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2 / 2013
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La Corte Costituzionale e le provvidenze assistenziali per cittadini extracomunitari Ordine di reintegra, mancata riammissione in servizio e danno esistenziale La Cassazione afferma il diritto di visionare documenti che comportano addebito disciplinare
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Uno scontro verbale con il superiore può essere ritenuto insufficiente a giustificare il licenziamento se il lavoratore provoca
A. K., dipendente della Nencini Laterizi Spa, è stato licenziato per avere avuto uno scontro verbale con un superiore e pronunciato frasi ingiuriose.Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Firenze, sostenendo di avere reagito a un comportamento provocatorio della direzione aziendale. Il Tribunale ha annullato il licenziamento. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze che ha osservato che il lavoratore aveva subito ripetuti rilievi, era stato privato di alcune mansioni, gli era stato reiteratamente e pubblicamente richiesto di dimostrare di avere conseguito la laurea in ingegneria. Tenuto conto di tali circostanze, la Corte d'Appello ha giudicato eccessiva la sanzione del licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte fiorentina per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. È principio consolidato ' ha affermato la Corte ' che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità , sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. La gravità dell'inadempimento ' ha precisato la Corte ' deve essere valutata nel rispetto della regola generale della «non scarsa importanza» di cui all'art. 1455 cod. civ., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte. Inoltre va assegnato rilievo all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. Il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito. Nella fattispecie ' ha rilevato la Cassazione ' la Corte di merito, con motivazione congrua e priva di vizi logici, dopo aver ricostruito i fatti in base alle risultanze della prova testimoniale, li ha valutati nella loro completezza, sul piano oggettivo e soggettivo alla stregua degli elementi concreti emersi, escludendo che fossero tali da giustificare la sanzione espulsiva; in particolare ha posto in evidenza che il lavoratore non solo veniva frequentemente fatto oggetto di rilievi in ragione della asserita sua inadeguatezza allo svolgimento dei compiti assegnatigli, alcuni dei quali gli furono sottratti, ma ha rimarcato che pubblicamente e reiteratamente gli venne richiesto di dimostrare il titolo di studio (laurea in ingegneria conseguita all'estero) ' evidentemente allo scopo di screditarlo nell'ambiente lavorativo ' ancorché tale titolo fosse stato allegato al curriculum presentato all'atto dell'assunzione. Da tutto ciò ' ha concluso la Cassazione ' la Corte territoriale ha argomentato che lo scontro verbale con il diretto superiore, avvenuto nel novembre 2004, fu determinato da una comprensibile, seppure censurabile, reazione del lavoratore, determinata dall'atteggiamento ostile tenuto dall'azienda nei suoi confronti, onde non poteva ritenersi giustificata la sanzione espulsiva comminatagli
Il rifiuto di un’offerta di riassunzione dopo l’impugnazione del licenziamento non preclude la possibilità di ottenere la r
In caso di demansionamento il giudice deve considerare l’intera vicenda senza obliterare elementi decisivi
Insussistenza dell’obbligo del preventivo esperimento della procedura di conciliazione prevista dall’art. 7 legge n. 604/196
Decadenza su domanda di rivalutazione contributiva per esposizione al rischio da amianto
La Corte di Appello di Firenze torna a esaminare la fattispecie della decadenza in rapporto alle domande di pensione,segnatamente discendenti dall'applicazione dei cosiddetti «benefici amianto» e sceglie di aderire all'orientamento espresso da talune corti di merito e da alcune ' sempre meno recenti ' sentenze dei giudici della legittimità , che propendono per non attribuire valore preclusivo del diritto al verificarsi della decadenza su domanda di pensione, ma la mera sanzione processuale della perdita del diritto ai ratei pregressi. È utile ripercorrere le linee essenziali dell'Istituto. Il termine finale di proposizione dell'azione giudiziaria impeditivo della decadenza prevista dall'art. 4 del d.l. 19 settembre 1992 n. 384, convertito dalla legge 14 novembre 1992 n. 438, è di tre anni e 300 giorni (questi entro i quali si presume ex lege definito il procedimento amministrativo) dalla domanda amministrativa. Vi è da rilevare, innanzitutto, che laddove non sia stato richiesto un «trattamento pensionistico», ma il mero accertamento della contribuzione previdenziale ex art. 13 legge n. 257/1992, le disposizioni in esame non sarebbero letteralmente applicabili. Non è ipotizzabile, per vero, neanche il decorso della prescrizione in ordine all'accredito di contribuzione figurativa. L'unico termine di decadenza previsto dalle norme che concernono i cd. «benefici amianto», come abbiamo avuto in più di una occasione ragione di affermare, è quello ultimativo, in riferimento alla proposizione della domanda amministrativa entro il 15 giugno 2005, la cui perentorietà è stata peraltro ribadita dall'art. 1, commi 20 e 21, della legge n. 247 del 2007, che però consente la proposizione di ulteriore domanda per conseguire i benefici successivi. L'art. 5 del d.P.R. 488/68 dispone possa essere rivendicato in ogni tempo il diritto al computo dei contributi pensionistici, e non è stato abrogato da nessuna norma di legge. Tuttavia gli ultimi arresti giurisprudenziali della Corte di Cassazione sono molto rigorosi: da un lato si afferma che anche la mera richiesta di accertamento della posizione contributiva per la patita esposizione a rischi da amianto debba presupporre la valida proposizione di un procedimento amministrativo; dall'altro che la consumazione dei termini di decadenza dalla prima domanda non neconsentirebbe la riproposizione, a maggior ragione nel caso di domanda di rettifica del trattamento pensionistico. L'orientamento contrastato dalla recente decisione della Corte di Appello di Firenze presuppone l'unitarietà della prestazione pensionistica, ma ciò contrasta a sua volta con la ratio legis e con lo stesso art. 38 della Costituzione, considerato che vi sono componenti del trattamento pensionistico che possono addirittura formarsi dopo il pensionamento, anche oltre il preteso termine di decadenza. La decisione in commento, pertanto, ipotizza la decadenza solo in riferimento alla singola domanda di ricostituzione della prestazione pensionistica, ritenendo legittima la presentazione di una nuova domanda di ricostituzione della pensione, segnatamente per benefici amianto, anche oltre i tre anni e trecento giorni dalla prima domanda di pensione, salvo il limite della preclusione per i ratei maturati antecedentemente ai tre anni e trecento giorni. Nella fattispecie l'appellato aveva presentato una prima domanda nel 2003 e una seconda nel 2008. La decadenza era stata eccepita in riferimento alla prima, ed è stata ritenuta dall'Inps appellante preclusiva anche della possibilità di proporre la seconda, sebbene fosse certamente tempestiva rispetto al deposito del ricorso in primo grado. La Corte rigetta l'appello rilevando «ancorché la Cassazione in alcune pronunce abbia definito la decadenza come sostanziale, la sostanzialità della decadenza ' contrapposta alla mera processualità ' significa semplicemente che il decorso del tempo ha effetto sui ratei e non meramente sulla sorte processuale della domanda».
Una condanna per violenza sessuale compiuta abusando della qualità di responsabile di una comunità religiosa può giustificare
A. D. dipendente della Spa Poste italiane, con mansioni di coordinatore di una squadra di portalettere,è stato sottoposto a processo davanti al Tribunale di Napoli con l'imputazione di violenza sessuale (artt. 609-bis e 609-septies cod. pen.) compiuta abusando della qualità di responsabile di una comunità religiosa. In seguito a patteggiamento a termini dell'art. 444 cod. proc. pen., egli è stato condannato alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione. L'azienda lo ha licenziato con motivazione riferita alla predetta vicenda, sostenendo che i fatti avessero rilevanza non solo penale, ma anche disciplinare, riflettendosi indirettamente nel rapporto di lavoro, quali violazioni dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. espressamente richiamati dall'art. 51 del Ccnl. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli denunciandone l'illegittimità in primo luogo perché i fatti oggetto del procedimento penale non potevano considerarsi provati in quanto l'accusa si basava solo sulle dichiarazioni rese dalle due presunte parti lese, non suffragate da alcun elemento di prova e di scarsa attendibilità in considerazione del contesto di abbandono e di degrado socio-culturale in cui vivevano i due dichiaranti, né tali fatti potevano considerarsi accertati in sede penale, in quanto il relativo procedimento era stato definito con sentenza di patteggiamento, la quale non implicava alcuna affermazione di responsabilità ; in secondo luogo, perché non poteva affermarsi che i fatti addebitati rivestissero quel carattere di grave negazione degli elementi del rapporto o integrassero una giusta causa di recesso, considerato che le mansioni espletate ' di coordinatore di una squadra di circa 27 portalettere ' non implicavano contatti con terzi e con il pubblico e venivano espletate esclusivamente all'interno dell'azienda, né avevano alcuna relazione con l'episodio oggetto del procedimento penale, il quale aveva comunque carattere isolato, sicché dal medesimo non poteva desumersi una «mancanza di rettitudine» o di un'inaffidabilità definitiva all'espletamento delle mansioni ovvero una lesione dell'immagine dell'azienda postale, i cui equilibri interni non potevano essere stati turbati dalla particolare vicenda. La domanda è stata rigettata sia in primo grado che in appello. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte napoletana per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Per quanto attiene agli effetti del patteggiamento ' ha rilevato la Cassazione ' nella sentenza 18 dicembre 2009 n. 336 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare il fatto e la propria responsabilità . Quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio disciplinare ' ha osservato la Cassazione ' la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. costituisce indiscutibilmente elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile. Benché la sentenza pronunciata a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell'ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale, ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione «sentenza di condanna», si siano ispirati al comune sentire che a questo associa la sentenza cd. «di patteggiamento» ex art. 444 cod. proc. pen. atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità , ma esonera l'accusa dell'onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. Il giudice civile ' ha affermato la Suprema Corte ' ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente (come è avvenuto nella specie), le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede disommarie informazioni testimoniali. Nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti acquisiti in sede penale. Il giudice di merito ' ha osservato la Corte ' ha dunque coordinato e valutato tutti gli elementi ritualmente acquisiti al processo per concludere che i fatti, per il «forte disvalore sociale» che li connotava, erano «indubbiamente idonei ad avere negativi riflessi sull'immagine dell'Azienda, tra l'altro titolare di un servizio pubblico capillarmente diffuso e sulla fiducia della clientela nella correttezza dei suoi dipendenti, tanto più ove si consideri il notevole rilievo dato alla vicenda dagli organi di stampa, taluni dei quali anche a diffusione nazionale, i cui articoli hanno dato particolare risalto alla qualità di dipendente delle Poste di A. D. La Cassazione ha osservato che A. D., in quanto coordinatore di circa trenta unità addette al recapito, aveva una posizione di responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della squadra e proprio in relazione a tali funzioni assumeva rilievo il fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un «abuso delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa».
Ogni volta che si offende una donna è immancabile il riferimento ai suoi comportamenti sessuali, qualunque sia il grado di istr
In una discussione tra medici dipendenti di un ospedale, D. B. ha accusato G. L. di avere brigato per farsi assegnare un incarico.G. L. ha risposto: «Sei una zoccola». Nel processo che ne è seguito davanti al giudice di pace di Messina, G. L. è stato condannato per ingiuria. La sentenza è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Messina. G. L. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Ogni volta che si deve offendere una donna ' ha osservato la Corte ' è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa, qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l'uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso, di essere una imbrogliona, di sopravalutarsi ' tutte accuse nella specie più pertinenti all'oggetto della discussione ' ma di essere una puttana o una zoccola, offese del tutto inconferenti rispetto alla contesa verbale, con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna, ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità . È davvero singolare ' ha rilevatola Corte ' che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravità di un tale comportamento e invochi la reciprocità delle offese; a parte il fatto che la esimente di cui al primo comma dell'art. 599 cod. pen. è facoltativa, correttamente non è stata ritenuta nel caso di specie, tenuto conto della evidente sperequazione tra le accuse che D. B. rivolgeva al collega e l'ingiuria subita. Anche i presupposti per ritenere la esimente della provocazione non sono nel caso di specie sussistenti. D. B. in effetti si è doluta della sua esclusione e ha imputato la nomina di G. L. alle sue manovre. Si tratta, come si diceva, di accuse ricorrenti in casi simili; d'altronde chi ambisce a un incarico cerca di mettere in evidenza le proprie capacità ed, in particolare, di rappresentarle a chi debba adottare la decisione; anche queste possono essere ritenute manovre più o meno corrette. Insinuare che si siano adottati tali comportamenti, però, non costituisce una grave provocazione che può legittimare la reazione offensiva perché si tratta di considerazioni e valutazioni ricorrenti in tutte le ipotesi di concorso, come si è già rilevato, e che non sono contrarie al vivere civile. Del resto ' ha affermato la Corte ' dire che si è brigato per ottenere un incarico non significa accusare di avere compiuto atti o assunto comportamenti illeciti, perché con tale espressione si vuole soltanto segnalare che l'interessato si è attivato, non necessariamente in modo scorretto, per raggiungere il risultato. È appena il caso di osservare che sovente tra colleghi nascono discussioni, anche aspre e concitate, per motivi di lavoro e che per sostenere le proprie ragioni si faccia ricorso anche a ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell'ufficio e simili, che non possono rientrare, però, nella categoria del fatto ingiusto che legittima l'uso di frasi pesantemente volgari e offensive. Sul punto ' ha concluso la Corte ' deve, pertanto, essere condivisa la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto non ricorressero gli estremi per ritenere che D. B. avesse commesso un fatto ingiusto tale da giustificare la reazione di G. L.
Un’assenza di circa tre ore può essere ritenuta non sufficiente a giustificare il licenziamento, ove non abbia causato disfun
Illegittimo il licenziamento collettivo attuato negli Stati Uniti da un’azienda italiana senza il rispetto della procedura pre
Un lavoratore lasciato in condizioni di forzata inoperosità non può essere licenziato per mancato rispetto dell’orario di la
Deve escludersi l’esistenza di un’associazione in partecipazione ove manchi il coinvolgimento nel rischio di impresa E l’a
Controlli a distanza dei lavoratori
Il Garante ha ordinato il blocco del trattamento dei dati derivanti da un servizio di videosorveglianzache registrava le timbrature dei lavoratori e prevedeva la possibilità di visionare le immagini in modo difforme da quanto concordato con le Rsa. Un centro commerciale utilizzava un sistema di videosorveglianza composto di 30 telecamere, dislocate nell'area di vendita, in parte del perimetro esterno, in corrispondenza delle aree deputate allo scarico merci e alla cassa continua, nonché in corrispondenza dell'accesso riservato a dipendenti e fornitori ' ove pure è collocato il dispositivo di rilevazione delle presenze dei dipendenti ', nel magazzino merci nonché in prossimità dell'ingresso alle toilette riservate sia al personale che alla clientela. L'azienda stipulava un accordo con le rappresentanze sindacali ai sensi dell'art. 4, comma 2, legge 20 maggio 1970, n. 300 che prevedeva che gli apparati di ripresa fossero installati «con funzione anti-rapina e anti-taccheggio», con esclusione del possibile utilizzo dello stesso «ai fini disciplinari» e le immagini memorizzate fossero custodite in un apposito armadio di sicurezza con accesso a doppia chiave, poste l'una nella disponibilità del responsabile della sicurezza del negozio, l'altra di un rappresentante sindacale aziendale. Nel corso dell'attività istruttoria era accertato che diversamente da quanto prescritto nell'accordo con le rappresentanze sindacali ' secondo il quale le riprese effettuate «saranno custodite in un apposito armadio di sicurezza dotato di una doppia serratura», con consegna di due distinte chiavi, rispettivamente, al responsabile della sicurezza del negozio e alla Rsa delegata del negozio ' l'azienda poteva accedere autonomamente alle immagini. Il Garante ha ricordato poi che «nelle attività di sorveglianza occorre rispettare il divieto di controllo a distanza dell'attività lavorativa, pertanto è vietata l'installazione di apparecchiature specificatamente preordinate alla predetta finalità : non devono quindi essere effettuate riprese al fine di verificare l'osservanza dei doveri di diligenza stabiliti per il rispetto dell'orario di lavoro e la correttezza nell'esecuzione della prestazione lavorativa (ad es. orientando la telecamera sul badge)». Il sistema di rilevazione delle presenze deve essere collocato in un'area non interessata dalle riprese, in modo tale da consentire, in conformità all'art. 11, comma 1, lett. d), del Codice, il trattamento delle sole immagini pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità dichiarate dalla Società nonché esplicitate nel menzionato accordo sindacale adottato ai sensi dell'art. 4, comma 2, legge n. 300/1970. Il Garante ha pertanto disposto il blocco del sistema di videosorveglianza.
Indennizzo post trasfusionale – Una lettura costituzionalizzata
Eziologia professionale della broncopneumopatia in rapporto concausale all’abitudine tabagica – Prescrizione del diritto al
Trattamento di dati sensibili nell’ambito di un giudizio del lavoro
Sciopero nel servizio ferroviario
La Commissione ha disposto che lo sciopero nel servizio ferroviario si debba concludere entro le ore 21.Essa ha infatti ritenuto che uno sciopero che, pur rispettando la durata massima di 24 ore, non abbia inizio alle h. 21.00 e, conseguentemente, sia ancora in corso dopo le h. 21.00 della giornata successiva è destinato a incidere negativamente sulla fascia oraria garantita h 18.00-21.00, in quanto quest'ultima non è coperta dalla cosiddetta ora cuscinetto, prevista dall'Accordo (articolo 4.2.2.) con esclusivo riferimento alle ipotesi di treni in corso di viaggio all'inizio dello sciopero. Ciò produce, secondo la Commissione, un effetto particolarmente pregiudizievole per l'utenza, eludendo in parte il sistema di garanzie che le parti hanno convenuto nell'Accordo sulle prestazioni indispensabili. È stato quindi ritenuto necessaria un'interpretazione sistematica delle norme che tenga conto della connessione logica tra la norma contenuta nell'articolo 3.3 dell'Accordo, in materia di durata e articolazione oraria dello sciopero e quella contenuta nell'articolo 4.2, in materia di prestazioni indispensabili e fasce orarie. La Commissione ha pertanto deliberato che, in conformità alla ratio dell'Accordo nazionale del settore ferroviario del 23 novembre 1999, valutato idoneo con delibera n. 45-9.1 del 3 febbraio 2000 ' con particolare riferimento agli articoli 3.3.1. e 4.2.2. ' lo sciopero della durata di 24 ore deve avere inizio alle h. 21.00 e termine alle h. 21.00 del giorno successivo, fermo restando l'obbligo di concludere lo sciopero alle h. 21.00 anche nel caso in cui le Organizzazioni sindacali si avvalgano, legittimamente, della facoltà di proclamare un'astensione di durata inferiore alle 24 ore.
Affidamendo ad Atac Spa del servizio di trasporto pubblico
L'Autorità ha espresso il suo parere in merito all'affidamento ad Atac Spa del servizio di trasporto pubblico nel Comune di Roma.Il Comune di Roma Capitale h a affidato per il periodo dal 1° gennaio 2013 fino al 3 dicembre 2019, direttamente e in esclusiva, ad Atac Spa, società controllata interamente dal Comune, tutto il servizio di trasporto pubblico comunale, ricomprendente il trasporto di superficie (bus, filobus e tram) e di metropolitana (linee A, B/B1 e C in costruzione), il servizio di gestione dei parcheggi di interscambio e della sosta tariffata su strada, il servizio di gestione della rete delle rivendite e di commercializzazione dei titoli di viaggio, nonché il servizio di esazione e di controllo dei titoli di viaggio relativi alla rete periferica di Roma Tpl S.c. a r.l. L'Autorità ha ritenuto tale affidamento violativo dei principi concorrenziali. In primo luogo, la delibera violerebbe la norma di liberalizzazione minima di cui all'art. 4-bis del d.l. n. 78/09. Non può infatti considerarsi quale assolvimento degli obblighi ivi previsti la pregressa aggiudicazione tramite gara dei cd. servizi «aggiuntivi» di Tpl nel 2009, a fronte di un affidamento in house deliberato nel 2012 e destinato a produrre i suoi effetti a partire dal 1° gennaio 2013, dal momento che la norma richiede esplicitamente che la procedura di gara per almeno il 10% dei servizi sia «contestuale» all'affidamento diretto del restante 90%. Sotto ulteriore profilo, la delibera apparirebbe viziata dall'assoluta mancanza degli elementi richiesti dall'art. 34, comma 20, del d.l. n. 179/12. Al di là della presunta sussistenza dei requisiti previsti dall'ordinamento europeo, infatti, non vi è alcuna indicazione degli obblighi di servizio pubblico imposti, né di un valore delle relative compensazioni, calcolato, come dovrebbe essere, sulla base dei costi di un'azienda media gestita in modo efficiente. In relazione a tale aspetto, peraltro, il mancato assolvimento degli obblighi prescritti dall'art. 34 citato non consentirebbe di escludere che l'affidamento diretto dei servizi di Tpl ad Atac Spa da parte del Comune di Roma Capitale integri ulteriori violazioni delle norme a tutela della concorrenza. Infatti, nella misura in cui la delibera, non fornendo elementi per escludere che le compensazioni in essa previste siano eccedenti rispetto a quanto necessario per coprire i costi originati dall'adempimento degli obblighi di servizio pubblico in violazione dell'allegato 1 al Regolamento n. 1370/07, e possano quindi tradursi nell'attribuzione ad Atac Spa di un indebito vantaggio che possa falsare la concorrenza, risulta suscettibile di costituire una fattispecie valutabile ai sensi della normativa comunitaria in materia di aiuti di Stato.
Assegni familiari agli orfani – Totalizzazione dei periodi di assicurazione e di occupazione – Periodi maturati dal genitore
Emanazione della proposta di regolamentazione provvisoria nel servizio di rimorchio portuale
La Commissione ha ritenuto di non poter procedere alla valutazione di idoneità dell'Accordo nazionale sulle procedure di proclamazione,raffreddamento e effettuazione degli scioperi nel settore del rimorchio portuale stante la mancata individuazione delle prestazioni indispensabili e ha emanato una sua proposta di regolamentazione provvisoria. La proposta contiene, tra l'altro, l'obbligo di preavviso, la previsione della durata massima di 12 ore per la prima azione e di 24 per la seconda e i periodi di franchigia. In materia di prestazioni indispensabili, la Commissione ha inoltre proposto che in via prioritaria vadano rispettati inderogabilmente tutti i provvedimenti adottati dall'Autorità marittima, con riferimento all'ambito portuale di propria pertinenza e che debbano essere comunque garantite le seguenti attività a) movimentazioni nei porti, rade, terminali petroliferi delle navi, in arrivo o in partenza, aventi merci pericolose a bordo; b) movimentazioni di navi e mezzi che presentano particolari problematiche; c) prestazioni, richieste dall'Autorità marittima, finalizzate a rimuovere rischi, in materia di sicurezza, derivanti da situazioni di congestionamento degli specchi acquei portuali; d) movimentazioni di navi da/per l'ormeggio/rada, in presenza di condizioni meteo marine particolarmente avverse; e) movimentazioni di navi passeggeri e servizi strumentali ai trasporti da e per le isole; f) operatività per tutta la durata giornaliera prevista dal Regolamento di servizio del cosiddetto «rimorchiatore di guardia». La regolamentazione prevede infine che il numero minimo dei rimorchiatori che devono essere operativi in caso di sciopero sia stabilito, con ordinanza, dai Comandanti delle singole Capitanerie di Porto.
Cittadino che studia in uno Stato membro ospitante – Attività subordinata anteriore e posteriore all’inizio degli studi –
Principio di parità di trattamento e di non discriminazione tra il cittadino nazionale e il soggiornante di lungo periodo
Con ricorso depositato il 23 aprile 2012 un cittadino senegalese regolarmente soggiornante in Italia in forza di permesso per lungo soggiorno e residente nel Comune di Montesilvanoesponeva di avere in data 6 maggio 2011 inoltrato al predetto Comune domanda per ottenere l'attribuzione del cd. «assegno ai nuclei familiari» per l'anno 2011, ai sensi dell'art. 65 1egge n. 448/98 e successive modificazioni ed integrazioni. Con provvedimento del 26 luglio 2011 l'ente territoriale tenuto alla concessione della provvidenza assistenziale, con onere di erogazione a carico dell'Inps, gli aveva inviato comunicazione di reiezione della domanda sul rilievo che egli non era in possesso dei «requisiti richiesti per usufruire di detto beneficio non essendo cittadino comunitario come previsto dalla nostra legislazione nazionale in materia, e in particolare dall'art. 2, comma 2, del d.m. n. 25 maggio 2001 n. 337». Né aveva sortito alcun effetto la tempestiva iniziativa intrapresa dal Patronato Inca Cgil in suo favore, previa formale segnalazione al Comune e all'Inps del carattere discriminatorio del provvedimento di diniego, in quanto in violazione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione in materia di prestazioni sociali, sancito dalla Direttiva del Consiglio europeo n. 109/2003 e recepito dal d.lgs. n. 3/2007, previa modifica dell'art. 9 con l'introduzione del comma 12, lett. e), nel d.lgs. n. 286/98 (T.U. immigrazione) con contestuale sollecitazione alla concessione della provvidenza. Tanto premesso e dedotto chiedeva che l'adito Tribunale volesse, «accertata la natura discriminatoria della norma contenuta nell'art. 65 legge n. 448/98 e successive modifiche e nonne applicative, nella parte in cui impone, per l'accesso all'erogazione dell'assegno ai nuclei familiari numerosi da essa previsto, il requisito della cittadinanza italiana o di un altro Paese dell'Unione Europea». Il ricorso è stato accolto dal Tribunale di Pesca-ta in quanto la domanda azionata attinge fondamento giuridico dall'assetto normativo apprestato dalla Direttiva del Consiglio europeo n. 109/2003 e dal d.lgs. n. 3/2007: quanto alla prima, per avere, all'art. 11, comma 1, lett. d), introdotto la regola secondo la quale «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: [â?¦], d) le prestazioni sociali, l'assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legge nazionale»; quanto al secondo, per avere esso, nel recepire la predetta Direttiva e integrare il d.lgs. n. 286/98 (T.U. sull'immigrazione), stabilito, all'art. 9, comma 12, lett. e), che lo straniero titolare di permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo può «usufruire delle prestazioni di assistenza sociale, di previdenza sociale, di quelle relative a erogazioni in materia sanitaria, scolastica e sociale, di quelle relative all'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico, salvo che sia diversamente disposto e sempre che sia dimostrata l'effettiva residenza dello straniero sul territorio nazionale». Secondo il Tribunale, pertanto, dal cosà delineato assetto normativo è dato derivare l'introduzione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione tra il cittadino nazionale e il soggiornante di lungo periodo. L'art. 65 della legge n. 448/1998, nel circoscrivere, infatti, la derogabilità dell'assegno ivi previsto ai soli cittadini italiani (e, in forza dell'art. 80, legge n. 388/2000, al cittadino comunitario), viola in tutta evidenza il predetto principio di parità e di non discriminazione. Né alla deroga di quest'ultimo principio nei confronti del cittadino extracomunitario soggiornante di lungo periodo sembra possa fondatamente soccorrere la riserva esplicitata nel richiamato art. 9, comma 12, lett. e) del d.lgs n. 286/1998; e ciò sul duplice rilievo dell'intervenuto recepimento di esso nel d.lgs n. 3/2007 e della non rinvenibilità della deroga in nessuna disposizione legislativa nazionale. L'interpretazione cosà orientata appare coerente con i numerosi recenti interventi della Corte Costituzionale (n. 306/2008; n. 11/2009; n. 187/2010; n. 329/2011), in forza dei quali si è inteso rimuovere (con la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative all'occorrenza scrutinate) il limite di accesso alle prestazioni di assistenza previdenziale e sociale (in quanto ritenuto discriminatorio) derivante dalla mancanza di titolarità di carta di soggiorno, in capo allo straniero extracomunitario, dovuta a motivi reddituali. Da ultimo, nella determinazione di diniego di erogazione del beneficio in parola, assunta dagli enti convenuti, appare configurabile anche il profilo della discriminatorietà , attingendo essa determinazione la propria motivazione giustificativa da un divieto normativamente sancito esclusivamente in ragione della condizione di straniero della parte richiedente; discriminazione che, pertanto, deve essere rimossa.
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La reintegra nel posto di lavoro non esclude il danno esistenziale del lavoratore subito per effetto della mancata riammissione
Un lavoratore dopo essere stato licenziato, con sentenza confermata nei tre gradi di giudizio,pur percependo la retribuzione non veniva riammesso al lavoro dall'azienda fino alla collocazione in quiescenza. A fronte di tale condotta, il lavoratore adiva il Tribunale di Como rivendicando il risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto della prolungata inattività , oltre al danno non patrimoniale subito a causa della mancata riammissione in servizio. Il giudice di primo grado rigettava la domanda del dipendente con sentenza parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Milano che condannava la società al risarcimento del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale, derivante dallo stress e dal disagio professionale subito. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame della società , ha escluso che l'indennità risarcitoria prevista dall'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300 assuma una valenza onnicomprensiva idonea a risarcire ogni danno derivante dal licenziamento e dal provvedimento di reintegra. Nell'escludere la sussistenza di una «duplicazione» di danno, la Corte di Cassazione ha affermato che la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore che gli sia derivato dal ritardo della reintegra e che il giudice, in presenza della relativa prova il cui onere incombe sul lavoratore. È lo stesso comportamento del datore di lavoro che non ottempera con immediatezza all'ordine di reintegrazione ' osserva la Corte ' che lo espone a ulteriori conseguenze sul piano risarcitorio facilmente evitabili attraverso un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione nel posto di lavoro.
Provvidenze assistenziali per cittadini extracomunitari
Con la sentenza in oggetto la Corte Costituzionale ha (nuovamente) dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388,nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell'indennità di accompagnamento di cui all'art. 1 della legge n. 18/1980 e della pensione di inabilità di cui all'art. 12 della legge n. 118/1971. La sentenza della Corte prende le mosse dai rinvii operati dal Tribunale di Urbino (ord. 31 maggio 2011 relativa all'indennità di accompagnamento) e dal Tribunale di Cuneo (ord. 27 settembre 2011 comprendente la pensione di inabilità civile, nonché la stessa indennità di accompagnamento). Nel primo caso la richiesta riguarda i diritti di un minore straniero per il quale è stato esercitato il ricongiungimento familiare, attestato dal rilascio di un permesso di soggiorno in qualità di familiare il 12 giugno 2009 (genitori in Italia dal 2007 e domanda di prestazione del 25 luglio 2009 suffragata dalla competente Commissione medica di prima istanza circa la sussistenza del requisito sanitario e tuttavia respinta dall'Inps per carenza dello specifico titolo di soggiorno). Nel secondo caso, invece, si tratta di un cittadino straniero, il quale ' ancorché riconosciuto dalla Commissione medica invalido «con totale e permanente inabilità lavorativa (100%) e con impossibilità a deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore» e malgrado il riconoscimento dei presupposti medico-legali per il riconoscimento sia della pensione di inabilità civile sia dell'indennità di accompagnamento ' si è visto respingere dall'Inps le domande relative a entrambe le provvidenze per mancanza della carta di soggiorno (o il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo), essendo titolare solo del permesso di soggiorno «concesso per la prima volta in data 16 novembre 2007 per motivi familiari, e successivamente rinnovato». Volendo ricostruire brevemente l'iter argomentativo che ha portato i giudici costituzionali alla declaratoria d'illegittimità dell'art. 80, comma 19, della legge finanziaria 2001, occorre partire dalla seguente affermazione della Corte: «I dubbi di legittimità costituzionale si concentrano sui vincoli introdotti dall'art. 80, comma 19 ' più volte scrutinato da questa Corte ' in tema di prestazioni sociali agli stranieri, essendosi ivi previsto che le provvidenze costituenti diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concesse ai soli stranieri titolari della carta di soggiorno; istituto, questo, sostituito, a far data dal 2007, con il permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo, a norma dell'art. 2, comma 3, del d.lgs n. 3/2007 (Attuazione della direttiva 2003/109/Ce) e il cui conseguimento è a sua volta condizionato da alcuni requisiti. Per ottenere tale permesso, infatti, è necessario che lo straniero dimostri: a) la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati dall'art. 29, comma 3, lettera b), del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. sull'immigrazione); b) la disponibilità di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico- sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio; c) il possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità (art. 9 del T.U. sull'immigrazione)». La norma oggetto di impugnativa si rivela, pertanto, fortemente restrittiva ' e per molti aspetti intrinsecamente derogatoria ' rispetto alla generale previsione dettata in materia di prestazioni sociali e assistenziali in favore dei cittadini extracomunitari dall'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, il quale, invece, prevede che «Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, nonché i minori iscritti nella loro carta o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale». Il legislatore della legge finanziaria del 2001, proprio in tema di prestazioni che, in base alla legge, sono configurate come «diritti soggettivi» e proprio nei confronti di soggetti portatori di gravi patologie e invalidità , e dunque particolarmente bisognosi di specifiche misure di assistenza, ha finito per introdurre nei confronti degli stranieri, pur legalmente soggiornanti nel territorio nazionale, una variegata gamma di presupposti limitativi, contrassegnati dai diversi requisiti cui altra normativa (per di più iscritta in un panorama di adattamento alle previsioni della richiamata direttiva 2003/109, dettate da esigenze del tutto estranee al tema qui in discorso) ha subordinato il permesso Ce per soggiornanti di lungo periodo. Il che ha generato una indubbia disparità di trattamento fra stranieri e cittadini, particolarmente grave non solo per il diretto coinvolgimento di diritti fondamentali della persona, ma anche perché destinata a riverberarsi automaticamente nei confronti degli stessi nuclei familiari in cui i potenziali beneficiari delle provvidenze ' non di rado anche minori ' si trovano inseriti. La Corte Cost. ha avuto modo di occuparsi ripetutamente dell'art. 80, comma 19, in riferimento agli istituti della pensione di inabilità (sentenza n. 11/2009 e sentenza n. 324/2006) e dell'indennità di accompagnamento (sentenza n. 306/2008), dichiarando l'illegittimità costituzionale anche dell'art. 9 del T.U. sull'immigrazione, nella parte in cui escludeva le provvidenze in discorso per gli stranieri non in possesso dei prescritti requisiti di reddito. Nel frangente, la Corte ha rilevato come fosse manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di prestazioni assistenziali (che presupponevano uno stato di invalidità e disabilità ) al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza nel territorio dello Stato che richiede, per il suo rilascio, la titolarità di un determinato reddito. La più generale previsione del possesso del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo (Ce-SLP) ' individuato dalla norma impugnata quale pre-requisito per il conseguimento delle provvidenze sociali in favore degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato ' è stata invece scrutinata, sul versante della titolarità del permesso di soggiorno da almeno cinque anni, nelle sentenze n. 187/2010 (riguardante l'assegno mensile di invalidità di cui all'art. 13 della legge n. 118/1971) e n. 329/2011 (concernente l'indennità di frequenza di cui all'art. 1 della legge n. 289/1990). In entrambe le occasioni, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale della normativa denunciata, la Corte, in particolare, ha rilevato che ' ove si tratti, come nei casi allora delibati, di provvidenze destinate al sostentamento della persona, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile si trova inserito ' qualsiasi discrimine fra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti, finisce per risultare in contrasto con il principio di non discriminazione di cui all'art. 14 della Convezione europea dei diritti umani (Cedu), avuto riguardo all'interpretazione rigorosa che di tale norma è stata offerta dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell'uomo). Ebbene, se si considerano i princàpi affermati, in particolare, nella citata sentenza n. 329/2011, è evidente che un identico ordine di rilievi possa e debba essere evocato ' mutatis mutandis ' anche nell'attuale scrutinio, avuto riguardo alla natura e alla ratio delle provvidenze qui considerate. In ragione delle gravi condizioni di salute dei soggetti interessati, portatori di handicap fortemente invalidanti (in uno dei due giudizi si tratta addirittura di un minore), vengono a essere coinvolti una serie di valori di essenziale risalto ' quali, in particolare, la salvaguardia della salute, le esigenze di solidarietà rispetto a condizioni di elevato disagio sociale, i doveri di assistenza per le famiglie ', tutti di rilievo costituzionale in riferimento ai parametri evocati, tra cui spicca l'art. 2 Cost. (alla luce anche delle diverse convenzioni internazionali che parimenti li presidiano), e che rendono priva di giustificazione la previsione di un regime restrittivo (ratione temporis, cosà come ratione census) nei confronti di cittadini non comunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato da tempo apprezzabile e in modo non episodico, come nei casi di specie. Considerato l'ampio spettro di prestazioni suscettibili di rientrare nella nozione dell'art. 80, comma 19, legge n. 388/2000, la sentenza n. 40 in esame si presenta necessariamente come declaratoria di illegittimità parziale. Ciò non toglie che, rispetto a questa specifica categoria di prestazioni (per l'appunto legate all'handicap e alla grande disabilità ), la decisione segni il ritorno, in pratica, alla modulazione della norma nella forma originaria. Ossia l'art. 41 del T.U. sull'immigrazione. Vale, perciò, insistere sul carattere «legale» del soggiorno e ' per quanto riguarda il carattere non episodico della presenza ' sulla natura del permesso, specie in relazione ai familiari. Non sfugge la critica rivolta dalla Corte Costituzionale al legislatore del 2001, proprio per le incidenze che si riverberano automaticamente sui singoli componenti dei nuclei familiari (minori inclusi). Inoltre, più in generale, non può essere trascurato l'ulteriore inasprimento della norma che presiede al rilascio del permesso di soggiorno Ce-Slp, sostituito alla carta di soggiorno, a partire dal 9 dicembre 2010, con la previsione del superamento di un esame di conoscenza della lingua italiana. Certo, il ministero dell'Interno ha previsto delle esenzioni - come nel caso dei figli di meno di 14 anni e/o altri familiari non in grado di effettuare il test perché troppo anziani o disabili. Tuttavia, si dimostra ancora una volta l'interferenza di una condizione assolutamente estranea alla natura e alla ratio di queste provvidenze (ma l'osservazione vale ugualmente per le altre prestazioni di rilevanza sociale costituenti «diritti soggettivi» in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali). L'attenzione sullo specifico gruppo di prestazioni non è, d'altra parte, scemata e lo prova il rinvio della Corte d'Appello di Bologna del 20 settembre 2012, questa volta sul rifiuto di una pensione a titolo di cieco civile (ventesimista) ex art. 8 della legge n. 66/1962 (e parimenti dell'indennità di accompagnamento) sull'unico presupposto della carenza della «carta di soggiorno». In questo caso, il rinvio ha luogo dopo che l'Inps è ricorso in appello contro la sentenza di condanna del Tribunale di Reggio Emilia (versamento delle richieste prestazioni dal 1° maggio 2009), mentre la scarsità di elementi fattuali non permettono di dire se la mancanza del titolo prescritto è dovuta a una presenza in Italia inferiore ai cinque anni, oppure all'impossibilità di perfezionare il requisito economico (la titolarità di una determinata soglia di reddito), a causa della minorazione fisica. È comunque difficile prevedere un ripensamento della Corte Costituzionale, la quale, al contrario, proprio con la sentenza 40 in esame si iscrive, per quanto riguarda questa categoria di prestazioni legate alle disabilità , interamente in quello che era stato il suo approdo in occasione della sentenza n. 187/2010. Per completezza, si segnala che sono al vaglio della Corte ulteriori due procedimenti (non ancora fissati per la discussione), che investono prestazioni di particolare rilevanza sociale. L'assegno comunale versato ai nuclei composti di tre figli minori, assoggettato a condizioni di cittadinanza (italiana o comunitaria), sul rinvio del Tribunale di Monza (ord. 9 marzo 2011) e l'assegno sociale erogato dall'Inps (ord. di rinvio del Trib. di Urbino 19 luglio 2011). Un test, nei due casi, di particolare pregnanza, per misurare l'estensione della giurisprudenza della Corte Costituzionale anche in rapporto ai precetti della Cedu.
La mancanza della cassetta di pronto soccorso non giustifica la mancata partenza del treno
I macchinisti di un treno, dopo aver riscontrato che all'interno di una locomotrice non era presente la cassetta di pronto soccorso,rifiutavano di svolgere la prestazione lavorativa osservando che l'ordine ricevuto poteva essere disatteso in quanto esponeva i lavoratori alle conseguenze di una condotta penalmente rilevante. A fronte di tale condotta i lavoratori subivano il provvedimento disciplinare della sospensione dal lavoro e dal servizio che veniva impugnato innanzi al Tribunale di Livorno che ne dichiarava l'illegittimità con sentenza riformata dalla Corte di Appello di Firenze. La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso di legittimità dei lavoratori, ha confermato la sentenza del Collegio fiorentino rilevando che il rifiuto della prestazione non può ritenersi legittimo in quanto l'ordine impartito dai responsabili della società di assicurare la partenza del treno non poteva essere legittimamente rifiutato, non configurandosi una condotta illecita sotto il profilo penale in capo ai macchinisti nella conduzione del treno privo della cassetta di sicurezza. La segnalazione dell'assenza del dispositivo ai preposti aziendali circa l'assenza di dispositivi di prevenzione infortuni sul posto di lavoro esclude l'illecito penale in capo ai lavoratori che quindi ' conclude la Cassazione ' non potevano legittimamente invocare l'esimente prevista dalla disciplina speciale.
Lo stato di depressione non costituisce una valida giustificazione per differire l’audizione in sede di procedimento disciplin
La mancata partecipazione agli utili rende subordinato il lavoro dell’associato in partecipazione
L’indennità sostitutiva del preavviso ha carattere indennitario e prescinde dallo stato di disoccupazione
È nullo il patto di prova che non contiene la specifica delle mansio
Mantenimento in servizio fino a 70 anni dei dirigenti sanitari
La tutela del conseguimento del minimo pensionistico costituisce un bene giuridico costituzionalmente protettoquindi, in virtù dell'articolo 38,secondo comma, della Costituzione, anche il dirigente sanitario che al raggiungimento del limite massimo di età per il collocamento a riposo non abbia compiuto il numero degli anni richiesti per ottenere il minimo della pensione ha il diritto di rimanere in servizio, su domanda, fino al conseguimento di tale anzianità e comunque non oltre il settantesimo anno di età . La Corte Costituzionale, quindi, ha accolto la questione sollevata dalla Corte di Appello di Genova ribadendo che il diritto al raggiungimento del minimo pensionistico è sottratto alla discrezionalità del legislatore che può quindi esplicarsi solo in ordine all'individuazione dell'entità delle prestazioni previdenziali e nella modifica delle diverse figure professionali interessate. Unico limite al conseguimento del minimo pensionistico è costituito dalla subordinazione della permanenza in servizio all'accertamento della sussistenza dell'energia compatibile con la prosecuzione del rapporto del lavoro. Tale delimitazione è stata dalla legislazione ordinaria da prima individuata nel raggiungimento dei sessantacinque anni per poi essere spostata ai settanta anni in considerazione del complessivo miglioramento delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori. L'affermazione di tale principio non ha interessato in maniera omogenea l'intero settore pubblico, lasciando per determinate categorie una disciplina discriminatoria e penalizzante del diritto al conseguimento del minimo pensionistico. Nel caso specifico la Corte ha preso atto di una disparità di trattamento esistente ai fini del conseguimento del minimo pensionistico tra la disciplina prevista per i dirigenti sanitari e altre categorie di pubblici impiegati. Per i primi il combinato disposto degli articoli 15-novies, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, e art. 16, comma 1, primo periodo del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 prevede la facoltà per la dirigenza sanitaria di restare in servizio per il massimo di un biennio oltre il limite d'età per il collocamento al riposo impedendo, pertanto, agli appartenenti della stessa categoria di rimanere in servizio, sempre al medesimo fine, fino al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo con i limiti del raggiungimento del settantesimo anno d'età e dell'aumento del numero dei dirigenti. Pertanto, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del combinato disposto sopracitato in relazione al periodo di vigenza dello stesso, considerando invece legittimo l'intervento operato dalla legge n. 183/2010 che in merito alla categoria dei dirigenti medici e del ruolo sanitario del servizio sanitario nazionale, ivi compresi i responsabili di struttura complessa, ha disposto che il limite massimo di età per il collocamento a riposo dei dirigenti è stabilito al compimento del sessantacinquesimo anno di età ovvero a istanza dell'interessato al maturare del quarantesimo anno di servizio effettivo. In ogni caso il limite massimo di permanenza non può superare il settantesimo anno di età e la permanenza in servizio non può dar luogo a un aumento del numero dei dirigenti.
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