Descrizione
La Corte Costituzionale e lo Spoil System nella Regione Calabria Contrasto in Cassazione su presentazione del tentativo di conciliazione e tempestiva impugnazione di licenziamento Interessante sentenza del Tribunale di Forlì su molestie sessuali e mobbingAnche in caso di lavoro autonomo per prestazioni settimanali di due giorni può configurarsi la subordinazione
Maria B. è stata impiegata dalla RAI-Radiotelevisione italiana Spa con contratto di «collaborazione autonoma»come traduttrice-annunciatrice per i notiziari
in lingua slovena, nei giorni di sabato e domenica, con il compito, altresà, di sostituire
un'altra lavoratrice, inquadrata alle dipendenze dell'azienda e addetta alle stesse mansioni,
quando costei doveva assentarsi. Ella ha chiesto al pretore di Roma di accertare che
il suo rapporto con la Rai era in effetti di lavoro subordinato e di condannare l'azienda al
pagamento di differenze di retribuzione. Il pretore ha accolto le domande. La Rai ha proposto
Appello, davanti al Tribunale di Roma, sostenendo che il pretore aveva errato nel
qualificare il rapporto e che comunque, se si fosse trattato di un contratto di lavoro subordinato
a tempo parziale, esso avrebbe dovuto essere dichiarato nullo per difetto della
forma scritta prevista dalla legge per questo tipo di rapporto. Il Tribunale ha rigettato l'Appello
osservando che Maria B. aveva lavorato in condizioni di subordinazione in quanto aveva
prestato la sua attività di traduttrice-annunciatrice per i notiziari in lingua slovena nei
giorni di sabato e domenica, in orario e luogo prestabiliti, avvalendosi della struttura organizzativa
della società , in una postazione e con materiali di proprietà della Rai, stabilmente
inserita nell'organizzazione produttiva dell'azienda, svolgendo prestazioni fungibili
con altra annunciatrice dipendente della società , rimanendo assoggettata al controllo
della prestazione sia pure nei limiti della natura intellettuale del lavoro svolto. Il Tribunale
ha escluso la nullità del rapporto per difetto di forma scritta ad substantiam, perché il
difetto di forma «è conseguenza della qualificazione originaria del rapporto», il quale perciò
non potrà convertirsi in un rapporto di lavoro a tempo pieno, ma rimane di lavoro subordinato
a tutti gli effetti. La Rai ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5495 del 14 marzo 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Di Nubila)
ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza (Cass. n. 9152 del 6 luglio
2001) secondo cui la presenza dei caratteri della subordinazione nel rapporto di lavoro,
quali la predeterminazione del contenuto delle prestazioni e l'organizzazione degli strumenti
produttivi da parte del datore di lavoro, nonché la prestazione dell'attività lavorativa nei locali
di quest'ultimo e l'assenza di rischio economico del lavoratore, non perde il
suo valore indicativo per il solo fatto che il lavoro venga reso soltanto per poche ore durante
la giornata.
La Corte ha ritenuto inammissibile la questione di nullità del contratto per vizio di forma,
osservando che essa era stata sollevata per la prima volta in grado di Appello, mentre l'eccezione
avrebbe dovuto essere formulata nella memoria di costituzione del giudizio di I
grado. Peraltro la Corte ha rilevato incidentalmente che la questione era infondata, richiamando
la sentenza della Corte Costituzionale n. 283 del 15 luglio 2005.
Sottoposta alle Ss.Uu. la configurabilità del reato di falso nella mancata timbratura del cartellino del pubblico impiegato
Vincenzo C., pubblico funzionario, dipendente della Soprintendenza ai beni culturali e ambientali, è stato sottoposto a processo penaledavanti al Tribunale
di Palermo con l'imputazione di falso e truffa per avere timbrato il cartellino di presenza
alle ore 8 in entrata e alle ore 14 in uscita, pur essendosi allontanato dall'ufficio, per
esigenze personali, nell'arco di tempo in cui risultava in servizio. Il Tribunale l'ha ritenuto
colpevole e la sua decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Palermo. Egli ha
proposto ricorso in Cassazione, sostenendo, tra l'altro che nel suo caso non poteva configurarsi
il falso in quanto egli aveva timbrato il cartellino alle ore indicate. Il processo è stato
assegnato alla V Sezione penale che, con ordinanza n. 135 del 3 febbraio 2006 (Pres.
Foscarini, Rel. Nappi) ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, avendo constatato
l'esistenza, in materia, di un contrasto di giurisprudenza. La Corte ha rilevato che
secondo l'orientamento espresso in alcune decisioni (Cass. Sez. V, 21 settembre 2004, Di
Benedetto n. 230113 e altre) «non costituisce il reato di falso ideologico per omissione la
mancata timbratura, da parte del dipendente, del cartellino segnatempo in occasione di
brevi allontanamenti dal luogo di lavoro, atteso che tale strumento di verifica della presenza
nell'orario di lavoro non può essere considerato rappresentativo di un unitario atto
di attestazione del periodo di tempo complessivamente speso in ufficio dal dipendente,
bensà di distinti atti di attestazione, ciascuno relativo alle ore di ingresso e di uscita dall'ufficio
». A questa giurisprudenza ' ha osservato la Corte ' si oppone però un diverso orientamento
giurisprudenziale secondo il quale «è configurabile il reato di falsità ideologica
in atto pubblico a carico del pubblico dipendente che attesti nei fogli di presenza soltanto
l'ora di ingresso e quella di uscita dall'ufficio senza far menzione delle assenze intermedie,
atteso che detta attestazione può far erroneamente ritenere che vi sia stata la
presenza continuativa in ufficio per tutte le ore di servizio dovute» (Cass. Sez. V, 3 febbraio
2004, Cei, n. 228737 e altre).
Il mancato pagamento dei debiti di una regione può comportare la condanna dell'assessore al risarcimento del danno erariale
Nel 1992 numerosi farmacisti convenzionati hanno chiesto alla Regione Calabria il pagamento di crediti per prodotti farmaceutici somministrati a utenti del servizio sanitario.In seguito al mancato soddisfacimento delle loro richieste, essi
hanno promosso azioni giudiziarie che si sono concluse con la condanna della Regione
al pagamento di ingenti somme. In particolare, solo per interessi e spese legali la Regione
ha pagato circa nove miliardi di lire. Nel 1998 il Procuratore regionale della Corte dei
Conti per la Calabria ha promosso, nei confronti dell'assessore alla Sanità di tale Regione,
un giudizio di responsabilità per non avere tempestivamente soddisfatto i crediti dei farmacisti,
causando in tal modo un aggravio di costi per spese e interessi legali. La Sezione
locale della Corte dei Conti ha affermato la responsabilità dell'assessore e lo ha condannato
al pagamento della somma di 250 milioni di lire. Secondo questa sentenza esistevano
concrete possibilità di soddisfare tempestivamente i crediti dei farmacisti, sia mediante
il reperimento di risorse integrative di bilancio, sia contenendo la spesa farmaceutica.
Gli organi amministrativi competenti avevano, invece, scelto «la via dell'assoluta inerzia
dando in tal modo un significativo apporto causale all'aggravamento del danno». La colpa
di Ubaldo S. consisteva, in particolare ' secondo la Corte ' nell'aver tenuto un comportamento
omissivo in quanto, nella sua qualità di assessore alla sanità , egli aveva l'obbligo
di orientare e sollecitare l'attività dell'organo di governo, mentre si era limitato a una
mera informativa della Giunta, senza che alla stessa seguissero azioni più determinate,
nonostante la certezza del fatto dannoso. In grado di appello l'importo della condanna
è stato ridotto a 20.000,00 euro. L'assessore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo
che la Corte dei Conti aveva varcato il limite della sua giurisdizione, sindacando il
merito delle scelte discrezionali dell'amministrazione.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 7024 del 28 marzo 2006, Pres. Carbone, Rel. Altieri)
ha rigettato il ricorso. Nel caso in esame ' ha osservato la Cassazione ' si deve escludere
che vi sia stato un diretto sindacato della discrezionalità in quanto, come esattamente
rilevato nella decisione impugnata, si addebitava all'organo esecutivo regionale,
non già di aver effettuato una scelta anziché un'altra, ma di aver omesso di adottare una
qualunque scelta che consentisse di far fronte con la maggiore rapidità (e quindi evitando
l'onere di maggiori spese legali, danni e interessi) alle obbligazioni assunte. Il mancato
adempimento di obbligazioni pecuniarie ' ha affermato la Cassazione ' può costituire
condotta illegittima quale fonte di responsabilità erariale, con conseguente esistenza della
giurisdizione della Corte dei Conti, soprattutto nel caso in cui l'amministratore non abbia
fatto ricorso ad alcuna delle scelte organizzatorie e/o procedimentali a essa alternativamente
concesse dalla legge, mentre sarebbe esclusa dal sindacato giurisdizionale ' implicando
un diretto controllo su valutazioni discrezionali ' la scelta tra tali soluzioni, nel
caso in cui la stessa con comportasse una verifica circa l'osservanza dei principi di economicità
e di efficacia.
Il danno da demansionamento deve essere allegato e provato dal lavoratore che ne chiede il risarcimento
Anche questa sentenza è gia stata segnalata (in q. R i v ., n. 2/2006, p. 9) ma vale la pena tornarci su in maniera approfondita. Franco C., dipendente della Spa Ferrovie dello Stato con qualifica di dirigente,ha svolto le mansioni di direttore
dell'area finanza e patrimonio fino al 1992, quando è stato rimosso da questa posizione
e nominato assistente del presidente per la diversificazione delle attività ferroviarie,
responsabile per le Diversificate e il Patrimonio, consigliere e successivamente presidente
della controllata Metropolis. Rientrato, nel 1996, presso le Ferrovie dello Stato
egli è rimasto privo di incarichi, in condizioni di totale inoperosità , sino al maggio del
1998 quando è stato licenziato con motivazione riferita a ragioni organizzative. Sia il
Tribunale che la Corte d'Appello di Roma, oltre a dichiarare illegittimo il licenziamento,
hanno riconosciuto il diritto del dirigente al risarcimento del danno da demansionamento,
la cui durata è stata determinata in sei anni (1992-1998) nella sentenza di I grado
e ridotta a due (1996-1998) in appello. L'importo del risarcimento del danno da demansionamento
è stato stabilito equitativamente dal Tribunale in lire 486 milioni e ridotto
dalla Corte d'Appello a lire 186 milioni, con riferimento al periodo biennale di totale
inattività precedente il licenziamento. In proposito la Corte di Roma ha ritenuto indiscutibile
che l'inattività di Franco C. avesse prodotto una serie di risultati negativi i
quali ' ancorché non direttamente attinenti alla sfera economica ' si presentavano come
conseguenze patrimoniali di un danno di diversa natura ed erano, quindi, legittimamente
suscettibili di valutazione. In particolare, la Corte d'Appello indicava la lesione
della personalità professionale e morale del prestatore, il discredito che l'avvenuto
declassamento aveva comportato a suo carico nell'ambiente di lavoro e il pregiudizio
che tutta la vicenda, la cui responsabilità era da ascrivere alla società appellante, aveva
comportato sul curriculum vitae e sulla carriera di Franco C., quali circostanze che,
pur non avendo un immediato prezzo economico, si ripercuotevano indubbiamente, oltre
che nell'ambito personale e morale, anche sotto il profilo patrimoniale. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte d'Appello per
avere, tra l'altro, attribuito al dirigente il risarcimento del danno da demansionamento,
senza che questi avesse dato la prova del pregiudizio in concreto derivatogli dalla
forzata inattività . Il dirigente ha proposto a sua volta ricorso incidentale.
Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite, in quanto, nell'ambito della Sezione Lavoro,
si era determinato un contrasto in materia di prova del risarcimento del danno da demansionamento.
Le Sezioni Unite (sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006, Pres. Carbone, Rel. La Terza) hanno
accolto, sul punto, il ricorso dell'azienda, affermando il seguente principio di diritto:
«In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore
al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente
ne deriva ' non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale
' non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio,
sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del
danno biologico è subordinato alla esistenza di una lesione dell'integrità psico fisica medicalmente
accertabile, il danno esistenziale ' da intendere come ogni pregiudizio (di natura
non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare
areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo
a scelte di vita diverse da quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno ' va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dallo ordinamento,
assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità , conoscibilità
all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione
di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali
reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse
relazionale, effetti negativi dispiegati nella abitudine di vita del soggetto) ' il cui
artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico ' si possa, attraverso
un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza
del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove».
A queste conclusioni le Sezioni Unite sono pervenute con la seguente motivazione:
«Quanto al quarto motivo del ricorso principale, concernente i danni derivanti dal demansionamento
per il periodo dal 1997 al 1998 ravvisati e liquidati dai giudici di merito, è effettivamente
sussistente un contrasto nella giurisprudenza della sezione lavoro di questa
Corte. La questione è la seguente: se, in caso di demansionamento o di dequalificazione,
il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, soprattutto di quello c.d. esistenziale,
suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento, oppure
sia subordinato all'assolvimento, da parte del lavoratore, all'onere di provare l'esistenza
del pregiudizio. Invero entrambi gli indirizzi convergono nel ritenere che la potenzialità nociva
del comportamento datoriale può influire su una pluralità di aspetti (patrimoniale, alla
salute e alla vita di relazione) e concordano sulla risarcibilità anche del danno non patrimoniale,
ammettendo il ricorso alla liquidazione equitativa, ma divergono o presentano
una inconciliabile diversità di accenti e di sfumature quanto al regime della prova. Sono
ascrivibili al primo indirizzo le pronunce di cui a Cass. n. 13299 del 16 dicembre 1992, n.
11727 del 18 ottobre 1999, n. 14443 del 6 novembre 2000, 13580 del 2 novembre 2001, n.
15868 del 12 novembre 2002, n. 8271 del 29 aprile 2004, n. 10157 del 26 maggio 2004, le
quali, ancorché con motivazioni diversamente articolate alla stregua delle pronunzie oggetto
di esame, hanno ritenuto che «In materia di risarcimento del danno per attribuzione
al lavoratore di mansioni inferiori rispetto a quelle in relazione alle quali era stato assunto,
l'ammontare di tale risarcimento può essere determinato dal giudice facendo ricorso a
una valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 cod. civ., anche in mancanza di uno specifico
elemento di prova da parte del danneggiato, in quanto la liquidazione può essere operata
in base all'apprezzamento degli elementi presuntivi acquisiti al giudizio e relativi
alla natura, all'entità e alla durata del demansionamento, nonché alle altre circostanze del
caso concreto». Sono ascrivibili al diverso indirizzo che richiede la prova del danno Cass.
n. 7905 dell'11 agosto 19978, n. 2561 del 19 marzo 1999, n. 8904 del 4 giugno 2006, n.
16792 del 18 novembre 2003, n. 10361 del 28 maggio 2004, le quali enunciano il seguente
principio «Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento
del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e
di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire
la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare
la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza
di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto
indispensabile per procedere a una valutazione equitativa. Tale danno non si pone,
infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella
suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della
condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la
prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 cod. civ.». Con dette pronunzie si sono
generalmente confermate le sentenze di merito che avevano rigettato la domanda di
risarcimento del danno per essere stata la dequalificazione fatta genericamente derivare
dalla privazione di compiti direttivi, per non essere stati precisati i pregiudizi di ordine patrimoniale
ovvero non patrimoniale subiti, e per non essere stati forniti elementi comprovanti
una lesione di natura patrimoniale, non riparata dall'adempimento dell'obbligazione
retributiva, ovvero una lesione di natura non patrimoniale. Le Sezioni Unite ritengono
di aderire a quest'ultimo indirizzo.
La tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza è quella che prospetta la responsabilità
datoriale come di natura contrattuale. Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di
lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della
professionalità , sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore,
si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul
piano contrattuale: nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art.
2103 (divieto di dequalificazione), mentre nel secondo deriva dalla violazione dell'obbligo
di cui all'art. 2087 (tutela dell'integrità fisica e della personalità morale del lavoratore)
norma che inserisce, nell'ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali. In
entrambi i casi, giacché l'illecito consiste nella violazione dell'obbligo derivante dal contratto,
il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolata dall'art.
1218 cod. civ., con conseguente esonero dall'onere della prova sulla sua imputabilità , che
va regolata in stretta connessione con l'art. 1223 dello stesso codice.
1. Vi è da aggiungere che l'ampia locuzione usata dall'art. 2087 cod. civ. (tutela della integrità
fisica e della personalità morale del lavoratore) assicura il diretto accesso alla tutela
di tutti i danni non patrimoniali, e quindi non è necessario, per superare le limitazioni
imposte dall'art. 2059 cod. civ. (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte Costituzionale
n. 233/2003 e l'indirizzo inaugurato da Cass. n. 7283 del 12 maggio 2003), verificare
se l'interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto
a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione
del codice civile.
2. Dall'inadempimento datoriale non deriva però automaticamente l'esistenza del danno,
ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto
illegittimo. L'inadempimento infatti è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione
della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per
certi versi autonoma. Non può infatti non valere, anche in questo caso, la distinzione tra
«inadempimento» e «danno risarcibile» secondo gli ordinari principi civilistici di cui all'art.
1218 e 1223, per i quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano
«conseguenza immediata e diretta» dell'inadempimento, lasciando cosà chiaramente distinti
il momento della violazione degli obblighi di cui agli artt. 2087 e 2103 cod. civ., da
quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio (in tal senso chiaramente si è espressa
la Corte Costituzionale n. 372 del 1994). D'altra parte ' mirando il risarcimento del
danno alla reintegrazione del pregiudizio che determini una effettiva diminuzione del patrimonio
del danneggiato, attraverso il raffronto tra il suo valore attuale e quello che sarebbe
stato ove la obbligazione fosse stata esattamente adempiuta ' ove diminuzione
non vi sia stata (perdita subita e/o mancato guadagno) il diritto al risarcimento non è configurabile.
In altri termini la forma rimediale del risarcimento del danno opera solo in funzione
di neutralizzare la perdita sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l'attribuzione
a essa di una somma di denaro in considerazione del mero accertamento della lesione,
finirebbe con il configurarsi come somma-castigo, come una sanzione civile punitiva,
inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro
ordinamento.
3. È noto poi che dall'inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità
di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all'integrità psico-fisica
o danno biologico, danno all'immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione
danno c.d. esistenziale, che possono anche coesistere l'una con l'altra. Prima di
scendere all'esame particolare, occorre sottolineare che proprio a causa delle molteplici
forme che può assumere il danno da dequalificazione, si rende indispensabile una specifica
allegazione in tal senso da parte del lavoratore (come sottolineato con forza dal secondo
degli indirizzi giurisprudenziali sopra ricordati), che deve in primo luogo precisare
quali di essi ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le
peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno.
Non è quindi sufficiente prospettare l'esistenza della dequalificazione, e chiedere genericamente
il risarcimento del danno, non potendo il giudice prescindere dalla natura del
pregiudizio lamentato, e valendo il principio generale per cui il giudice ' se può sopperire
alla carenza di prova attraverso il ricorso alle presunzioni e anche alla esplicazione dei poteri
istruttori ufficiosi previsti dall'art. 421 cod. proc. civ. ' non può invece mai sopperire
all'onere di allegazione che concerne sia l'oggetto della domanda, sia le circostanze in fatto
su cui trova supporto (tra le tante Cass. Ss.Uu. 3 febbraio 1998 n. 1099).
4. Passando ora all'esame delle singole ipotesi, il danno professionale, che ha contenuto
patrimoniale, può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante
dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla
mancata acquisizione di una maggiore capacità , ovvero nel pregiudizio subito per perdita
di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno. Ma questo pregiudizio non può essere
riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo
l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta a una continua evoluzione,
e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati
a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo
di tempo. Nella stessa logica anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità
occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando,
nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso
di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla
forzata inattività . In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente a opera
dell'interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità , perché ' fermo
l'inadempimento ' l'interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli,
nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell'impegno
assunto di svolgere l'attività che gli viene richiesta dal datore.
5. Più semplice è il discorso sul danno biologico, giacché questo, che non può prescindere
dall'accertamento medico legale, si configura tutte le volte in cui è riscontrabile
una lesione dell'integrità psico fisica medicalmente accertabile, secondo la definizione
legislativa di cui all'art. 5 comma 3 della legge n. 57 del 2001 sulla responsabilità
civile auto, che quasi negli stessi termini era stata anticipata dall'art. 13 del d.lgs.
n. 38 del 2000 in tema di assicurazione Inail (tale peraltro è la locuzione usata dalla
Corte Costituzionale con la sentenza n. 233 del 2003).
6. Quanto al danno non patrimoniale all'identità professionale sul luogo di lavoro, all'immagine
o alla vita di relazione o comunque alla lesione del diritto fondamentale del lavoratore
alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli artt.
1 e 2 della Costituzione (c.d. danno esistenziale) è il relazione a questo caso che si appunta
maggiormente il contrasto tra l'orientamento che propugna la configurabilità del
danno in re ipsa e quello che ne richiede la prova in concreto. Invero, stante la forte valenza
esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il
diretto coinvolgimento del lavoratore come persona, per danno esistenziale si intende ogni
pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando
le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua
quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente
emotiva e interiore (propria del c.d. danno morale), ma oggettivamente accertabile
del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero
adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso. Anche in relazione a questo tipo di
danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo
di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione
in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente
elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all'immagine,
alla libera esplicazione e alla dignità professionale come automatica conseguenza della
dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona,
e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare ' al
quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico
legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psico fisica ' necessita imprescindibilmente
di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando
le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.
Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità ,
dell'assegnazione a mansioni diverse e inferiori a quelle proprie, perché questi
elementi integrano l'inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è
poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella
sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi,
come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di
lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli
nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale
alla prestazione retributiva: se è cosà sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio
e quindi non c'è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte Costituzionale
con la sentenza n. 378 del 1994 per cui «È sempre necessaria la prova ulteriore
dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo
analogo a quello indicato dall'art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o privazione
di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente)
commisurato».
7. Ciò considerato in tema di allegazioni e passando a esaminare la questione della prova
da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere
pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente.
Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico legale, quello esistenziale
può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o
presuntiva, che dimostri nel processo «i concreti» cambiamenti che l'illecito ha apportato,
in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti ' se è vero che la
stessa categoria del «danno esistenziale» si fonda sulla natura non meramente emotiva e
interiore, ma oggettivamente accertabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e
sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse
verificato l'evento dannoso ' all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi
che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla
prova testimoniale su ali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro.
Considerato che il pregiudizio attiene a un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto
a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento
in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso
anche in via esclusiva (tre le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione
del suo convincimento, purchè, secondo le regole di cui all'art. 2727 cod. civ. venga offerta
una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella
fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità , conoscibilità all'interno
e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazioni di (precisate
e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in
essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale,
gli effetti negativi dispiegati nella abitudine di vita del soggetto; da tutte queste circostanze,
il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico
(tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso
un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza
del danno, facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ. a quelle nozioni generali
derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove. D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche
del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa,
perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi.
8. Applicando detti criteri al caso di specie, la Corte territoriale afferma essere indiscutibile
che il dedotto demansionamento ha sicuramente prodotto una serie di risultati negativi
e indica a tal fine la lesione della personalità professionale e morale, il discredito derivante
dal declassamento nell'ambiente di lavoro e il pregiudizio sul curriculum vitae e sulla
carriera dell'istante. In primo luogo detti rilievi prescindono integralmente dalle allegazioni
del ricorrente, perché non se ne riporta in alcun modo il tenore, anzi l'espressione usata:
«Si pensi alla lesione della personalità professionale e morale [â?¦] al 'discredito nell'ambiente
di lavoro» sembra alludere a conclusioni cui il giudice è pervenuto autonomamente,
in altri termini, non risultano posti a base della decisione fatti introdotti dalla parte
nel processo, cosà contravvenendo all'obbligo di decidere iuxta alligata et provata di
cui all'art. 115 cod. proc. civ.
Inoltre ciò di cui si da conto è, non già ' come si dovrebbe ' il danno conseguenza della
lesione, e cioè l'esistenza dei riflessi pregiudizievoli prodotti nella vita dell'istante attraverso
una negativa alterazione dello stile di vita, ma l'esistenza della lesione medesima,
essendosi fatto ricorso a una formula standardizzata, tale da potersi utilizzare in tutti i casi
di dedotta dequalificazione, con conseguente rischio di risolvere dette controversie con
l'apposizione di un formulario «fisso» e quindi con elusione delle specificità delle singole
fattispecie. Del tutto generico e immotivato è poi il riferimento al pregiudizio al curriculum
e alla carriera, non facendosi alcuna indicazione sulle concrete aspettative dell'interessato
nel futuro svolgimento della vita professionale che sarebbero state frustrate dall'inadempimento
datoriale, né alla conoscenza della vicenda al di fuori dell'ambiente di lavoro,
né alla perdita di concrete, o quanto meno potenziali, occasioni di lavoro. In sostanza
l'esistenza del danno si è fatta erroneamente coincidere con la esistenza della lesione.»
Le mance percepite dai croupiers di casinò sono soggette ai contributi previdenziali rientrando nel reddito da lavoro dipendent
L'Inps ha ingiunto al Casinò Municipale di Campione d'Italia il pagamento dei contributi previdenziali sulle mance elargite dai giocatori ai croupiers.Il Casinò ha chiesto al Tribunale di Como di dichiarare illegittima la pretesa. Il Tribunale ha ritenuto
fondata la tesi dell'Inps, secondo cui le mance fanno parte della retribuzione imponibile ai fini previdenziali.
La decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Milano.
Il Casinò ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte milanese
per violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 6238 del 21 marzo 2006, Pres. Mattone, Rel. Di Cerbo),
ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Milano ha correttamente applicato
l'art. 6 del d.lgs. n. 314 del 1997 secondo cui, ai fini della individuazione della base per
l'applicazione dei contributi previdenziali, deve farsi riferimento al reddito di lavoro dipendente
definito dall'art. 46 del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi).
In sostanza ' ha osservato la Corte ' il legislatore delegato, in esecuzione del principio
contenuto nella norma delegante, ha definito, mediante il rinvio dell'art. 46, comma 1,
Tuir, una nozione di reddito di lavoro dipendente valida sia agli effetti fiscali che contributivi
elencando poi le varie ipotesi di esclusione che, come si evince dai richiami normativi
sopra indicati, non sono coincidenti; deve osservarsi in proposito che dalla tecnica seguita
dal legislatore di definire in termini generali la nozione di reddito di lavoro dipendente
(comune ai fini fiscali e contributivi) e il prevedere poi specifiche ipotesi di esclusione
deve logicamente desumersi che i redditi indicati come esclusi rientrano nella nozione
generale, atteso che, diversamente opinando, non vi sarebbe alcuna necessità di
prevedere l'esclusione. Occorre pertanto procedere ' ha rilevatola Corte ' all'interpretazione
dell'art. 46 Tuir per definire gli esatti termini della nozione di reddito di lavoro dipendente
tenendo conto del fatto che la suddetta nozione è integrata dalla norma di cui
all'art. 48 Tuir che, nel disciplinare la determinazione del reddito di lavoro dipendente,
contiene elementi certamente utili per la definizione della suddetta nozione. L'art. 46 definisce
reddito da lavoro dipendente quello che deriva da un rapporto qualificabile come
di lavoro subordinato; in sostanza la definizione del concetto deve desumersi dal nesso di
derivazione. Quindi, anche ai fini contributivi, atteso il rinvio dell'art. 46 operato dall'art.
12 della legge n. 153 del 1969, come modificato dall'art. 6 del d.lgs. n. 314 del 1997, dovrà
farsi riferimento ai redditi che derivano da un rapporto di lavoro subordinato. Non può
sfuggire all'interprete ' ha osservato la Corte ' l'importanza del cambiamento che il legislatore
ha introdotto con riferimento a tale nozione. Ed infatti il concetto di derivazione del
rapporto di lavoro è certamente più ampio di quello di retribuzione, alla quale faceva riferimento
il vecchio testo dell'art. 12 cit. per la determinazione della base imponibile per il
calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale. Mentre la retribuzione è strettamente
connessa, in virtù del vincolo sinallagmatico che qualifica il rapporto di lavoro subordinato,
con la prestazione lavorativa, il concetto di derivazione dal rapporto di lavoro,
contenuto nella norma in esame, prescinde dal suddetto sinallagma e individua pertanto
non solo tutto quanto può essere concettualmente inquadrato nella nozione di retribuzione
ma anche tutti quegli altri introiti del lavoratore subordinato, in denaro o natura, che
si legano casualmente con il rapporto di lavoro (e cioè derivano da esso), nel senso che
l'esistenza del rapporto di lavoro costituisce il necessario presupposto per la loro percezione
da parte del lavoratore subordinato. Costituisce logica conseguenza di quanto sopra
' ha affermato la Corte ' che l'ampiezza del concetto di derivazione adottato dal legislatore
impone di inserire nella nozione di redditi di lavoro anche di introiti corrisposti al
lavoratore subordinato da soggetti terzi rispetto al rapporto di lavoro sempre che ricorrano
i suddetti requisiti. La correttezza di suddetta interpretazione trova conferma nella
stessa elencazione delle esclusioni, contenuta nell'art. 48 Tuir, che contempla voci sicuramente
non sussumibili nella nozione di retribuzione, come le erogazioni liberali, ma tutte
caratterizzate dal collegamento (nell'accezione di cui sopra) col rapporto di lavoro.
L'esplicita esclusione di tali voci si è resa necessaria perché altrimenti le stesse sarebbero
rientrate nella nozione di reddito di cui all'art. 46 Tuir in presenza del nesso di derivazione
sopra richiamato. Non giova pertanto ' ha osservato la Corte ' contestare la
natura retributiva delle mance percepite dai croupiers per sostenere che le stesse non
sono ricomprese nella nozione di reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 46 Tuir, atteso che,
per le ragioni fin qui esposte, tale nozione è diversa e più ampia della nozione
di retribuzione. La norma di cui all'art. 48 Tuir, intitolato «Determinazione del reddito
da lavoro dipendente», nello stabilire (comma 1) che «il reddito di lavoro dipendente è costituito
da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di
imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro», si pone
in perfetta coerenza con l'art. 46 Tuir. In particolare esso ribadisce che l'elemento decisivo
ai fini della nozione di reddito di lavoro dipendente è la fruizione dell'introito da parte
del lavoratore subordinato «in relazione al rapporto di lavoro», che costituisce espressione
equivalente al nesso di derivazione di cui all'art. 46. La norma precisa altresà che, ai
fini della determinazione del reddito, deve farsi riferimento al reddito percepito nel periodo
d'imposta e non già al reddito maturato. Per quanto riguarda le mance, l'art. 48, comma
2, Tuir, nell'elencare le voci che non concorrono a formare il reddito, prevede alla lettera
i) «le mance percepite dagli impiegati tecnici delle case da gioco (croupiers) direttamente
o per effetto del riparto a cura di appositi organismi costituiti all'interno dell'impresa
nella misura del 25% dell'ammontare percepito nel periodo d'imposta».
Con specifico riferimento alle mance percepite dai croupiers delle case da gioco ' ha affermato
la Corte ' non può dubitarsi che le stesse rientrino nella nozione di reddito delineata
dall'art. 46 Tuir atteso che esse derivano dal rapporto di lavoro subordinato, nel
senso che l'esistenza di tale rapporto di lavoro costituisce il necessario presupposto per
la loro percezione, e pertanto in quanto effettivamente corrisposte, esse rientrano nella
determinazione del reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 48, comma 1, Tuir. Poiché
peraltro, a norma dell'art. 48, comma 2, lettera i), Tuir, il 25% delle mance non concorre a
formare il reddito, la suddetta conclusione vale solo per il residuo 75% delle stesse.
Il ritardo nell'impugnazione delle sanzione non comporta di per sé acquiescenza
Rosaria D., dipendente di una congregazione religiosa con mansioni di infermiera, è stata licenziata in tronconel dicembre 2000 dopo avere subito due sanzioni
disciplinari rispettivamente nel febbraio e nel marzo 2000. Complessivamente ella ha
ricevuto tre contestazioni di addebito, l'ultima delle quali ha portato al licenziamento:
lettera del 27 gennaio 2000: «In data 26 gennaio u.s. è giunta segnalazione dalla Capo sala
e Capo ostetrica dei suoi comportamenti intollerabili e strafottenti con le colleghe legate
alle sue dimenticanze e omissioni dei compiti a lei affidati e che alla luce dei fatti non
vengono mai ammessi, anzi, con atteggiamenti non consoni all'immagine della struttura
cui lei appartiene, li fa ricadere sulle sue colleghe»;
lettera del 28 febbraio 2000: «In data 18 febbraio è giunta segnalazione dalla Capo sala
che, per motivi assolutamente futili, si è espressa in modo ingiurioso nei suoi riguardi e
delle sue colleghe di turno»; lettera dell'8 dicembre 2000: «Il giorno 24 novembre
u.s. lei si è espressa in modo gravemente
ingiurioso e offensivo nei confronti della Capo sala, rifiutando di svolgere compiti
da questa richiesti; analogo comportamento ella ha tenuto il giorno 26 novembre u.s.».
La lavoratrice, con unico ricorso, ha chiesto al Tribunale di Como di dichiarare l'illegittimità
sia del licenziamento che delle due precedenti sanzioni disciplinari. Ella ha sostenuto, tra
l'altro, che la datrice di lavoro aveva violato l'art. 7 Stat. lav. perché le contestazioni erano
generiche. La congregazione si è difesa sostenendo che l'infermiera era stata posta in grado
di difendersi e che comunque ella aveva prestato acquiescenza alle prime due sanzioni,
in quanto non le aveva tempestivamente impugnate. Il Tribunale ha rigettato le domande
proposte dalla lavoratrice. La Corte d'Appello di Milano ha invece dichiarato l'illegittimità
sia delle due sanzioni minori, che del licenziamento, e ha ordinato la reintegrazione
dell'infermiera nel posto di lavoro, condannando la congregazione al risarcimento del danno.
La Corte d'Appello ha escluso che la lavoratrice abbia prestato acquiescenza alle prime
due sanzioni e ha ritenuto sussistente la violazione dell'art. 7 Stat. lav. per genericità delle
contestazioni degli addebiti. La datrice di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, censurando
la decisione della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7546 del 30 marzo 2006, Pres. Mattone, Rel. Celentano)
ha rigettato il ricorso. Per quanto riguarda la questione della tardività dell'impugnazione
delle prime due sanzioni la Cassazione ha ritenuto corretta l'affermazione dei giudici
di Appello secondo cui l'impugnazione di una sanzione disciplinare è consentita, quando
non sia ancora decorso il termine di prescrizione, sempre che il lavoratore non abbia posto
in essere un comportamento positivo dimostrante acquiescenza. Che l'aver sofferto le sanzioni
della sospensione senza immediatamente impugnarle non sia comportamento dimostrante
acquiescenza, mentre un interesse a impugnare può sorgere quando alle stesse
sanzioni viene collegato anche un più importante provvedimento, quale il licenziamento '
ha osservato la Corte ' costituisce un giudizio di fatto che sfugge alle censure della ricorrente,
risultando congruamente motivato. Per quanto concerne la genericità delle contestazioni
la Cassazione ha ricordato la sua costante giurisprudenza secondo cui l'art. 7 della
legge n. 300 del 1970 va interpretato nel senso che la previa contestazione dell'addebito,
necessaria in funzione della applicazione di sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire
al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della
specificità , che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per
individuare, nella sua materialità , il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato
infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt.
2104 e 2105 cod. civ. L'accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione
' ha affermato la Corte ' costituisce oggetto di una indagine di fatto, incensurabile in
sede di legittimità , salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice
di merito. Esaminato il contenuto delle lettere sopra riportate ' ha rilevato la Corte ' i giudici
di appello hanno rilevato che in nessuna delle contestazioni vi era riferimento a fatti
specifici, ma solo la generica contestazione di comportamenti aggettivati in modo negativo.
«Si parla di dimenticanze e di omissioni, di rifiuto di svolgere compiti richiesti, ma» '
prosegue la sentenza ' «non si indica nulla su cosa sia stato rifiutato o dimenticato», si tratta
di una motivazione congrua, che sottolinea la mancanza, nella contestazione, di fatti
specifici, con il mero riferimento a comportamenti qualificati negativamente e a compiti non
assolti, senza una concreta indicazione degli stessi.
Rivolgere false accuse di violenza a un dirigente può giustificare il licenziamento
Vladimiro D., dipendente della spa Aeroporti di Roma è stato sottoposto, nel febbraio 1995, a procedimento disciplinarecon l'addebito di essersi rifiutato di mostrare
a un dirigente della società alcuni atti che stava fotocopiando. Egli si è difeso con
una lettera di giustificazione, sottoscritta anche dal suo legale, nella quale da un lato ha
sostenuto di avere usato legittimamente la fotocopiatrice e dall'altro ha fatto presente di
avere subito, in occasione dell'episodio contestatogli, una violenza fisica da parte del dirigente
che, nel tentativo di togliergli di mano i documenti oggetto di fotocopiatura, lo aveva
strattonato facendolo andare a terra e provocandogli una distorsione al ginocchio
destro. L'azienda gli ha inflitto cinque giorni di sospensione e lo ha sottoposto nuovamente
a procedimento disciplinare con l'addebito di avere, nella lettera di giustificazione
relativa alla prima contestazione, falsamente accusato il dirigente di un atto di violenza
che, secondo i risultati di un'indagine interna, non si era verificato. Il secondo procedimento
disciplinare si è concluso con il licenziamento in tronco. Nel giudizio che ne è seguito,
il Tribunale di Roma, dopo avere svolto l'istruttoria, ha respinto la domanda di annullamento
del licenziamento, in quanto ha ritenuto provata la falsità dell'accusa rivolta
al dirigente. La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Roma che ha ritenuto
proporzionata la sanzione, in quanto il lavoratore aveva rappresentato all'azienda una
situazione non solo totalmente falsa, ma tale da poter pregiudicare la situazione di un
superiore. Vladimiro D. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della
Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8679 del 13 aprile 2006, Pres. Mercurio, Rel. Balletti)
ha rigettato il ricorso. Non può ritenersi che la responsabilità disciplinare a carico del ricorrente
possa venire meno, o essere attenuata ' ha affermato la Corte ' per essere stato
il comportamento in questione commesso da Vladimiro D. in una lettera di giustificazione
(firmata anche dal suo difensore, il che non toglie la piena responsabilità del lavoratore,
per la dichiarazione coscientemente sottoscritta) rispetto a una precedente contestazione
disciplinare e ciò in quanto ' come esattamente è stato rimarcato nella sentenza
impugnata ' «il comportamento di Vladimiro D. di avere rappresentato una situazione non
solo totalmente falsa, ma tale da poter pregiudicare la situazione di un superiore, al mero
fine di trovare una giustificazione per un episodio, a sua volta di responsabilità disciplinare,
è idoneo a rompere il vincolo fiduciario tra le parti, minando quel rapporto di mutuo
affidamento, alla base del rapporto lavorativo».
In caso di riduzione di personale la soppressione di un reparto non giustifica il licenziamento se utilizzabili in altri settori
la sentenza è già stata segnalata sinteticamente in questo stesso numero (retro, in «Corte di Cassazione», pp. 8-9). Francesco C., dipendente della Srl Cofra,ha lavorato in vari settori dell'azienda, prima di essere destinato al reparto «Pvc», che
poco tempo dopo il suo arrivo è stato chiuso, con licenziamento di tutti gli addetti a seguito
di procedura di riduzione di personale formalizzata in base alla legge n. 223 del
1991. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al tribunale di Trani sostenendo che l'azienda
non aveva correttamente applicato i criteri previsti dalla legge per la scelta del personale
da licenziare (anzianità , carichi di famiglia, esigenze tecniche e produttive) in quanto
egli avrebbe potuto essere impiegato anche in altri reparti rimasti in funzione e che la
sua posizione avrebbe dovuto essere raffrontata con quella degli addetti a tali reparti (ove
erano stati mantenuti in servizio dipendenti più giovani e con minori carichi di famiglia).
L'azienda si è difesa sostenendo che la chiusura del reparto «Pvc» giustificava il licenziamento
di tutti i lavoratori a esso addetti e che essa non era tenuta a raffrontare la posizione
di costoro con quella dei dipendenti impiegati in altri reparti. Sia il Tribunale di Trani
che la Corte di Appello di Bari hanno ritenuto illegittimo il licenziamento. L'azienda è
stata condannata a reintegrare Francesco C. nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno in
base all'art. 18 Stat. lav. La Corte di Appello ha osservato che era rimasto accertato che
tutti i dipendenti della società , nel corso del loro rapporto lavorativo erano stati adibiti,
per prassi aziendale, ai diversi reparti produttivi, a seconda delle esigenze aziendali, dando
prova di versatilità professionale. La società ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10198 del 3 maggio 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. De
Luca) ha rigettato il ricorso. Seppure nel licenziamento collettivo per riduzione del personale
l'applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità può essere ristretta
in ambito più limitato rispetto al «complesso aziendale», cui fa riferimento l'art. 5
della legge n. 223 del 1991 ' ha osservato la Corte ' ciò tuttavia non può avvenire in base
a una determinazione unilaterale del datore di lavoro ma richiede che la predeterminazione
del limitato campo di selezione (reparto, stabilimento ecc., e/o singole lavorazioni
o settori produttivi) sia giustificata dalle esigenze tecnico-produttive e organizzative che
hanno dato luogo alla riduzione del personale.
Nei casi in cui il datore di lavoro, che procede alla riduzione del personale ai sensi dell'art.
24 della legge n. 223 del 1991, intenda sopprimere in applicazione del criterio tecnico-produttivo
(cui fa riferimento l'art. 5 della legge n. 223 del 1991) un reparto della sua impresa,
non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti
a tale reparto se detti lavoratori sono idonei ' per acquisite esperienze e per pregresso e
frequente svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda con positivi risultati
' a occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti. In tali casi, per
il criterio della correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. deputato a
presiedere la soluzione in forma equilibrata di conflittuali interessi delle parti ' ha affermato
la Corte ' la scelta dei lavoratori da porre in mobilità non può essere limitata a un
solo reparto, ma deve riguardare un ben più esteso numero di dipendenti.
È giustificata l'assenza dal domicilio di un lavoratore in malattia se questi si era recato presso un centro specialistico
La lentezza delle operazioni selettive per l'assunzione di un lavoratore giustifica la condanna della P.A. al risarcimento danno
Giuseppe S., iscritto al collocamento obbligatorio, è stato inserito, nel febbraio 1990, dalla Usl di Venafro, nell'elenco dei soggettiche avrebbero dovuto partecipare alle selezioni di accertamento di idoneità alle mansioni per la copertura dei
posti della carriera ausiliaria destinati, in base alla legge n. 489/68, alle categorie riservatarie.
Le operazioni di selezione si sono concluse cinque anni dopo, con l'immissione in
ruolo di Giuseppe S. a far tempo dal 31 agosto 1995. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale
di Campobasso di condannare la Usl al risarcimento del danno derivatogli dalla colpevole
lentezza delle operazioni di selezione, in quanto ciò aveva comportato un ritardo nella
sua immissione in ruolo.
Sia il Tribunale sia la Corte d'Appello di Campobasso hanno ritenuto la domanda priva di
fondamento per mancanza di una situazione soggettiva tutelabile. Essi hanno osservato
che la sola ammissione alla selezione non è idonea a far sorgere nel candidato un diritto
all'assunzione, che sorge soltanto con l'esito favorevole della procedura. Giuseppe S. ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la Corte d'Appello di Campobasso per violazione
di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7968 del 5 aprile 2006, Pres. Mileo, Rel. Guglielmucci)
ha accolto il ricorso. L'inserimento nella lista di soggetti da selezionare, perché appartenenti
alle categorie da assumere ' ha affermato la Cassazione ' ha dato origine a un
diritto soggettivo all'assunzione, in via di formazione, latamente riportabile nella categoria
dell'aspettativa, e comunque costituente una situazione soggettiva in via di perfezionamento;
infatti, in relazione al momento genetico del rapporto di lavoro, accanto a situazioni
già perfezionate (che non necessitano, pertanto, di accertamenti strumentali) nelle
quali già esiste il diritto alla prestazione del consenso da parte del datore di lavoro, ne
esistono altre non ancora perfette, proprio per l'incertezza esistente sulla idoneità del
soggetto da assumere, che necessitano di un accertamento (costitutivo) di tale idoneità ;
il compimento di tali operazioni da parte della pubblica amministrazione (nel caso di specie)
costituisce comportamento idoneo e imprescindibile per soddisfare l'interesse del
soggetto che necessita dell'accertamento per divenire titolare del posto di cui è riservatario.
In relazione a tale comportamento il soggetto stesso vanta un vero e proprio diritto
soggettivo funzionalmente strumentale al diritto all'assunzione, che si perfeziona allorché
la procedura selettiva abbia accertato l'idoneità a ricoprire il posto cui è destinato; le operazioni
di selezione, attesa la loro strumentalità rispetto a diritti di rilevanza costituzionale
(artt. 4, 38, 36) che garantiscono un'esistenza libera e dignitosa ' ha rilevato la Corte
' devono svolgersi in maniera tale da consentire quanto prima l'esercizio dell'attività
lavorativa: sicché il colpevole ritardo nell'espletamento delle procedure selettive può dar
luogo a risarcimento del pregiudizio che sia derivato al soggetto che a esse abbia dovuto
sottoporsi. La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa, per
nuovo esame, alla Corte d'Appello di Napoli, per la quale ha stabilito il seguente principio
di diritto: «Il soggetto appartenente alle categorie riservatarie di posti che ai sensi dell'art.
16, comma 6, legge 482/68 sia stato inserito nella lista dei soggetti da selezionare ' per
accertare la sua idoneità al posto da ricoprire ' vanta nei confronti della stessa un diritto
soggettivo al rapido e corretto espletamento della procedura stessa la cui violazione dà
diritto al risarcimento del danno».
Il ritardo nel licenziamento non è invalidante se si deve al bisogno di sentire la difesa del dipendente assente per malattia
Giuseppe N., dipendente della spa Banco di Roma, è stato preposto, alla fine del 1992, alla neocostituita filiale di S. Gennarello (Napoli).Egli è stato sottoposto,
nel maggio del 1993, a procedimento disciplinare, con l'addebito di avere concesso
crediti oltre i limiti consentiti, sia con scoperti di conto corrente che con cambio di assegni
bancari mediante consegna contestuale di assegni circolari, e con sconto di portafoglio
in assenza delle prescritte linee di credito. Ricevuta la lettera di contestazione dell'addebito,
egli ha risposto di avere sempre correttamente esercitato i suoi doveri e ha
chiesto di essere sentito, con l'assistenza di un rappresentante sindacale, per precisare
verbalmente la sua difesa e per poter prendere visione dei documenti concernenti le operazioni
contestategli. Nel contempo egli ha inviato alla banca un certificato medico attestante
il suo stato di malattia. La banca, in considerazione del suo impedimento, non lo
ha convocato per l'audizione in sede disciplinare. La malattia, debitamente certificata e ripetutamente
accertata mediante visite di controllo, si è protratta per circa 16 mesi. Scaduto
l'ultimo certificato, la banca ha convocato il lavoratore, nel settembre 1994, e ha dato
luogo alla sua audizione in sede disciplinare. Successivamente con lettera del 26 ottobre
1994 l'azienda ha comunicato al dipendente il licenziamento, motivato con riferimento
agli addebiti contestatigli nel maggio 1993. Giuseppe N. ha impugnato il licenziamento
davanti al pretore di Nola, sostenendo che esso doveva ritenersi nullo, perché intimato
circa 18 mesi dopo la contestazione dell'addebito, in violazione del principio di immediatezza
e comunque illegittimo per infondatezza degli addebiti. La Banca si è difesa affermando
di aver dovuto attendere la guarigione del dipendente, per potere dar corso all'audizione
in sede disciplinare e ha offerto prove testimoniali e documentali per dimostrare
la fondatezza degli addebiti; ha inoltre proposto domanda riconvenzionale diretta
a ottenere la condanna del lavoratore al risarcimento dei danni derivati dalle operazioni
creditizie irregolari attribuitegli. Il pretore, espletata l'istruttoria, ha dichiarato nullo il licenziamento,
e ha condannato il ricorrente a risarcire in parte il danno lamentato dalla
banca. In seguito a impugnazione proposta da entrambe le parti, la Corte di Appello di Napoli
ha dichiarato legittimo il licenziamento e ha confermato la condanna del lavoratore al
risarcimento del danno. Giuseppe N. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la
sentenza della Corte di Appello di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 7848 del 4 aprile 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Amoroso)
ha rigettato il ricorso. In ragione delle garanzie procedimentali previste dall'art. 7 Stat.
lav. ' ha osservato la Corte ' il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare
nei confronti del lavoratore senza averlo sentito a sua difesa ove quest'ultimo,
dopo la contestazione dell'addebito, abbia chiesto di essere sentito oralmente, anche in
ipotesi con l'assistenza di un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o
conferisce mandato. L'art. 7 Stat. lav. subordina la legittimità del procedimento di irrogazione
della sanzione disciplinare alla previa contestazione degli addebiti, al fine di consentire
al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli,
e comporta per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente
per l'audizione orale ove quest'ultimo abbia manifestato tempestivamente (entro il quinto
giorno dalla contestazione) la volontà di essere sentito di persona. Pertanto ' ha concluso
la Corte ' ove l'audizione sia di fatto impedita, e quindi rinviata, per lo stato di malattia
del dipendente, che certo non autorizza il datore di lavoro a omettere l'audizione del
dipendente incolpato che l'abbia espressamente richiesta, il conseguente ritardo nell'intimazione
del licenziamento disciplinare non inficia quest'ultimo come carente del requisito
della tempestività .
Anche in caso di licenziamento individuale plurimo si devono rispettare le regole di correttezza
Carmine D., operaio alle dipendenze della spa Leclabock, è stato licenziato nel settembre 1996, insieme ad altri colleghi,con motivazione riferita allo stato di crisi
del settore edilizio. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al giudice del lavoro di Foggia,
sostenendo, tra l'altro, che la società aveva mantenuto in servizio lavoratori che svolgevano
mansioni fungibili con le sue, sicché la scelta caduta su di lui non risultava in alcun
modo giustificata. La domanda, rigettata in primo grado, è stata invece accolta dalla
Corte di Appello di Bari, che ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione del
lavoratore e condannando l'azienda al risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav.
La Corte ha rilevato, tra l'altro, che, trattandosi di licenziamento individuale plurimo incombeva
sul datore di lavoro l'onere di provare che Carmine D. non potesse essere adibito
ad altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza e che fosse stato rispettato,
nella scelta dei lavoratori licenziati, il criterio della correttezza e buona fede, precisando
gli standard valutativi applicati. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10111 del 2 maggio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri)
ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui l'esigenza, derivante
da ragioni inerenti all'attività produttiva, di ridurre di una o più unità il numero dei dipendenti
in azienda, se non dà luogo a una ipotesi di licenziamento collettivo, regolata
dalla legge 23 del luglio 1991 n. 223 (la cui applicabilità è riservata a fattispecie specificamente
individuate), può di per sé concretare un giustificato motivo obiettivo di licenziamento
individuale, la cui legittimità dipende, tuttavia, dalla ulteriore condizione della
comprovata impossibilità di utilizzare aliunde il lavoratore licenziato, ovvero dal rispetto
delle regole di correttezza di cui all'art. 1175 cod. civ. nella scelta del lavoratore licenziato
fra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità . Nella fattispecie in esame ' ha
osservato la Corte ' non è rimasta provata da parte della società , una corretta applicazione
dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e non è stato rispettato il disposto dell'art.
1175 cod. civ., secondo cui le parti di un rapporto obbligatorio devono comportarsi
secondo le regole della correttezza.
I lavoratori che, pur essendo stati nominati cda, abbiano svolto mansioni meramente esecutive si ritengono subordinati
Angelo M. e Carla R., già titolari di un'impresa artigiana, hanno accettato di lavorare, in condizioni di subordinazione, per la srl Tecnoduerispettivamente
con mansioni di attrezzista e di impiegata di segreteria, senza formale inquadramento come
dipendenti. Per evitare il pagamento dei contributi previdenziali essi sono stati nominati
consiglieri di amministrazione della società con delega per lo svolgimento dei compiti
loro assegnati. Cessato il rapporto essi hanno chiesto al Tribunale di Brescia di accertare
che in effetti essi avevano lavorato come dipendenti e di condannare l'azienda, tra l'altro,
al pagamento di differenze di retribuzione e del Tfr nonché al versamento dei contributi
previdenziali. Essi hanno offerto prova testimoniale sulle modalità di svolgimento del
rapporto e hanno prodotto documenti fra i quali le schede mansioni per loro compilate
dall'azienda: «Attrezzista area foratura/finitura; recupero materiale incompleto e imperfetto,
manutenzione ordinaria e straordinaria reparto trapani e attrezzature, verifica e controllo
del livello di produttività dell'area finitura» (per Angelo M.) e «Centralinista, addetta
alla spedizione dei fax, comunicazioni relative alla mensa, incasso dei corrispettivi dei
pasti, distribuzione gettoni per bibite, addetta alla distribuzione materiali di cancelleria,
aggiornamento rubrica telefonica interna, supporto segreteria» (per Carla R.).
Il Tribunale non ha ammesso la prova testimoniale in quanto ha ritenuto che i fatti allegati,
seppure fossero stati provati, sarebbero stati compatibili con una prestazione d'opera
in forza del rapporto di collaborazione sociale. In seguito a impugnazione della sentenza
da parte dei lavoratori, la Corte d'Appello di Brescia ha ammesso la prova testimoniale
richiesta dagli appellanti, basandosi tra l'altro, sull'art. 421, comma 2, cod. proc.
civ., secondo cui il giudice può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di
ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, che all'art. 2722 vieta
di provare per testimoni fatti aggiunti o contrari al contenuto di un documento per i
quali si alleghi che l'assicurazione è stata anteriore o contemporanea. La Corte ha fatto
anche riferimento all'art. 1417 cod. civ. secondo cui la prova per testimoni della simulazione
è ammissibile senza limiti, se la domanda è proposta da creditori o da terzi e, qualora
si diretta a far valere l'illiceità del contratto dissimulato, anche se proposta dalle parti.
I testimoni hanno confermato che Angelo M. si limitava a fare l'attrezzista e Carla R.
svolgeva elementari compiti di segreteria (telefonista, fotocopiatura ecc.).
In base alle risultanze istruttorie la Corte di Appello, in riforma della sentenza impugnata
ha accertato l'esistenza di rapporti di lavoro subordinato e ha condannato l'azienda a pagare
le somme richieste dai lavoratori; la Corte ha osservato che i compiti meramente esecutivi
affidati ai lavoratori non implicavano certo l'esercizio di frazioni, benché minime,
di potere amministrativo, essendo del tutto prive di apprezzabili margini di autonomia
sotto il profilo valutativo o decisionale. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando
la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8678 del 13 aprile 2006, Pres. Mercurio, Rel. Figurelli)
ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Appello ha correttamente motivato
la sua decisione con riferimento al contenuto delle mansioni effettivamente svolte dai lavoratori.
La prova testimoniale ' ha osservato la Cassazione ' è stata correttamente ammessa
in base all'art. 421, comma 2, cod. proc. civ., in quanto diretta ad accertare l'espletamento,
da parte dei lavoratori, di mansioni esecutive che non trovavano alcuna giustificazione
nella loro qualifica di consiglieri di amministrazione, né erano comunque esplicazione,
anche minima, di esercizio di potere imprenditoriale.
Contratti di inserimento
Il decreto, emanato dal Ministero del lavoro di concerto con il Ministero dell'economia,identifica in tutte le Regioni e Province autonome, per gli anni 2004, 2005 e
2006, le aree territoriali in cui il tasso di occupazione femminile è inferiore almeno del 20
per cento di quello maschile o in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 10 per
cento quello maschile. Viene cosà data la possibilità di instaurare contratti di inserimento
con le donne di qualsiasi età di cui alla lettera 3) dell'art. 54, comma 1, del d.lgs. n.
276/2003. Alla luce della modifica apportata dal decreto legislativo n. 251/2004 all'art.
59, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, nel quale viene subordinato il ricorso agli incentivi
economici, previsti per il contratto di formazione e lavoro, connessi alla stipula dei contratti
di inserimento ai sensi delle lettere b), c), d), e) ed f) al «rispetto del regolamento
(CE) n. 2204/2002 della Commissione del 5 dicembre 2002, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
delle Comunità europee il 13 dicembre 2002», il decreto individua, all'art. 2, nelle
Regioni Lazio, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna, le aree
territoriali di cui all'art. 2, lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002. L'art. 3 del decreto
in esame specifica inoltre che «gli incentivi economici di cui all'art. 59, comma 3, del
d.lgs. n. 276 del 2003, si applicano ai contratti stipulati ai sensi dell'art. 54, comma 1, lettera
e), del medesimo decreto legislativo solo ove le lavoratrici siano residenti» nelle Regioni
sopra riportate. Si rammenta inoltre che la legge n. 80 del 14 maggio 2005 apportando
delle modifiche al d.lgs. n. 276/2003, in particolare sostituendo il comma 1 dell'art.
59, aveva specificato che «il sottoinquadramento non trova applicazione per la categoria
di lavoratori di cui all'art. 54, comma 1, lettera e), salvo non esista diversa previsione da
parte dei contratti collettivi nazionali o territoriali sottoscritti da associazioni dei datori di
lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale
». Il 19 maggio 2006 l'Inps, con la circolare n. 74, specifica che solamente la fruizione
delle agevolazioni contributive in misura superiore al 25 per cento è subordinata anche al
rispetto delle condizioni di cui al regolamento (CE) n. 2204/2002.
(Gazzetta Ufficiale n. 25 del 31 gennaio 2006)
Rischi derivanti da agenti fisici
Il decreto, in attuazione della direttiva 2003/10/CE,inserisce il Titolo V-bis nel decreto legislativo n. 626 del 1994 riguardante i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori
contro i rischi per la salute e la sicurezza derivanti dall'esposizione al rumore durante il lavoro.
(Gazzetta Ufficiale n. 124 del 30 maggio 2006
Professori universitari
Il decreto, attuando la delega ricevuta nella legge n. 230 del 4 novembre 2005, disciplinale procedure per il conseguimento della idoneità scientifica nazionale ai fini
del reclutamento nel ruolo dei professori universitari. Il possesso dell'idoneità
scientifica nazionale permette di partecipare alle procedure per la chiamata dei professori
universitari indette dalle singole università . «L'idoneità scientifica nazionale si
consegue all'esito di procedure bandite con decreto del Ministro, per ciascun settore
e distintamente per le fasce dei professori ordinari e dei professori associati». L'idoneità
scientifica, ai fini della partecipazione alle procedure di reclutamento, ha una validità
di quattro anni dal suo conseguimento. Possono conseguire l'idoneità scientifica
nazionale, per ciascuna fascia e per ciascun settore, un numero di candidati pari al
numero dei posti da coprire indicato dalle università entro il 31 marzo di ciascun anno,
per i quali è garantita la relativa copertura finanziaria.
(Gazzetta Ufficiale n. 101 del 3 maggio 2006)
Proroga di termini
Il decreto legge proroga al 31 maggio 2006 il temine entro cui devono essere sottoscritti gli accorditra il Ministero del lavoro, le organizzazioni comparativamente
più rappresentative dei lavoratori e le imprese che non abbiano cessato l'attività , al fine
di garantire l'occupabilità dei lavoratori adulti che compiono cinquanta anni entro il 31
dicembre 2006, di cui alla legge n. 127 del 24 marzo 2006. Allo stesso tempo viene prorogato
al 15 giugno 2006 il termine entro il quale il Ministero del lavoro deve approvare il
piano di riparto tra le imprese interessate di cui sopra. Il decreto inoltre proroga la disposizione
del Ministero del lavoro, di cui alla legge n. 266 del 24 dicembre 2005, art. 1 c. 410,
della concessione dei trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità
e di disoccupazione speciale al 31 dicembre 2006 «e, per gli accordi di settore o di area,
fino al 31 dicembre 2007».
(Gazzetta Ufficiale n. 78 del 3 aprile 2006)
Comunicazione di assunzione dei datori di lavoro agricolo
L'articolo 1 della legge, che dispone in materia di previdenza agricola,prevede al comma 9 l'obbligo per i datori di lavoro agricolo di effettuare le comunicazioni di assunzione,
di trasformazione e di cessazione del rapporto di lavoro «per via telematica esclusivamente
alle sedi Inps territorialmente competenti». L'Inps provvede a trasmettere
le comunicazioni previste ai Centri per l'impiego competenti e all'Inail.
(Gazzetta Ufficiale n. 59 dell'11 marzo 2006)
Handicap e prestazioni sociali agevolate
Il Garante ha chiarito che al fine del riconoscimento di prestazioni sociali agevolate a persone con handicap permanente grave e a ultrasessacinquenni
non autosufficientil'Inps può raccogliere soltanto le informazioni personali riguardanti
la situazione economica dell'interessato e non quelle del nucleo familiare di appartenenza.
In base al Codice in materia di protezione dei dati personali e in particolare ai
principi di indispensabilità , pertinenza e non eccedenza dei dati raccolti rispetto alle finalità
perseguite, l'Inps, in relazione al riconoscimento di prestazioni sociali a soggetti non
autosufficienti, può raccogliere esclusivamente le informazioni personali riguardanti la situazione
economica dell'interessato.
Pratica e concorso notarile
Il decreto apporta alcune modifiche alla legge n. 89 del 16 febbraio 1913determinando i requisiti per l'accesso al concorso per la nomina a notaio: laurea in giurisprudenza
o laurea specialistica o magistrale in giurisprudenza, pratica di diciotto mesi da effettuarsi
presso un notaio. L'iscrizione al registro dei praticanti può essere effettuata dopo
l'iscrizione all'ultimo anno del corso di laurea in giurisprudenza, ma la pratica effettuata
prima del conseguimento della laurea viene computata al massimo per sei mesi. Le
prove scritte del concorso per la nomina a notaio sono precedute da una prova di preselezione
informatica consistente in domande con risposte multiple prefissate.
(Gazzetta Ufficiale n. 107 del 10 maggio 2006)
Codice delle pari opportunità
Il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna,a norma dell'art. 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246, raccoglie le norme emanate a tutela delle pari opportunità
quali ad esempio il divieto di discriminazione tra uomo e donna, nell'accesso al lavoro,
nella prestazione lavorativa e nella carriera, retributiva e nell'accesso alle prestazioni previdenziali,
la distinzione tra discriminazione diretta e indiretta, e la definizione di la molestie
e molestie sessuali, il divieto di licenziamento per causa di matrimonio, nonché le norme
inerenti la Commissione per le pari opportunità .
(Gazzetta Ufficiale n. 125 del 31 maggio 2006 ' suppl. ordinario n. 133
Pubblicità ingannevole di corsi di formazione a pagamento
L'Autorità garante ha sanzionato per ingannevolezza la società che aveva diffuso un messaggio pubblicitariodel seguente tenore: «Offro: Impiegati. Impiegati agenzia
viaggi cerca ambosessi per entusiasmante lavoro nel turismo presso agenzia, contratto
impiegatizio o equipollente, possibilità inesperti». La società che ha commissionato
il messaggio, sebbene quest'ultimo per le espressioni contenute sia idoneo a ingenerare
nei lettori il convincimento che, semplicemente scrivendo all'indirizzo o chiamando al
numero riportato nell'inserzione, si possa prendere contatto al fine di ottenere un'occupazione
nell'ambito di agenzie di viaggio, non ha assolto l'onere della prova della veridicità
dello stesso ai sensi dall'art. 26, comma 4, del d.lgs. n. 206/05. Dalle risultanze istruttorie
si evince che in realtà l'offerta prospettata si sarebbe composta di una parte formativa
a pagamento a carico del candidato, che non sarebbe giustificata dalla dicitura
«training» apposta in calce all'inserzione, insufficiente a rendere edotti i destinatari del
messaggio sul carattere oneroso del corso offerto.
Numero unico europeo di emergenza
Il Garante ha espresso parere favorevole sullo schema di decreto del Ministro delle comunicazioniche individua il «numero unico europeo di emergenza» quale
servizio abilitato in base alla legge a ricevere chiamate d'emergenza. Il numero unico è
finalizzato alla raccolta centralizzata delle chiamate effettuate verso numeri di emergenza
(es. 112, 113, 118 ecc.) e dei dati relativi all'ubicazione del chiamante e all'identificazione
della linea chiamante per agevolare l'individuazione dei soggetti che si rivolgono a servizi
d'emergenza e consentirne come previsto per legge anche la localizzazione. Il Codice in
materia di protezione dei dati personali, all'art. 127, prevede infatti per i servizi abilitati in
base alla legge a ricevere chiamate d'emergenza la possibilità di rendere inefficace la soppressione
dell'identificazione della linea chiamante e, se necessario, il trattamento dei dati
relativi all'ubicazione dell'apparecchio chiamante, anche in caso di rifiuto o mancato
consenso dell'utente.
Interposizione di manodopera - Illiceità - Effetti
«L'interposizione illecita di manodopera va esclusa qualora l'appaltatore gestisca direttamente i rapporti di lavoro dei propri dipendenti,anche se le prestazioni lavorative fornite al committente prevalgano rispetto alle attrezzature impiegate»
(Cass. n. 8643/2001). «Con riguardo al divieto di intermediazione e interposizione nelle
prestazioni di lavoro, occorre di volta in volta procedere a una dettagliata analisi di tutti
gli elementi che caratterizzano il rapporto instaurato tra le parti allo scopo di accertare se
l'impresa appaltatrice, assumendo su di sé il rischio economico dell'impresa, operi concretamente
in condizioni di reale autonomia organizzativa e gestionale rispetto all'impresa
committente; se sia provvista di una propria organizzazione d'impresa; se in concreto
assuma su di sé l'alea economica insita nell'attività produttiva oggetto dell'appalto; infine
se i lavoratori impiegati per il raggiungimento di tali risultati siano effettivamente diretti
dall'appaltatore e agiscano alle sue dipendenze e nel di lui interesse. [â?¦] Quando risulti
che l'impresa appaltatrice sia sprovvista di effettiva autonomia imprenditoriale e abbia
struttura e capitali del tutto inadeguati all'importanza dell'opera, che i poteri decisionali
siano riservati al committente e sia sottratta all'appaltatore ogni autonomia, [â?¦] il fatto
che egli abbia anche potuto impiegare, nell'esecuzione dei lavori, capitale, attrezzature
e mezzi propri, diventa circostanza del tutto marginale e irrilevante ai fini del riconoscimento
della sussistenza della situazione interpositoria ipotizzata dal comma 1 dell'art. 1
della legge n. 1369/1960» (Cass. n. 1676/2005; Cass. n. 2305/2004; Cass. n.
19898/2004). Come ricostruito dal giudice, dunque, la giurisprudenza recente, ai fini dell'individuazione
delle ipotesi di interposizione di manodopera illecita, attribuisce valore
fondamentale alla gestione del rapporto di lavoro da parte del committente, che assume
rilievo decisivo anche rispetto alla sussistenza di un capitale o di attrezzature dell'appaltatore.
Nel caso di specie, il ricorrente era stato licenziato e assunto con un contratto di lavoro
a tempo determinato da altra società , presso la cui impresa svolgeva le medesime
mansioni. I rapporti tra le due società si configuravano, però, in maniera del tutto peculiare,
in quanto la proprietà delle due persone giuridiche risultava parzialmente coincidente.
Inoltre: la società subentrata nel rapporto trasportava soltanto materiale elettrico
della prima; le direttive erano impartite e le retribuzioni corrisposte da una dipendente
della società originaria. Da tali elementi il giudicante desume che il ricorrente avesse prestato
effettivamente la propria attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro diverso
da quello da cui era stato formalmente assunto. Di conseguenza, ritenuta provata e
sussistente l'interposizione illecita di manodopera, l'inefficacia del licenziamento del ricorrente,
e il carattere fittizio dell'assunzione a tempo determinato, il giudicante dichiarava
la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra il ricorrente e la società
resistente.
Distinzione tra preavviso dello sciopero al datore-appaltatore e all'amministrazione appaltatrice
La Commissione in relazione a uno sciopero del personale operante alle dipendenze di una società privataappaltatrice del servizio di mensa di un ospedale gestito
da una Asl ha chiarito che i soggetti che proclamano lo sciopero debbono osservare
l'obbligo di comunicare per iscritto al proprio datore, nel termine di preavviso non inferiore
a 10 giorni, la durata e le modalità di attuazione, nonché le motivazioni, dell'astensione
collettiva dal lavoro, anche se il contratto di appalto preveda che l'appaltatore debba
comunicare all'amministrazione appaltante la sospensione del servizio con un preavviso
più breve. La Commissione ha comunque ritenuto nel caso in esame di non adottare
alcuna sanzione nei confronti delle organizzazioni sindacali proclamanti perché la previsione
contenuta nel capitolato d'appalto tra l' Asl e la società appaltatrice, nel quale è previsto,
in caso di sciopero, un obbligo di preavviso di tre giorni ' pur non potendo derogare
alla disposizione legislativa sulla durata minima del preavviso ' può avere ingenerato
nel soggetto proclamante un affidamento sull'adeguatezza del preavviso di minore durata
a soddisfare l'esigenza della Asl.
Interpretazione della regolamentazione provvisoria per il trasporto locale
La Commissione ha approvato, all'unanimità , una delibera interpretativadell'art. 11, lett. A) della vigente Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili
nel settore del trasporto locale (del. n. 02/13 del 31.01.02 pubblicata in G.U. del
23/03/02 n. 70) nella parte in cui prevede che «gli scioperi di durata inferiore alla giornata
si svolgono in un unico periodo di ore continuative». Ad avviso della Commissione questa
previsione va interpretata nel senso che gli scioperi di durata inferiore alle ventiquattro
ore devono svolgersi obbligatoriamente senza interruzione alcuna (in un «unico periodo
di ore continuative»), salvo quella eventualmente conseguente al rispetto delle fasce
orarie di garanzia.
Coesistenza di due accordi dichiarati idonei
La Commissione ha adottato, all'unanimità , una delibera di orientamentosecondo cui, in caso di coesistenza di due accordi dichiarati idonei dalla Commissione relativi
al medesimo servizio essenziale, si deve fare riferimento all'accordo sulla regolamentazione
dello sciopero nei servizi pubblici essenziali corrispondente al contratto collettivo
di lavoro applicato dall'azienda.
Ripetibilità somme - Insussistenza
In un giudizio diretto a ottenere da parte di un ex dipendente di una impresa metalmeccanica il riconoscimento di mansioni superiori e le conseguenti differenze retributive,la società convenuta proponeva domanda riconvenzionale finalizzata
a ottenere la restituzione di somme corrisposte a diverso titolo al lavoratore in quanto
non dovute e quindi indebitamente percepite. Nel rigettare la domanda riconvenzionale
il Tribunale di Pescara ha ritenuto di condividere l'insegnamento della Corte di legittimità ,
escludendo la ripetibilità delle somme corrisposte dal datore di lavoro in mancanza
di prova dell'essenzialità dell'errore e della riconoscibilità dello stesso da parte del dipendente.
Pubblico impiego - Dirigente dell'ente locale - Incarico di comandante della pulizia municipale
Non sussiste il danno grave e irreparabile nel caso in cui un dipendente del Comune sia stato pretermesso dal conferimento della titolarità di posizione organizzativa,perché il lavoratore non è titolare di una posizione di diritto soggettivo,
bensà di una mera aspettativa a ricoprire l'incarico medesimo. Tale situazione, infatti, non
è tutelabile in via cautelare, ma il dipendente può essere risarcito per equivalente, qualora
si accertasse, a conclusione del giudizio ordinario, l'illegittimità delle delibere impugnate.
Nella fattispecie, il dipendente comunale denunciava l'illegittimità della delibera
della giunta municipale, con cui era stato rinnovato l'incarico di comandante della polizia
municipale a un lavoratore comandato da altro Comune. Il lavoratore, in particolare, chiedeva
all'amministrazione comunale di avvalersi di una procedura concorsuale per la scelta
del soggetto a cui attribuire l'incarico. Il giudice si sofferma solo ed esclusivamente sulle
questioni relative al danno grave e irreparabile, affermando un principio pacifico nella
giurisprudenza di merito. Si afferma, infatti, che, nella fattispecie, la posizione del dipendente
non possa essere tutelata in sede cautelare, perché l'eventuale accertamento in ordine
all'illegittima assegnazione del comando della polizia municipale al controinteressato
non determina automaticamente il riconoscimento in capo al dipendente del diritto a ricoprire
l'incarico. È evidente, infatti, che l'attribuzione del suddetto incarico presuppone
una determinazione dell'amministrazione, giacché l'accertamento del giudice può condurre
a disapplicare l'atto amministrativo, ma lo stesso giudice giammai si potrà sostituire
all'amministrazione nominando un altro soggetto al posto dell'incaricato. È noto, infatti,
che il giudice ordinario non ha alcun potere di sostituirsi alla pubblica amministrazione
in ordine alle valutazioni di merito che restano di sua esclusiva competenza (cfr., in tal
senso, anche Trib. Catania, ord. 13 giugno 2005).
Diritto di opzione - Obbligazione con facoltà alternativa - Effetti della comunicazione
Alcuni lavoratori, reintegrati nel posto di lavoro, dopo avere esercitato il diritto di opzione notificavano alcuni decreti ingiuntivicon i quali intimavano il
pagamento delle somme dovute a titolo di retribuzioni maturate nell'intervallo di tempo
intercorso fra l'esercizio del diritto di opzione e la data di pagamento dell'indennità sostitutiva,
avvenuto all'esito di una procedura esecutiva. Avverso tali decreti ingiuntivi promuoveva
opposizione la società ingiunta assumendo l'insussistenza del diritto in capo ai
ricorrenti al pagamento di tali retribuzioni avendo gli stessi manifestato, con l'esercizio
del diritto di opzione, il disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro che doveva
ritenersi risolto nel momento in cui l'atto di opzione era giunto a conoscenza della società .
Il giudice nell'accogliere le domande dell'opponente ha stabilito che l'art. 18 legge n.
300/70, comma 5, nell'attribuire al lavoratore reintegrato la facoltà di opzione configura
una obbligazione con facoltà alternativa nella quale è prevista una obbligazione principale
con facoltà per il creditore di richiedere una diversa prestazione. Una volta comunicata
la scelta, pertanto, la stessa diviene irrevocabile e il datore di lavoro non può più liberarsi
se non eseguendo la prestazione richiesta. Il danno risarcibile ai sensi del comma 4, art.
18 legge n. 300/70 è costituito da tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento
a quella della comunicazione dell'opzione. Non può, infatti, secondo il giudice, configurarsi
successivamente all'esercizio del diritto di opzione un diritto alla retribuzione avendo
il lavoratore manifestato la volontà di non fornire la prestazione lavorativa ed essendo
divenuto il ripristino del rapporto impossibile. Dall'esercizio del diritto di opzione
cessa la disponibilità alla ripresa del servizio e viene meno il rapporto sinallagmatico tra
retribuzione e prestazione.
Licenziamento - Dipendenti poste italiane Spa - Clausola risoluzione automatica rapporto - Nullità
L'appellante impugna la sentenza del Tribunale di Livorno che dichiarava la nullità della risoluzione del rapporto di lavoro intimatagli dalla Società e
motivata dal raggiungimento della massima anzianità contributiva, e dichiarava il suo diritto
alla continuità del rapporto medesimo, respingendo tuttavia la domanda di condanna
al risarcimento del danno commisurato alle mensilità di retribuzione, decorrenti dalla
data di risoluzione a quella dell'effettivo ripristino, con deduzione di quanto percepito a
titolo di pensione. L'appellante principale censura la decisione di prime cure nella parte in
cui trascura di tener conto della messa in mora per ottenere il pagamento delle retribuzioni
arretrate. Con riguardo all'appello incidentale, la Corte riprende un proprio precedente
(App. Firenze, 2 maggio 2006, M. c. Poste italiane Spa) per cui, in riferimento ai lavoratori
dipendenti di Poste italiane, in caso di comunicazione della cessazione del rapporto
di lavoro fondata sulla clausola contenuta nell'accordo integrativo del c.c.n.l., il rapporto
stesso si risolve automaticamente col raggiungimento della massima anzianità contributiva.
Attesa l'invalidità di detta clausola, il rapporto prosegue e permangono gli obblighi
reciproci delle parti di prestazione lavorativa e di corresponsione della retribuzione,
essendo quest'ultima dovuta dal momento di costituzione in mora credendi, costituito
dall'offerta della prestazione da parte del lavoratore (Cass. 2557/2006; Cass.
15130/2004; Cass. 13715/2004). La Corte muove dal presupposto della nullità di pattuizioni
collettive che stabiliscano ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro diverse da
quelle legali; rimane pertanto definitivamente risolta in senso negativo ogni questione
sulla pretesa delegificazione della materia. Del pari infondata è stata ritenuta la tesi avanzata
dalla Società per cui avendo il lavoratore compiuto i 65 anni, il rapporto dovrebbe
comunque ritenersi risolto ex art. 1 co. 7 d.lgs. n. 503/1992. Tale norma tuttavia stabilisce
che il conseguimento della pensione di vecchiaia è subordinato alla cessazione del
rapporto di lavoro e, pertanto, nulla dice in ordine alla cessazione del rapporto al compimento
dell'età pensionabile, sancendo, al contrario, secondo la Corte, soltanto l'incompatibilità
della pensione di vecchiaia con la sussistenza di un contestuale rapporto di lavoro.
Accertata la continuità del rapporto di lavoro, l'esame del ricorso del lavoratore conduce
la Corte ad affermare che, in difetto di valido atto di estinzione, dovranno corrispondersi,
a titolo risarcitorio, le retribuzioni a partire dalla data della messa in mora, corrispondente
alla manifestazione della volontà di essere riammesso al lavoro (in difetto di
altri atti idonei a configurare la mora credendi, tale momento dovrà individuarsi nella richiesta
di convocazione per tentativo obbligatorio di conciliazione, ove di contenuto omogeneo
alla domanda giudiziale, o, in ogni caso, nella proposizione di quest'ultima). La
Corte ha poi escluso la compensatio lucri cum damno avuto riguardo ai ratei di pensione
riscossi dal licenziato, rilevando come questi ultimi dipendano da fatti giuridici del tutto
estranei al rapporto di lavoro e al potere di recesso datoriale.
Contratto di tirocinio formativo - Illegittimità recesso ante tempus - Sussistenza
Il caso in esame riguarda una invalida civile iscritta nelle liste di collocamento obbligatorioche, dopo circa un mese dalla sottoscrizione di un progetto formativo
e di orientamento della durata di sei mesi che prevedeva l'inserimento come segretaria
nell'organico di una impresa metalmeccanica della zona e la finalità di far acquisire
competenze nel settore commerciale e di ampliare le conoscenze linguistiche e informatiche,
veniva licenziata per non aver la società convenuta riscontrato le competenze necessarie
per le esigenze aziendali per le quali il tirocinio era stato avviato. Nell'accogliere
la domanda della lavoratrice che chiedeva l'accertamento della illegittimità del recesso
dal contratto di tirocinio formativo e la condanna della società convenuta al pagamento
del conseguente risarcimento del danno, il Tribunale di Pescara, con la interessante decisione
in commento, ha esaminato la questione del recesso ante tempus in materia di contratti
di tirocinio formativo. Preliminarmente, dopo aver ricordato che i tirocini formativi e
di orientamento, introdotti dall'art.18 della legge 196/1997 e disciplinati dal d.m.
142/1998 sono finalizzati a realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e a consentire
di acquisire esperienze professionali utili per il definitivo inserimento nel mondo
del lavoro, il Tribunale di Pescara ha chiarito che le finalità perseguite dall'istituto sono analoghe
a quelle del contratto di formazione e lavoro dal quale comunque si differenzia in
quanto il legislatore ha voluto espressamente escluderne la riconducibilità al più vasto
genus del rapporto di lavoro subordinato. Ha ritenuto, quindi, sulla scorta di una recente
pronuncia di Cassazione n.1380/2006, che l'unico oggetto del tirocinio formativo è l'insegnamento
impartito dall'imprenditore diretto alla formazione dell'allievo, mentre la prestazione
fisica e intellettuale da parte di quest'ultimo resta estranea al sinallagma contrattuale
e non è assimilabile alla prestazione del lavoro subordinato in quanto finalizzata
unicamente a consentire l'attuazione dello scopo al quale il negozio tende, ossia rendere
possibile l'acquisizione delle competenze professionali. Da tali principi, il Tribunale
di Pescara ne fa discendere l'inapplicabilità , alla fattispecie, dell'art. 2104 cod. civ. L'imprenditore
non potrà quindi pretendere una prestazione lavorativa qualitativamente adeguata
alle mansioni assegnate, laddove il contratto di tirocinio mira a far acquisire all'allievo
una professionalità che non fa parte del bagaglio dello stesso, non essendo il tirocinante
tenuto a garantire risultati utili per l'imprenditore. Nel richiamare la dottrina giuslavorista,
il giudice di Pescara ha ritenuto che il recesso anticipato dal contratto sia ipotizzabile
e ammissibile solo dove il comportamento del tirocinante sia colpevolmente lesivo
del regolare svolgimento del periodo di formazione e quindi allorquando l'allievo ometta
il rispetto della disciplina aziendale o delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi
di lavoro, vàoli il dovere di riservatezza, non si attenga ai giorni e agli orari fissati per
la sua presenza in azienda. Al di fuori di dette ipotesi, assimilabili al concetto di giusta
causa, deve essere esclusa ogni possibilità di recesso anticipato, non essendo certo applicabile
al contratto in parola la disciplina generale in materia di giustificato motivo oggettivo
o soggettivo, attesa la non riconducibilità del negozio al genus del contratto di lavoro
subordinato. Allo stesso modo, ha ritenuto di escludere l'ipotesi di recesso ad nutum
dal negozio e ciò in applicazione del principio generale della irrevocabilità degli impegni
negoziali, desumibile dal combinato disposto degli artt. 1372 e 1373 cod. civ. Nel
nostro ordinamento, il diritto di recesso di cui all'art. 1373 cod. civ. per la sua natura di eccezione
rispetto al precetto generale dettato dall'art. 1372 cod. civ. deve essere attribuito
per legge o per clausola contrattuale, sicchè là dove non espressamente riconosciuto, lo
stesso non può essere affermato ricorrendo a una interpretazione analogica, inconciliabile
con la natura derogatoria dell'istituto. Ha inoltre affermato l'importanza del rispetto del
termine, posto che, cosà come accade nel contratto di formazione e lavoro, il progetto formativo,
che impone l'indicazione di obiettivi e le modalità di svolgimento del tirocinio,
nonchè l'indicazione del percorso di formazione, non può che essere approvato dalle competenti
autorità , in stretta correlazione con la durata dell'insegnamento, atteso l'evidente
rapporto di proporzionalità fra quest'ultima e la complessiva formazione raggiungibile.
Facendo applicazione di tali principi, il Tribunale di Pescara ha quindi ritenuto illegittimo
l'atto di recesso della società convenuta non avendo ravvisato nella fattispecie alcuna giusta
causa che sola legittima lo scioglimento anticipato del vincolo negoziale. Il giudice di
Pescara si è poi soffermato sulla natura della somma erogata in virtù del contratto di tirocinio,
sostenendo che trattasi di somma che non può ritenersi destinata per intero a compensare
esborsi necessari per consentire la partecipazione all'attività di formazione, non
ravvisando elementi che riconducono a tale conclusione, ma ritenendola piuttosto un premio
o borsa di stage che, secondo le indicazione del Ministero delle finanze con la circolare
326/E del 23/12/1997, va pertanto ascritta alla categoria dei redditi assimilabili a
quelli di lavoro dipendente. Nel pronunciarsi sulla questione, il Tribunale di Pescara, tenuto
conto della effettiva natura della somma erogata al tirocinante, ha condannato la società
convenuta a corrispondere alla ricorrente le somme previste nel contratto e non versate
a causa del recesso anticipato e il danno derivato al tirocinante dalla mancata formazione,
con conseguente perdita di chance in relazione al mancato inserimento nel mercato
del lavoro.
Contratti a termine - Violazione dei principi di tassatività e tipicità delle ipotesi derogatorie
Poste italiane Spa impugna la sentenza del Tribunale di Grosseto che accoglieva la domanda di alcuni lavoratori,dichiarando la nullità della clausola di apposizione
del termine contenuta nel contratto di lavoro stipulato fra ciascuno dei ricorrenti
e la Società nel periodo compreso tra il 3/02/1998 e l' 11/10/2000 e, di conseguenza,
la vigenza sin dall'inizio del contratto, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, con condanna della Società alla riassunzione e alla corresponsione della
retribuzione dalla data del tentativo obbligatorio di conciliazione. La Corte afferma che i
contratti in esame non sono regolati dalla nuova disciplina di cui al d.lgs. n. 368/2001.
L'art. 23 legge n. 56/1987, pur attribuendo alla contrattazione collettiva la possibilità di
definire nuove e più ampie ipotesi di legittima apposizione del termine rispetto a quelle
già previste dall'ordinamento, non ha introdotto modifiche all'onere della prova a carico
del datore di lavoro sulle ragioni giustificanti l'apposizione del termine nei casi concreti,
secondo i principi generali dettati dalla legge n. 230/1962. Da ciò consegue che la violazione
di detti principi non si sottrae all'effetto di conversione del rapporto a termine in
rapporto a tempo indeterminato. La Corte fiorentina stabilisce poi che la copertura autorizzatoria
viene esclusa per i contratti stipulati dopo il 30 aprile 1998 nella mancanza di
ulteriori accordi. Non può neppure attribuirsi effetto retroattivo alla dichiarazione del 18
gennaio 2001, resa in occasione del rinnovo contrattuale, non potendo le parti contraenti
sanare i contratti a termine in cui esso risulta illegittimamente apposto. Poste italiane
Spa avrebbe dovuto provare l'effettiva necessità di specifiche assunzioni a termine rispetto
alla particolare situazione dell'ufficio dove il lavoratore è stato destinato, con particolare
riguardo alle mansioni in concreto assegnate. Solo in tal modo sarebbe stato
possibile collegare la generale causale della ristrutturazione con la prestazione a tempo
determinato richiesta. La radicale carenza di individuazione concreta del collegamento
tra clausola autorizzatoria e ricorso a un contratto a termine rende illegittima la clausola
del contratto individuale.
Trasferimento di ramo d'azienda - Erogazione premio di produzione determinato successivamente per periodi antecedenti
Alcuni lavoratori ' ex dipendenti Telecom Italia spa ceduti il 1° marzo 2002 alla società Savarent Fleet Services srlmediante una manovra qualificata da cedente
e cessionario come «trasferimento di ramo d'azienda» ai sensi dell'art. 2112 cod. civ. '
si sono rivolti al tribunale di ancona per ottenere il pagamento del «premio di risultato»,
frutto di un accordo sindacale siglato tra Telecom e le organizzazioni sindacali nel giugno
2002. L'emolumento richiesto era maturato nel periodo precedente al trasferimento e, in
particolare, si riferiva al periodo lavorato da giugno a dicembre 2001 e quello relativo ai
primi due mesi del 2002. La società Telecom si costituiva tardivamente in giudizio asserendo
di non essere il soggetto deputato al pagamento, in quanto le somme richieste dai
ricorrenti dovevano essere loro erogate con la retribuzione dei mesi di giugno e novembre
2002, successivi al trasferimento, e quindi corrisposte dalla Società cessionaria, non citata
a giudizio. Il giudice ha ritenuto fondato il ricorso. Ha infatti accolto quanto sostenuto
dalla difesa dei lavoratori e cioè che lo stesso art. 2112 cod. civ. impone una solidarietà tra
acquirente e alienante per i crediti vantati dal lavoratore al momento del trasferimento,
collegandosi cosà con il principio più generale sancito nell'art. 1294 cod. civ. per cui i condebitori
si presumono sempre solidalmente obbligati rispetto al creditore se non risulti diversamente.
Primo coobbligato in tal caso è certamente la Società cedente Telecom, in
quanto il premio di risultato vantato dai ricorrenti è relativo a un periodo precedente al loro
trasferimento. Ha invece accolto l'eccezione sollevata dalla Società resistente riguardo
la tardiva produzione documentale (buste paga) offerta dai lavoratori al consulente d'ufficio
per il conteggio degli emolumenti dovuti; tuttavia ha ritenuto utilizzabile il conteggio
incorporato nel ricorso introduttivo, in quanto la resistente ha omesso di contestare il
quantum come calcolato dai ricorrenti né ha contestato nel merito la debenza del premio,
ovvero gli elementi costitutivi della pretesa. Uniformandosi all'indirizzo della Suprema
Corte (v. Cass. Ss.Uu. 23/01/2002 n. 761) ha ritenuto che la mancata contestazione vale a
escludere l'onere probatorio in capo al ricorrente.
Ammissibilità
Con richiesta ex art. 696-bis cod. proc. civ. una lavoratrice chiedeva al Tribunale di Roma che venisse effettuata una consulenza tecnico preventivain ordine alla determinazione del quantum debeatur da parte della società datrice di lavoro. Il
giudice, nel dichiarare l'inammissibilità della domanda, precisava che il nuovo istituto
consente alle parti di promuovere un giudizio anticipato sull'accertamento del «quantum»
quando però l'«an» è di facile soluzione e non può rappresentare un vero e proprio giudizio
di cognizione ordinario anticipato. In sostanza, afferma il giudice, trattandosi di una
vera e propria Ctu anticipata non deve sussistere la precedente necessità di svolgere una
preventiva attività istruttoria ma piuttosto il mezzo della consulenza tecnica deve avere un
rilievo assolutamente preponderante su qualunque altra «variabile» di causa.
Ambito di applicazione
Il Tribunale di Roma, respingendo la richiesta di decisione ex art. 420-bis cod. proc. civ.,sollevata nel corso di un giudizio attinente l'ambito di applicazione di alcune
norme del contratto collettivo, ha affermato che il giudice di merito non è tenuto a fare
meccanica applicazione della norma ma deve svolgere una funzione di filtro al fine di evitare
un uso meramente dilatorio della norma. In particolare, afferma il giudice, si può fare
applicazione di quanto disposto dall'art. 420-bis cod. proc. civ. solo quando vi sia una
questione interpretativa nuova che presenta un interesse generale per l'applicazione uniforme
della contrattazione collettiva o quando la giurisprudenza esistente non può applicarsi
a un contesto che risulta di fatto inedito. Precisa, inoltre, il Tribunale che tale strumento
non deve essere utilizzato quando non sussiste un ragionevole dubbio in ordine alla
applicazione della contrattazione collettiva o quando esiste già una giurisprudenza in
materia che fornisca sufficienti chiarimenti e il contesto eventualmente nuovo non sollevi
alcun dubbio reale circa la possibilità di applicare tali precedenti giurisprudenziali.
Accertamento di lavoro subordinato di tipo giornalistico - Redattore ordinario e collaboratore fisso
Una giornalista ha rivendicato l'accertamento di rapporto di lavoro subordinatoex art. 1 o, in subordine, ex art. 2 c.n.l.g., fondando essenzialmente le sue pretese
sull'estensione temporale della prestazione resa e sulla sua continuità . La Corte d'Appello
di Bologna, confermando la decisione del giudice di primo grado, dopo aver richiamato
l'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «i caratteri
distintivi del rapporto di lavoro subordinato sono costituiti dall'inserimento del lavoratore
nell'organizzazione aziendale e dal suo assoggettamento ai poteri direttivi e disciplinari
del datore di lavoro (con conseguente limitazione di autonomia) e tali caratteri
sono i medesimi per qualunque tipo di lavoro, pur potendo essi assumere aspetti e intensità
diversi in relazione alla maggiore o minore elevatezza delle mansioni esercitate
o al contenuto (più o meno intellettuale o creativo) della prestazione pattuita» (Cass.
29/11/2002 n. 16997, Cass. 9/6/1998 n. 5693, Cass. 12/8/1997 n. 7494, Cass.
28/7/1995 n. 8260), ha ribadito che nel lavoro giornalistico non sussiste un concetto di
subordinazione quantitativamente affievolito rispetto a quello sancito dall'art. 2094
cod. civ., ma occorre solo tener presente che le modalità di attuazione del rapporto restano
influenzate dalla creatività della prestazione resa dal giornalista e da alcune peculiarità
che ne connotano le modalità esecutive in relazione all'oggetto della stessa.
Pertanto il giornalista subordinato deve essere «tenuto stabilmente a disposizione dell'editore,
anche nell'intervallo fra una prestazione e l'altra, per evaderne richieste variabili
e non sempre predeterminate e predeterminabili, eseguendone direttive e istruzioni,
e non quando prestazioni predeterminate siano singolarmente convenute, in base
a una successione di incarichi, ed eseguite in autonomia» (Cass. 12/5/2004 n. 9053,
Cass. 18/8/2003 n. 12079, Cass. 26/3/2002 n. 4338), intendendosi per stabilità dell'inserimento
non la semplice continuità «ma il risultato di un patto, in forza del quale il datore
di lavoro possa fare affidamento sulla permanenza della disponibilità senza essere
esposto al rischio di doverla contrattare volta per volta» (Cass. 20/8/2003 n. 12252).
Continua la Corte d'Appello osservando che una distinzione quantitativa ' sotto il profilo
della durata e dell'entità dell'impegno richiesto al lavoratore ' può essere individuata
solo tra la figura del redattore e quella del collaboratore fisso, considerando che
essa va operata «con riferimento non tanto alla responsabilità del servizio (astrattamente
possibile anche per un redattore), quanto alle caratteristiche dell'impegno temporale
richiesto che per il redattore comporta l'osservanza di un orario di lavoro e comunque
la quotidianità della prestazione, mentre per il collaboratore la semplice continuità
della prestazione stessa» (Cass. 28/7/1995 n. 8260; Cass. 20/1/2001 n. 833).
Evidenziano infine i giudici di secondo grado che «la qualifica di redattore si caratterizza
per il particolare tipo di notizie richieste (compilazione di articoli di informazione e commenti
di carattere politico o realizzazione di servizi riguardanti particolari avvenimenti) e
per il particolare inserimento nell'organizzazione necessaria per la compilazione del giornale
(con prestazione dell'attività lavorativa quotidiana e con l'osservanza di un orario di
lavoro) e postula l'esistenza di una redazione che, quale indefettibile struttura organizzativa,
implica l'attività di programmazione e formazione del prodotto finale (quale la
scelta e la revisione degli articoli e la loro impaginazione) per la preparazione di una o
più pagine del giornale» (Cass. 27/3/1998 n. 3272; Cass. 7/11/2001 n. 13778). Non essendosi
raggiunta la piena prova della sussistenza dei predetti requisiti, la Corte non ha
ritenuto sussistere nel caso in esame la subordinazione del rapporto di lavoro della giornalista
appellante.
Limiti settimanali e giornalieri all'orario di lavoro - Eccezione di inadempimento - Provvedimenti disciplinari
La sentenza della Corte d'Appello si inserisce in un contenzioso che ha carattere praticamente seriale e che ha coinvolto moltissimi portalettere.La vicenda
trae origine dal ricorso con cui Poste italiane Spa chiedeva l'accertamento della
legittimità della sanzione della sospensione di otto giorni irrogata al dipendente per
l'omessa consegna, secondo il sistema dell'areola, di tutta la posta nell'arco di una determinata
giornata lavorativa. Il giudice di primo grado respingeva il ricorso del datore
di lavoro, annullando il provvedimento disciplinare e dichiarandolo illegittimo. La
Corte d'Appello di Bologna, pronunciatasi a seguito dell'impugnazione della sentenza
di primo grado da parte di Poste italiane, si è uniformata all'orientamento del Tribunale
e ha respinto l'appello della società con una sentenza che affronta le diverse problematiche
in materia di limiti legislativi e pattizi all'orario di lavoro. La Corte ' esclusa
l'applicabilità nel caso di specie del d.lgs. 66/2003 ' individua anzitutto i limiti legali
(8 ore giornaliere e 40 settimanali) e contrattuali (6 ore o 7 ore e dodici minuti giornalieri
e 36 ore settimanali) in materia di orario di lavoro, per poi affermare, anche alla
luce della giurisprudenza in materia (cfr. Cass. 15419/00; 817/99, 6995/96,
5616/85, 2729/83), che «la concorrenza dei due limiti, cioè sia quello giornaliero che
quello settimanale» è unanimamente riconosciuta. Nello specifico i giudici di secondo
grado, ritengono che la contrattazione collettiva di settore e anche le disposizioni aziendali,
pur prevedendo i due limiti, stabiliscono inequivocabilmente che per quanto
con il precedente regime normativo potesse essere articolato in maniera «flessibile»,
l'orario di lavoro non avrebbe mai potuto superare né il limite «settimanale (trentasei
ore), com'è pacifico, ma neppure quello giornaliero di otto ore, chè la deroga riguarda
esclusivamente la modulazione in sei ore e sette ore e dodici minuti». Quanto al provvedimento
disciplinare, la Corte richiama la sentenza 13194/03 della Cassazione secondo
cui «nelle azioni a carattere disciplinare (ex art. 7 Stat. lav.) siano esse confermative
o di annullamento del provvedimento, l'onere della prova della legittimità della
contestazione gravi sul datore di lavoro» e ritiene insussistente e comunque non
provato, nel caso di specie, l'inadempimento del dipendente. Anzi, i giudici di secondo
grado, qualificano la condotta del lavoratore, consistente nel rifiuto di prolungare
la prestazione oltre l'orario d'obbligo retribuito, come una vera e propria eccezione di
inadempimento. Infatti, prosegue la sentenza, citando la Cass. 12161/03 «nei contratti
con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della
propria inadempienza, l'inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell'altra,
il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo
conto [â?¦] anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra
le prestazioni inadempiute, della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del
contratto, dell'equilibrio sinallagmatico del rapporto e degli interessi delle parti».
Rapporto di lavoro dirigenziale protrattosi dopo il pensionamento - Gratuità della prestazione - Esclusione della subordinazion
Un dirigente preposto a due settori aziendali, dopo la data del suo pensionamento,accettava la proposta dell'amministratore delegato della società di proseguire la
propria attività , sebbene per i primi tempi in forma gratuita (per garantire la prosecuzione
dell'attività e quindi l'occupazione delle quattro dipendenti), senza che tuttavia nel corso
dei successivi anni fosse mai stato versato alcun compenso né formalizzato alcun contratto
di consulenza, neanche dalle società acquirenti dei settori cui era preposto lo stesso
dirigente che nel frattempo li avevano acquistati. Il Tribunale di Bologna, adito dal dirigente,
riconosciuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale instauratosi
dopo la data del pensionamento e accertata la simulazione dei contratti di compravendita
dissimulanti cessioni di rami aziendali, condannava, tra l'altro, in solido tra loro
e x art. 2112, comma 2, cod. civ., la società cedente originaria datrice di lavoro e le società
cessionarie, al pagamento in favore del dirigente delle retribuzioni arretrate e delle
indennità di fine rapporto. La Corte di Appello di Bologna, adita dalle società acquirenti,
ha invece escluso l'instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato dopo il pensionamento
del dirigente, stante la mancanza della prova, il cui onere gravava sul dirigente, dell'onerosità
del rapporto di lavoro. Tale elemento essenziale del contratto di lavoro, richiesto
dall'art. 2094 cod. civ., si deve intendere come retribuibilità della prestazione e quindi
«come assenza di elementi legali, tradizionali o volontaristici che escludano la corrispettività
». I giudici di secondo grado al riguardo hanno richiamato gli insegnamenti della Suprema
Corte secondo i quali è onere della parte che intenda far derivare da un rapporto
personale l'esistenza di determinati diritti offrire «la prova rigorosa degli elementi costitutivi
del rapporto di lavoro subordinato e, in particolare modo, dei requisiti indefettibili
della subordinazione e della onerosità » (Cass. n. 7845/03; conf. 10923/00). Pertanto la
Corte di Appello, ritenendo esclusa espressamente dalle parti l'onerosità della prestazione
sulla base dell'accordo verbale che doveva regolamentare la prima fase del rapporto,
ha qualificato il rapporto di lavoro come contratto di consulenza gratuita, in assenza da
parte del dirigente della prova dell'avvenuto mutamento nel corso del rapporto della
struttura contrattuale, sotto l'angolo visuale dell'essenziale elemento dell'onerosità della
prestazione.
Dimissioni per giusta causa - Fatti costitutivi
Un lavoratore, privato delle mansioni e dei compiti precedentemente svolti,dopo un anno di tale situazione, contesta al datore di lavoro il suo inadempimento e quindi
non ottenendo alcun risultato si dimette per giusta causa. Il datore si difende affermando
tra l'altro che, non avendo reagito per un tale lasso di tempo, il lavoratore avrebbe
manifestato acquiescenza al provvedimento datoriale e che in realtà la vera ragione
delle dimissioni sarebbe consistita nell'avere ottenuto qualche giorno prima la certificazione
della esposizione all'amianto, che gli avrebbe consentito di andare in pensione. La
Corte di Appello di Genova nega rilievo a tali argomenti, osservando, quanto al primo, che
il demansionamento non costituisce un fatto unico esauritosi in un preciso e definito momento
temporale, ma condotta continuativa nel tempo, la cui valenza di gravità subisce
un costante crescente andamento; in conseguenza non è possibile sindacare da parte del
giudice il superamento della tollerabilità di tale situazione. Quanto al secondo, la possibilità
di porre fine all'illecito datoriale mediante la riduzione del danno conseguente alla
risoluzione del rapporto non esclude la sussistenza della giusta causa, per la cui ravvisabilità
non è certo richiesto che il lavoratore subisca il danno massimo di perdere ogni fonte
di sostentamento. Ragione per cui la giusta causa non viene meno per la scelta di operare
le dimissioni in epoca che consenta di minimizzare il danno derivante dalla perdita
del posto di lavoro.
Orario di lavoro - Riposo compensativo - Pronta disponibilità
La Corte di Appello di Bologna, ha rigettato l'appello proposto da alcuni infermieri e tecnici di radiologiadipendenti dell'Azienda ospedaliera di Reggio Emilia
i quali, tra l'altro, avevano rivendicato il diritto di usufruire di un giorno di riposo
settimanale compensativo, tutte le volte che erano tenuti al servizio di pronta disponibilità
' ex art. 18 del d.p.r. n. 270/1987 poi sostituito dall'art. 7 del c.c.n.l. integrativo
del personale del comparto sanità del 7/4/1999 ' in giornata festiva, sia che a che
questa segua effettiva chiamata in servizio sia che tale chiamata non intervenga, nonché
il risarcimento dei danni per omessa concessione del riposo compensativo e il pagamento
delle indennità di cui ai commi 6 e 8 dell'art. 44 del c.c.n.l. sanità 1/9/1995.
La Corte di Appello di Bologna, esaminando la normativa contrattuale disciplinante il
servizio di disponibilità , ha distinto l'ipotesi della reperibilità attiva da quella passiva,
a seconda che il dipendente sia o meno chiamato in servizio: nella prima ipotesi l'attività
prestata è computata come lavoro straordinario o compensata con recupero orario,
nella seconda ipotesi, ove la reperibilità coincida con un giorno festivo, spetta un
riposo compensativo senza riduzione del debito orario settimanale (in quanto il lavoratore
non rende in giorno festivo una prestazione di lavoro che eccede l'orario settimanale).
Il fondamento di tale diverso trattamento contrattuale risiede nel principio individuato
dalla Suprema Corte secondo il quale il mero obbligo di reperibilità non equivale
a una prestazione lavorativa e quindi impone il riconoscimento al lavoratore
non di un giorno di riposo compensativo, ma solo di un corrispettivo del sacrificio, minore
di quello di un'effettiva e piena prestazione (Cass. n. 5245/95 e n. 3419/98). Pertanto
la Corte di Appello di Bologna ha ritenuto che il lavoratore in pronta disponibilità
in giorno festivo non chiamato in servizio, in aggiunta al compenso economico, in virtù
delle disposizioni contrattuali, ha la facoltà di scegliere se fruire o meno del riposo
compensativo, prestando nel caso un'attività lavorativa quantitativamente più ampia
nei restanti giorni della settimana (dovendo il totale complessivo delle ore di lavoro
settimanali rimanere invariato), ma ha anche il dovere di manifestare al datore di lavoro
la sua volontà di usufruire del riposo compensativo proprio in quanto implicante
una sostanziale variazione del suo orario di lavoro settimanale da contemperare con
le specifiche esigenze del servizio. Nel caso di specie l'appello è stato respinto perché
i lavoratori non avevano dedotto e dimostrato di aver richiesto all'Amministrazione appellata
di fruire del giorno di riposo compensativo con diversa articolazione dell'orario
settimanale.
Molestie sessuali e mobbing - Sussistenza delle prime e insussistenza del secondo - Diritto al risarcimento dei danni
Da una delicata vicenda di molestie sessuali il Tribunale di Forlà coglie occasione per una approfondita analisi della materia,attraverso una sua comparazione
con il diverso fenomeno del mobbing. La vicenda trae origine dal ricorso di una lavoratrice
che dichiarava di aver lavorato presso un locale per quasi due anni, quando,
dopo una malattia prolungatasi per alcuni mesi (seguita a uno scontro acceso con il suo
«persecutore» che aveva comportato la richiesta di intervento delle forze dell'ordine),
aveva comunicato il recesso del rapporto di lavoro «constatata l'impossibilità di riprenderlo
serenamente». Si lamentava in particolare la dipendente del comportamento di uno
dei soci che gestiva il locale, B. M., che in tutti i modi la insidiava per ottenerne i favori,
ricevendo sempre dei rifiuti. Una volta venuto a conoscenza che la lavoratrice aveva
un legame di convivenza con altro uomo, il socio aveva poi assunto atteggiamenti estremamente
provocatori, offensivi e denigratori nei confronti della stessa. All'esito della lunga istruttoria,
durante la quale venivano sentiti ventiquattro testimoni, il giudice
riteneva, pur nella non univocità delle deposizioni, di propendere per la maggiore credibilità
della versione fornita dalla C. risultando, tra l'altro, confermati: la proposta di una
crociera dal B. alla C. e rifiutata dalla stessa; uno schiaffo dato in risposta a una toccata
di glutei; un'ingente somma regalata per il compleanno dal B. e rifiutata con tatto
dalla C. Rilevanti sono state considerate anche infine le testimonianze di quattro donne
che hanno concordemente dichiarato di aver abbandonato il lavoro per via dei comportamenti
del B. e del clima da questo creato nell'ambiente di lavoro. Per la definizione di
molestia sessuale il giudice, partendo dal presupposto che manchi un riferimento normativo
certo [invero l'art. 2 comma 3 del d.lgs. n. 212 del 2003 considera ' seppur relativamente
all'«orientamento sessuale» più che al sesso in quanto tale ' discriminazioni
«anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati [â?¦] aventi lo scopo e l'effetto
di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante,
umiliante od offensivo», n. d. r.] richiama la definizione data dal Consiglio d'Europa:
«Ogni comportamento a connotazione sessuale, o qualsiasi altro tipo di comportamento
basato sul sesso, compreso quello dei superiori e dei colleghi, che offende la
dignità degli uomini e delle donne», inaccettabile se: a) il comportamento è indesiderato,
irragionevole e offensivo; b) se è finalizzato a condizionare l'accesso al lavoro, la
promozione, il mantenimento nel posto di lavoro, la retribuzione ecc.; c) crea un ambiente
di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante per chi lo subisce. Il giudice, osservando
come l'ultima parte della definizione introduca il concetto di molestia ambientale
che appare limitrofo a quello di mobbing, distingue la due figure: «Secondo la psicologia
del lavoro, dalla quale il giurista trae il concetto stesso di mobbing, due sono le differenze
fondamentali. La molestia sessuale può essere costituita anche da un solo atto,
il mobbing deve essere sistematico. Il molestatore ha, nei confronti della vittima, un
chiaro intento libidinoso, il mobber può tendere a dare fastidio, punire, denigrare, espellere.
In sostanza la molestia sessuale è una manovra di avvicinamento, il mobbing
è una strategia di allontanamento».
Esaminando il caso concreto, il Tribunale di Forlà ravvisa nell'atteggiamento del datore
di lavoro nei confronti della dipendente due fasi ben distinte separate dalla notizia
del fidanzamento di quest'ultima, vissuto dal primo quasi come un tradimento o comunque
come perdita di speranze di intrattenere una relazione con la stessa: due fasi
nelle quali il dato sessuale risulta componente fondamentale e predominante. In considerazione
di ciò il giudice ritiene che: «Nel caso di specie si sia realizzata un'ipotesi
di molestia sessuale prolungata nel tempo senza che la stessa sia stata riconvertita in
mobbing. [â?¦] Nel caso in esame il mobbing non apporterebbe alcun vantaggio pratico
e, al contrario, proprio per la particolare complessità della figura ' che richiede una serie
di condizioni per la verifica positiva della realizzazione ' rischierebbe di indebolire
la posizione della ricorrente che ha indubitabilmente subito una serie di molestie sessuali
che costituiscono già il loro presupposto per rendere legittimo e dovuto il contenuto
risarcitorio avanzato in questa sede». Diritto al risarcimento che viene ravvisato
innanzi tutto sotto il profilo del «mancato rispetto dell'art. 2087 cod. civ., che impone
al datore di lavoro di svolgere i suoi compiti di salvaguardia del proprio dipendente in
modo da tutelarne l'integrità fisica e anche la personalità morale. Pacifico che i soci
della società sapessero della condotta posta in essere da uno di loro, tra l'altro fratello
degli altri due [â?¦] e questo comporta la possibilità di rinvenire nei confronti della società
convenuta profili di responsabilità contrattuale, derivante dal rapporto di lavoro
tra le parti, che di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043, dove il danno è costituito
dalle molestie subite dalla C. e la colpa è determinata dal mancato rispetto delle
regole poste a tutela del rapporto di lavoro».
Dopo aver preso in considerazione i danni di natura biologica e quantificato sia l'inabilità
temporanea sia i danni permanenti nella misura del 5% (non aderendo alla lettura proposta
dal Ctu che ha ritenuto eccessiva in termini di conseguenze traumatiche dell'accaduto,
che la fattispecie sia piuttosto riconducibile all'ipotesi del disturbo dell'adattamento
piuttosto che a quello del disturbo post traumatico da stress) il giudice si sofferma sulle
altre tipologie di danni: quelli esistenziali, che si sostanziano nelle umiliazioni subite in
ambito lavorativo dalla ricorrente come conseguenza diretta delle molestie sessuali subite
per un periodo di nove mesi. «Nessun dubbio ' afferma ' che, dopo le sentenze del
2003 della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, accanto al danno morale soggettivo
e al danno biologico l'art. 2059 cod. civ. preveda la possibilità di ulteriori danni a
condizione che vi sia una previsione normativa di tutela e sotto questo profilo la dignità e
il rispetto del lavoro, principi fondamentali della nostra Costituzione, sono dati pacificamente
riconducibili alla lettura estensiva del danno non patrimoniale come formulato dall'ultima
giurisprudenza richiamata». Dal punto di vista della prova del danno, la sentenza
aderisce all'orientamento della Corte di Cassazione secondo la quale, una volta che viene
a realizzarsi una lesione sotto il profilo della dignità del lavoratore questo determina inevitabilmente
la realizzazione di un conseguente danno (Cass. n. 10157/2004). Conseguentemente
il giudice provvede a valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. senza prendere
in considerazione parametri reddituali «in quanto valori come la dignità e il rispetto
della persona non si adattano a essere valutati diversamente in ragione del reddito e della
ricchezza posseduti».
Competenza - Fattispecie tutelata
Un ex brigadiere appartenente al già disciolto Corpo degli agenti di custodia collocato in congedo nel gennaio 1981 a seguito di giudizio di inidoneità confermato
in via definitiva dalla Commissione medica, ha convenuto in giudizio il Ministero
della giustizia e il Ministero degli interni per ottenere i benefici previsti dalla legge
3/8/04 n. 206 recante «nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi
di tale matrice» asserendo di aver subito: «negli anni dal 1978 in avanti (c.d. anni di
piombo) dalle Brigate Rosse continue minacce, intimidazioni e un vero e proprio attentato
a danno della propria autovettura a causa della attività di sorveglianza antiterroristica
da lui svolta presso le sezioni di Massima Sicurezza » e che tale situazione ne aveva
minato gravemente l'equilibrio psichico. Il Tribunale di Genova ha in primo luogo risolto
la questione di competenza affermando che se è vero che la speciale normativa
prevede una specifica procedura estremamente veloce, quanto al giudice competente
debbono applicarsi le regole generali con attribuzione della controversia al giudice del
lavoro in quanto i diritti riconosciuti dalla legge 206 e assunti in giudizio hanno oggettivamente
natura previdenziale e assistenziale. Quanto al risarcimento il Tribunale ritiene
che priva di rilievo è la circostanza che l'attentato non si sia concretizzato in un attacco
diretto alla persona comportante lesioni o ferite alla vittima «nuove norme in favore delle
vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice». Infatti: «Le intimazioni, le minacce
e gli attentati alle cose di proprietà del soggetto passivo sono sicuramente idonee a
provocare una vera e propria infermità mentale, ormai riconosciuta dalla psichiatria in
tutti gli aspetti quale vera e propria malattia organica, che, se cronicizzata con postumi
permanenti, può dar luogo a una invalidità totale o parziale con perdita o riduzione della
capacità lavorativa del danneggiato».
Tentativo di conciliazione - Mancanza - Deducibilità in appello - Dequalificazione - Indicazione mansioni precedentemente svolt
La sentenza della Corte di Appello affronta numerose e distinte questioni fornendo soluzioni sempre apprezzabili.In primo luogo afferma che la improcedibilità
per mancato espletamento del tentativo di conciliazione, ove non sia stata rilevata
anche d'ufficio nella prima udienza di discussione ancorché segnalata dalla parte, risulta
preclusa e a maggior ragione non può più essere riproposta in appello. In secondo luogo
afferma che in caso di eccepito demansionamento, la specifica deduzione delle mansioni
precedentemente svolte non è necessaria laddove il lavoratore si limiti ad allegare la non
congruenza delle stesse all'inquadramento acquisito. Inoltre, in caso di accertato demansionamento,
il lavoratore, oltre alla dichiarazione di nullità , può richiedere una condanna
del datore all'adempimento in forma specifica, cioè alla riassegnazione alle mansioni svolte.
Tale pronuncia non può ritenersi i n u t i l i t e r data solo perché, in sede esecutiva, non sarebbe
suscettibile di esecuzione forzata: infatti, dal punto di vista del lavoratore, la pronuncia
di condanna consente di configurare e misurare il danno risarcibile e soprattutto
di rendere meno rischioso l'esercizio della c.d. autotutela, di rifiutare cioè un'attività diversa
indicata in un provvedimento illegittimo. Da ultimo la lettera di impugnativa licenziamento
in quanto atto ricettizio non necessariamente deve essere recapitata alla sede
legale della società , ma, in quanto destinata a portare a conoscenza il suo contenuto, a
qualsiasi luogo che possa ritenersi idoneo; ed è certamente idoneo il luogo da cui proviene
il licenziamento e quindi lo stabilimento da cui è stata inviata tale comunicazione.
Impugnazione licenziamento - Violazione dell'obbligo di prestare lavoro
Un dipendente di una ditta di autotrasporti impugnava il licenziamento che gli era stato intimatoper aver ripetutamente rifiutato di svolgere tutti i trasporti ulteriori
rispetto alle 39 ore settimanali da lui ritenute opportune, benché il contratto ne prevedesse
48. Il datore di lavoro, a fronte dei reiterati rifiuti, aveva dapprima comminato le
sanzioni conservative e, da ultimo, il licenziamento in tronco. L'impugnazione veniva respinta
dal tribunale di Trieste. Alla base del rifiuto di svolgere un orario di 47 ore da parte
del lavoratore, vi era infatti una errata valutazione del l'art. 11 del c.c.n.l. Imprese di spedizione
che prevede turni settimanali di 39 ore massime per i lavoratori continui. Il ricorrente
ha ritenuto di dover prestare il consenso a prestare il proprio lavoro oltre le 39 ore,
ritenendo le ulteriori come ore di straordinario. In realtà , come l'Azienda aveva spiegato
allo stesso ricorrente, per i lavoratori discontiunui ' come è in effetti il ricorrente ' il monte
ore è di 48 ore in quanto le mansioni di guida su circuiti extraurbani impongono periodi
obbligatori di riposo e pause dalla guida di attesa per il carico/scarico merci. L'inadempimento
del lavoratore rileva anche in ragione dell'elemento soggettivo del lavoratore
che, nonostante i chiarimenti, gli avvertimenti e le sanzioni, ha perseverato nella violazione
dell'obbligo di prestare la propria attività lavorativa. Tale comportamento ha inciso
irrimediabilmente sulla fiducia che caratterizza il rapporto di lavoro e integra senz'altro una
giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cod. civ.
Concorso pubblico - Riserva di posti - Graduatoria
Il ricorrente nel 2000 aveva partecipato al concorso per l'assunzione di veterinari presso gli uffici del Ministero della Salute,per i quali era prevista dalla legge (art. 8 legge 14/10/1999 n. 362) e dal bando una riserva
di assunzioni pari al 30% a favore dei veterinari che avessero ricoperto incarichi per oltre due anni, per un totale di 8
posti. Il ricorrente, giunto undicesimo nella graduatoria dei riservatari, e poi decimo in seguito
a una rinuncia, lamentava che ulteriori 6 assunzioni erano state disposte dall'amministrazione
scorrendo la graduatoria generale (all'interno della quale l'attore risultava
al 67° posto), ma senza rispettare la riserva prevista dal bando.
Il giudice rigettava la domanda di accertamento del diritto di assunzione, in quanto le norme
che prevedono la riserva di posti nel concorso pubblico hanno natura eccezionale,
mentre il principio generale è quello di eguaglianza e buon andamento della pubblica amministrazione
(artt. 51 e 97 Cost.), nel rispetto del quale il concorso pubblico è aperto a
tutti. La graduatoria finale è unitaria, e la presenza di riserva non comporta che i posti riservati
costituiscano una specie di graduatoria a sé stante. La precedenza va data, limitatamente
alla quota riservata, ai candidati riservatari rispetto a quelli esterni. Una volta esaurita
tale quota, non vi è ragione di ritenere che la norma di legge abbia voluto consentire
una riapertura della quota a danno di coloro che nella graduatoria di merito si erano
classificati con un punteggio migliore rispetto al ricorrente.
Lavoratore assente per malattia - Attività lavorativa durante l'assenza - Violazione obbligo diligenza e fedeltà
Un lavoratore veniva licenziato in quanto sorpreso a svolgere attività lavorativa presso un centro abbronzatura durante l'assenza dal lavoro per malattia.La prova dell'addebito era stata ottenuta dall'azienda con l'ausilio di due agenzie di investigazione.
Il lavoratore agiva in giudizio per vedere accertata la nullità del licenziamento
disciplinare intimatogli, in quanto privo di giusta causa e sorretto da prove illegittimamente
assunte. L'apporto degli investigatori è stato ritenuto legittimo dal Tribunale di
Trieste perchè finalizzato alla tutela del patrimonio aziendale e alla verifica di una potenziale
truffa ai danni del datore di lavoro (che avrebbe dovuto corrispondere l'indennità di
malattia), mediante simulazione di una malattia per trarre profitto da altra attività . La sentenza
si ispira alla costante Giurisprudenza della Cassazione (Cass. Sez. Lav. n.9167 del
7/6/2004; Cass. Sez. Lav. n. 8388 del 12/06/2000; Cass. Sez. Lav. n. 5629 del
05.05.2000; Cass. Sez. lav. n. 10313 del 17/10/1998). Anche il licenziamento viene ritenuto
legittimo dal Tribunale di Trieste, giacchè lo svolgimento da parte del lavoratore assente
per malattia di altra attività lavorativa può giustificare il recesso del datore di lavoro,
in quanto tale attività esterna può pregiudicare o ritardare il recupero delle normali energie
lavorative. In tal caso incombe al lavoratore di provare, semmai, la compatibilità
dell'attività svolta con la malattia che impedisce la prestazione lavorativa e con le esigenze
di recupero. (Cosà Cass. Sez. Lav. n. 3647 del 13/04/1999; Cass. Sez. Lav. n. 11142 del
21/10/1991; Cass. Sez. Lav. n. 4957 del 01/08/1986). La condotta del ricorrente, conclude
il giudice, integra una grave violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede e
degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà . Tale circostanza, verificata l'intenzionalità
della condotta, ha leso irrimediabilmente l'elemento fiduciario posto a base del rapporto
di lavoro, rendendone impossibile la prosecuzione, ancorché provvisoria.
Consulente direzionale - Accertamento rapporto di lavoro subordinato - Insussistenza
Un professionista con una significativa esperienza anche in ambito dirigenziale instaurava un rapporto autonomo di collaborazionecon un'azienda locale
che operava nel campo dell'energia. Cessato il rapporto di consulenza, durante la quale
si era avvalso delle strutture e dei collaboratori dell'azienda, egli reclamava in sede giudiziale
il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato con la qualifica di dirigente o
in subordine di quadro. Il Tribunale di Trieste rigettava la domanda in quanto non era data
prova della subordinazione del ricorrente, rilevando che in ogni caso le parti avevano
instaurato un rapporto di prestazione coordinata e continuativa che presenta tratti in parte
simili a quello di lavoro subordinato. Trattandosi di un rapporto ad alto contenuto professionale
con conseguente ampia autonomia, il tratto della subordinazione poteva essere
difficilmente identificabile: il Tribunale ricorreva cosà, per identificare la natura del rapporto,
all'esame della volontà delle parti che hanno instaurato il rapporto. La sentenza evidenzia
in particolare come il tipo di collaborazione, la qualità delle parti e il potere contrattuale
dimostrato dal ricorrente corroborano l'idea secondo la quale il destino del rapporto
era costantemente nelle mani di entrambe le parti e non sussisteva pertanto il rischio
di una graduale assunzione dei vincoli della subordinazione.
Patto di non concorrenza - Clausola di recesso - Invalidità
La Corte di Appello di Milano risolve il caso di un patto di non concorrenzache
prevede un corrispettivo da versarsi parte in costanza di rapporto di lavoro, e parte a
rapporto cessato, nell'ambito di vigenza del patto e che contiene una clausola che attribuisce
al (solo) datore di lavoro il potere di recesso dal patto, entro il momento di risoluzione
del rapporto di lavoro. Orbene la Corte di Appello ritiene che la clausola deve
essere interpretata nel senso che termine ultimo per l'esercizio di tale potere sia il perfezionamento
dell'atto conclusivo del rapporto, e non quello d'efficacia dell'atto stesso
e cioè dell'effettiva cessazione. «Con siffatta clausola, infatti, le parti hanno inteso evitare
che il dipendente, che, concludendo il patto, si è vincolato da subito, pur se dopo
la cessazione del rapporto, a non svolgere attività concorrenziale, e ha quindi limitato
le sue possibilità di progettare, in parte qua, il proprio futuro lavorativo cosà comprimendo
in punto la sua libertà , abbia a perdere il corrispettivo di ciò, sia pure in parte, a
posteriori e per una scelta unilaterale del datore di lavoro». Irrilevante è il fatto che parte
del corrispettivo dovesse essere corrisposto e di fatto fosse già stato corrisposto in
costanza di rapporto: si tratterebbe infatti solo di una parte di quel corrispettivo che le
parti hanno inteso determinare nella loro insindacabile valutazione del valore del divieto
di concorrenza. Se invece si desse alla clausola la interpretazione favorevole alla società ,
ci si troverebbe di fronte «a una pattuizione invalida per violazione del disposto
inderogabile dell'art. 2125 cod. civ. da parte di una regola contrattuale che, consentendo
il recesso del datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto, sacrifichi ' in questo
caso, in parte ' il diritto al compenso correlato a una già subita menomazione di libertà .
Anche alla luce del canone interpretativo della conservazione del contratto (art. 1367
cod. civ.), dunque, s'impone la lettura prima fornita».
Processo del lavoro - Nuove eccezioni in appello - Ammissibilità - Limiti
L'eccezione di carenza di legittimazione attiva all'esercizio del potere disciplinare può essere formulata per la prima volta in grado d'Appelloquando i
fatti a fondamento dell'eccezione si riferiscono a circostanze già allegate al processo.
La Corte d'Appello di Milano affronta e definisce la natura dell'eccezione di carenza di legittimazione
attiva a esercitare il potere disciplinare, riconducendola al novero delle eccezioni
in senso lato. Come tale essa è rilevabile d'ufficio dal giudice, in ogni stato e grado
del processo, sulla base di allegazioni ritualmente acquisite agli atti. Con sentenza
delle Sezioni Unite 3/2/98 n. 1099 (in FI, 1998, I, 764), la Suprema Corte distinse il potere
di allegazione, che compete esclusivamente alla parte (e va esercitato nei tempi e nei
modi previsti dal rito in concreto applicabile, soggiacendo alle relative preclusioni e decadenze),
dal potere di rilevazione che, invece, spetta alla parte nei casi in cui la manifestazione
della volontà è prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva,
ovvero quando singole disposizioni prevedono come indispensabile l'iniziativa di parte.
Al di fuori di tali ipotesi, i fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti da materiale
probatorio legittimamente acquisito, sono rilevabili d'ufficio dal giudice senza violare la
previsione di cui all'art. 112 cod. proc. civ. Sulla scorta di tale autorevole principio, giurisprudenza
e dottrina hanno operato un distinguo tra «mera difesa», eccezione «in senso
lato» ed eccezione «in senso stretto». Con la mera difesa il convenuto s'inserisce nel
solco delle questioni introdotte in giudizio dall'attore e che il giudice deve esaminare
d'ufficio, anche nell'ipotesi in cui il convenuto sia rimasto contumace. L'eccezione «in
senso lato» e quella «in senso stretto», invece, comportano l'allegazione di fatti nuovi e
diversi da quelli posti dall'attore e, hanno l'effetto di paralizzare, nel rito o nel merito,
l'accoglimento della domanda avversaria. Le eccezioni comportano certamente un ampliamento
dell'oggetto della cognizione del giudice, ma non realizzano un ampliamento
del petitum enunciato nella domanda introduttiva del giudizio. Il convenuto propone una
domanda di rigetto delle pretese attoree fondata, non sulla mera negazione generica
dei fatti allegati dall'attore, bensà su fatti nuovi e diversi, e con effetti contrari a quelli allegati
dall'attore. In particolare poi, le eccezioni «in senso lato» hanno a oggetto fatti modificativi,
estintivi o impeditivi operanti in modo automatico, rilevabili d'ufficio dal giudice.
Qualora poi il giudice non le rilevi, ovvero non pronunci su un'eccezione rilevata dalla
parte, incorrerà in un'omissione di pronuncia, con conseguente violazione dell'art. 112
cod. proc. civ. Sono esempi di eccezione in senso lato quella relativa a l l ' a l i u n d e p e r c e p -
t u m (cfr. Corte d'Appello Potenza 4/12/2003, Pres. Scermino Est. Di Nicola, in D& L, 2004,
197); il pagamento o la risoluzione consensuale del contratto; l'incompetenza per materia,
per territorio (nei casi di cui all'art. 38 cod. proc. civ.) e per valore; la contestazione
del q u a n t u m della pretesa attrice; la simulazione e la novazione; la cessazione della materia
del contendere; il giudicato esterno; la nullità del contratto. Vale la pena ricordare,
infine, che le stesse Sezioni Unite, con sentenza 25/5/2001, n. 226 (in FI, 2001, I con nota
di Iozzo) si sono spinte fino a precisare che nel nostro ordinamento vige il principio
della rilevabilità d'ufficio delle eccezioni. La necessità di un'espressa istanza di parte ai
fini delle eccezioni sarebbe, conseguentemente, circoscritta alle sole ipotesi in cui vi sia
una specifica previsione normativa in tale senso, oppure a quelle in cui essa sia strutturalmente
richiesta dalla fattispecie normativa.
Processo del lavoro - Istanza tentativo obbligatorio di conciliazione - Eccezione d'improcedibilità già formulata in primo gra
Ove l'improcedibilità della domanda giudiziale in relazione al preventivo espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ancorché eccepita,
non venga rilevatadal giudice entro l'udienza di discussione di primo grado, l'azione
giudiziaria prosegue e la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di giudizio.
La Corte d'Appello di Milano inverte il proprio orientamento interpretativo (cfr. Appello
Milano 20/1/99, in GI 2000, 309 con nota di M. Maffuccini e Appello Milano 6/10/04,
in q. Riv. 2004, 1050, con nota dello stesso autore) in ordine al mancato espletamento del
tentativo obbligatorio di conciliazione, aderendo alla giurisprudenza di legittimità (Cass.
15/11/2005 n. 23044; conf. Cass. 18/8/2004, n. 16141; Cass. 16/8/2004 n. 15956; Cass.
9/7/2004. n. 13394). In ossequio al principio di speditezza di cui agli artt. 24 e 11, comma
2 Cost., quindi, ove l'improcedibilità della domanda giudiziale, ancorché eccepita, non sia
stata rilevata dal giudice nei termini di cui all'art. 412-b i s, comma 2, cod. proc. civ., l'azione
giudiziaria prosegue, e la questione non può essere riproposta nei successivi gradi di
giudizio.
Criteri di riparto giurisdizionale in materia di concorsi interni
Nell'ambito di un giudizio instaurato innanzi all'AGO da alcuni dipendenti pubbliciallo scopo di vedere accertato il proprio diritto a partecipare a un concorso interno
promosso all'interno dell'area di appartenenza per l'acquisizione di un profilo superiore,
la Suprema Corte ha affermato la giurisdizione ordinaria. La Suprema Corte, richiamando
i principi elaborati dalla Corte Costituzionale, in materia ha stabilito che l'art. 63 del d.lgs
165/2001 si interpreta alla stregua dei principi enucleati dall'art. 97 Cost. nel senso che
per procedure concorsuali di assunzione ascritte al diritto pubblico e all'attività autoritativa
dell'amministrazione, si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione
ex novo dei rapporti di lavoro ma anche i procedimenti concorsuali «interni» destinati,
cioè, a consentire l'inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate,
profilandosi in tal caso una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro. Le progressioni,
invece, all'interno di ciascuna area professionale o categoria sia con acquisizione di
posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di qualifiche superiori
sono affidate a procedure poste in essere dall'amministrazione con la capacità e i poteri
del datore di lavoro il cui sindacato è rimesso al giudice ordinario.
Non è legittima la clausola derogatoria della giurisdizione che privi il lavoratore nazionale di diritti fondamentali
Nell'ambito di una vicenda giudiziaria promossa da alcuni lavoratori italiani nei confronti di un'azienda nazionaletesa al pagamento di emolumenti pattuiti la
società convenuta eccepiva il difetto di giurisdizione stante una clausola compromissoria
inserita nei singoli contratti. La Corte di Cassazione ha precisato che è esclusa la deroga
della giurisdizione italiana oltre che nei casi in cui la deroga non sia prevista in forma scritta
anche nei casi in cui la causa verta su diritti indisponibili, nel cui ambito, come ha evidenziato
la dottrina, vanno annoverate oltre le cause attribuite alla competenza esclusiva
dei giudici italiani anche quelle di cui all'art. 806 cod. proc. civ. nonché quelle di cui all'art.
808 cod. proc. civ. Tale principio trova conferma ' a detta dei giudici di legittimità ' anche
nel disposto della legge 218/1995 che, nel coordinare le norme di rinvio con il diritto sostanziale
italiano stabilisce l'applicazione necessitata di quelle norme di lavoro interne
«non contingentemente legate al funzionamento della società italiana e concretizzatesi
come più tipicamente rivolte a garantire diritti fondamentali delle persone».
È antisindacale la sostituzione di lavoratori in sciopero con l'utilizzo di part time flessibili a tempo indeterminato
L'intento di fare effettuare una mobilità a un'azienda cessionaria non costituisce negozio in frode alla legge
Alcuni lavoratori adivano il Tribunale di Nocera allo scopo di contestare la cessione di un ramo di azienda effettuata dalla originaria datrice di lavoroin
favore di una società priva di concrete capacità produttive e finanziarie che aveva provveduto
a collocare in mobilità il personale prima di essere dichiarata fallita. Il Tribunale e la
Corte di Appello di Salerno dichiaravano la nullità della cessione del ramo di azienda ritenuta
perseguire un negozio in frode alla legge. La Corte di Cassazione nell'accogliere il
gravame della società ha ritenuto che l'intento di dimettere la veste di imprenditore e datore
di lavoro non può essere ritenuto vietato dalle norme di garanzia dei lavoratori atteso
che l'applicazione di esse non dipende dall'esserne destinatario un soggetto, anziché
un altro, mentre il motivo illecito non è configurabile ove si consideri che ragione determinante
di un trasferimento di una titolarità di beni ben può essere, del tutto lecitamente,
proprio quella di addossare ad altri soggetti obbligazioni e oneri connessi. In assenza
di una finalità vietata dalla legge non può quindi ritenersi sussistere la fattispecie di negozio
in frode alla legge.
Una generica rinunzia al tfr non può costituire rinunzia al ricalcolo dell'accantonamento per voci non considerate
Un lavoratore adiva il Tribunale di Bari allo scopo di vedere accertato il proprio diritto al computo nel Tfrdello straordinario continuativamente svolto. Avverso tale
richiesta la società opponeva la sottoscrizione di una quietanza nella quale il lavoratore
rinunziava espressamente a ogni pretesa connessa con il Tfr. Il locale magistrato con sentenza
confermata dalla Corte di Appello accoglieva la domanda del lavoratore sul presupposto.
che la dichiarazione, sebbene riferita al Tfr, non conteneva la specifica indicazione
del diritto alla inclusione dello straordinario nel computo del Tfr. Nel rigettare il ricorso di
legittimità promosso dalla società la Corte ha ribadito che la quietanza a saldo sottoscritta
dal lavoratore che contenga una dichiarazione di rinunzia a maggiori somme riferita in
termini generici a una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabile in relazione alla prestazione
di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto può assumere la
valenza di rinunzia alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del
documento o per il concorso di altre circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata
con la consapevolezza di diritti determinati o obiettivamente determinabili con il
cosciente intento di abdicarvi o transigere sui medesimi. Nel caso in esame la Corte di Cassazione
ha confermato la decisione della corte di appello ritenendo correttamente motivata
la decisione fondata sul rilievo che la quietanza non recava alcun riferimento allo
straordinario ma solo un generico richiamato all'indennità di fine rapporto.
Tentativo obbligatorio di conciliazione e decadenza dell'azione di impugnativa
Un lavoratore che aveva attivato tempestivamente il tentativo di conciliazione avverso un licenziamento intimatogli da un istituto di creditoadiva il Tribunale di Napoli che preso atto della mancata comunicazione dell'impugnativa all'azienda
dichiarava la decadenza dall'azione. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso del lavoratore
ha precisato che l'impugnativa del licenziamento ha natura di negozio unilaterale
ricettizio e che soltanto la comunicazione dell'impugnativa al datore di lavoro rappresenta
un valido atto idoneo a impedire la decadenza.
Sulla base di tale rilievo la Suprema Corte ha quindi ritenuto che la mera presentazione
del tentativo di conciliazione non comunicata al datore di lavoro costituisce un atto inidoneo
a impedire la decadenza.
La Cassazione afferma la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per bossing
Una lavoratrice assunta quale impiegata presso un'associazione a seguito di una serie di vessazione e comportamenti mobbizzantiposti in essere dal presidente
dell'ente conveniva quest'ultimo al fine di essere risarcita per il danno subito. Il giudice
di appello rigettava la richiesta sul rilievo che i comportamenti erano stati posti in essere
da un soggetto diverso dall'associazione. La Corte di Cassazione, nell'accogliere in
parte il ricorso della lavoratrice avverso la sentenza del Tribunale di Potenza, ha precisato
che il datore di lavoro è responsabile dei danni subiti dal proprio dipendente non solo
quando ometta di adottare misure protettive ma anche quando ometta di controllare e vigilare
che tali misure siano di fatto effettivamente in uso. Il diritto a un comportamento
corretto da parte dei superiori rientra, in tale ottica, nell'ambito dell'obbligo di adottare le
misure di sicurezza e prevenzione cd «innominate» che incombono in capo al datore di lavoro
per effetto del contratto di lavoro.
Contrasto della Cassazione sulla rilevanza della presentazione del tentativo di conciliazione per interrompere la decadenza
Nell'ambito di un giudizio istaurato da un lavoratore innanzi al Tribunale di Napoli avverso un licenziamentola società convenuta eccepiva preliminarmente l'intervenuta
decadenza dall'azione per omessa impugnativa. I giudici di merito in accoglimento
dell'eccezione preso atto che il tentativo di conciliazione tempestivamente attivato
non era stato, tuttavia, comunicato nel termine all'azienda rigettavano la domanda. La
Suprema Corte nell'accogliere il gravame si è posta in consapevole contrasto con altre decisioni
del Supremo Collegio. L'orientamento dei giudici di legittimità che imponeva al lavoratore
la comunicazione dell'impugnativa ritenendo non sufficiente la mera attivazione
del tentativo di conciliazione è stato ritenuto suscettibile di un «riesame», alla luce dei
principi ' in materia di atti processuali ricettizi ' affermati dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 477/2002 e recepiti dal nuovo testo dell'art. 149 c.p.c.. Osservano i giudici
della Corte di Cassazione che a partire dalla suddetta pronunzia della Corte Costituzionale,
può considerarsi principio generale del vigente diritto processuale quello secondo cui
quando si tratta di impedire una decadenza o una preclusione, avviene la scissione degli
effetti dell'atto: per la parte attiva, gli effetti si verificano al compimento delle attività richieste
dalla legge per impedire la decadenza; per la parte ricevente, gli effetti si verificano
al momento della ricezione dell'atto. Il decreto legislativo 80/98, avendo inserito la
materia «de qua» nel testo del codice di procedura civile, ha «processualizzato» il meccanismo
della sospensione della decadenza anche in materia di licenziamento. Ritiene quindi
la Corte che il termine inserito all'interno del codice di rito dia luogo a un termine processuale
con riflessi di natura sostanziale. Conclude quindi la Suprema Corte che quando
la norma prevede la sospensione del termine di decadenza a partire dalla comunicazione
della richiesta del tentativo di conciliazione, null'altro può essere richiesto alla parte interessata
al fine di impedire la decadenza o di sospenderne il decorso, se non compiere l'attività
che le compete, rimanendo fuori del suo controllo l'eventuale inerzia o ritardo dell'amministrazione
pubblica. L'impedimento al verificarsi della decadenza va ricollegato al
compimento dell'atto e non alla data diversa e successiva incontrollabile per il lavoratore
alla quale la richiesta sarà trasmessa al datore di lavoro.
Riveste la forma scritta anche una comunicazione di recesso inviata ad altri ricevuta dal lavoratore
Un lavoratore adiva il Tribunale di Torino deducendo la nullità del licenziamento intimatogli in forma scritta.Rilevava il lavoratore di essere stato licenziato
dal capo cantiere e di avere ricevuto solo a seguito di una propria richiesta e da un impiegato
della direzione provinciale del lavoro la comunicazione via telefax con la quale
l'azienda aveva informato dell'avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro l'ufficio del
lavoro. Il ricorso veniva dichiarato inammissibile per intervenuta decadenza e la locale
Corte di Appello confermava la decisione. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione
dei giudici di merito precisando che ai fini della validità formale del licenziamento
non occorre che la comunicazione scritta sia diretta al lavoratore ma è sufficiente
che la stessa sia portata a sua conoscenza. Sulla base di tale principio i giudici della
Suprema Corte hanno, quindi, ritenuto valida la decisione della corte di appello precisando
che la comunicazione del licenziamento trasmessa alla direzione del provinciale
del lavoro se trasmessa anche al lavoratore può costituire valido atto scritto.
Il rifiuto della prestazione deve essere proporzionale all'inadempienza del lavoratore
Un lavoratore al rientro da una cassa integrazione guadagni veniva privato delle proprie mansioni e collocato in totale inattività .Il dipendente a fronte di
tale condotta dopo un mese non si recava più sul posto di lavoro e l'azienda dopo aver
contestato l'assenza ingiustificata risolveva il rapporto di lavoro. Avverso la sentenza della
Corte di Appello di Genova che aveva ritenuto l'illegittimità del licenziamento l'azienda
proponeva ricorso di legittimità . La Corte di Cassazione, nel confermare la decisione dei
giudici di merito, ha precisato che il licenziamento appare illegittimo in quanto il comportamento
del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo
vàola la norma di cui all'art. 2103 cod. civ. ma è al tempo stresso lesivo del diritto fondamentale
al lavoro. L'inattività forzata per un mese ' osservano i giudici di legittimità ' appare
sufficiente atteso che la Corte di merito aveva effettuato la dovuta comparazione di
proporzionalità tra la sospensione della prestazione e l'inattività nell'ambito della funzione
economico ' sociale del contratto.
I lavoratori di un reparto addetti anche ad altre funzioni devono essere valutati comparativamente in caso di una mobilità
Alcuni lavoratori addetti a un reparto di un'azienda calzaturiera venivano posti in mobilità a seguito della decisione dell'azienda di sopprimere il reparto. I lavoratori
adivano il Tribunale di Trani allo scopo di essere reintegrati nel posto di lavoro lamentando
la violazione dei criteri di scelta adottati dall'azienda non in concorso con gli
altri dipendenti dell'opificio. Il locale tribunale con sentenza confermata in sede di appello
accertava la violazione dei criteri di scelta e disponeva la reintegra dei ricorrenti nel
posto di lavoro. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso dell'azienda ha confermato
che l'ambito di scelta limitato al «complesso aziendale» non può avvenire in base
a una determinazione unilaterale del datore di lavoro ma richiede che la predeterminazione
del limitato campo di selezione sia giustificato dalle esigenze tecnico ' produttive
e organizzative che hanno dato luogo alle riduzioni del personale. In tale ottica la Suprema
Corte ha ribadito che l'azienda non può limitare legittimamente la scelta dei lavoratori
da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono
idonei ' per acquisite esperienze e per pregresso e frequente svolgimento della propria
attività in altri reparti dell'azienda con positivi risultati ' a occupare le posizioni lavorative
di colleghi addetti ad altri reparti. In tali casi ' conclude la corte ' per il principio
di correttezza e buona fede deputato a presiedere la soluzione in forma equilibrata di
conflittuali interessi delle parti ' la scelta dei lavoratori da porre in mobilità non può essere
limitata a un solo reparto ma deve riguardare un ben più esteso numero di dipendenti
(su questa sentenza vedi, più diffusamente, infra, in «Sezione Lavoro», p. 31).
Indebiti Inpdap
La disciplina limitativa della ripetibilità degli indebiti pensionistici Inps non è, come tale,
applicabile anche ai trattamenti pensionistici erogati dall'Istituto nazionale di previdenza
per i dipendenti dell'amministrazione pubblica (Inpdap).A giudizio della Corte non esiste contrasto con il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.,
per ingiustificata disparità di trattamento di situazioni sostanzialmente analoghe. Non è infatti possibile porre comparazioni tra sistemi previdenziali diversi ' quale quello pubblico e quello privato ' e, a maggior
ragione, non è possibile una tale comparazione, sotto il profilo del rispetto del principio
di eguaglianza, tra discipline derogatorie a carattere eccezionale e transitorio e con
effetti unicamente retroattivi, quali sono quelle dettate dall'art. 1, commi 260 e 261, della
legge n. 662 del 1996, applicabile a entrambi i settori, e dall'art. 38, commi 7 e 8, della legge
n. 448 del 2001, applicabile solo ai trattamenti previdenziali Inps.
Spoils System nella Regione Calabria
È legittimo il c.d. spoils system introdotto dalla legge della Regione Calabria.La Corte Costituzionale ha quindi ritenuto infondata la questione di legittimità
costituzionale di alcune disposizioni (art. 1, commi da 1 a 8) della legge Regione Calabria
3 giugno 2005, n. 12 che dispongono che l'insediamento dei nuovi organi rappresentativi
della Regione comporta la decadenza automatica di alcune nomine (commi 1-
5) e di tutti gli incarichi dirigenziali (commi 6-8) conferiti dagli organi precedenti. Le nomine
previste dai citati commi riguardano gli organi di vertice degli enti regionali e i
rappresentanti regionali nei consigli di amministrazione degli enti dell'ordinamento regionale,
effettuate dagli organi rappresentativi della Regione; esse sono tutte caratterizzate
dall'intuitus personae, nel senso che si fondano su valutazioni personali coerenti
all'indirizzo politico regionale. I commi impugnati, specie il comma 1, vietano che
le nomine in esame, se effettuate nei nove mesi prima delle elezioni, si protraggano
nella legislatura successiva, e pertanto ne dispongono la decadenza all'atto della proclamazione
del nuovo Presidente della Giunta. Essi quindi, in realtà , si limitano ad anticipare
il termine finale di durata degli incarichi conferiti con le nomine. Tale regola opera
per il futuro; e quindi, dopo la sua entrata in vigore, chi fosse nominato negli ultimi
nove mesi di una legislatura non potrebbe vantare alcun ragionevole affidamento
sulla continuazione dell'incarico dopo la proclamazione del nuovo Presidente. Trattandosi
di nomine conferite intuitus personae dagli organi politici della Regione in
virtù di una scelta legislativa, la regola per cui esse cessano all'atto dell'insediamento
di nuovi organi politici mira a consentire a questi ultimi la possibilità di rinnovarle, scegliendo
(ancora su base eminentemente personale) soggetti idonei a garantire proprio
l'efficienza e il buon andamento dell'azione della nuova Giunta, per evitare che essa
risulti condizionata dalle nomine effettuate nella parte finale della legislatura precedente.
È, invece, illegittima la disciplina del c.d. Spoils System per la decadenza automatica
dei responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e dei responsabili dei
distretti sanitari territoriali (art. 14, comma 3, della legge Regione Calabria n. 13 del
2005) e per la nomina del direttore generale di azienda ospedaliero-universitaria
(art.24 della medesima legge). L'impugnato articolo 14, comma 3, non riguarda un'ipotesi
di Spoils System in senso tecnico, in quanto non regola un rapporto fondato
sull'intuitus personae tra l'organo politico che conferisce un incarico e il soggetto che
lo riceve, ma concerne l'organizzazione della struttura amministrativa regionale in materia
sanitaria e mira a garantire, all'interno di essa, la consonanza di impostazione gestionale
fra il direttore generale e i direttori amministrativi e sanitari delle stesse aziende
da lui nominati. In questa prospettiva, la norma impugnata tende ad assicurare
il buon andamento dell'amministrazione, e quindi non vàola l'art. 97 Cost. Ma a diversa
conclusione si deve, invece, pervenire relativamente a quella parte della norma
secondo cui la nomina di un nuovo direttore generale determina la decadenza anche
delle nomine dei responsabili dei dipartimenti sanitari e amministrativi e dei responsabili
dei distretti sanitari territoriali. Cosà disponendo, la norma comporta l'azzeramento
automatico dell'intera dirigenza in carica, pregiudicando il buon andamento
dell'amministrazione e violando l'art. 97 Cost.
Assunzione nella Regione Umbria
Il principio della pubblica assunzione in ruolo, tramite concorso aperto (art. 97 Cost.), non può essere derogato
da una riserva per lavoratori di precedente ingresso,
semplicemente reclamando le non meglio precisate esigenze dell'amministrazione
di preservare «un patrimonio di esperienze già acquisite». Nello specifico, non è
bastato alla Regione Umbria fare riferimento ai prestatori di una «attività a tempo determinato
alle dipendenze dell'amministrazione regionale», per poterli includere in una
percentuale di posti riservati, all'interno delle nuove acquisizioni di personale nella
Giunta della Regione. Le norme impugnate, riguardanti proprio la strutturazione organizzativa
e la dirigenza degli uffici di Giunta, sono state dichiarate incostituzionali. Non
rileva l'entità percentuale della riserva, ritagliata dalla norma regionale a propria utilità
(percentuale, che, nella disposizione impugnata, raggiungeva il non indifferente livello
del 40%, sul complesso delle assunzioni messe a bando): il difetto di legittimità è stato
individuato nell'assenza di una precisa motivazione, che giustificasse comunque un
cosà vistoso accantonamento di posti. Né si è dimostrata sufficiente, a sanare il vizio, la
richiesta, rivolta ai candidati, ai fini del futuro impiego a tempo indeterminato, di particolari
titoli di studio, «giacché questi ultimi attengono al lavoro da svolgere e non sono
necessariamente collegati all'attività precedentemente svolta». L'aver prestato attività
a tempo determinato alle dipendenze dell'amministrazione regionale, infatti, non può
essere considerato di per sé (e in mancanza di altre particolari e straordinarie ragioni
giustificatrici della deroga al principio di cui all'art. 97, terzo comma, della Costituzione)
un valido presupposto per una riserva di posti, risolvendosi, piuttosto, in un arbitrario
privilegio a favore di una generica categoria di persone.
Disabili e incarichi di presidenza scolastica
È costituzionalmente illegittimo l'art. 8-bis del decreto-legge 28 maggio 2004, n. 136,convertito, con modificazioni, dalla legge 27 luglio 2004, n. 186, nella
parte in cui stabilisce una riserva di posti per i disabili anche nelle procedure per il conferimento
degli incarichi di presidenza. La norma impugnata, oltre a favorire l'accesso
al lavoro dei disabili (cosa del tutto legittima), ne agevola però anche la carriera, producendo
una irragionevole compressione dei principi di uguaglianza e del merito.
L'art. 38, terzo comma, Cost., infatti, consente un regime di favore nei confronti dei disabili,
derogando al principio di uguaglianza e buon andamento degli uffici pubblici,
solo per favorire l'accesso dei disabili agli uffici pubblici, ma non la loro progressione,
una volta assunti.
Dirigenti delle strutture sanitarie
Spetta alle Regioni disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle strutture sanitarie.Le disposizioni in esame, sebbene
si prestino a incidere contestualmente su una pluralità di materie (e segnatamente, tra
le altre, su quella della organizzazione di enti «non statali e non nazionali»), devono essere
comunque ascritte, con prevalenza, a quella della «tutela della salute». Trattandosi
di tale materia ' di competenza legislativa ripartita tra Stato e Regioni ex art. 117 Cost. '
spetta al primo la fissazione dei principi fondamentali, mentre alle seconde compete dettare
la disciplina attuativa di tali principi con l'autonomia e l'autodeterminazione che, nel
disegno costituzionale, a esse sono state riconosciute. Come corollario di quanto cosà disposto,
il legislatore statale, con la norma impugnata, ha stabilito che nel caso in cui la
scelta dei dirigenti sanitari cada sul regime della non esclusività , essa tuttavia «non preclude
la direzione di strutture semplici e complesse». Ciò significa che le stesse sono libere
di disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle
strutture sanitarie, ora privilegiando in senso assoluto il regime del rapporto esclusivo (è
la scelta delle leggi regionali della Toscana e dell'Umbria), ora facendo della scelta in suo
favore un criterio «preferenziale» per il conferimento degli incarichi di direzione (è, invece,
l'opzione seguita dalla Regione Emilia-Romagna). La Corte precisa infine che, nel
«quadro di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso
innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità
pubblica cosà da renderla concorrenziale con quella privata, [â?¦] non appare irragionevole
la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici
del Servizio sanitario nazionale».
Leggi regionali e profili professionali
Spetta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali nella materia concorrente delle «professioni»prevista dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
L'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e i titoli abilitanti, è
riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza
delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento
con la realtà regionale. La norma della Regione Piemonte, pertanto, provvedendo
a individuare direttamente le figure professionali alle quali la Regione fa ricorso per il funzionamento
del sistema integrato di interventi e servizi sociali, vàola il principio fondamentale
che assegna allo Stato l'individuazione delle figure professionali.