la sussistenza di una violazione di legge tale da inficiare
il licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Bologna per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la giurisprudenza delle Sezioni Unite
(sentenze n. 302 e 419 del 2000) secondo cui nella materia dei licenziamenti regolati dalla
legge 23 luglio 1991 n. 223 ' finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e
collettivi, soprattutto degli interessi dei singoli lavoratori coinvolti nella procedura ' la
sanzione dell'inefficacia del licenziamento, ai sensi dell'art. 5, comma 3, ricorre anche in
caso di violazione della norma di cui al comma 9 dell'art. 4, che impone al datore di lavoro
di dare comunicazione, ai competenti uffici del lavoro e alle organizzazioni sindacali,
delle specifiche modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare; tale
inefficacia può essere fatta valere da ciascun lavoratore interessato nel termine di decadenza
di sessanta giorni previsto dal citato art. 5, mentre al relativo vizio procedurale
può essere dato rimedio mediante il compimento dell'atto mancante o la rinnovazione
dell'atto viziato. Nessuna comunicazione dei motivi del recesso viene prescritta con riguardo
al singolo lavoratore, essendo sufficiente che il recesso venga operato tramite atto
scritto, di talché solo attraverso le comunicazioni di cui al comma 9 dell'art. 4 è reso
possibile all'interessato di conoscere in via indiretta le ragioni della sua collocazione in
mobilità . Appare, quindi, evidente ' ha affermato la Corte ' come la comunicazione di cui
all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 assolva la funzione di rendere visibile e,
quindi, controllabile dalle organizzazioni sindacali (e tramite queste dai singoli lavoratori)
la correttezza del datore di lavoro in relazione alle modalità di applicazione dei criteri di
scelta; la possibilità del controllo si pone quale indispensabile presupposto per l'esercizio
del potere, spettante al singolo lavoratore, di impugnare il licenziamento.
Nell’organizzazione delle poste le mansioni di caposquadra al movimento equivalgono a quelle di semplice operatore
Il dirigente pubblico può ottenere dal giudice ordinario la riassegnazione dell’incarico illegittimamente revocatogli
Accordo-quadro di riforma degli assetti contrattuali
In data 22 gennaio 2009 è stato firmato un accordo-quadro di riforma degli assetti contrattuali tra Governo e le seguenti parti sociali:Cisl, Uil, Ugl, Cisal, Confsal, Sin.Pa, Confindustria, Confcommercio, Confesercenti, Confapi, Confservizi, Confetra,
Confartigianato, Cna, Casartigiani, Claai, Confagricoltura, Coldiretti, Cia, Copagri, Lega
Delle Cooperative, Confcooperative, Unci, Agci, Unione italiana cooperative, Cida, Confedir,
Ciu Unionquadri, Confail, Cuq, Assolavoro, Confedertecnica, Confprofessioni. L'accordo-
quadro, che ha la durata di quattro anni in quanto sperimentale, contiene regole e procedure
della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva, in sostituzione
del regime vigente: a) il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria avrà durata
triennale tanto per la parte economica che normativa; b) per la dinamica degli effetti economici
si individuerà un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo per il
triennio ' in sostituzione del tasso di inflazione programmata ' un nuovo indice previsionale
costruito sulla base dell'Ipca (l'Indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito
europeo per l'Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati; c) la
contrattazione collettiva nazionale di categoria o confederale regola il sistema di relazioni
industriali a livello nazionale, territoriale e aziendale o di pubblica amministrazione; d)
la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità
per il funzionamento di servizi integrativi di welfare; e) per evitare situazioni di eccessivo
prolungamento delle trattative di rinnovo dei contratti collettivi, le specifiche intese
ridefiniscono i tempi e le procedure per la presentazione delle richieste sindacali,
l'avvio e lo svolgimento delle trattative stesse; f) al rispetto dei tempi e delle procedure
definite è condizionata la previsione di un meccanismo che, dalla data di scadenza del
contratto precedente, riconosca una copertura economica, che sarà stabilita nei singoli
contratti collettivi, a favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell'accordo;
g) per il secondo livello di contrattazione come definito dalle specifiche intese ' parimenti
a vigenza triennale ' le parti confermano la necessità che vengano incrementate,
rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare, in termini
di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello che collega incentivi
economici al raggiungimento di obiettivi di produttività , redditività , qualità , efficienza,
efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché
ai risultati legati all'andamento economico delle imprese, concordati fra le parti; h)
salvo quanto espressamente previsto per il comparto artigiano, la contrattazione di secondo
livello si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale
o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri
livelli di contrattazione; i) la contrattazione di secondo livello deve avere caratteristiche
tali da consentire l'applicazione degli sgravi di legge; l) per consentire il raggiungimento
di specifiche intese per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di
crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno
definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche
in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti
collettivi nazionali di lavoro di categoria.
Il successivo 15 aprile 2009 Confindustria, Cisl e Uil hanno sottoscritto l'accordo interconfederale
per l'attuazione dell'accordo quadro stesso. In tale accordo le parti concordano
che anche i contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria e gli accordi di secondo livello
con scadenza precedente al 15 aprile 2009, ma per i quali non sia ancora iniziato il
confronto negoziale per il rinnovo, saranno rinnovati con l'applicazione di condizioni, principi,
regole, modalità , tempi stabiliti con il presente accordo.
Legge finanziaria 2009
I commi da 36 a 38 dell'articolo 2 della legge finanziaria 2009 contengono norme relative a cassa integrazione, mobilità , e disoccupazione speciale.Viene incrementato da 450 a 600 milioni di euro lo stanziamento previsto per la concessione nel
2009, in deroga alla normativa ordinaria, degli ammortizzatori sociali. Il ministro del Lavoro
è autorizzato a disporre, di concerto con il ministro dell'Economia, entro il 31 dicembre
2009, trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di
disoccupazione speciale, nel caso di programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali,
in deroga alla normativa vigente. Trattamenti che possono essere concessi anche
per settori produttivi e aree regionali individuate in specifiche intese stipulate in sede
istituzionale territoriale entro il 20 maggio 2009, e recepite in accordi governativi entro
il 15 giugno 2009. Il ministro del Lavoro è autorizzato a concedere, a decorrere dal
1° gennaio 2009, in deroga alla normativa vigente, ed entro il limite di spesa di 20 milioni
di euro a carico del Fondo per l'occupazione, trattamenti di cassa integrazione guadagni
straordinaria per la durata di 24 mesi e trattamenti di mobilità al personale dipendente
di società di gestione aeroportuale e di società da queste derivate. A decorrere
dal 1° gennaio 2009, le imprese del sistema aeroportuale sono tenute al pagamento
dei contributi previsti dalla legislazione vigente relativamente a tali trattamenti,
compresi quelli relativi all'indennità di mobilità . Questi trattamenti possono essere concessi
sulla base di specifici accordi governativi intervenuti entro il 15 giugno 2009, che
recepiscono le intese stipulate in sede territoriale e inviate al ministero del Lavoro entro
il 20 maggio 2009.
(Gazzetta Ufficiale n. 303 del 30 dicembre 2008 ' supplemento ordinario n. 283)
Misure anti crisi
La legge converte il decreto-leggen. 185 del 29 novembre 2008.
(Gazzetta Ufficiale n. 22 del 28 gennaio 2009 ' suppl. ordinario n. 14)
Personale universitario
La legge n. 1/2009 converte e modifica il decreto-legge n. 180 del 10 novembre 2008contenente disposizioni per la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario
e della ricerca. In particolare l'articolo 1 contiene disposizioni per il reclutamento
nelle università e per gli enti di ricerca. Le università statali che, alla data del 31
dicembre di ciascun anno, con le spese fisse e obbligatorie per il personale di ruolo hanno
superato il limite del 90 per cento dei trasferimenti statali sul fondo per il finanziamento
ordinario, non possono procedere all'indizione di procedure concorsuali e di valutazione
comparativa, né all'assunzione di personale. In tal caso le università sono escluse
dalla ripartizione dei fondi relativi agli anni 2008-2009, di cui all'articolo 1, comma
650, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Possono però, per il triennio 2009-2011,
procedere, per ciascun anno, ad assunzioni di personale nel limite di un contingente corrispondente
ad una spesa pari al cinquanta per cento di quella relativa al personale a
tempo indeterminato complessivamente cessato dal servizio nell'anno precedente. Ciascuna
università destina tale somma per una quota non inferiore al 60 per cento all'assunzione
di ricercatori a tempo determinato e indeterminato, nonché di contrattisti, e per
una quota non superiore al 10 per cento all'assunzione di professori ordinari. Per le procedure
di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori universitari di I e II
fascia della prima e della seconda sessione 2008, le commissioni giudicatrici sono composte
da un professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando e da
quattro professori ordinari sorteggiati in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari
appartenenti al settore scientifico-disciplinare oggetto del bando, in numero triplo
rispetto al numero dei commissari complessivamente necessari nella sessione. L'elettorato
attivo è costituito dai professori ordinari e straordinari appartenenti al settore oggetto
del bando. In attesa del riordino delle procedure di reclutamento dei ricercatori universitari
e comunque fino al 31 dicembre 2009, le commissioni per la valutazione comparativa
dei candidati sono composte da un professore ordinario o da un professore associato
nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando e da due professori ordinari sorteggiati
in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari appartenenti al settore
disciplinare oggetto del bando, in numero triplo rispetto al numero dei commissari complessivamente
necessari nella sessione. Anche in questo caso l'elettorato attivo è costituito
dai professori ordinari e straordinari appartenenti al settore oggetto del bando. Per
sovraintendere allo svolgimento delle operazioni di votazione e di sorteggio è nominata
una commissione a livello nazionale composta da sette professori ordinari designati dal
Consiglio universitario nazionale nel proprio seno. Le operazioni di sorteggio sono pubbliche.
La commissione, nella prima adunanza, provvede altresà alla certificazione dei
meccanismi di sorteggio per la proclamazione degli eletti nelle commissioni dei singoli
concorsi. Le disposizioni relative alla composizione della commissione per la valutazione
comparativa dei ricercatori, si applicano anche alle procedure di valutazione comparativa
indette prima della data di entrata in vigore del presente decreto, per le quali non si sono ancora svolte, alla medesima data, le votazioni per la costituzione delle commissioni.
Le eventuali disposizioni dei bandi già emanati, incompatibili con il presente decreto,
si intendono prive di effetto. Sono, altresà, privi di effetto le procedure già avviate
per la costituzione delle commissioni per la valutazione comparativa dei professori di I e
II fascia e dei ricercatori universitaria e gli atti adottati non conformi alle disposizioni del
presente decreto. L'articolo 1-bis dispone che le università , nell'ambito delle relative disponibilità
di bilancio possono procedere alla copertura di posti di professore ordinario
e associato e di ricercatore mediante chiamata diretta di studiosi stabilmente impegnati
all'estero in attività di ricerca o insegnamento a livello universitario da almeno un triennio,
che ricoprono una posizione accademica equipollente in istituzioni universitarie estere,
ovvero che abbiano già svolto per chiamata diretta autorizzata dal Miur nell'ambito
del programma di rientro dei cervelli un periodo di almeno tre anni di ricerca e di docenza
nelle università italiane e conseguito risultati scientifici congrui rispetto al posto
per il quale ne viene proposta la chiamata. L'articolo 3-ter stabilisce che gli scatti biennali
di cui agli articoli 36 e 38 del d.P.R. n. 382/1980, destinati a maturare a partire dal 1°
gennaio 2011, sono disposti previo accertamento da parte della autorità accademica della
effettuazione nel biennio precedente di pubblicazione scientifiche, secondo criteri che
saranno stabiliti con decreto del ministero dell'Istruzione, dell'università e della ricerca.
La mancata effettuazione di pubblicazioni scientifiche nel biennio precedente comporta
la diminuzione della metà dello scatto. Inoltre i professori di I e II fascia e i ricercatori che
nel precedente triennio non abbiano effettuato pubblicazioni scientifiche individuate secondo
i criteri di cui al decreto precedente sono esclusi dalla partecipazione alle commissioni
di valutazione comparativa per il reclutamento rispettivamente di professori di
I e II fascia e di ricercatori.
(Gazzetta Ufficiale n. 6 del 9 gennaio 2009)
Abrogazione di provvedimenti
La legge modifica e converte il decreto-legge n. 200 del 22 dicembre 2008.Il Ministro per la semplificazione normativa promuove, assume e coordina le attività volte a
realizzare l'informatizzazione e la classificazione della normativa vigente per facilitarne
la ricerca e la consultazione gratuita da parte dei cittadini. Inoltre a «decorrere dal 16 dicembre
2009 sono o restano abrogate» una lunghissima serie di provvedimenti, indicati
nell'Allegato 1 della legge. Si tratta di circa 29.000 atti normativi (leggi, regi decreti-
legge, decreti-legge luogotenenziali, decreti legislativi luogotenenziali e decreti legislativi
del Capo provvisorio dello Stato) emanati tra il 1861 ed il 1947. I provvedimenti
sono elencati in ordine cronologico. Entro il 30 giugno 2009 il Ministro della semplificazione
deve trasmettere alle Camere una relazione motivata in merito all'impatto delle abrogazioni.
L'art. 2 «fa salva» in ogni caso l'applicazione del procedimento, introdotto
dall'art. 14, commi 12-24 della legge n. 246/2005, in forza del quale sono abrogate tutte le disposizioni statali vigenti anteriori al 1° gennaio 1970, ad eccezione di quelle individuate
con appositi decreti legislativi da adottare entro il 16 dicembre 2009. Inoltre
viene ripristinata la legge 22 febbraio 1934 n. 370 che stabilisce il riposo domenicale e
settimanale.
(Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 2009 ' Supplemento ordinario n. 25)
Proroga di termini previsti da disposizioni legislative
La legge converte e modifica il decreto-legge n. 207 del 30 dicembre 2008.L'articolo 5 proroga al 31 dicembre 2009 la validità delle graduatorie per le assunzioni a
tempo indeterminato approvate successivamente al 1° gennaio 1999 dalle amministrazioni
pubbliche soggette a limitazioni delle assunzioni. Secondo l'articolo 6 nei
concorsi pubblici avviati entro il 30 giugno 2009, il 20% dei posti può essere riservato
ai soggetti che posseggono i requisiti per la c.d «stabilizzazione». L'articolo 32 modifica
alcuni articoli del decreto legislativo n. 81/2008 in materia tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare sono prorogate al 16 maggio 2009: a) le
comunicazioni all'Inail o all'Ipsema, in relazione alle rispettive competenze, a fini statistici
e informativi, concernenti i dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino
un'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell'evento e, a fini assicurativi,
le informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal
lavoro superiore a tre giorni (art. 18, comma 1, lettera r, del d.lgs. n. 81/2008); b) il divieto delle visite mediche preassuntive da parte del medico competente (art. 41, comma
3, lettera a, del d.lgs. n. 81/2008; c) la valutazione dei rischi dello stress sul lavoro
correlato e la data certa (art. 306, comma 2, del d.lgs. n. 81/2008, con riferimento
alle disposizioni previste dall'art. 28, commi 1 e 2). L'articolo 35 al comma 8 e successivi,
dispone che «ai fini della liquidazione o della ricostituzione delle prestazioni previdenziali
ed assistenziali collegate al reddito, il reddito di riferimento è quello conseguito
dal beneficiario e dal coniuge nell'anno solare precedente il 1° luglio di ciascun
anno ed ha valore per la corresponsione del relativo trattamento fino al 30 giugno dell'anno
successivo. In sede di prima liquidazione di una prestazione il reddito di riferimento
è quello dell'anno in corso, dichiarato in via presuntiva». Per i seguenti procedimenti
rilevano i redditi da lavoro dipendente, autonomo, professionale o di impresa
conseguiti in Italia, anche presso organismi internazionali, o all'estero al netto dei contributi
previdenziali ed assistenziali, conseguiti nello stesso anno di riferimento della
prestazione: a) mancata attribuzione o sospensione, nei confronti di soggetti con età
inferiore a quella di vecchiaia, della pensione di invalidità con decorrenza anteriore al
1° agosto 1984; b) riduzione dell'assegno di invalidità per reddito da lavoro di cui all'art.
1, comma 42, della legge 8 agosto 1995, n. 335; c) revisione straordinaria dell'assegno
di invalidità , di cui all'art. 9 della legge 12 giugno 1984, n. 222; d) incumulabilità della
pensione di anzianità e dell'assegno di invalidità con i redditi da lavoro dipendente ai
sensi dell'art. 10 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503; e) incumulabilità
della pensione di anzianità e dell'assegno di invalidità con i redditi da lavoro autonomo
ai sensi dell'art. 10 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. «Per consentire
agli enti previdenziali erogatori di rilevare annualmente i redditi, i soggetti percettori
di prestazioni collegate al reddito sono tenuti ad effettuare la comunicazione dei
dati reddituali entro il 30 giugno di ciascun anno. Ai soggetti che omettono la presentazione
della comunicazione dei dati reddituali nel termine previsto al comma 11, previo
avviso da parte degli enti previdenziali e decorso inutilmente il termine di trenta
giorni dal ricevimento dello stesso, viene sospesa l'erogazione della prestazione collegata
al reddito a partire dal rateo del mese di ottobre. In caso di presentazione della
comunicazione dei dati reddituali nel termine previsto per la presentazione della
successiva comunicazione, la prestazione sospesa è ripristinata a partire dal mese
successivo con erogazione degli arretrati. Qualora la presentazione della comunicazione
non avvenga entro il termine di cui al periodo precedente non si dà luogo alla
corresponsione di alcun arretrato». L'articolo 41-bis, modificando l'articolo 37 della
legge n. 416/1981 estende la Cassa integrazione guadagni straordinaria ai giornalisti
dipendenti da imprese editrici di giornali periodici e le disposizioni sugli esodi ed i prepensionamenti
ai giornalisti professionisti di giornali periodici.
(Gazzetta Ufficiale n. 49 del 28 febbraio 2009 ' supplemento ordinario n. 28)
Dipendenti pubblica amministrazione
La legge delega il Governo all'emanazione di decreti finalizzati all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblicoe alla efficienza e trasparenza delle
pubbliche amministrazioni. L'articolo 1 sostituisce il comma 2 dell'articolo 2 del decreto
legislativo n, 165/2001 in materia di derogabilità delle disposizioni applicabili solo ai dipendenti
pubblici: «Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano
discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle
amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi
contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili,
solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge». L'articolo 2 delega il Governo
ad emanare entro nove mesi uno o più decreti legislativi volti a riformare la disciplina del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni per il raggiungimento
dei seguenti obiettivi: a) convergenza degli assetti regolativi del lavoro pubblico con
quelli del lavoro privato, con particolare riferimento al sistema delle relazioni sindacali;
b) miglioramento dell'efficienza e dell'efficacia delle procedure della contrattazione collettiva;
c) introduzione di sistemi interni ed esterni di valutazione del personale e delle
strutture; d) garanzia della trasparenza dell'organizzazione del lavoro e dei sistemi retributivi;
e) valorizzazione del merito e riconoscimento di premi per i singoli dipendenti sulla
base dei risultati conseguiti dalle relative strutture amministrative; f) definizione di un
sistema più rigoroso di responsabilità dei dipendenti pubblici; g) previsione dell'obbligo
di permanenza per almeno un quinquennio nella sede della prima destinazione anche
per i vincitori delle procedure di progressione verticale, considerando titolo preferenziale
nelle medesime procedure di progressione verticale la permanenza nelle sedi carenti
di organico. L'articolo 3 delega il Governo in materia di contrattazione collettiva e integrativa
delle pubbliche amministrazioni affinché si attenga ai seguenti principi e criteri
direttivi: a) precisare gli ambiti della disciplina del rapporto di lavoro pubblico riservati alla contrattazione collettiva e quali alla legge, fermo restando che è riservata alla contrattazione
collettiva la determinazione dei diritti e delle obbligazioni direttamente pertinenti
al rapporto di lavoro; b) prevedere l'applicazione delle disposizioni di cui agli articoli
1339 (inserzione automatica di clausole) e 1419 (nullità parziale), secondo comma,
del codice civile, in caso di nullità delle clausole contrattuali per violazione di norme imperative
e dei limiti fissati alla contrattazione collettiva; c) individuare vincoli alla contrattazione
collettiva al fine di assicurare il rispetto dei vincoli di bilancio, anche mediante
limiti massimi di spesa ovvero limiti minimi e massimi di spesa; d) riformare l'Agenzia
per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) rafforzandone
l'indipendenza dalle organizzazioni sindacali, potenziando il potere di rappresentanza
delle regioni e degli enti locali; e) prevedere l'imputabilità della spesa per il personale rispetto
ai servizi erogati e definire le modalità di pubblicità degli atti riguardanti la spesa
per il personale e dei contratti; f) prevedere, al fine di favorire i processi di mobilità intercompartimentale
del personale delle pubbliche amministrazioni, criteri per la definizione
mediante regolamento di una tabella di comparazione fra i livelli di inquadramento
previsti dai contratti collettivi relativi ai diversi comparti di contrattazione. L'articolo 4
individua i principi e i criteri in materia di valutazione delle strutture e del personale delle
amministrazioni pubbliche: prevedendo innanzi tutto di riordinare gli organismi che
svolgono funzioni di controllo e valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche
secondo i seguenti criteri: 1) estensione della valutazione a tutto il personale dipendente;
2) estensione della valutazione anche ai comportamenti organizzativi dei dirigenti;
3) definizione di requisiti di elevata professionalità ed esperienza dei componenti degli
organismi di valutazione; 4) assicurazione della piena autonomia della valutazione,
svolta dal dirigente nell'esercizio delle proprie funzioni e responsabilità . L'articolo 5 definisce
i principi e i criteri finalizzati ad introdurre nell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni
strumenti di valorizzazione del merito e metodi di incentivazione della produttività
e della qualità della prestazione lavorativa, secondo le modalità attuative stabilite
dalla contrattazione collettiva, anche mediante l'affermazione del principio di selettività
e di concorsualità nelle progressioni di carriera e nel riconoscimento degli incentivi:
a) stabilire percentuali minime di risorse da destinare al merito e alla produttività ,
previa valutazione del contributo e del rendimento del singolo dipendente formulati
in relazione al risultato, evitando la corresponsione generalizzata ed indifferenziata di
indennità e premi incentivanti a tutto il personale; b) prevedere che la valutazione positiva
conseguita dal dipendente in un congruo arco temporale costituisca un titolo rilevante
ai fini della progressione in carriera e dei concorsi riservati al personale interno; c)
destinare al personale, direttamente e proficuamente coinvolto nei processi di ristrutturazione
e razionalizzazione, parte delle economie conseguite con risparmi sui costi di
funzionamento in proporzione ai risultati conseguiti dalle singole strutture amministrative;
d) stabilire che le progressioni meramente economiche avvengano secondo principi
di selettività ; e) definire una riserva di accesso dall'esterno alle posizioni economiche apicali
nell'ambito delle rispettive aree funzionali, anche tramite un corso-concorso bandito
dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione; f) stabilire che le progressioni
di carriera avvengano per concorso pubblico, limitando le aliquote da destinare al
personale interno ad una quota comunque non superiore al 50 per cento; g) individuare
specifici e ulteriori criteri premiali per il personale coinvolto in progetti innovativi che ampliano
i servizi al pubblico, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. L'articolo 6
detta principi e criteri finalizzati a modificare la disciplina della dirigenza pubblica: a) affermare
la piena autonomia e responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita
i poteri del datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane, attraverso
il riconoscimento in capo allo stesso della competenza; b) prevedere una specifica
ipotesi di responsabilità del dirigente, in relazione agli effettivi poteri datoriali, nel caso
di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle risorse umane assegnate e sull'efficienza della relativa struttura nonché all'esito dell'accertamento della predetta responsabilità ,
il divieto di corrispondergli il trattamento economico accessorio; c) prevedere la
decadenza dal diritto al trattamento economico accessorio nei confronti del dirigente il
quale, senza giustificato motivo, non abbia avviato il procedimento disciplinare nei confronti
dei dipendenti, nei casi in cui sarebbe stato dovuto; d) limitare la responsabilità civile
dei dirigenti alle ipotesi di dolo e di colpa grave, in relazione alla decisione di avviare
il procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione
di appartenenza; e) prevedere che l'accesso alla prima fascia dirigenziale avvenga
mediante il ricorso a procedure selettive pubbliche concorsuali per una percentuale dei
posti, e che il conferimento dell'incarico dirigenziale generale ai vincitori delle procedure
selettive sia subordinato al compimento di un periodo di formazione, non inferiore a
sei mesi; f) ridefinire i criteri di conferimento, mutamento o revoca degli incarichi dirigenziali,
adeguando la relativa disciplina ai principi di trasparenza e pubblicità ed ai principi
desumibili anche dalla giurisprudenza costituzionale e delle giurisdizioni superiori,
escludendo la conferma dell'incarico dirigenziale ricoperto in caso di mancato raggiungimento
dei risultati valutati sulla base dei criteri e degli obiettivi indicati al momento del
conferimento dell'incarico, secondo i sistemi di valutazione adottati dall'amministrazione,
e ridefinire, altresà, la disciplina relativa al conferimento degli incarichi ai soggetti estranei
alla pubblica amministrazione e ai dirigenti non appartenenti ai ruoli, prevedendo
comunque la riduzione, rispetto a quanto previsto dalla normativa vigente, delle quote
percentuali di dotazione organica entro cui è possibile il conferimento degli incarichi
medesimi; g) rivedere la disciplina delle incompatibilità per i dirigenti pubblici e rafforzarne
l'autonomia rispetto alle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e all'autorità
politica; h) prevedere che, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la
componente della retribuzione legata al risultato sia fissata, nel medio periodo, per i dirigenti
in una misura non inferiore al 30 per cento della retribuzione complessiva, fatta
eccezione per la dirigenza del Servizio sanitario nazionale; i) stabilire il divieto di corrispondere
l'indennità di risultato ai dirigenti qualora le amministrazioni di appartenenza,
decorso il periodo transitorio fissato dai decreti legislativi di cui al presente articolo, non
abbiano predisposto sistemi di valutazione dei risultati coerenti con i princàpi contenuti
nella presente legge. Viene inoltre modificato il comma 11 dell'articolo 72 della legge n.
133/2008 con il quale le pubbliche amministrazioni possono risolvere il rapporto di lavoro
con il personale dipendente con un preavviso di sei mesi nel caso di compimento
dell'anzianità massima di servizio effettivo di 40 anni anziché al compimento dell'anzianità
massima contributiva di 40 anni. L'articolo 7 delega il Governo in materia di sanzioni
disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici al fine di contrastare i fenomeni di
scarsa produttività ed assenteismo. I decreti si dovranno attenere ai seguenti principi e
criteri direttivi: a) semplificare le fasi dei procedimenti disciplinari, con particolare riferimento
a quelli per le infrazioni di minore gravità , nonché razionalizzare i tempi del procedimento
disciplinare, anche ridefinendo la natura e l'entità dei relativi termini e prevedendo
strumenti per una sollecita ed efficace acquisizione delle prove, oltre all'obbligo
della comunicazione immediata, per via telematica, della sentenza penale alle amministrazioni
interessate; b) definire la tipologia delle infrazioni che, per la loro gravità , comportano
l'irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento, ivi comprese quelle
relative a casi di scarso rendimento, di attestazioni non veritiere di presenze e di presentazione
di certificati medici non veritieri da parte di pubblici dipendenti, prevedendo
altresà, in relazione a queste due ultime ipotesi di condotta, una fattispecie autonoma di
reato, con applicazione di una sanzione non inferiore a quella stabilita per il delitto di cui
all'articolo 640, secondo comma, del codice penale e la procedibilità d'ufficio; c) prevedere
meccanismi rigorosi per l'esercizio dei controlli medici durante il periodo di assenza
per malattia del dipendente, nonché la responsabilità disciplinare e, se pubblico dipendente,
il licenziamento per giusta causa del medico, nel caso in cui lo stesso concorra alla falsificazione di documenti attestanti lo stato di malattia ovvero vàoli i canoni di diligenza
professionale nell'accertamento della patologia; d) prevedere, a carico del dipendente
responsabile, l'obbligo del risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso
corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata
prestazione, nonché del danno all'immagine subito dall'amministrazione; e) prevedere il
divieto di attribuire aumenti retributivi di qualsiasi genere ai dipendenti di uffici o strutture
che siano stati individuati per grave inefficienza e improduttività ; f) prevedere ipotesi
di illecito disciplinare in relazione alla condotta colposa del pubblico dipendente che
abbia determinato la condanna della pubblica amministrazione al risarcimento dei danni;
g) prevedere procedure e modalità per il collocamento a disposizione ed il licenziamento,
nel rispetto del principio del contraddittorio, del personale che abbia arrecato
grave danno al normale funzionamento degli uffici di appartenenza per inefficienza o incompetenza
professionale; h) prevedere ipotesi di illecito disciplinare nei confronti dei
soggetti responsabili, per negligenza, del mancato esercizio o della decadenza dell'azione
disciplinare; i) prevedere la responsabilità erariale dei dirigenti degli uffici in caso di
mancata individuazione delle unità in esubero; l) ampliare i poteri disciplinari assegnati
al dirigente prevedendo, altresà, l'erogazione di sanzioni conservative quali, tra le altre,
la multa o la sospensione del rapporto di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio;
m) prevedere l'equipollenza tra la affissione del codice disciplinare all'ingresso
della sede di lavoro e la sua pubblicazione nel sito web dell'amministrazione; n) abolire
i collegi arbitrali di disciplina vietando espressamente di istituirli in sede di contrattazione
collettiva; o) prevedere l'obbligo, per il personale a contatto con il pubblico, di indossare
un cartellino identificativo ovvero di esporre sulla scrivania una targa indicante nome
e cognome, con la possibilità di escludere da tale obbligo determinate categorie di
personale, in relazione alla specificità di compiti ad esse attribuiti. L'articolo 8 interpreta
l'articolo 17-bis del decreto legislativo n. 165/2001 nel senso che la figura della vicedirigenza
è disciplinata, e può essere utilizzata, esclusivamente ad opera e nell'ambito
della contrattazione collettiva nazionale del comparto di riferimento, che ha facoltà di introdurre
una specifica previsione costitutiva al riguardo.
(Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5 marzo 2009)
Clausole di esclusiva tra compagnie assicurative e agenti
L'Autorità ha formulato delle osservazioni in merito agli emendamenti n. 12.1 e 12.2. Al d.d.l. n. 1195,che abrogherebbero alcune misure di cui all'art. 8 del dl n. 223/2206, convertito in l n. 248/2006. Il d.l. n. 223/2006 ha introdotto il divieto delle clausole di esclusiva nel rapporto di distribuzione tra compagnie assicurative e agenti; questa norma ha cosà vietato la possibilità di prevedere clausole che impongano il monomandato
nel rapporto compagnia di assicurazione/agenti ed ha aperto, conseguentemente, la possibilità
alla diffusione di reti in plurimandato. Inoltre, l'art. 5 del d.l. n. 7/2007 ha successivamente
esteso il divieto di esclusiva alla distribuzione di servizi assicurativi relativi a tutti
i rami danni e ha introdotto la facoltà di recesso a favore dell'assicurato titolare di una polizza
avente durata poliennale. Sono in corso di esame, presso la X Commissione permanente
Industria, Commercio e Turismo, del Senato della Repubblica, due emendamenti, n.
12.1 e n. 12.2. al d.d.l. n. 1195 che ' ad avviso dell'Autorità Garante ' se approvati, abrogherebbero
tali innovazioni procompetitive ed invece comporterebbero vari effetti aventi
impatti restrittivi in un'ottica antitrust. Ed infatti verrebbe meno il divieto di esclusiva e sarebbe
solo previsto che: «In caso di rapporto esclusivo con una impresa di assicurazione,
l'intermediario dichiara altresà che le proprie valutazioni si fondano solo sui contratti offerti
dalla medesima impresa e che potrebbero esistere sul mercato prodotti migliori per soddisfare
le richieste del contraente». In secondo luogo, verrebbe modificato il diritto di recesso
annuale nel caso di contratti di durata poliennale, con la previsione che: «Al primo
comma dell'articolo 1899 del codice civile, il secondo periodo è sostituito dal seguente 'in
caso di durata pluriennale, l'assicurato ha la facoltà di recedere annualmente dal contratto
di assicurazione che sia stato in vita per almeno cinque anni, senza oneri e con preavviso
di sessanta giorni; in caso di nuovo contratto pluriennale, lo stesso prevede una riduzione
del premio dovuto annualmente rispetto a quello previsto per la stessa copertura delle
polizze di durata annuale». Secondo l'Autorità il divieto delle clausole di esclusiva nella
distribuzione assicurativa persegue l'importante obiettivo di incentivare l'apertura delle
reti distributive superando assetti storicamente basati su rapporti in monomandato tra
compagnie di assicurazione e agenti. La diffusione del plurimandato ' derivante soprattutto
dall'incentivo degli agenti a collocare prodotti/servizi diversi, quindi con gamme complete
e adeguate alle diverse esigenze della domanda ', è una essenziale strategia per iniettare
una spinta competitiva tra compagnie assicurative; ciò grazie alla capacità data ai
consumatori finali di comparare, presso lo stesso agente, polizze di diversi operatori. Riducendo,
attraverso il plurimandato, i costi di ricerca per i consumatori finali ' che vogliano
una prima polizza assicurativa o una polizza diversa rispetto a quella già sottoscritta ',
viene certamente innescato un maggior confronto competitivo dell'offerta e ciò attraverso
il ruolo attivo e determinante della domanda. Viceversa, la possibilità di adottare clausole
di esclusiva, quindi di creare reti in monomandato, espone all'elevato rischio: (i) di rapporti
fidelizzati sia tra compagnia e agenti sia tra questi e i consumatori finali, (ii) nonché scarsi
stimoli da parte degli stessi agenti e della domanda finale a esercitare il proprio potere
di mercato comparando contratti distributivi e prodotti di compagnie diverse. L'Autorità ritiene
altresà che la modifica alla facoltà di recesso comporti effetti negativi sotto il profilo
della tutela della concorrenza e del consumatore. Infatti, mentre attualmente l'assicurato
con contratto pluriennale può esercitare il diritto di recesso annualmente le richiamate proposte
comporterebbero che la facoltà di recesso annuale sia esercitabile solo laddove il
contratto sia stato in vita per almeno cinque anni. Ne consegue che al consumatore viene
ridotta e compromessa in misura considerevole la possibilità di cambiare polizza, dal momento
che il diritto è esercitabile solo dopo una lunga durata ' pari a cinque anni dalla stipulazione
del contratto ' tra l'altro omogeneizzando sia i nuovi che i vecchi contratti.
Termine per il tentativo di conciliazione
La Commissione, con una delibera di indirizzo, ha segnalato al Ministero del Lavoro l'opportunità che,in occasione del tentativo preventivo di conciliazione, di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 146 del 1990 la convocazione venga inviata alle parti almeno 24 ore prima della data fissata, al fine di consentire alle stesse l'effettiva partecipazione all'incontro.
Adesione «implicita» allo sciopero indetto da altra O. S.
La Commissione ha ribadito il proprio orientamento secondo cui «l'adesione di una organizzazione sindacale allo sciopero proclamato da altra organizzazione sindacalesi verifica non solo in caso di adesione formale, ma anche quando, in assenza
di adesione formale, nella condotta della organizzazione sindacale sia ravvisabile, in considerazione
delle circostanze del caso concreto, un invito a scioperare» (delib. 05/127).
Nel caso di specie, però, la Commissione ha ritenuto che non ricorressero sufficienti elementi
per qualificare la condotta della Uiltucs-Uil in termine di adesione «tacita» allo sciopero
indetto da un altro sindacato, giacché la Uiltucs-Uil non aveva sottoscritto alcun documento
in tal senso e la circostanza che i propri iscritti avessero partecipato allo sciopero
non può essere interpretata di per sé alla stregua di una anche implicita adesione all'astensione
stante la pacifica libertà dei lavoratori di aderire a scioperi proclamati da organizzazione
diversa da quella alla quale si è iscritti.
Riproclamazione
La Commissione con una delibera di indirizzo ha ritenuto che in presenza di uno sciopero attuato in violazione delle regole della disciplina di settore,quello proclamato successivamente non può essere considerato seconda azione di sciopero, atteso
che nella disciplina di settore la previsione di una progressione della durata non può che
riguardare astensioni collettive conformi alla detta regolamentazione.
Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - Discriminazione fondata sull’età
Retribuzione proporzionata e sufficiente – Applicazione del contratto collettivo nazionale – Esclusione
Mobilità volontaria temporanea presso altra amministrazione – Mancata riammissione in servizio - Tutela cautelare
Impiegato di banca - Inadempimenti del lavoratore privi di conseguenze dannose per il datore
Il sig. C. C., dipendente della Banca popolare di Novara con mansioni di back office, a seguito di procedimento disciplinarenell'ambito del quale gli venivano contestati plurimi comportamenti irregolari, veniva licenziato per giusta causa. Il lavoratore adiva quindi il Tribunale di Napoli ed, eccependo la nullità e l'illegittimità del licenziamento
per sproporzione tra i fatti addebitati e la sanzione irrogata, evidenziava in particolare
la tenuità degli addebiti concernenti irregolarità solo formali a cui non aveva fatto
seguito alcun danno economico o di immagine, e domandava al giudice del lavoro, pertanto, di essere reintegrato nel posto di lavoro e la condanna dell'istituto di credito al risarcimento
dei danni. La società convenuta, di contro, ribadiva la legittimità del provvedimento
espulsivo adottato, ponendo l'accento sulla violazione da parte del dipendente
delle rigorose previsioni aziendali dettate dai regolamenti interni per disciplinare le situazioni
di potenziale conflitto di interesse. All'esito dell'istruttoria risultavano confermati
gli addebiti, ed in particolare il fatto che il sig. C. C. aveva più volte violato il Codice
di autodisciplina ed il Codice etico adottando comportamenti in contrasto con le procedure
in uso e le disposizioni ricevute dalla Banca. Accertata la natura della violazione
commessa dal ricorrente, il giudice procedeva a valutare la gravità dell'inadempimento
al fine di verificare se questo giustificasse o meno come proporzionata la sanzione espulsiva.
In proposito il giudice osservava che, nella fattispecie, la gravità dell'inadempimento
discendeva proprio dalla funzione di addetto al retro sportello, tra i cui doveri
rientra quello di non compiere atti che possano compromettere le esigenze di trasparenza
e terzietà dell'attività bancaria e di evitare pericolosi personalismi nella gestione
del credito, e che i fatti contestati, complessivamente valutati, erano tali da compromettere
irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro nutre nei confronti del proprio dipendente
in ordine al corretto adempimento degli obblighi contrattuali ed al più generale
dovere di correttezza e buona fede. La circostanza, poi, che nella fattispecie non si fosse
verificato alcun danno, non impediva di ritenere che, data la posta in gioco, l'adozione
della sanzione più grave apparisse legittima anche in funzione di deterrenza. Nell'ambito
di una organizzazione aziendale di gestione del credito, proseguiva il giudice, è
naturale che il rapporto fiduciario sia basato non solo sulla capacità professionale del dipendente,
ma anche sulla lealtà della condotta: anche un comportamento che abbia prodotto
al datore di lavoro un danno economico di lieve o nessuna entità può essere idoneo
a ledere il vincolo fiduciario in quanto sintomatico di un atteggiamento non solo poco
diligente ma consapevolmente posto in essere in spregio alle regole aziendali. Il ricorso,
conseguentemente, veniva rigettato.
Danno da demansionamento - Insussistenza
Un ex dipendente di un'impresa di costruzioni conveniva in giudizio la ditta per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del demansionamento
subito.Il Tribunale di Pescara nel rigettare il ricorso ha richiamato, nel rispetto della funzione
di nomofilachia, il principio delle Ss.Uu. della Suprema Corte circa il riparto dell'onere
probatorio che impone al lavoratore l'onere di provare il danno patito ed il nesso di
causalità . Ha quindi concluso che l'allegazione dell'avvenuto demansionamento da solo
non è sufficiente a giustificare una pronuncia di condanna in assenza della prova sugli effetti
dannosi della condotta illegittima del datore di lavoro.
In caso di licenziamento di un «telelavoratore» la peculiarità del rapporto deve essere valutata con le esigenze aziendali
E. P., dipendente della Spa Reed Business Information, ha svolto per circa tre anni la sua attività lavorativa,consistente nel reperimento e nella classificazione dei dati
a mezzo di un computer, operando nella sua abitazione con le modalità del «telelavoro». Ella osservava il normale orario giornaliero, mantenendosi in costante contatto telematico
con l'ufficio centrale di Bassano del Grappa cui inviava i dati reperiti ed elaborati.
Nell'aprile del 2007 ha ricevuto dall'azienda una lettera con la quale le si chiedeva se era
disposta a trasferirsi a Bassano del Grappa per svolgere presso l'ufficio centrale un'attività
di classificazione dei dati a mezzo computer, essendo stata soppressa, in seguito all'introduzione
di un nuovo sistema informativo, l'attività da lei in precedenza svolta presso
la sua abitazione. Poiché non ha risposto nel termine stabilito dall'azienda, la lavoratrice
è stata licenziata per ragioni organizzative. Ella ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare
il licenziamento, sostenendo che le ragioni organizzative addotte dall'azienda non
esistevano. La società si è difesa affermando che la nuova attività richiedeva necessariamente
la presenza degli operatori in ufficio sia per ragioni tecniche legate al sistema informativo
di classificazione in uso, sia per ragioni organizzative legate all'esigenza di un controllo
costante del lavoro svolto da parte del responsabile. Il Tribunale di Roma ha annullato
il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando l'azienda
al risarcimento del danno. Nella motivazione della decisione il giudice ha evidenziato
la peculiarità del telelavoro, il cui elemento caratterizzante è concordemente individuato
nel fatto che la prestazione avviene mediante collegamento informatico-telematico
a distanza con l'organizzazione aziendale dell'impresa.
Le caratteristiche di tale rapporto di lavoro ' ha affermato il Tribunale ' infatti, autorizzano
a ritenere che l'elemento del «luogo» di svolgimento della prestazione non possa
essere considerato, di per sé, condizionante, nell'ambito di quelle esigenze tecniche, organizzative e produttive che si pongono alla base del potere organizzativo datoriale legittimante
un eventuale trasferimento, proprio perché considerato neutro e non incidente
sulla effettiva utilità della prestazione, mentre le stesse considerazioni possono estendersi
alla valutazione dei presupposti legittimanti il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, nel quale, se è vero che il lavoratore non può invocare (a differenza che
nel licenziamento collettivo) situazioni personali per ottenere che la scelta cada su altro
dipendente, è anche vero che ha il diritto a che il datore (su cui incombe il relativo onere)
dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad effettive ragioni di carattere
produttivo-organizzativo. Tale onere, infatti, impone principalmente che il datore
dimostri la impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni compatibili con la qualifica
rivestita, in relazione al concreto contenuto professionale dell'attività cui quest'ultimo
era precedentemente adibito. Non può quindi considerarsi decisiva ' ha osservato
il Tribunale ' la circostanza secondo cui «l'attività di classificazione richiede necessariamente
la presenza degli operatori in ufficio, sia per ragioni tecniche legate al sistema
informatico di classificazione in uso, sia per ragioni organizzative legate all'esigenza di
un controllo costante del lavoro svolto da parte della responsabile», in quanto non idonea
a corroborare la impossibilità di reimpiego, proprio per le modalità della prestazione
di E. P., atteso che non vengono evidenziate le ragioni della impossibilità di continuare
la propria attività in collegamento solo telematico con la sede centrale (E. P., infatti,
già operava ' con vincolo di subordinazione ' svolgendo anche le mansioni afferenti
la classificazione di dati, interfacciandosi, via computer, con l'ufficio di Bassano del
Grappa, dal quale riceveva i dati che rinveniva dopo averli controllati e selezionati). In altre
parole ' ha rilevato il Tribunale ' la convenuta non ha fornito adeguata spiegazione
del perché la attività della ricorrente, con le modalità descritte, non potesse essere ancora
utilizzata (essendo sempre stata indirizzata presso la sede di Bassano, appunto),
non potendo assumere rilevanza determinante, proprio per le ragioni dette, il «luogo»
della prestazione stessa e non essendo stato allegato alcun argomento specifico che
rendesse conto della impossibilità di continuare a ricevere la stessa prestazione sino ad
allora espletata; non si comprende, inoltre, neppure quale ulteriore controllo potesse essere
esplicato sulla attività di E. P. apparendo, verosimilmente, il potere direttivo che si
esercita attraverso le indicazioni sulle modalità di esecuzione della prestazione attraverso
il computer, sicuramente più penetrante, rispetto a quello esercitato all'interno dell'azienda,
proprio perché attuato attraverso il collegamento informatico/telematico, tramite
un continuo contatto nell'orario di lavoro e, a un tempo, un sicuro controllo sulla osservanza
dello stesso orario di lavoro.
Addetta alle pulizie - Impresa appaltatrice gestore di pubblico servizio – Illegittimità del licenziamento
Lavoro pubblico - Trasferimento per incompatibilità ambientale - Principio di imparzialità - Dirigente associazione sindacale
Si riconosce la legittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale,a seguito di comprovata e accertata situazione di grave e permanente conflittualità tra un
insegnante e la maggior parte delle componenti della comunità educativa, tale da compromettere
il regolare andamento e funzionamento delle attività dell'istituzione scolastica.
Ai fini della legittimità del trasferimento non rileva il fatto che il trasferimento sia stato
disposto d'ufficio da dirigente scolastico obbligato ad astenersi, per aver querelato l'insegnante
per fatti di ingiuria, diffamazione e calunnia; querela che tra l'altro conseguiva
ad antecedente iniziativa dell'insegnante contro il medesimo dirigente. Nel caso di specie
si tratta, dunque, di vagliare la legittimità non di un atto organizzativo, bensà di un atto gestorio
relativo ad un rapporto di lavoro subordinato: risultano, pertanto, infondate giuridicamente
le prospettazioni del ricorrente, fondate sull'applicabilità di regole e principi
propri degli atti amministrativi e dell'azione di diritto pubblico dell'amministrazione, dovendosi
applicare la regola di giudizio secondo cui la conformità a legge del comportamento
dell'amministrazione deve valutarsi secondo gli stessi parametri che si utilizzano
per i privati datori di lavoro. Né rileva, ai fini della legittimità del trasferimento, la qualifica
di dirigente di associazione sindacale dell'insegnante, non estendendosi la prerogativa
sindacale introdotta dalla normativa statutaria ai dirigenti delle associazioni sindacali
(provinciali o nazionali), che non rivestano anche la qualità di dirigente di Rsa/Rsu (Cass.
n. 1442/2008, n. 16790/2006, nn. 12349, 1684/2003). Nel caso di specie, il ricorrente, al
momento dell'avvio del procedimento per trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale,
non era rappresentante sindacale aziendale dell'associazione (di cui è divenuto
dirigente solo al momento della proposizione della domanda giudiziale), rispetto alla quale
non era nemmeno iscritto. La rivendicazione del ruolo di dirigente sindacale di terminale
associativo di sigla aderente ad organizzazione sindacale di categoria rappresentativa
non è di per sé condizione sufficiente per godere della prerogativa sindacale in questione,
contemplando il Ccnl di riferimento che, in caso di affiliazione tra sigle sindacali
che non dia luogo alla creazione di un nuovo soggetto, i distacchi, i permessi e le aspettative
sindacali di cui al presente contratto fanno capo solo alla organizzazione sindacale
affiliante. Considerato poi che l'interesse tutelato dalla norma statutaria non è quello individuale
del lavoratore, ma quello collettivo della Rsa/Rsu a non vedere allontanato il
proprio dirigente dall'ambito di lavoro nel quale opera e, dunque, dal gruppo di lavoratori
di riferimento, la problematica sindacale risulta del tutto estranea al caso di specie.
Dimissioni del lavoratore – Principio di irrevocabilità - Incapacità naturale del lavoratore – Anche parziale – Annullam
Mancata trasformazione del rapporto da full time a part time - Contraria previsione ccnl e accordo integrativo aziendale
Una lavoratrice madre di tre bambini piccoli, a fronte del diniego dalla propria datrice di lavoro di concedere la trasformazione del rapporto di lavoro in part time,nonostante il contrario disposto del Ccnl applicato e dell'Accordo Integrativo Aziendale,
proponeva ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. per ottenere la trasformazione del rapporto
in part time. Si costituiva l'ex datrice di lavoro affermando la legittimità del suo diniego.
Nel corso del giudizio la lavoratrice a fronte della proposta della ex datrice di lavoro
di un incentivo all'esodo, rassegnava le dimissione per giusta causa. Successivamente
la lavoratrice presentava all'Inps domanda di erogazione dell'indennità di disoccupazione
ordinaria. L'Istituto respingeva l'istanza, affermando che i motivi posti a fondamento delle
dimissioni non configuravano giusta causa di cessazione del rapporto e conseguentemente
non davano diritto alla concessione del trattamento. Poiché il ricorso amministrativo
rimaneva privo di riscontro, la lavoratrice si rivolgeva al Tribunale del lavoro, evidenziando
come l'interpretazione della disciplina relativa all'indennità di disoccupazione ordinaria,
in caso di risoluzione del rapporto conseguente a dimissioni per giusta causa del
lavoratore, fatta propria dall'Istituto dovesse ritenersi palesemente illegittima in quanto
in contrasto con una lettura rigorosa e costituzionalmente orientata dell'art. 34 della legge
448/1998, norma che ' per l'appunto ' ha modificato la disciplina prevista dal r.d.l.
1827/1935. A fronte della posizione assunta dalla Corte Costituzionale con sentenza 24
giugno 2002, n. 269, l'Inps aveva ritenuto di impartire ai propri Uffici istruzioni operative
volte a limitare il riconoscimento dell'indennità in questione al verificarsi di una serie di
fattispecie (mancato pagamento della retribuzione, molestie sessuali sul luogo di lavoro,
modificazione in senso peggiorativo delle mansioni lavorative, mobbing, spostamento del
lavoratore ad altra sede senza che sussistano la «comprovate ragioni tecniche, organizzative
e produttive» previste dall'art. 2103 cod. civ., notevoli variazioni delle condizioni di
lavoro a seguito di cessione ad altre persone [fisiche o giuridiche] dell'azienda, comportamento
ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente)
già riconosciute dalla Corte di Cassazione e dai tribunali di merito, la cui elencazione doveva
ritenersi tassativa e vincolante. Veniva proposto ricorso giudiziale. Il giudice accoglieva
il ricorso, affermando che le dimissioni rassegnate a fronte della mancata concessione
del part time, scaturendo da un comportamento datoriale palesemente idoneo ad
integrare la condizione della non proseguibilità del rapporto di lavoro ai sensi dell'art.
2119 cod. civ., non potevano essere ricondotte ad una libera scelta del lavoratore. In particolare
il giudice di primo grado rilevava che la particolare condizioni della ricorrente di
lavoratrice madre di tre figli e la sua richiesta di passaggio part-time per far fronte alle esigenze
famigliari costituivano, in ragione del diniego della società datrice di lavoro, giusta
causa di dimissioni, anche se determinate da una contestuale erogazione di incentivo
all'esodo. La decisione del Tribunale di Bologna si trova in piena sintonia con la sentenza
della Corte Costituzionale, che, nel dichiarare non fondata la legittimità costituzionale della
norma in questione, aveva precisato che qualora le dimissioni del lavoratore siano «indotte
da una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato, cosà grave da
impedirne persino la provvisoria prosecuzione (art. 2119 cod. civ.), comportano, uno stato
di disoccupazione involontaria e devono ritenersi non comprese, in assenza di una espressa
previsione in senso contrario, nell'ambito di operatività della disposizione censurata». La decisione del Tribunale di Bologna ha un suo importante rilievo in quanto riconosce
il diritto alla disoccupazione anche nei casi in cui non vi sia un palese inadempimento
degli obblighi che disciplinano il rapporto di lavoro, ma è sufficiente un comportamento,
non necessariamente illegittimo, che rende impossibile la prosecuzione del rapporto
per ragioni intrinseche alla sfera della lavoratrice.
Licenziamento giustificato motivo oggettivo – Soppressione del posto di lavoro - Rilievo della parte residuale della mansione
Licenziamento disciplinare - Accusa di aver partecipato a due partite di calcio durante un periodo di assenza per infortunio
Con comunicazione del 20 settembre 2006 il datore di lavoro contestava al suo dipendente assente per infortunioin itinere (incidente stradale) di aver appreso dalla stampa quotidiana locale che lo stesso aveva partecipato alle date del 3 e 18 settembre (due domeniche) a due partite di calcio (segnando anche alcuni goal) con conseguente inosservanza delle norme mediche e pregiudizio per la sua salute. Il lavoratore impugnava il licenziamento davanti al Tribunale del lavoro di Bologna contestando che le attività svolte avessero ritardato la guarigione. Il giudice disponeva Ctu, dalla cui relazione risultava che il prolungamento dell'assenza dal lavoro fu dovuto a due fattori tra loro indipendenti: da un lato l'evento traumatico conseguenza del sinistro stradale (con distorsione
del rachide cervicale e contusione del gomito destro), dall'altro una patologia indipendente dal sinistro, consistente in una neuropatia cronica ulnare. Poiché la chiusura dell'infortunio da parte dell'Inail resta fissata al 15 settembre solo uno dei due episodi oggetto di contestazione risultava ricadere nel periodo di assenza giustificato dall'infortunio. La Ctu ha anche accertato che, seppure la partecipazione ad una partita di calcio fosse potenzialmente idonea ad aggravare le conseguenze dell'infortunio o a ritardarne la guarigione (come era facile intuire), di fatto ciò non si è verificato, avendo avuto le lesioni derivate dall'infortunio il loro normale decorso e restando estranea agli esiti dell'infortunio la patologia ulnare. Afferma il giudice: «Ciò non toglie che vi sia stata violazione da parte del ricorrente di una regola di condotta, conforme a un dovere di correttezza, e qualificata espressamente dal contratto come di rilievo disciplinare. Tuttavia la valutazione della gravità della condotta va fatta sempre con riguardo al caso concreto, e nel caso in esame l'assenza di conseguenze negative per il datore di lavoro fa ritenere non proporzionata l'applicazione della sanzione espulsiva, dovendosi ritenere eventualmente più appropriate le misure disciplinari di carattere conservativo.
Sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado – Pericolo di irripetibilità della somma precettata
Violazione del diritto di assemblea - Condotta antisindacale
Con ricorso ex art. 28 Statuto dei lavoratori, la Filcem - Cgil di Ravenna ha convenuto in giudizio una società di servizi con sede a Ravenna,per far accertare l'antisindacalità del comportamento dell'azienda che, a fronte della richiesta di un luogo per
lo svolgimento di una assemblea sindacale avanzata dalla sola Cgil, non ha messo a disposizione
locali idonei a contenere i lavoratori interessati. Infatti, seppur nella prassi aziendale vi fosse la possibilità di utilizzare una sala all'interno della struttura aziendale idonea a contenere un consistente numero di persone, dinanzi alla richiesta dell'Organizzazione sindacale di un locale dove poter svolgere l'assemblea avente ad oggetto la riforma
del contratto, a seguito della «scissione» della Cgil, la società offriva un luogo non adatto
ad accogliere tutti i lavoratori previsti. Ciò è stato rilevato anche dalle dichiarazioni
rese dagli informatori nel corso del procedimento sommario, dalle quali è emerso che la
sala oggetto del contendere sarebbe stata utilizzata nel caso di assemblee richieste e organizzate
congiuntamente da Cgil, Cisl e Uil: da qui dunque il rifiuto della società convenuta
di concedere alla sola Cgil uno spazio cosà ampio, accordando la possibilità che la
stessa assemblea potesse svolgersi in una sala omologata per circa cento persone. L'Organizzazione
sindacale ricorrente riteneva infatti che il diritto dei lavoratori a potersi riunire
in locali idonei per svolgere le assemblee sindacali fosse stato di fatto reso ineffettivo
in quanto la datrice di lavoro, pur non avendo negato ai lavoratori la disponibilità a
svolgere l'assemblea richiesta, non aveva reso possibile l'utilizzo della Sala Mattei, la più
ampia all'interno della struttura aziendale, anche a fronte della previsione di una partecipazione
di trecento lavoratori. Con tale comportamento, peraltro, la parte datoriale aveva
non solo impedito ai lavoratori di esercitare un diritto espressamente sancito, ossia quello
di partecipare all'assemblea, ma di fatto aveva reso impossibile al sindacato espletarla.
Il Tribunale del lavoro di Ravenna con decreto del 4 marzo 2009 accoglie il ricorso proposto
dall'O.S., ritenendo antisindacale il diniego della società Ravenna Servizi industriali
di mettere a disposizione della Filcem - Cgil il locale ritenuto idoneo a contenere il consistente
numero di persone previsto e ordinando alla stessa società di mettere a disposizione
la predetta sala. Nel provvedimento emesso dal giudice si rileva quello che è un incontestabile
diritto dei lavoratori sancito dallo Statuto dei lavoratori e consistente, appunto,
nel diritto a questi concesso di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la
loro opera, fuori dell'orario di lavoro, nonché durante l'orario di lavoro, nei limiti di dieci
ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione.
Per tali motivi, dunque, il giudice ha ordinato che il suo provvedimento fosse immediatamente
eseguito e che l'assemblea si potesse svolgere nella Sala Mattei, l'unica adatta a
contenere i trecento lavoratori che vi avevano aderito: nell'arco della stessa giornata il decreto
veniva comunicato a mezzo fax al datore di lavoro e l'assemblea si teneva regolarmente
secondo quanto giudizialmente disposto.
Opposizione a decreto - Mancanza di natura confessoria di precedente transazione - Legittimità della ingiunzione
Con ricorso depositato avanti il giudice del lavoro la società D. proponeva opposizione avverso il decretocon il quale era stato ingiunto alla stessa il pagamento in favore dell'ex dipendente V. della somma di euro 1.500,00 per crediti di lavoro, in relazione alla differenza tra quanto indicato sull'ultima busta paga e quanto effettivamente percepito.
La società rilevava che il dipendente aveva in precedenza sottoscritto una dichiarazione
con la quale aveva riconosciuto la propria responsabilità ed il proprio conseguente
debito verso la società per una serie di danni causati nell'esercizio delle proprie mansioni,
per un ammontare di oltre euro 6.000,00 ed aveva acconsentito alla limitata pretesa
del datore a un pagamento, per tali titoli risarcitori, di soli euro 1.500,00 (cifra che l'impresa
aveva quindi trattenuto dall'ultimo prospetto paga). L'azienda quindi chiedeva in
via riconvenzionale il pagamento da parte dell'ex dipendente della residua somma, chiedendo
inoltre un risarcimento del danno. Il lavoratore si costituiva chiedendo la conferma
del decreto opposto, contestando in principal modo la fondatezza degli addebiti circa i
danni asseritamente arrecati in capo all'ex datrice di lavoro e deducendo che la dichiarazione
contenuta nella scrittura privata aveva natura di negozio transattivo e non poteva
essere considerata come riconoscimento di debito. Il giudice ha soffermato la sua attenzione
sulla natura e sulla portata della dichiarazione contenuta nella scrittura privata resa
inter partes. Nella stessa, il lavoratore aveva ammesso di non aver sempre operato
con correttezza causando per ciò all'azienda grave danno, accettando conseguentemente
una riduzione del proprio Tfr convenuta nella somma di euro 1.500,00 a titolo di
ristoro per tali danni. Si trattava secondo il giudice chiaramente di negozio transattivo, e
pertanto le relative concessioni non possono avere natura confessoria e quindi essere
considerate come riconoscimento di debito. A ciò perviene la giurisprudenza della Suprema
Corte (Cass., 23 gennaio 1997, n. 712), secondo la quale: «Il riconoscimento di un fatto
a sé sfavorevole e favorevole all'altra parte non ha natura confessoria per mancanza di
animus confitendi, ove costituisca l'oggetto di una delle reciproche concessioni di un contratto
di transazione, poiché non integra una dichiarazione di scienza che sia fine a se
stessa, ma s'inserisce nel contenuto del contratto transattivo ed è strumentale rispetto al
raggiungimento dello scopo di questo, il che fa venir meno, nella rappresentazione interna
che l'autore si forma della propria dichiarazione, la basilare caratteristica che alle confessioni
conferisce forza probante». Sulla stessa falsariga, Corte App. Bologna, 6 luglio
2004, secondo cui: «Il riconoscimento di un fatto a sé sfavorevole e favorevole all'altra
parte non ha natura confessoria, per mancanza di animus confitendi, ove costituisca l'oggetto
di una delle reciproche concessioni di un contratto di transazione». Veniva quindi
per tali motivi accertata la fondatezza del credito azionato in via monitoria dal dipendente
ed analizzata la fondatezza della domanda riconvenzionale esposta dalla Società , diretta
alla verifica dei danni lamentati dalla stessa per il comportamento del lavoratore. Le
testimonianze rese hanno accertato unanimemente la totale assenza di responsabilità del
lavoratore in merito ai danni lamentati dall'azienda, con conseguente rigetto della domanda
risarcitoria esposta. Per tali motivi il giudice confermava in toto il decreto ingiuntivo
opposto.
La Cassazione esclude il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente al lavoro autonomo
Un lavoratore che aveva svolto attività di consulenza legale in favore del comune di Lecce adiva il locale magistratoal fine di vedersi riconoscere un compenso maggiore rispetto a quello pattuito parametrato sulla base delle tabelle professionali e comunque sulla base della retribuzione per il lavoro dirigenziale. La domanda del professionista
veniva respinta sia in primo grado dal Tribunale di Lecce sia in sede di appello che
escludeva l'applicabilità delle tabelle professionali per il tipo di attività svolto. La Corte di
Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità ha osservato che l'adeguamento del
compenso pattuito con un lavoratore autonomo non può trovare applicazione in forza del
principio di diritto secondo cui il precetto della retribuzione sufficiente riguarda esclusivamente
il lavoro subordinato mentre per tutte le altre prestazioni un intervento del giudice
per la determinazione del compenso può ammettersi solo se espressamente previsto
da disposizioni legislative. Pertanto ' conclude la Corte di legittimità ' in tema di lavoro
autonomo in generale, compreso il lavoro autonomo cosiddetto parasubordinato, è previsto
dagli artt. 2223 e 2225 cod. civ. che il giudice possa determinare il compenso in relazione
al risultato ottenuto e alla quantità e qualità del lavoro prestato per ottenerlo, ma
ciò solo nel caso in cui non sia stato convenuto dalle parti e non possa essere stabilito,
sempre che non sia stato pattuito secondo le tariffe o gli usi. L'intervento del giudice nell'ambito
del lavoro autonomo, conclude quindi la Corte, non può essere invocato in tema
di compenso per prestazioni lavorative autonome, ancorché rese con carattere di continuità
e continuazione, nell'ambito di un rapporto di collaborazione per il quale il compenso
risulti pattuito.
Il comportamento delle parti assume rilevanza al fine di accertare l’assorbibilità di un superminimo
Nel nuovo sistema delle assunzioni obbligatorie rileva la professionalità richiesta dal datore di lavoro tenuto all’avviament
Ambito e condizioni del repêchage anche in mansioni inferiori
Un lavoratore di una azienda marittima dopo aver intentato una causa di dequalificazione professionale veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo dall'azienda.Nel corso del giudizio di reintegra nel posto di lavoro il Tribunale di Napoli
respingeva la domanda del lavoratore ma la sentenza veniva riformata dalla Corte di Appello.
I giudici di legittimità nel cassare la decisione del secondo grado, pur richiamando
il recente orientamento in materia di repàªchage che impone in caso di licenziamento per
ristrutturazione la verifica di una assegnazione a mansioni diverse anche dequalificanti,
hanno ritenuto che la disponibilità del lavoratore alla dequalificazione debba essere accertata
al momento del licenziamento e non già successivamente. Il presupposto affinché
il lavoratore venga adibito a mansioni inferiori è che il lavoratore abbia accettato il patto
di demansionamento e la qualficazione prima del licenziamento e non già in un momento
successivo. Nel cassare la decisione la Corte di Cassazione ha invero ritenuto che la causa
di dequalificazione promossa dal lavoratore prima del licenziamento determina che
non possa essere ritenuto esistente un effettivo consenso del lavoratore alla dequalificazione
prima del licenziamento.
Indennizzi ex lege 210/1992
L'indennizzo previsto dalla legge n. 210/1992 spetta anche ai soggetti che presentino danni irreversibili derivanti da epatitecontratta a seguito di somministrazione di derivati del sangue (nel caso di specie vaccino antitetanico). La Corte Costituzionale, quindi, ha accolto la questione prospettata, per violazione dell'art. 3 Cost., dal Tribunale di Palermo. Dalla disciplina complessiva del 1992 emerge infatti che, mentre l'indennizzo è sempre riconosciuto nel caso di soggetti che abbiano contratto infezioni da Hiv, ai soggetti che abbiano contratto l'epatite il beneficio è concesso solo nel caso in cui la malattia sia conseguita a trasfusione, ovvero, se si tratta di operatori sanitari, nelle ipotesi di contatto con il sangue o suoi derivati. In sostanza non è tutelata l'ipotesi in cui l'infezione da epatite sia conseguita alla somministrazione di derivati dal sangue, come è il vaccino antitetanico. Una irragionevolezza che la Corte Costituzionale ha immediatamente sanato dichiarando l'illegittimità della norma impugnata.
La partecipazione alle perdite costituisce un elemento costitutivo del contratto di associazione
Nel corso di una ispezione effettuata all'interno di una azienda di L'Aquila che gestiva un ristorante l'ente previdenziale,rilevato che alcuni lavoratori svolgevano la propria prestazione sulla base di un compenso fisso privo di un effettivo conguaglio e senza alcun rendiconto, contestava all'azienda il contratto di associazione in partecipazione stipulato con i lavoratori accertando l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso formulato dalla società avverso la sentenza della locale Corte di Appello che aveva ritenuto la validità dell'accertamento effettuato dagli ispettori ha rilevato che l'elemento differenziale del contratto di associazionerispetto al contratto di lavoro subordinato è costituito dalle partecipazione alle perdite. Nell'affermare che la volontà espressa dalle parti non ha un rilievo assorbente la Suprema Corte ha infatti affermato che nell'ambito di un contratto di associazione in cui la prestazione lavorativa assume caratteri del tutto simili a quelli della prestazione svolta nell'ambito di un lavoro subordinato, l'elemento differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contenuto effettivo del rapporto piuttosto che nella previsione patrizia. In tale prospettiva ' osservano i giudici di legittimità ' il fulcro dell'indagine si sposta soprattutto sulla verifica dell'autenticità del rapporto di associazione. La Corte di Cassazione ha quindi ritenuto che l'elemento indefettibile di un rapporto di associazione in partecipazione che ne connota la causa ed il sinallagma è costituito dalla partecipazione al rischio di impresa gestita dall'associante, intendendosi che l'associato deve partecipare sia agli utili che alle perdite non essendo ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di una impresa senza partecipazione alle perdite.
Accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e rapporto previdenziale
P. B. ha svolto attività di insegnamento presso la Scuola europea di Varese dal novembre 1963 al giugno 1999 con formale contratto di lavoro autonomo.Successivamente ha chiesto al Tribunale di Varese di accertare che in effetti ella aveva lavorato
in condizioni di subordinazione e di condannare l'ex datrice di lavoro al risarcimento
del danno da omesso versamento dei contributi previdenziali. La convenuta si è difesa facendo
presente, tra l'altro, che la subordinazione era stata esclusa in un altro giudizio da
essa promosso nei confronti dell'Inps per resistere alla pretesa avanzata dall'Istituto del
pagamento dei contributi previdenziali sui compensi versati all'insegnante. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata,
in grado di appello, dalla Corte di Milano che ha accertato la natura subordinata del
rapporto di lavoro intercorso tra le parti e ha condannato la Scuola europea a pagare alla
ex dipendente «la somma che l'Inps indicherà come necessaria per il trattamento di quiescenza
conferme all'anzianità in relazione a quanto accertato». La Corte ha motivato la
sua decisione come segue: «Dalle numerose prove testimoniali, è emerso che P. B. effettuava,
anche nel periodo precedente alla formalizzazione in rapporto di lavoro subordinato,
attività d'insegnamento nell'ambito dei programmi della scuola e con l'orario stabilito
preliminarmente all'inizio dell'anno scolastico dalla direzione [â?¦] I vari testi hanno tutti
confermato l'attività di insegnamento della seconda lingua, materia principale dei programmi
di scuola, in un inserimento organizzativo fissato per modalità e durata dalla direzione.
È risultato inoltre che P. B., all'occorrenza, effettuava anche supplenze di colleghi
assenti, veniva poi sottoposta ai controlli degli ispettori sullo svolgimento dei programmi
della scuola e non aveva neppure altre attività di insegnamento scolastico, al di fuori della
Scuola Europea. Il fatto che non abbia mai ricevuto contestazioni disciplinari, non è certo
indicativo in senso opposto alla subordinazione (può bene essere invece segno di buon
comportamento conforme all'indirizzo della scuola); e del resto, non risulta che abbia ricevuto
contestazioni neppure nel periodo nel quale era formalmente inquadrata come subordinata.
Pertanto, è da ritenere che, anche per il periodo precedente al 1986, il rapporto
di lavoro non potesse essere considerato di collaborazione coordinata e continuativa,
ma rivestisse le caratteristiche del lavoro subordinato».
La Scuola Europea ha proposto ricorso per cassazione per vizi di motivazione e violazione
di legge. Essa ha, tra l'altro, sostenuto che la Corte di Milano avrebbe dovuto tenere in
considerazione la sentenza da essa ottenuta nei confronti dell'Inps. La Suprema Corte ha
rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte d'Appello abbia correttamente motivato
la sua decisione in base a una valutazione globale di tutti gli elementi emersi ed in
particolare di quelli indiziari della subordinazione accertando il concreto inserimento della
lavoratrice nella organizzazione complessiva della scuola. La Cassazione ha ritenuto
non opponibile alla lavoratrice il giudicato intercorso tra la scuola e l'Inps. L'efficacia riflessa
del giudicato nei confronti dei terzi rimasti estranei al processo ' ha affermato la
Corte ' presuppone che tali soggetti non siano titolari di un rapporto autonomo rispetto
a quello sui cui è intervenuto il giudicato, mentre tra diritti aventi ad oggetto i contributi
previdenziali e diritti ed obblighi inerenti a un rapporto di lavoro subordinato sussiste un
reciproco rapporto di autonomia, che fa qualificare come res inter alios acta rispetto a ciascuno
dei due rapporti (di lavoro e previdenziale) il giudicato inerente all'altro rapporto.
Reversibilità Inail
In caso di infortunio mortale dell'assicurato deve spettare il 40% della rendita anche all'orfano di un solo genitore naturale.La Corte Costituzionale ha quindi accolto la questione prospettata dal Tribunale di Milano ravvisando una discriminazione fra figli naturali e figli legittimi che si pone in contrasto con gli artt. 3 e 30 Cost.: infatti, mentre la morte del coniuge per infortunio comporta, in presenza di figli legittimi, l'attribuzione della rendita al superstite nella misura del 50% ed a ciascuno dei figli nella misura del 20 per cento, la morte per infortunio di colui che non è coniugato ed ha figli naturali riconosciuti non comporta l'attribuzione al genitore superstite di alcuna rendita per infortunio, ed i figli hanno diritto solo al 20 per cento di detta rendita. La discriminazione «deriva dal fatto che solo i figli legittimi, e non anche quelli naturali, possono godere di quel plus di assistenza che deriva dall'attribuzione al genitore superstite del cinquanta percento della rendita»: il minore, «pur trovandosi [â?¦] in una condizione analoga a quella di chi ha perso entrambi i genitori ' non essendo destinatario di alcun beneficio economico, neppure indiretto, a tali fini, per la sopravvivenza dell'altro genitore, cui non spetta, inquanto non coniugato, alcuna rendita ' ha diritto solo al venti per cento di essa, e non anche al quaranta per cento spettante agli orfani di entrambi i genitori». La Corte Costituzionale non ha invece accolto la questione relativa all'art. 85, comma 1, n. 1, del d.P.R. n. 1124 del 1965, attinente alla mancata equiparazione del convivente al coniuge del lavoratore agli effetti della corresponsione della rendita Inail in caso di infortunio sul lavoro cheabbia avuto per conseguenza il decesso dello stesso lavoratore. Il giudice delle leggi ha quindi riaffermato la diversità tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, «in ragione dei caratteri di stabilità , certezza, reciprocità e corrispettività dei diritti e doveriche nascono soltanto da tale vincolo», individuando «le ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi nella circostanza che il rapporto coniugale trova tutela diretta nell'art. 29 Cost.».