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2 / 2010
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Illegittimità costituzionale della cessazione automatica di incarichi dirigenziali «interni» nella P.A Le Sezioni Unite sulla rilevanza della data di spedizione dell’impugnativa di licenziamento Accessi a Internet e controlli a distanza
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Lo svolgimento di mansioni superiori in sostituzione di un collega in missione è utile per acquisire il diritto alla promozione
R. F., dipendente della banca San Paolo Imi con qualifica di quadro di ottavo livello, è stato preposto per più di 3 mesi,dal 19 novembre 1992 al 26 febbraio 1993, all'ufficio contabilità e segreteria amministrativa, posizione propria della superiore qualifica di funzionario di settimo livello. Ciò è avvenuto in un primo tempo, dal 19 al 30 novembre 1992 perché il titolare dell'ufficio, dopo aver presentato le dimissioni, è stato inviato in missione e successivamente, dal 1° dicembre 1992 al 26 febbraio 1993, in attesa che il nuovo titolare assumesse le funzioni. R. F. ha chiesto al Tribunale dell'Aquila di riconoscere il suo diritto alla qualifica di funzionario di settimo livello, a termini dell'art. 2103 cod. civ., per avere svolto le relative funzioni per un periodo superiore a tre mesi. La Banca si è difesa sostenendo che doveva applicarsi la previsione dell'art. 2103 cod. civ. secondo cui il diritto alla qualifica superiore non matura se le relative mansioni vengono svolte per la sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto; nel caso in esame ' ha rilevato la Banca ' non potevano computarsi nel periodo per la maturazione del diritto i dodici giorni, dal 19 al 30 novembre 1992, in cui R. F. aveva sostituito il titolare dell'ufficio assente perché in missione. Il Tribunale ha ritenuto fondata l'eccezione della banca e conseguentemente ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte dell'Aquila che ha ritenuto non computabile ai fini della promozione automatica il periodo di svolgimento delle mansioni superiori in sostituzione del titolare assente per missione, considerando quest'ultimo «assente con diritto alla conservazione del posto». Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte abruzzese per falsa applicazione dell'art. 2103 cod. civ. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza (Cass. n. 17659 del 2002) secondo cui: «Per lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, la cui sostituzione da parte di altro lavoratore avente una qualifica inferiore non attribuisce a quest'ultimo il diritto alla promozione, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., deve intendersi soltanto quello che non sia presente in azienda a causa di una delle ipotesi di sospensione legale o convenzionale del rapporto di lavoro, e non anche quello destinato, per scelta organizzativa del datore di lavoro, a lavorare fuori dell'azienda o in altra unità o altro reparto, o, ancora inviato a partecipare a un corso di formazione». Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' il titolare dell'ufficio, sostituito dal ricorrente non poteva ritenersi assente dal lavoro con diritto alla conservazione del posto, in quanto il lavoratore in missione non è «assente» dal lavoro, ma soltanto dalla unità produttiva cui è addetto. La causa è stata inviata, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Ancona.
Il dirigente pubblico demansionato ha diritto al risarcimento del danno professionale –
Il diritto del lavoratore alla qualifica superiore per effetto delle mansioni svolte non è precluso da formali disposizioni
G. D., dipendente della Spa Poste italiane, è stato preposto dall'agosto 1995 al dicembre 1999al «settore impianto posta elettronica» di Napoli, facente parte, secondo l'organigramma aziendale, del più ampio «reparto ordinarie» cui era preposto altro dipendete con la qualifica di quadro Q2. Di fatto tuttavia il settore affidatogli (di media rilevanza in quanto vi erano addetti 13 lavoratori), era caratterizzato da assoluta autonomia, in quanto riceveva disposizioni direttamente dal centro di posta elettronica di Roma. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Napoli, a termini del contratto collettivo, il riconoscimento del suo diritto alla qualifica di quadro Q2 stante la dimensione e l'autonomia del settore cui era preposto. L'azienda ha chiesto il rigetto della domanda, facendo presente che, secondo l'organigramma aziendale, il settore impianto di posta elettronica era compreso nel «reparto ordinarie» la cui responsabilità gestionale era già affidata a un Q2 e che non la si poteva costringere a creare un'altra posizione di Q2. Il Tribunale, accertata l'effettiva autonomia del settore cui era preposto il ricorrente, ha accolto la domanda, accertando il suo diritto alla qualifica di quadro di secondo livello dal 15 agosto 95 e alla relativa differenza di retribuzione dal 15 febbraio 95. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Napoli che ha ritenuto corretta la motivazione della decisione di I grado. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge, sostenendo che era precluso al giudice del merito di «inventarsi» un posto di Q2 inesistente in organico, intaccando il potere di organizzazione spettante all'imprenditore. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Al fine di escludere il diritto del dipendente alla superiore qualifica per effetto dei contenuti professionali delle mansioni svolte per il periodo di tempo minimo previsto dalla normativa, ' ha affermato la Corte ' non è sufficiente che il datore di lavoro, nell'esercizio del suo potere organizzativo, conferisca ad altri dipendenti la titolarità formale delle mansioni stesse, ovvero dei loro elementi più qualificanti (nella specie, la responsabilità di un reparto qualificato come unitario). Al contrario, appare incontestabile che, ai fini della tutela prevista dall'art. 2103 cod. civ., preordinata a privilegiare l'effettività , l'affidamento formale della responsabilità non incide minimamente sulla realtà della situazione di fatto; in altri termini, secondo principi generali, soprattutto applicati nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, non rilevano le dichiarazioni esplicite di volontà del datore di lavoro se non coerenti con i comportamenti rivolti ad attuarle, i quali, se in contrasto, concretano essi manifestazione della reale volontà negoziale. In tali sensi ' ha ricordato la Corte ' si esprime la giurisprudenza di legittimità ritenendo, in particolare, priva di rilevanza l'attribuzione esclusivamente formale della titolarità a un dipendente di mansioni affidate, invece, nella loro totalità e responsabilità ad altro dipendente per effetto di una stabile scelta organizzativa del datore di lavoro. Nel ca- Il diritto del lavoratore alla qualifica superiore per effetto delle mansioni svolte non è precluso da formali disposizioni organizzative dell'azienda in base all'art. 2103 cod. civ. CASS. 30 DICEMBRE 2009 N. 27825 (Pres. Roselli, Rel. Picone) SEZIONE LAVORO 42 2 / 2 0 1 0 so in esame ' ha osservato la Corte ' il giudice del merito ha, in primo luogo, operata la ricognizione della fonte contrattuale collettiva, secondo cui l'inquadramento di quadro di secondo livello compete al dipendente preposto, con funzioni di direzione e coordinamento, a unità organizzativa o parte di essa di media rilevanza; ha, quindi, verificato che, per le sue caratteristiche, il settore impianto posta elettronica, sebbene inserito nel più ampio reparto posta ordinaria, ne costituiva una parte contrassegnata da totale autonomia; a questo riguardo, ha posto in evidenza come tutte le disposizioni per l'andamento del settore venivano impartite direttamente dal centro posta elettronica di Roma, cui era trasmesso il resoconto settimanale e mensile dell'attività , cosicché rimaneva esclusa qualsiasi interferenza o «filtro» da parte del quadro di secondo livello preposto al reparto posta ordinaria; ed ancora che il settore in questione, per il numero di lavoratori addetti (circa tredici), doveva qualificarsi come parte di unità organizzativa di media rilevanza. Risulta, quindi logicamente plausibile ' ha affermato la Corte ' la conclusione che la responsabilità della posta elettronica non fosse affidata al dipendente preposto alla posta ordinaria, ma esclusivamente a G. D., da considerarsi quindi quale preposto a unità organizzativa di media rilevanza con diritto all'inquadramento nella qualifica di quadro di secondo livello ai sensi del contratto collettivo.
È a carico del datore di lavoro l’onere di provare di avere rispettato il limite percentuale per le assunzioni a termine
Nella pubblica amministrazione la procedura concorsuale è necessaria anche per le assunzioni a tempo determinato
La comunità montana Alento Monte Stella ha indetto una selezione ai fini del reclutamento,tra gli iscritti a un determinato ufficio di collocamento in base alla relativa graduatoria, di dodici diplomati di scuola media superiore da assumere con contratto a tempo determinato. A. S. è stata esclusa dalla selezione per difetto dell'iscrizione all'ufficio di collocamento. Ella ha promosso davanti al Tribunale del Lavoro di Salerno un giudizio diretto a ottenere il risarcimento del danno previo accertamento della illegittimità della procedura concorsuale. Il Tribunale ha accolto la domanda. In grado di appello la Corte di Salerno ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in quanto ha ritenuto applicabili l'art. 68 del d.lgs. n. 29/1993 e l'art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, che hanno conservato al giudice amministrativo la giurisdizione sulle procedure concorsuali per assunzioni da parte della pubblica amministrazione; la Corte ha ritenuto irrilevante la circostanza che la selezione fosse fondata sulla lista di collocamento e sulla relativa graduatoria e non sulla valutazione di prove sostenute dai candidati. Anna S. si è pertanto rivolta al Tribunale Regionale Amministrativo della Campania che però ha escluso la sussistenza della giurisdizione amministrativa in quanto la procedura concorsuale non comportava l'esercizio di alcuna valutazione discrezionale da parte dell'ente pubblico. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione a norma dell'art. 362, comma 2, n. 1 cod. proc. civ. per la risoluzione del conflitto negativo di giurisdizione verificatosi tra la Corte d'Appello di Salerno e il Tar della Campania. La Suprema Corte ha risolto il conflitto affermando la giurisdizione del giudice amministrativo. L'art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 ' ha osservato la Corte ' confermando quanto già previsto dall'art. 68 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo sostituito dall'art. 29 del d.lgs. n. 80 del 1998, attribuisce al giudice amministrativo (in sede di giurisdizione generale di legittimità ) le controversie in materia di «procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni», con riferimento anche ai rapporti di lavoro privatizzati. Peraltro a norma dell'art. 35, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, nelle amministrazioni pubbliche le assunzioni avvengono in genere mediante concorso, in attuazione del principio dettato dall'art. 97, terzo comma, Cost. (che consente la deroga alla regola del concorso nei «casi stabiliti dalla legge»), e precisamente «tramite procedure selettive conformi ai principio del comma 3», mentre la procedura di concorso non è necessaria (solo) per le «qualifiche e profili per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell'obbligo» per le quali si ricorra all'avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento; in assenza di distinzioni operate dalla legge, dette regole sono applicabili in genere anche alle ipotesi di assunzioni con contratti a termine. Nella specie ' ha rilevato la Corte ' come risulta confermato dalla documentazione in atti, e particolarmente dal contenuto dell'»avviso pubblico» pubblicato sul bollettino ufficiale n. 30 del 19 giugno 2000 della Regione Campania, si è senza dubbio in presenza, quanto alla individuazione dei sei lavoratori provvisti di diploma di scuola media superiore, al bando per una selezione concorsuale, caratterizzata dalla preliminare ammissione di aspiranti provvisti di determinati titoli generici e da una successiva fase di individuazione tra gli stessi di quelli ritenuti più indicati per la copertura dei posti. È prevista a tale riguardo una selezione per soli titoli, modalità che certo non determina l'estraneità della stessa alla nozione di concorso. Neanche può fondatamente affermarsi che nel caso concreto la predeterminazione dei criteri per l'assegnazione dei punteggi ai vari titoli escluda completamente una sfera di valutazioni discrezionali, in quanto, se ciò è vero per taluni tipi di titoli (per esempio, per i titoli di studio e per la durata di iscrizione all'ufficio di collocamento), non lo è invece per altri aspetti del curriculum, per i quali è necessaria quanto meno la valutazione della effettiva inerenza del titolo al tipo di esperienze valorizzate dal bando (e non apparirebbe esclusa neanche la graduatoria del punteggio nei limiti del massimo previsto per lo specifico profilo). Pertanto, ai fini della sussunzione di una procedura di selezione nell'ambito concettuale e giuridico del concorso, e specificamente ai fini della soluzione delle questioni di giurisdizione, non appare rilevante un sindacato sulla presenza o meno di margini di discrezionalità nella valutazione dei titoli; i concreti criteri di selezione possono infatti non irrazionalmente essere correlati alle specificità sia delle qualità richieste per la posizione lavorativa, sia della obiettiva natura e idoneità discriminatoria dei titoli; né deve trascurarsi che i problemi di giurisdizione hanno rilievo preliminare rispetto a eventuali contestazioni del bando proprio sotto il profilo dei criteri dallo stesso adottati per la selezione concorsuale. Infine ' ha rilevato la Corte ' deve ritenersi non rilevante il fatto che costituisse requisito di partecipazione al concorso l'iscrizione alle liste di collocamento; infatti tale elemento, cosà come l'attribuzione di punti in relazione alla durata dell'iscrizione, a prescindere da qualsiasi valutazione circa la loro legittimità , non sono tali da incidere sulla natura concorsuale della selezione e certo non sono sufficienti a ricondurre la fattispecie oggetto del giudizio a quella, prevista dall'art. 35, comma 1, lett. b), dell'avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento per la copertura delle posizioni previste per i lavoratori in possesso del solo requisito della scuola dell'obbligo.
Il rapporto di lavoro dell’invalido si risolve se il lavoratore impedisce l’accertamento dei requisiti previsti
Il superiore gerarchico che abbia demansionato un collaboratore è tenuto personalmente al risarcimento dei danni
Il dott. E. medico chirurgo, aiuto anziano di ruolo presso la divisione di chirurgia cardiotoracica pediatrica di un ospedale, per disposizioni del primario suo superiore gerarchico è stato escluso, per cinque anni, da ogni attività di sala operatoria o di gestione di reparti. Il primario ha inoltre tenuto nei suoi confronti un comportamento ostile, rivolgendogli addebiti infondati e parole offensive, anche alla presenza di colleghi. Egli ha chiesto al Tribunale di Massa di condannare il primario al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dall'ingiusto trattamento inflittogli, sostenendo tra l'altro che il demansionamento subito aveva avuto ripercussioni negative anche sull'attività professionale svolta privatamente e che nella condotta del primario doveva ravvisarsi altresà il reato di abuso d'ufficio. Il Tribunale ha condannato il primario al risarcimento dei danni patrimoniali in misura di 350 milioni di lire. In grado di appello, la Corte di Genova ha drasticamente ridotto l'importo del risarcimento determinandolo in euro tremila e collegandolo a un episodio in cui il primario aveva rivolto parole offensive all'aiuto alla presenza di alcuni colleghi. In particolare la Corte, pur dando atto del demansionamento inflitto all'aiuto, ha ritenuto che di esso doveva rispondere l'ospedale datore di lavoro, in base all'art. 2103 cod. civ. che tutela la professionalità del dipendente. L'aiuto ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge e sostenendo che la responsabilità del primario andava affermata, sia per il danno patrimoniale che per quello non patrimoniale, in base alla normativa generale recata dagli articoli 2043 e 2059 cod. civ. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. L'attività del professionista ' ha osservato la Corte ' deve ritenersi protetta dagli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione, in materia di tutela del lavoro, nonché dalla normativa dell'Unione europea, onde la sua lesione comporta un danno ingiusto, anche non patrimoniale, in applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008. Pertanto l'accertamento del demansionamento di fatto, per oltre cinque anni, determinato dalle interferenze ostili del primario, costituisce un elemento strutturale sia della lesione di detta posizione soggettiva sia del danno ingiusto inerente al vulnus della prestazione professionale e dell'esercizio effettivo della qualifica di aiuto anziano; danno ingiusto risarcibile quale danno conseguenza, sia nei suoi aspetti patrimoniali che non patrimoniali, ove determini un pregiudizio che incide sia sulla vita professionale e di relazione del professionista danneggiato. Pertanto la Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Genova, in diversa composizione, enunciando il seguente principio di diritto: «In una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l'aiuto anziano già operante nel reparto, rapporto che integra un contratto sociale dove la posizione del professionista dequalificato è presidiata dai precetti costituzionali (come evidenzia il punto 4.3 in relazione al punto 4.5 del preambolo sistematico della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008), costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato e aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all'emarginazione del professionista, la condotta del primario che nell'esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l'aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l'elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell'immagine professionale e delle stesse possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del lavoratore professionista (espressamente richiamati nel citato punto 4.5 delle Ss.Uu. citate, cui aggiungiamo, sistematicamente anche gli articoli 1, 3 secondo comma, 4 e 35 primo comma della Costituzione, dovendosi considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro lavoratore e senza discriminazioni). Il danno ingiusto, cagionato direttamente dal primario, con i provvedimenti impeditivi dell'esercizio della normale attività , implica un demansionamento continuato di fatto (malgrado le pronunce amministrative di reintegrazione) e si pone in relazione causale con il fattore determinante della condotta umana lesiva, posta in essere dal primario. Cosà stabilita e accertata, in tutti i suoi elementi, soggettivi e oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 cod. civ.) il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale (punto 4.8 Ss.Uu. cit.), evitando di compiere duplicazioni (punto 4.9), e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità della offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio (punto 3.11. della Ss.Uu. citata). Quanto al ristoro dei danni patrimoniali, dovrà essere considerato il regime professionale vigente all'epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell'immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa». Un'ultima puntualizzazione ' ha affermato la Corte ' dev'essere posta in relazione alla entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009) che recepisce la Carta di Nizza con lo stesso valore del Trattato sulla Unione e per il catalogo completo dei diritti umani. I giudici del rinvio ' ha precisato la Cassazione ' dovranno ispirarsi anche ai principi di cui all'art. 1 della Carta, che regola il valore della dignità umana (che include anche la dignità professionale) ed all'art. 15 che regola la libertà professionale come diritto inviolabile sotto il valore categoriale della libertà ; i fatti dannosi in esame vennero commessi prima della introduzione del nuovo catalogo dei diritti (2000-2001), ma le norme costituzionali nazionali richiamate bene si conformano ai principi di diritto comune europeo, che hanno il pregio di rendere evidenti i valori universali del principio personalistico su cui si fondano gli Stati della Unione; la filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune europeo.
L’interruzione della prescrizione può essere rilevata d’ufficio ove i fatti che la integrano siano compiutamente allegati
Il danno non patrimoniale da dequalificazione non può essere liquidato in misura simbolica e prescinde dalle chance di progress
Un dipendente del ministero del lavoro che rifiutava di transitare nei ruoli di un'altra amministrazioneveniva per due anni privato di ogni funzione e addetto a svolgere compiti mortificanti e costretto a una pressoché totale inattività . Il Tribunale di Siena adito dal lavoratore per l'accertamento della illegittimità della condotta e il risarcimento del danno da dequalificazione accoglieva la domanda condannando l'amministrazione a un risarcimento del danno limitato a euro 1.000,00 dalla Corte di Appello di Firenze che giustificava tale riduzione sul presupposto che la dequalificazione era scaturita non tanto da una volontà lesiva della professionalità del lavoratore ma dall'adozione di un nuovo modello organizzativo del ministero aveva determinato una obiettiva difficoltà di impiego del lavoratore le cui chances di progressione in carriera erano difficilmente ipotizzabili nel nuovo assetto. La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso del lavoratore in ordine alla liquidazione del danno ha affermato nel ribadire la risarcibilità del danno non patrimoniale di diritti oggetto di tutela costituzionale, che la liquidazione simbolica appare inadeguata considerata la durata della dequalificazione e la gravità della condotta dell'amministrazione del tutto sorda alle richieste del dipendente. L'interesse a non veder compresso il patrimonio di esperienze e qualificazione professionale ' conclude la Corte ' costituisce espressione di un diritto primario del lavoratore a prescindere dall'esistenza di specifiche aspettative di carriera.
La condotta negligente può costituire una giusta causa di licenziamento
Un lavoratore addetto alla condotta di un autoarticolato durante la guida su un tratto rettilineo non accorgendosi di un improvviso blocco non frenava in tempoe per arrestare il proprio mezzo sbandava. Dopo aver tamponato un altro automezzo fermo si capovolgeva danneggiando gravemente il mezzo affidatogli. La polizia stradale riscontrando un comportamento in violazione delle norme del codice stradale elevava una contravvenzione al guidatore. Dopo tale episodio il lavoratore veniva licenziato per giusta causa. Nel corso del giudizio promosso dal dipendente il Tribunale di Roma respingeva la domanda di reintegra nel posto di lavoro e in accoglimento della domanda riconvenzionale condannava il dipendente al risarcimento del danno con sentenza parzialmente confermata dal Collegio in sede di appello che riduceva l'importo liquidato a ti-tolo di risarcimento. La Corte di Cassazione nel respingere il motivo di gravame relativo all'accertamento della giusta causa di licenziamento ha affermato che anche una condotta colposa del lavoratore, benché non indicativa di una aperta ribellione alla disciplina dell'impresa, può rivelare una violazione dei doveri di cautela e di attenzione pregiudizievole del rapporto fiduciario, specie quando il datore di lavoro abbia affidato al prestatore di lavoro l'uso e la custodia di beni patrimoniali di rilevante valore.
La censura per violazione di interpretazione del contratto collettivo implica il deposito del testo integrale del contratto
Un'azienda ferroviaria adiva la Corte di Cassazione al fine di vedere annullare la decisione della Corte di Appello di Firenzeche aveva accolto il ricorso di alcuni lavoratori affermando che gli stessi vantavano un diritto a percepire una diaria sulla base di una interpretazione di una norma del Ccnl. La decisione della Corte di Appello veniva impugnata dall'azienda soccombente che nel dedurre una inesatta applicazione delle norme di interpretazione, depositava uno stralcio del Ccnl. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso affermando che unitamente al ricorso di legittimità devono essere depositati in forma integrale i documenti, i contratti o gli accordi collettivi sui quali si fonda il motivo di doglianza. I giudici di legittimità hanno infatti affermato che tale orientamento della Corte deve essere confermato in quanto una produzione parziale o per stralcio delle norme di un accordo non permette alla Corte di esaminare il testo contrattuale nella sua completezza e impedisce alla stessa di verificare la presenza di disposizioni diverse da quelle riportate rilevanti per l'interpretazione esaustiva dell'argomento.
La violazione del contratto collettivo integrativo non è denunciabile in cassazione
L'agenzia per le entrate proponeva un ricorso innanzi alla Corte di Cassazione censurando l'interpretazione di un contratto collettivo integrativoeffettuata dalla Corte di Appello di Trento che aveva omesso di effettuare l'interpretazione pregiudiziale prevista dall'art. 64 d.lgs. 1657/2001. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso, richiamando propri precedenti, ha affermato che la mancata attivazione della procedura di interpretazione pregiudiziale non è ricorribile in cassazione atteso che tale procedura è esperibile solo in primo grado. La Corte ha inoltre respinto la censura consistente nell'inesatta applicazione della norma dell'accordo integrativo sul rilievo che solo i contratti collettivi nazionali di lavoro possono essere oggetto di specifica censura. Le norme di tali contratti quindi ' conclude la Corte ' non possono essere oggetto di specifico ricorso di legittimità ma sono censurabili solo per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione.
La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro non può essere accertata d’ufficio dal giudice
Il lavoratore sottoposto a procedimento disciplinare ha l’onere di contestare specificatamente gli addebiti,
Il controllo degli accessi a internet di un lavoratore costituisce una forma occulta di controllo a distanza della prestazione
Una lavoratrice, dipendente di una azienda farmaceutica, veniva sottoposta a un procedimento disciplinareche sfociava in un licenziamento sulla base di una contestazione di addebito consistente nell'aver effettuato numerosi accessi a internet durante l'orario di lavoro. L'azienda sulla base di un programma di controllo degli accessi a internet (Super Scout) applicato sulle postazioni informatiche dei dipendenti aveva, infatti, riscontrato che la dipendente più volte e per un periodo anche prolungato si era collegata senza autorizzazione a siti internet. Il Tribunale di Milano con sentenza confermata in sede di appello dichiarava l'illegittimità del controllo effettuato e annullava il licenziamento. La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso promosso dall'azienda farmaceutica, ha ricordato i limiti di legittimità dei controlli cd. difensivi, legittimi in quanto tesi a tutelare il patrimonio aziendale. Il controllo effettuato sul personal computer aziendale non è stato ricondotto dalla Corte a tale categoria di controlli in quanto ritenuto riconducibile ai cosiddetti controlli «preterintenzionali». Tali controlli, seppur legati a esigenze organizzative e produttive ovvero di sicurezza del lavoro possono determinare una invasione della sfera personale dei lavoratori dando luogo a una possibilità di controllo a distanza. Il pericolo insito in tali forme di controllo implica la mediazione delle rappresentanze dei lavoratori ovvero l'autorizzazione dell'ispettorato del lavoro. Tale controllo costituisce la mediazione degli interessi contrapposti in quanto ' conclude la Cassazione ' l'esigenza di evitare condotte illecite non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore, per cui tale esigenza non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei cd. controlli difensivi quando tali comportamenti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso. In tali ipotesi si tratta, infatti, comunque di un controllo cd. preterintenzionale che rientra nella previsione del divieto flessibile di cui al secondo comma dell'art. 4 dello Statuto. In applicazione di tali principi la Cassazione ha ritenuto correttamente motivata la decisione del Collegio milanese che ha affermato che i programmi che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi a internet sono necessariamente apparecchiature di controllo nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza e in via continuativa durante la prestazione l'attività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento se non altro sotto il profilo del rispetto delle direttive aziendali.
Il contratto collettivo può prevedere il trasferimento quale sanzione convenzionale
Una lavoratrice dopo essere stata trasferita presso una unità produttiva di un altro comune veniva licenziataper motivi disciplinari in quanto non si recava sul nuovo posto di lavoro. Nell'impugnare il licenziamento presso il Tribunale di Vicenza la lavoratrice affermava che il trasferimento doveva ritenersi illegittimo in quanto costituiva una sanzione disciplinare atipica prevista dalla contrattazione collettiva. La lavoratrice, quindi, lamentava che non era stata valutata tale natura del provvedimento comunicatole a suo dire a fronte di sue asserite condotte di rilevanza disciplinare. La Corte di Appello di Venezia respingeva il gravame della lavoratrice non ritenendo il carattere disciplinare del trasferimento. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità promosso dalla dipendente sul rilievo che l'esclusione del carattere disciplinare del provvedimento era insindacabile dalla Corte, afferma che tale forma di sanzione atipica può, tuttavia, essere legittimamente introdotta dalla contrattazione collettiva che è abilitata a introdurre nuove e diverse sanzioni che non comportino il mutamento definitivo del rapporto. La Corte quindi ha affermato che non vi è alcun impedimento all'ammissibilità della previsione a opera della contrattazione collettiva del trasferimento come sanzione disciplinare in ragiopotesine del suo carattere conservativo. Il trasferimento ' conclude la Corte ' non comporta, infatti, un mutamento definitivo del rapporto di lavoro ma solo del luogo dell'adempimento della prestazione.
L’uso aziendale non si incorpora nel contratto di lavoro
La comunicazione di giustificazioni scritte non esaurisce il diritto del lavoratore a richiedere di essere ascoltato
Un dirigente di una azienda metalmeccanica veniva sottoposto a un procedimento disciplinare che culminava con il suo licenziamento.Nel termine previsto dalla norma dello statuto il dirigente forniva all'azienda le proprie giustificazioni scritte richiedendo al contempo di essere ascoltato personalmente a sua difesa. L'azienda, ignorando la richiesta del lavoratore e ritenendo sufficienti ed esaustive le giustificazioni scritte intimava il licenziamento del proprio dirigente. Nel corso del giudizio il Tribunale di Roma, con sentenza riformata sul punto in sede di appello dalla locale Corte riteneva che la presentazione di giustificazioni scritte aveva esaurito il diritto di difesa del lavoratore. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione del Collegio ha affermato che la disposizione dell'art. 7 dello Statuto non lascia alcun margine discrezionale in capo all'azienda. Il lavoratore, infatti, ha diritto a utilizzare sia la difesa scritta che l'audizione orale per formulare le proprie difese. A fronte di tale facoltà difensiva, ove tempestivamente esercitata, il datore di lavoro non può, sul rilievo che le difese scritte abbiano esaurito il diritto di difesa, impedire l'audizione personale del dipendente. Le discolpe fornite ' chiarisce la Corte di Cassazione ' consumano il diritto di difesa solo ove la volontà del dipendente di richiesta di audizione, tempestivamente formulata, appaia ambigua o priva di univocità . L'audizione orale costituisce un elemento essenziale ' conclude la Corte ' anche in ragione della brevità del termine concesso nel lavoro privato per l'apprestamento delle difese.
Un diverbio con vie di fatto non costituisce sempre giusta causa
Due lavoratori, dipendenti dopo aver iniziato un diverbio per futili motivi venivano alle mani all'interno del luogo di lavoro.All'esito dell'episodio l'azienda, sulla base della previsione del contratto collettivo, intimava un licenziamento per giusta causa. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione dei giudici del merito ha affermato che decisione della Corte di Appello di L'Aquila appare adeguatamente motivata laddove afferma che la risoluzione del rapporto di lavoro causata da una lite ancorché caratterizzata da una aggressione fisica, ove configuri un episodio sporadico, non può costituire una giusta causa di licenziamento dovendosi anche considerare il comportamento successivo tenuto dai lavoratori che dopo la baruffa si erano conciliati.
Il superamento del comporto costituisce una ipotesi speciale di licenziamento
Un lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto impugnava il licenziamentodopo lo scadere dei 60 giorni previsti a pena di decadenza dalla normativa speciale sui licenziamenti. I giudici di merito rigettavano la domanda sul presupposto della tardività dell'impugnativa. La Corte di Cassazione ha annullato la decisione della Corte ribadendo il proprio orientamento in forza del quale il recesso del rapporto di lavoro dovuto al superamento del periodo di comporto prevale sulla disciplina generale dei licenziamenti costituendo una ipotesi autonoma di licenziamento regolata dalle norme generali dell'annullamento degli atti negoziali.
Incarichi dirigenziali non apica
È Illegittimo licenziare prima della scadenza dell'incarico i dirigenti pubblici assunti grazie allo spoils-systemperché non confermati entro sessanta giorni dopo l'entrata in vigore di un successivo decreto-legge. La questione riguardava un dirigente di seconda fascia, non proveniente dalla pubblica amministrazione, assunto il primo settembre 2005 e con scadenza il 31 agosto 2008. Senonché il primo dicembre 2006 l'incarico non era stato confermato in applicazione del decreto legge n. 262 del 2006. La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma impugnata in quanto, come già affermato nelle sentenze n. 103/2007 e n. 161/2008, «l'amministrazione stessa è tenuta a garantire la distinzione funzionale tra attività di indirizzo politico amministrativo e attività gestionale, in attuazione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell'azione dei pubblici poteri», quindi «la previsione di una cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali «interni» di livello generale vàola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princàpi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell'azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell'azione stessa». In definitiva, anche nel caso di specie, la previsione di un'anticipata cessazione del rapporto in corso ' in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale ' impedisce che l'attività del dirigente possa espletarsi in conformità a un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato. È quindi necessaria l'esistenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell'ambito del quale, da un lato, l'amministrazione esterni le ragioni per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall'altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall'organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato.
Assegno ad personam Regione Abruzzo
La norma censurata prevedeva che, nel caso in cui al lavoratore trasferito dalla Regione Abruzzo alla Provinciafosse spettato un trattamento retributivo inferiore rispetto a quello goduto quando era alle dipendenze della Regione, al lavoratore stesso dovesse essere attribuito un assegno personale pari alla differenza tra i due trattamenti economici. Nel suo testo originario, l'art. 1, comma 1, della legge regionale n. 28 del 2006 prevedeva che tale assegno fosse riassorbibile. La norma impugnata, invece, ha modificato la disposizione del 2006, stabilendo che l'assegno, erogato ai dipendenti aventi diritto con decorrenza dal 2005, non doveva essere riassorbibile. La Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della norma impugnata in quanto, introducendo un nuovo onere di spesa, ha violato il principio di copertura finanziaria di cui all'art. 81 della Costituzione (nuove spese senza indicazione del mezzo di copertura finanziaria per farvi fronte).
Contribuzione figurativa per maternità
Non viola il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione la norma di «interpretazione autentica»che, in materia di contribuzione figurativa per i periodi di astensione obbligatoria per maternità avvenuti antecedentemente al 1° gennaio 1994, limita l'accredito dei contributi solo agli iscritti all'Assicurazione generale obbligatoria in servizio alla data dell'entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Il dubbio di costituzionalità avanzato dal Tribunale di Torino presupponeva l'esistenza, prima dell'intervento della norma oggetto di censura, di un'univoca interpretazione, da CORTE COST. 5 MARZO 2010 N. 81 (Pres. De Siervo, Red. Quaranta) Incarichi dirigenziali non apicali Art. 2, c. 161, d.l. 3/10/2006, n. 262, convertito in legge 24/11/2006, n. 286 (artt. 97 e 98 Cost.) CORTE COST. 26 FEBBRAIO 2010 N. 70 (Pres. Amirante, Red. Mazzella) Assegno ad personam Regione Abruzzo Art. 1, comma 116, legge Regione Abruzzo 21/11/2008, n. 16 (art. 81 Cost.) CORTE COST. 26 FEBBRAIO 2010 N. 71 (Pres. Amirante, Red. Saulle) Contribuzione figurativa per maternità CORTE COSTITUZIONALE a cura di Lorenzo Fassina 5 2 / 2 0 1 0 parte della giurisprudenza e della prassi amministrativa, del termine «iscritti» contenuto nell'art. 25 del d.lgs. n. 151 del 2001, secondo la quale tale termine era riferito sia ai soggetti in attività sia a quelli già pensionati. Sulla base di ciò il rimettente aveva ritenuto che la norma censurata, laddove stabilisce che la contribuzione figurativa prevista dall'art. 25 è riconosciuta solo agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 151 del 2001, non può essere considerata meramente interpretativa, ma pone una nuova disciplina con carattere retroattivo in contrasto con il principio di ragionevolezza. Bisogna dar conto, tuttavia, dell'incertezza interpretativa esistente in via amministrativa: con la circolare n. 102 del 31 maggio 2002, infatti, l'Inps ha stabilito che, al fine del riconoscimento della contribuzione figurativa, è indifferente la circostanza se il richiedente al momento della presentazione della domanda svolga, o meno, attività lavorativa. A questa interpretazione si contrapponeva quella dell'Inpdap che, con la circolare n. 8 del 28 febbraio 2003, ha concesso il beneficio indicato a condizione che il richiedente fosse iscritto attivo e, quindi, prestasse servizio al momento della domanda. In tale ultimo senso si è successivamente espresso anche l'Inps, con la circolare n. 100 del 14 novembre 2008. La Corte Costituzionale, quindi, ha dichiarato l'infondatezza della questione proprio perché la norma impugnata ha optato per una delle due interpretazioni possibili del precetto legislativo, senza violare il menzionato principio di ragionevolezza.
Le Sezioni Unite affermano la rilevanza della data di spedizione ai fini della tempestività dell’impugnativa del licenziament
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