Descrizione
Illegittimità costituzionale della norma che esclude il coniuge del disabile dal congedo parentale La Cassazione attenua la «efficacia reale» del preavviso nei confronti del dirigente Ordinanza del Tribunale di Milano sulla scadenza di sabato nei termini che si computano «a ritroso»I passeggeri di un traghetto costretti a un pernottamento di fortuna hanno diritto al risarcimento del danno esistenziale
L'11 agosto del 2001 Lucia B. e Damiano M. si sono imbarcati a Peschici su un traghetto della Srl C.T.M. per una breve gita alle Isole Tremiti con rientro previsto in giornata.A causa del peggioramento delle condizioni meterologiche, il traghetto è rimasto
bloccato nel porto dell'Isola di S. Nicola, non essendo in grado di affrontare le condizioni
del mare. La Srl C.T.M. non ha provveduto a sistemare i passeggeri sul traghetto di
un'altra compagnia, in grado di rientrare a Peschici. Conseguentemente i gitanti hanno
dovuto pernottare a Peschici, in un museo e in una chiesa dove i Carabinieri, il Comune e
la Protezione civile hanno allestito giacigli di fortuna. Lucia B. e Damiano M. hanno chiesto
al giudice di pace di Bari di condannare la Srl C.T.M. al risarcimento dei danni, nella misura
di mille euro ciascuno. Il giudice ha accolto la domanda in quanto ha accertato che,
al momento della partenza del traghetto per Peschici, il peggioramento delle condizioni
del tempo e del mare era previsto dai bollettini meterologici ed ha pertanto ritenuto che
la Srl C.T.M. non avrebbe dovuto effettuare il viaggio, poiché la motonave non era in grado
di affrontare il mare mosso; ha inoltre ritenuto che la società avrebbe dovuto quanto
meno provvedere ad assicurare il rientro a Peschici dei passeggeri con la nave di altra
compagnia, sostenendo il relativo maggior costo. Pertanto il giudice ha affermato la responsabilità
dell'azienda per «i disagi, le traversie, le afflizioni e le allucinanti difficoltà cui
furono sottoposti i passeggeri» ed ha ravvisato la configurabilità anche del danno esistenziale
«inteso come peggioramento della sfera personale determinato da alterazione,
ad opera del fatto illecito di un terzo, delle normali attività quotidiane, quali le attività familiari,
sociali, di svago, di riposto, di relax, cui ciascun soggetto ha diritto e che incidono
nella sfera psichica del soggetto leso in relazione alla diversa sensibilità individuale e
struttura della personalità ». L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la
decisione del giudice di pace per difetto di motivazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Il giudice di Bari ' ha osservato la Corte ' ha correttamente
accertato la mancanza di adeguata diligenza nell'adempimento, da parte della
società dell'obbligazione contrattuale assunta, nonché la configurabilità nel caso in esame
anche di una responsabilità extracontrattuale per la mancata sistemazione dei passeggeri
sulla nave di altra compagnia per il rientro. Tale comportamento ' ha affermato la
Corte ' configura violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza, quale generale
principio di solidarietà sociale che trova applicazione in ambito sia contrattuale che
extracontrattuale, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione
un comportamento leale ' specificantesi in obblighi di informazione e di avviso ' nonché
volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio.
Non basta la necessità di un accertamento specialistico per giustificare l'assenza da casa durante una visita di controllo
Giuseppe C., dipendente della Spa Linificio Canaficio Nazionale, mentre era assente per malattia,nel marzo 1995, è stato oggetto di visita di controllo disposta dall'Inps.
Il sanitario incaricato del controllo non ha trovato il lavoratore a casa in quanto egli si era
assentato per sottoporsi a visita medica specialistica. Il giorno dopo Giuseppe C. si è sottoposto
a visita ambulatoriale che ha confermato lo stato di malattia con prognosi di ulteriori
dieci giorni. L'Inps, per l'assenza al controllo, ha ritenuto il lavoratore decaduto dal
trattamento di malattia, con conseguente perdita dell'indennità . Giuseppe C. ha chiesto al
pretore di Napoli di riconoscere il suo diritto al trattamento di malattia, sostenendo che
l'assenza al controllo doveva ritenersi giustificata, dal momento che egli quel giorno era
stato sottoposto a visita medica presso lo studio di uno specialista. Il pretore ha rigettato
la domanda, ma la sua decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Napoli
che ha affermato il diritto del lavoratore al trattamento di malattia. L'Inps ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Napoli per insufficienza
di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso e, decidendo nel merito, ha rigettato la domanda
proposta dal lavoratore nei confronti dell'Inps. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza
secondo cui: «L'assenza alla visita di controllo, per non essere sanzionata dalla perdita
del trattamento economico di malattia ai sensi dell'art. 5, comma 14, del d.l. n. 463 del
1983, convertito nella legge n. 638, può essere giustificata oltre che dal caso di forza maggiore,
da ogni situazione, la quale, ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare,
ove non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la presenza
personale dell'assicurato, come la concomitanza di visite mediche, prestazioni sanitarie
o accertamenti specialistici, purché il lavoratore dimostri l'impossibilità di effettuare
tali visite in orario diverso da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità ».
Trattasi ' ha osservato la Corte ' con ogni evidenza, di accertamento di fatto, rimesso al
giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione di legge o per illogicità
e contraddittorietà della motivazione; nella sentenza impugnata manca l'accertamento
della indifferibilità della visita medica, e della impossibilità di effettuare tali visite
in orario diverso da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità .
La scarsa efficienza nella gestione del personale può giustificare il trasferimento di un quadro
La sentenza che segue, già presentata in q. Riv. 2/2007, p. 8, è ora esaminata più diffusamente.Franco T., dipendente delle Poste italiane con qualifica di quadro, preposto
all'agenzia di Aprilia, è stato trasferito nel 1997 all'agenzia di Sabaudia, di minori
dimensioni, con riduzione della sua indennità di funzione. Il provvedimento è stato
motivato con riferimento ai risultati di un'indagine ispettiva secondo cui Franco T.,
presso l'agenzia di Aprilia, si era reso responsabile di disservizi nel recapito della corrispondenza,
per carenze organizzative e scarsa efficienza nella gestione del personale.
Il lavoratore ha chiesto al pretore di Latina l'annullamento del trasferimento. Sia il
pretore, che, in grado di appello, il Tribunale di Latina hanno ritenuto il trasferimento
illegittimo in quanto provvedimento disciplinare adottato dall'azienda senza avere
previamente sentito le difese del lavoratore, in violazione dell'art. 7 Stat. lav. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, invocando tra l'altro, l'art. 41 della Costituzione,
che tutela la libertà dell'iniziativa privata.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso e, oltre a cassare la sentenza del Tribunale di Latina,
ha deciso la causa nel merito, rigettando la domanda di annullamento del trasferimento.
La Corte ha richiamato la sua giurisprudenza (Cass. n. 17786 del 2002) secondo
cui: «Il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità aziendale, trovando la sua
ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, va ricondotto
alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 cod. civ., piuttosto
che, sia pure tipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità
del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa (in senso lato)
dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o
procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari. In tali casi, il controllo giurisdizionale
sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano
il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi
sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa, e, trovando
un preciso limite nel principio di libertà dell'iniziativa economica privata (garantita
dall'art. 41 Cost.), il controllo stesso non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale,
né questa deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità , essendo
sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro
possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.» Nel caso di specie ' ha
osservato la Cassazione ' dal verbale ispettivo, per come riportato dalla sentenza impugnata,
emerge che l'Ente Poste italiane non ha contestato a Franco T. delle colpe specifiche,
né le ha sanzionate con misure disciplinari, ma una inadeguatezza al ruolo di dirigente
di una grande filiale, il che esclude anche che il trasferimento abbia avuto un carattere
specificamente disciplinare; infatti l'inadeguatezza alla direzione di una struttura aziendale
o al raggiungimento di risultati di efficienza non costituisce di per sé un fatto disciplinare,
dovendo avere questo come connotato una responsabilità colposa soggettiva,
per il quale si richiede un comportamento volontario almeno colposo. Alla luce dell'art. 41
Cost. e dell'obbligo istituzionale della Spa Poste italiane di fornire un servizio pubblico essenziale
ai cittadini ed al sistema produttivo dello Stato ' ha affermato la Corte ' lo strumento
adottato dalla Spa Poste italiane per restituire funzionalità all'agenzia di Aprilia
mediante l'assegnazione di un dirigente più capace risulta essere assolutamente legittimo,
ed il trasferimento del precedente dirigente, sotto la cui gestione si erano verificati i
gravi disservizi (mancata consegna della corrispondenza) rilevati dal servizio ispettivo e
non contestati, deve ritenersi necessitato da obiettive esigenze organizzative.
Le dimissioni non possono essere unilateralmente revocate, ma i loro effetti possono venire meno per accordo lavoratore-azienda
Riccardo D., dipendente della società Billa con mansioni di magazziniere, il 4 aprile del 2003 ha effettuato acquisti, come un ordinario cliente,presso l'ipermercato cui era addetto. All'uscita un suo collega del servizio antitaccheggio ha accertato che
egli aveva nel carrello una confezione di compresse «Lipomen» del valore di euro 7,99,
non inserita nello scontrino di cassa. Subito dopo, negli uffici di direzione, gli è stato contestato
verbalmente l'illecito asporto di prodotto non pagato e gli è stata rivolta la richiesta
di dimettersi immediatamente «per togliersi dai guai». Riccardo D. ha firmato una dichiarazione
di dimissioni predisposta dall'ufficio. Successivamente, nel pomeriggio dello
stesso giorno, il lavoratore ha chiesto assistenza a un rappresentante del sindacato Uil.
Questi l'ha tranquillizzato e, dopo avere interpellato l'azienda, gli ha detto che il giorno
dopo avrebbe potuto regolarmente tornare al lavoro. L'indomani mattina Riccardo D. ha
preso servizio ed ha lavorato sino al pomeriggio, quando è stato convocato in filiale dove
gli è stata consegnata una lettera di contestazione dell'addebito di prelievo illecito di merce,
con contestuale sospensione dal lavoro. Egli si è difeso sostenendo di non avere pagato
la confezione perché era sfuggita all'attenzione sua e della cassiera. L'azienda gli ha
comunicato il licenziamento in tronco «per la denegata ipotesi di illegittimità delle dimissioni
». Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Cuneo di dichiarare che le sue dimissioni dovevano
ritenersi prive di effetto, dal momento che l'azienda, ammettendolo al lavoro il
giorno dopo, ne aveva accettato la revoca, a lui comunicata attraverso il sindacato; ha inoltre
chiesto l'annullamento del licenziamento, sostenendo che il mancato pagamento
della confezione di Lipomen era stato causato da disattenzione. Il Tribunale, con sentenza
del dicembre 2003, ha rigettato il ricorso, in quanto ha escluso che l'azienda avesse accettato
la revoca delle dimissioni ed ha ritenuto che, prelevando merce senza pagarla, il
lavoratore aveva leso irrimediabilmente la base fiduciaria del rapporto. Questa decisione
è stata integralmente riformata con sentenza del maggio 2004, della Corte d'Appello di
Torino, che ha annullato il licenziamento ed ha ordinato la reintegrazione di Riccardo D.
condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha ritenuto che l'azienda abbia
in concreto accettato la revoca delle dimissioni comunicata dal lavoratore per il tramite
del sindacato ed ha escluso che si fosse raggiunta la prova dell'intenzionale occultamento,
da parte del lavoratore, della confezione di «Lipomen» al momento del passaggio
alla cassa, dal momento che, in base alla prova testimoniale, doveva ritenersi attendibile
che la scatoletta fosse scivolata dietro una confezione di bottiglie di acqua minerale. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino
per vizi di motivazione e violazione di legge e sostenendo, tra l'altro, che la revoca delle
dimissioni avrebbe dovuto essere comunicata in forma scritta e che la sentenza impugnata
non aveva correttamente motivato la valutazione delle risultanze istruttorie.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando la sua giurisprudenza secondo cui in
generale, deve ritenersi che «le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale
recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengano
a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo,
con la conseguenza che la successiva revoca delle stesse è inidonea ad eliminare l'effetto
risolutivo che si è già prodotto, restando limitata la prosecuzione del rapporto al solo
periodo di preavviso. Tuttavia, in applicazione del principio generale di libertà negoziale,
le parti possono consensualmente stabilire di porre nel nulla le dimissioni con conseguente
prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso. L'onere di fornire la dimostrazione
di tale contrario accordo, che, come le dimissioni, non richiede la forma scritta,
salva una diversa espressa previsione contrattuale, è a carico del lavoratore». Pertanto
' ha osservato la Corte ' non si può parlare di una vera e propria «revoca» delle dimissioni,
essendo queste di certo irrevocabili (unilateralmente) una volta che siano pervenute
a conoscenza del datore di lavoro; si tratta, piuttosto, di un «contrario accordo» delle
parti, per il quale non è richiesta la forma scritta.
La Corte di Appello ' ha osservato la Cassazione ' in sostanza ha ritenuto che in fatto è intervenuto
tra le parti un «contrario accordo» che ha posto nel nulla le precedenti dimissioni,
con conseguente prosecuzione del rapporto, come risulta dalla motivazione: «Il teste
B. ha riferito infatti che il pomeriggio del 4 aprile, nel corso del colloquio telefonico con
il T. erano «rimasti intesi che il sig. D. il giorno successivo avrebbe dovuto riprendere servizio
» e inoltre il T. gli aveva detto di non «tenere in considerazione la lettera di dimissioni
e di invitare il sig. D. a riprendere il lavoro il giorno successivo». Il D. a riprendere il lavoro
il giorno successivo». Il D. riprese regolarmente il servizio il mattino successivo e ciò,
unitamente a quanto risulta dalla deposizione del teste B., altro non può significare che la
Billa acconsentà alla richiesta di revoca delle dimissioni avanzata dal D., prestò a detta revoca
adesione e ritenne, in definitiva, le dimissioni come tanquam non esset».
La Suprema Corte ha inoltre ritenuto che la Corte di Appello abbia correttamente ravvisato
la mancanza di prove in ordine ad un intenzionale occultamento della confezione prelevata
dal lavoratore, affermando conseguentemente l'illegittimità del licenziamento.
Il fisioterapista è lavoratore subordinato se inserito nell'azienda con orario di lavoro e soggezione alle direttive aziendali
Alicia S. ha lavorato quotidianamente, dall'ottobre 1986 all'ottobre 1992, come fisioterapistaper la Srl Caffaro Fisiokinesiterapico percependo compensi dietro presentazione
di fattura, come collaboratrice autonoma. Cessato il rapporto, ella ha chiesto
al Tribunale di Roma di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e di condannare
l'azienda al pagamento di differenze di retribuzione e spettanze di fine rapporto.
Il Tribunale, dopo avere sentito alcuni testimoni, ha accolto la domanda, condannando la
società a corrispondere alla lavoratrice la complessiva somma di lire 23 milioni circa. L'azienda
ha proposto appello sostenendo che, come risultava dalla documentazione prodotta,
le parti avevano inteso intrattenere un rapporto di lavoro autonomo e che in effetti
la lavoratrice aveva lavorato in base ad una serie di incarichi professionali. La Corte
d'Appello di Roma ha confermato l'accertamento della subordinazione, pur riducendo
l'importo della condanna. Essa ha rilevato che l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato
doveva desumersi dall'inserimento della lavoratrice nell'organizzazione dell'azienda
con orario di lavoro e soggezione alle direttive che quotidianamente le venivano impartite
mediante la consegna di schede, provenenti dalla Asl competente, recanti l'indicazione
del paziente e del tipo di prestazione da eseguire. La Corte d'Appello ha anche osservato
che la fisioterapista lavorava sempre all'interno dei locali dell'azienda con modalità
identiche a quelle seguite dal personale dipendente. La società ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte territoriale ' ha osservato la Cassazione
' dopo aver rimarcato che Alicia S. aveva espletato la sua attività quale fisioterapista presso
la società appellante dall'1 ottobre 1986 al 5 ottobre 1992, e dopo aver osservato che
la stessa continuità del rapporto per un periodo di oltre sei anni, mal si conciliava con la
tesi della sua natura «autonoma», non solo ha richiamato i principi giurisprudenziali in
materia, ma ha precisato che l'assoggettamento del lavoratore alle altrui direttive ' che
costituisce il tratto tipico della subordinazione ' è riscontrabile anche quando il potere direttivo
del datore di lavoro viene esercitato «de die in diem»; in tal caso, il vincolo della
subordinazione consiste nell'accettazione ' vuoi espressa (mediante la formale accettazione
del rapporto di lavoro subordinato), vuoi per fatti concludenti ' dell'esercizio del
suddetto potere direttivo di ripetuta specificazione della prestazione lavorativa richiesta
in adempimento delle obbligazioni assunte dal prestatore stesso.
La P.A. che venga a conoscenza di illeciti di un dipendente prima del processo penale deve procedere subito in sede disciplinare
Valentino T. maresciallo dei vigili urbani del Comune di Campofilone, a seguito di lamentele da parte di alcuni cittadini è stato denunciatonel 1998 dal sindaco all'autorità
giudiziaria per fatti di concussione e millantato credito. Esauritesi le indagini egli
è stato rinviato a giudizio per tali reati. Il Comune, quando ha avuto notizia del rinvio a
giudizio, ha sospeso, in via cautelare, il maresciallo dal servizio. Il processo penale si è
concluso con una condanna, che è divenuta irrevocabile il 4 marzo 2003. Il Comune, con
atto emesso dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari e notificato il 25 giugno
2003, ha contestato al maresciallo, sotto il profilo disciplinare, i fatti per i quali egli era
stato condannato e successivamente lo ha licenziato. Valentino T. ha impugnato il licenziamento
davanti al Tribunale di Ancona, sostenendo, tra l'altro, che esso doveva ritenersi
illegittimo per la tardività della contestazione degli addebiti disciplinari, avvenuta
nel giugno 2003, mentre il Comune era a conoscenza dei fatti sin dal 1998. Il Tribunale ha
annullato il licenziamento per tardività dell'inizio del procedimento disciplinare. Questa
decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Ancona che ha ritenuto tempestiva la
contestazione degli addebiti perché la sentenza penale definitiva non era stata formalmente
comunicata al Comune; pertanto il termine per l'inizio del procedimento disciplinare
non poteva ritenersi decorso, sia nel caso di applicazione del termine originariamente
previsto dall'art. 20 della legge n. 97 del 2001 (120 giorni dalla comunicazione della sentenza
definitiva) sia ove si fosse tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n.
186 del 2004 (90 giorni dalla comunicazione della sentenza definitiva). Pertanto la Corte
di Ancona ha ritenuto legittimo il licenziamento. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Ancona per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che l'addebito disciplinare
possa essere contestato successivamente alla pronuncia della sentenza penale irrevocabile
soltanto quando l'Amministrazione sia venuta a conoscenza dei fatti solo a seguito
della comunicazione di tale sentenza. Pertanto la Corte ha cassato la sentenza impugnata
ed ha rinviato la causa per nuovo esame alla Corte d'Appello di Bologna, enunciando
per il giudice di rinvio, il seguente principio di diritto: «In caso di illeciti disciplinari commessi
anteriormente al vigore della legge 97 del 2001 la disposizione transitoria di cui all'art.
10 comma 3 della legge quale risulta a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale
e di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 184 del 2004, in base alla
quale il termine di novanta giorni per avviare il procedimento disciplinare decorre dalla comunicazione
della sentenza penale, non trova applicazione quando l'amministrazione sia
venuta a conoscenza dei fatti prima di detta comunicazione, nel qual caso essa è tenuta
ad avviare tempestivamente il procedimento, eventualmente sospendendolo nel caso di
instaurazione del giudizio penale. Il giudice del merito accerterà quindi, in base alle risultanze
di causa, quando il Comune di Campofilone abbia avuto conoscenza dei fatti poi
contestati a Valentino T., dando adeguata giustificazione del risultato di tale indagine, e
valuterà , rispetto al momento cosà individuato, la tempestività della contestazione e la
conseguente legittimità del licenziamento.»
Non è dato ' ha osservato la Corte ' affermare che il solo fatto che l'illecito del dipendente
di una pubblica amministrazione rivesta carattere penale sia idoneo a modificare radicalmente
lo stesso potere di recesso disciplinare del datore di lavoro, del quale l'immediatezza
della contestazione è, per giurisprudenza costante, elemento costitutivo.
La legge n. 97/2001 ' ha concluso la Corte ' non somministra di per sé argomenti per ritenere
che l'amministrazione possa indebitamente differire l'apertura del procedimento
disciplinare, una volta venuta a conoscenza dei fatti che lo giustifichino.
Se privisto dal contratto il lavoratore va sentito su eventuali ragioni personali/familiari ostative prima del trasferimento
Gennaro C. dipendente dalla società di assicurazioni Commercial Union, è stato trasferito,nel 1998 da Napoli a Firenze. Egli ha chiesto al Pretore di Napoli l'annullamento
del trasferimento, sostenendo che esso doveva ritenersi illegittimo perché
l'azienda, in violazione dell'art. 60 del contratto collettivo nazionale, non gli aveva dato
la possibilità di esporre le ragioni personali e familiari di particolare gravità ostative
al trasferimento. Il Pretore ha rigettato la domanda. In grado di appello il Tribunale
di Napoli ha invece annullato il trasferimento, in quanto ha ritenuto che in base all'art.
60 del ccnl l'azienda fosse tenuta a richiedere al lavoratore, prima di decidere il trasferimento,
se sussistevano ragioni personali o familiari che si frapponevano al cambiamento
del luogo di lavoro. La società ha proposto ricorso per cassazione sostenendo
che il Tribunale non aveva correttamente interpretato la clausola contrattuale, secondo
il suo testo letterale (come previsto dall'art. 1362 cod. civ.) in quanto questa doveva
intendersi riferita a situazioni già a conoscenza dell'azienda e non comportava
pertanto l'onere di un previo interpello del lavoratore.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Nella specie ' ha osservato la Corte ' non è configurabile
alcuna violazione delle regole di ermeneutica contrattuale atteso che appare del
tutto conforme a logica, correttamente motivata e certamente non lesiva del criterio di cui
all'art. 1362 cod. civ., la conclusione del giudice del gravame che, nell'interpretare la norma
collettiva (art. 60 Ccnl), ai sensi della quale, ai fini dell'adozione di un provvedimento di
trasferimento, «l'impresa terrà conto di situazioni oggettive di particolare gravità del lavoratore/
trice», ha ritenuto che essa imponga al datore di lavoro un obbligo di collaborazione
consistente nel consentire al dipendente di esporre, prima di attuare il trasferimento, le
ragioni ostative dello stesso (ove sussistenti). La contraria interpretazione suggerita dalla
società ricorrente, secondo la quale la norma citata farebbe riferimento unicamente alle situazioni
familiari e personali a conoscenza dell'azienda ' ha affermato la Corte ' renderebbe
l'applicazione della stessa del tutto aleatoria, in quanto affidata alla casuale conoscenza,
da parte dell'azienda, di situazioni familiari e personali del lavoratore, ed appare pertanto
certamente non conforme al criterio di cui al citato art. 1362 cod. civ.
Una consulenza medico legale per accertare l'attendibilità di certificati di malattia può essere disattesa dal giudice
Antonio S. dipendente della Spa Bistefani, con qualifica di quadro, è stato trasferito,nel maggio del 2000, da Santa Maria Capua Vetere a Villanova Monferrato. Egli
ha impugnato il trasferimento, sostenendo che non era giustificato da ragioni organizzative
e che aveva comportato una dequalificazione, in quanto nella nuova sede di lavoro egli
era stato destinato alle mansioni di venditore, mentre in precedenza egli aveva svolto
compiti direttivi di «district manager», preposto a più addetti alle vendite. La causa, iniziata
davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, è stata trasferita, per ragioni di
competenza territoriale, davanti al Tribunale di Torino. L'azienda si è difesa sostenendo
che nella lettera di assunzione era prevista la possibilità di impiegare il lavoratore in due
sedi: Santa Maria Capua Vetere e Villanova Monferrato e che le nuove mansioni assegnategli
dovevano ritenersi equivalenti a quelle precedenti, per l'importanza del settore cui egli
era stato destinato. Durante il giudizio il lavoratore si è assentato per malattia, che ha
giustificato inviando all'azienda certificati medici. L'azienda ha contestato la validità di tali
certificati, rilasciati, da ultimo l'8 e il 28 giugno 2000, osservando, tra l'altro, che l'esistenza
malattia doveva escludersi dal momento che, per assistere a un'udienza della causa
di lavoro relativa al trasferimento, Antonio S. si era sobbarcato a una faticosa trasferta
da Santa Maria Capua Vetere a Torino. Dopo avere sottoposto il lavoratore a procedimento
disciplinare l'azienda lo ha licenziato per assenza ingiustificata. Il licenziamento è
stato impugnato dal lavoratore davanti al Tribunale di Torino che ha riunito la causa a
quella relativa al trasferimento. Il lavoratore ha prodotto nuovi certificati medici, relativi a
due accertamenti fiscali compiuti dall'Inps nel settembre 2000 ed attestanti il persistere
della malattia (stato ansioso depressivo). Il Tribunale di Torino ha nominato un consulente
tecnico medico legale che ha escluso l'esistenza della malattia accertata dai certificati
medici nel periodo in cui il lavoratore si era recato a Torino per assistere ad una udienza
della causa di trasferimento. In base a tale valutazione il Tribunale ha affermato la legittimità
del licenziamento, escludendo conseguentemente la necessità di pronunciarsi sulla
legittimità del trasferimento. La Corte d'Appello di Torino ha integralmente riformato la
decisione di primo grado, osservando che i risultati della consulenza tecnica dovevano ritenersi
inattendibili perché essa era stata svolta tre anni dopo la malattia oggetto di giudizio
e che i certificati prodotti erano idonei a giustificare l'assenza; essa ha inoltre rilevato
che, presenziando all'udienza davanti al Tribunale di Torino, il lavoratore aveva esercitato
un suo diritto. Pertanto la Corte ha ritenuto ingiustificato il licenziamento e lo ha annullato;
essa ha dichiarato anche l'illegittimità del trasferimento osservando che doveva
escludersi la possibilità , per l'azienda, di impiegare, a sua discrezione, il lavoratore in Villanova
Monferrato. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che la sentenza impugnata
sia stata adeguatamente e correttamente motivata. Per quanto concerne in particolare
l'accertamento della malattia, la Cassazione ha affermato che rientra nel potere del giudice
di disattendere motivatamente i risultati di una consulenza tecnica. Sul punto, nella
motivazione della sentenza della Suprema Corte, si legge quanto segue: «Si addebita alla
sentenza impugnata di aver disatteso immotivatamente le conclusioni del consulente
tecnico di ufficio e di aver valorizzato invece le risultanze di due accertamenti fiscali, per
ritenere Antonio S. inidoneo a rendere la propria prestazione lavorativa l'11 luglio 2000,
giorno in cui era si era recato da Santa Maria Capua Vetere a Casale Monferrato per assistere
all'udienza del processo che lo riguardava, facendo subito dopo ritorno nella propria
città e sobbarcandosi alle fatiche del viaggio, il che contraddiceva la ritenuta impossibilità
di lavorare. In tal modo la Corte avrebbe sostanzialmente svuotato di contenuto il principio,
più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità , secondo cui il datore di lavoro
può sempre contestare in giudizio le risultanze dei certificati medici inviatigli dal lavoratore.
L'ammissibilità di tale contestazione rende infatti necessario per il giudice l'esame
del contenuto della consulenza tecnica d'ufficio, senza che egli possa, a prescindere da
tale esame, formulare un giudizio di maggiore attendibilità circa i risultati degli accertamenti
fiscali. Il motivo è infondato. Rientra nel potere discrezionale del giudice disattendere
le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio ' senza dover disporre un'ulteriore
perizia ' purché egli disponga di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da
presunzioni e da nozione di comune esperienza sufficienti a dar conto della decisione adottata,
la quale può esser censurata in sede di legittimità solo ove la soluzione scelta non
risulti sufficientemente motivata (Cass. 4 gennaio 2002 n. 71). La presenza dei suddetti elementi
e cognizioni, integrate nei modi anzidetti e sufficienti a dar conto della decisione
adottata, consente al giudice anche di non disporre la Ctu, sempreché la soluzione scelta
risulti adeguatamente motivata. Quindi la tesi sostenuta nel motivo in esame non è condivisibile
nella sua assolutezza, non potendo affermarsi né che il giudice, in ogni caso, non
possa in base a quanto risulta dall'istruttoria ritenere che la patologia attestata dal certificato
prodotto dal lavoratore sussista, e che egli debba invece necessariamente verificarla
mediante consulenza, né che le conclusioni del consulente debbano in ogni caso
prevalere su quelle delle certificazioni. Il problema si sposta dunque sulla motivazione del
giudizio conclusivo sulla malattia e sull'impedimento che ne deriva, anche in eventuale
dissenso della Ctu ove espletata. È agevole, allora, osservare che il giudice del merito nell'assegnare
credibilità ad una diagnosi effettuata in sede di accertamenti fiscali dell'Inps
a breve distanza dall'episodio, piuttosto che ad una Ctu effettuata a tre anni dallo stesso,
con riferimento ad una patologia, come sottolineato nella sentenza, di difficile accertamento
a distanza, non è incorso in vizio di motivazione non avendo violato alcuna regola
logica nell'utilizzare il criterio della prossimità dell'accertamento medico rispetto ad un
fatto non in grado di lasciare tracce permanenti.»
Il lavoratore divenuto fisicamente non idoneo può essere assegnato a mansioni inferiori solo con il suo consenso
È opportuno tornare anche su questa sentenza già segnalata in q. Riv. 2/2007, p. 8.Giovanni G., autista addetto alla guida di autoveicoli industriali pesanti, è stato sottoposto,
su richiesta della datrice di lavoro, ad accertamenti idoneità fisica presso una struttura
sanitaria pubblica. Egli è stato visitato da cinque specialisti (tra cui un cardiologo, un
medico del lavoro e un oculista) che lo hanno giudicato non idoneo alle mansioni svolte.
L'azienda lo ha conseguentemente licenziato. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento
davanti al Tribunale di Ragusa, sostenendo che il giudizio espresso dai sanitari della struttura
pubblica doveva ritenersi inattendibile perché non adeguatamente motivato. L'azienda
si è difesa sostenendo, tra l'altro, di avere offerto al lavoratore la possibilità di continuare
a lavorare con mansioni di custode. Il Tribunale, dopo avere nominato un consulente
tecnico che ha ritenuto il lavoratore idoneo alle mansioni di autista in precedenza
svolte, ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Giovanni G. nel posto
di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. In seguito ad impugnazione
proposta alla società , la Corte d'Appello di Catania ha nominato un collegio di periti per
un nuovo accertamento delle condizioni di salute del lavoratore. Il collegio, disattendendo
il giudizio espresso dal consulente tecnico nominato dal Tribunale, ha accertato la non
idoneità del lavoratore alle mansioni di autista di automezzi pesanti, in particolare per la
cardiopatia ischemica da cui egli era affetto. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione
censurando la decisione della Corte d'Appello, tra l'altro, per non avere verificato se
l'azienda fosse in grado di impiegarlo con mansioni diverse, anche di livello inferiore, compatibili
con le condizioni di salute. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la
sua giurisprudenza secondo cui il datore di lavoro ha l'obbligo di verificare se sussista la
possibilità di adibire ad altre mansioni, se pure di livello inferiore, il lavoratore diventato
non idoneo alle mansioni originariamente assegnategli, sempre che questi si dichiari disposto
ad accettare la dequalificazione, per evitare il licenziamento (Cass. n. 10574/2001,
n. 19686/2005, n. 10339/2000). Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' non risulta
che il Giovanni G. si sia dichiarato disposto ad accertare una eventuale proposta di assegnazione
a mansioni inferiori, né, per la verità , la circostanza viene da lui allegata; al contrario,
il datore di lavoro sostiene di avere offerto a Giovanni G. il posto di custode e di avere
chiesto di provare il fatto di avere manifestato a Giovanni G. l'offerta del posto di custode
e che né quest'ultimo né i sindacati di appartenenza, avevano dato alcun riscontro;
a ciò si aggiunga che il lavoratore non ha indicato quali sarebbero state le mansioni cui avrebbe
potuto essere adibito senza subire alcuna dequalificazione.
Il licenziamento per molestie sessuali può essere legittimo anche se il ccnl prevede una sanzione conservativa
La sentenza è già stata presa brevemente in esame in q. Riv. 2/2007, p. 8, ma è interessante approfondire il caso.Roberto P. è stato sottoposto a procedimento disciplinare
e licenziato con l'addebito di molestie sessuali per aver compiuto «avances» nei
confronti della responsabile amministrativa dell'azienda sua superiore gerarchica e per
essersi vantato con i colleghi di asseriti suoi rapporti di massima confidenzialità con la
medesima. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere,
sostenendo tra l'altro, che la sanzione inflittagli doveva ritenersi eccessiva
perché l'art. 33 del contratto collettivo per il personale non medico della casa di cura
prevedeva per le molestie sessuali soltanto sanzioni conservative (multa e sospensione).
Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro
ed ha condannato l'azienda al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Napoli ha
riformato questa decisione ed ha dichiarato legittimo il licenziamento, in quanto ha ritenuto
che la condotta del lavoratore fosse stata caratterizzata da elementi aggiuntivi, definiti
ulteriori e aggravanti, rispetto all'ipotesi di molestie sessuali previste dal contratto
collettivo. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato
il ricorso. Senza dubbio ' ha osservato la Corte ' allorché il contratto collettivo preveda
per determinati comportamenti del lavoratore sanzioni disciplinari conservative, il giudice
del merito, nel valutare la legittimità della sanzione applicata, deve attenersi alla previsione
contrattuale e non gli è consentito apprezzare la condotta del lavoratore come
causa che legittimi l'adozione del licenziamento da parte del datore di lavoro; tuttavia, per
escludere che il giudice possa discostarsi dalla previsione del Ccnl, è necessario che vi sia
integrale coincidenza fra la fattispecie contrattuale prevista e quella effettivamente realizzata,
restando per contro una diversa e più grave valutazione possibile (e doverosa)
quando la condotta del lavoratore sia caratterizzata da elementi aggiuntivi estranei (ed
aggravanti) rispetto alla fattispecie contrattuale. Nella specie ' ha affermato la Cassazione
' la Corte territoriale, ha evidenziato la sussistenza di elementi ulteriori e aggravanti rispetto
alla previsione contrattuale, individuati oltre che nella grossolanità delle molestie,
nell'avere millantato ripetutamente ed insistentemente una massima confidenzialità ed una
intima conoscenza con una dottoressa, sua superiore gerarchica, ed alla presenza di
colleghi della stessa, tra cui il direttore sanitario, nella divulgazione degli episodi all'interno
della casa di cura ove operavano numerosi altri dipendenti, nella dichiarata intenzione
di rivelare al legale rappresentante della clinica fatti compromettenti della predetta
dottoressa, comportamenti ritenuti, con motivazione congrua, di attitudine gravemente
offensiva e lesiva della dignità della persona offesa. Coerente con queste argomentazioni
' ha affermato la Suprema Corte ' è la conclusione che la sentenza impugnata ha tratto
circa la irreparabilità della lesione dell'elemento fiduciario del rapporto di lavoro, per cui
la casa di cura non poteva più avere alcuna affidabilità nel lavoratore per il regolare svolgimento
dell'attività aziendale.
Le garanzie procedurali previste dall'art. 7 Stat. Lav. devono applicarsi anche per il licenziamento del dirigente
Marco M., dipendente della Spa Acquedotto pugliese con la qualifica di dirigentee l'incarico di «responsabile dell'unità di staff dell'amministratore unico», è stato licenziato
in tronco nel dicembre del 2000, con motivazione riferita alla fruizione, da parte sua,
di ospitalità in un albergo salentino, a spese di un'azienda titolare di contratto di appalto
con l'Acquedotto. Egli si è rivolto al Tribunale di Bari sostenendo che il licenziamento doveva
ritenersi illegittimo per violazione dell'art. 7 Stat. lav., in quanto esso non era stato
preceduto dalla contestazione dell'addebito ed era stato intimato senza dargli la possibilità
di difendersi; nel merito egli ha affermato di essersi comportato correttamente, senza
recare alcun pregiudizio all'azienda. Ciò premesso egli ha chiesto in via principale la dichiarazione
di nullità del licenziamento e la condanna della società al ripristino del rapporto
di lavoro; in via subordinata l'accertamento della «ingiustificatezza» del licenziamento
e la condanna dell'azienda al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso e
dell'indennità supplementare prevista dal contratto collettivo nazionale per i dirigenti. Il
Tribunale ha rigettato il ricorso. La Corte d'Appello di Bari ha confermato questa decisione
in quanto ha escluso che la violazione dell'art. 7 potesse comportare l'invalidità del licenziamento,
ed ha ritenuto fondata la motivazione del provvedimento. Il dirigente ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Bari per violazione
e falsa applicazione dell'art. 7 Stat. lav. nonché della normativa di legge sui licenziamenti
individuali, sostenendo che egli aveva diritto alla tutela reintegratoria e risarcitoria
in quanto dirigente non apicale. Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni Unite della Suprema
Corte in considerazione del contrasto determinatosi, nell'ambito della sezione lavoro,
sull'applicabilità dell'art. 7 Stat. lav. ai dirigenti e sulle conseguenze della violazione
di tale norma. La Suprema Corte hanno parzialmente accolto il ricorso, affermando il
seguente principio di diritto: «Le garanzie procedimentali dettate dall'art. 7, commi 2 e 3,
della legge 20 maggio 1970 n. 300 devono trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento
di un dirigente ' a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume
nell'impresa ' sia che il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento
negligente (o in senso lato colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque,
condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia. Dalla violazione di dette garanzie, che
si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l'applicazione
delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento
privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici
assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da
quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito
disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso». La Corte ha ritenuto
che sia stata accertata in giudizio l'effettività della posizione dirigenziale di Marco M. per
l'elevata funzione da lui svolta ed ha quindi escluso l'applicabilità delle tutele normative
previste dalle leggi n. 604/66 e dell'art. 18 Stat. lav. in materia di licenziamenti individuali,
mentre ha affermato il suo diritto a percepire l'indennità prevista dal contratto collettivo
per i dirigenti industriali in caso di licenziamento ingiustificato. Le Sezioni Unite, rilevata
la necessità di nuovi accertamenti di fatto, per quanto attiene alle pretese economiche
avanzate da Marco M., hanno rimesso la causa alla Corte di Appello di Lecce.
L'atto di nomina è sufficiente a costituire validamente il rapporto di lavoro del direttore amministrativo di una Usl
L'azienda Usl BA/2 nel gennaio 1997 ha nominato direttore amministrativo Pietro D. per un quinquennio, ma nel febbraio del 1998 ha revocato l'incarico.Il dirigente
ha chiesto al Tribunale di Trani di condannare l'azienda al risarcimento del danno
per mancato rispetto della durata quinquennale dell'incarico. L'azienda si è difesa sostenendo,
tra l'altro, che il conferimento dell'incarico doveva ritenersi nullo perché non
risultava da un contratto sottoscritto da entrambe le parti. Essa ha invocato gli articoli 16
e 17 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 (disposizioni sull'amministrazione del patrimonio
e sulla contabilità generale dello Stato) secondo cui, in base alla costante giurisprudenza
della Suprema Corte, per la validità del conferimento di un incarico da parte della
pubblica amministrazione a un professionista è necessaria la redazione e la sottoscrizione
di un unico scritto da parte del legale rappresentate dell'ente e del professionista
e la conclusione del contratto non può desumersi da atti interni con cui sia stata deliberata
la stipulazione del medesimo e separati atti di accettazione. La tesi dell'azienda è
stata accolta in grado di appello, dalla Corte di Bari che ha ritenuto fondata l'eccezione
di nullità del conferimento dell'incarico per mancanza della forma scritta. Il dirigente ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Bari per vizi di
motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto
inapplicabile la disciplina generale dei contratti della pubblica amministrazione,
in considerazione della specialità del rapporto instaurato dalle aziende sanitarie con i direttori
generali, i direttori amministrativi e i direttori sanitari, che hanno la particolare
funzione di provvedere tali importanti organismi della pubblica amministrazione del rappresentate
legale investito di tutti i poteri di gestione e dei soggetti preposti al settore
amministrativo e a quello sanitario. La specialità delle funzioni e dei rapporti ' ha osservato
la Corte ' hanno fatto sà che la legge disciplini in maniera penetrante sia il contenuto
dei rapporti, sia i requisiti sostanziali e formali degli atti attinenti alla nomina, alla conferma,
alla revoca, ecc., e che, ai fini sia dell'instaurazione del rapporto che della sua risoluzione,
l'accento della normativa sia posto sugli atti unilaterali di nomina, revoca, ecc.
(cfr. artt. 1 e seguenti d.lgs. 502/1992 e successive modificazioni). Ne consegue, tra l'altro,
che ai fini della conclusione del contratto non sussistono quelle stesse esigenze formali
alla base della giurisprudenza prima richiamata, che trovano adeguata ampia soddisfazione
con riferimento all'atto di nomina. La Corte ha cassato la sentenza impugnata
e ha rinviato la causa, per nuovo esame alla Corte di Appello di Lecce, enunciando il seguente
principio di diritto: «La mancata sottoscrizione da parte del direttore generale di
un'azienda sanitaria locale e del direttore amministrativo da lui nominato di una specifica
convenzione contrattuale non determina la nullità del contratto di lavoro del direttore
amministrativo per vizio di forma, quando sussiste il previsto atto di nomina seguito dall'immissione
nelle funzioni e dallo svolgimento dell'incarico».
La banca non può attendere l'esito di un finanziamento irregolare per contrastare l'addebito della normativa regolamentare
Con ricorso depositato in data 10 giugno 1999, G. P. ha convenuto dinanzi al Tribunale di Avellino la Banca Popolare dell'Irpiniaesponendo di avere prestato il proprio
lavoro alle dipendenze della convenuta, dapprima quale impiegato e poi come preposto
ad una filiale; dopo anni di servizio caratterizzati da elogi e promozioni, dall'ottobre
1998 al marzo 1999 la banca gli rivolgeva una serie di contestazioni disciplinari, in esito alle
quali veniva licenziato per giusta causa. Egli ha impugnato tale licenziamento e ha chiesto
la declaratoria di illegittimità , sotto il profilo sia della contestazione tardiva, sia dell'infondatezza
degli addebiti. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ritenendo il licenziamento
giustificato. La Corte di Appello di Napoli in riforma della sentenza di primo grado,
ha dichiarato illegittimo il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione del lavoratore e ha
condannato il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni «medio tempore». Il giudice
di appello ha cosà motivato la sua decisione:
' gran parte delle contestazioni sono tardive, in ragione del lasso di tempo intercorso tra
la notizia del fatto e l'addebito;
' in particolare le contestazioni relative alle posizioni F. P. e F. G. sono tardive, in quanto
i fatti risalgono al gennaio-febbraio 1988, mentre l'addebito è stato formulato il 15 marzo
1999;
' tempestivo è l'addebito relativo alla posizione Norma T., alla quale venne consentito di
utilizzare immediatamente un assegno fuori piazza di lit. 42.300.000 per coprire una maggiore
esposizione: ma trattasi di episodio di per sé insufficiente a fondare un licenziamento
per giusta causa;
' gli addebiti relativi alla società M., cliente in sofferenza e particolarmente seguito, non
riguardano fatti addebitabili al solo G. (il Servizio clienti seguiva la pratica e il consiglio di
amministrazione autorizzava anticipi salvo buon fine per lit. 1.450.000.000), il quale ha omesso
di verificare la cessione di crediti sottostanti mediante scambio di corrispondenza;
' il fatto che il G. non abbia eseguito accantonamenti suggeriti dalla delibera del consiglio
di amministrazione non corrisponde ad una violazione, posto che era affidato a sua discrezione
di disporli, e che la banca aveva comunque deciso di elargire credito alla M. anche
dopo essere venuta a conoscenza delle mancanze dell'attore;
' rimane comunque il fatto che prima di contestare gli addebiti relativi alla M. la banca
ha atteso l'esito dei risultati negativi dei finanziamenti, il che rende intempestiva la contestazione;
' in definitiva, l'unico addebito tempestivo è quello relativo alla Toriello;
' il licenziamento si appalesa sproporzionato rispetto alla mancanza.
La banca ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Napoli
per vizio di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'indagine circa la tempestività della contestazione
e l'adeguatezza della sanzione disciplinare ' ha affermato la Corte ' è affidata al giudice
di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione; nella
specie ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di Appello, con adeguata motivazione, ha
ritenuto intempestive tutte le contestazioni, tranne quella relativa a Norma T.; ha ritenuto
eccessivo il ritardo col quale gli addebiti venivano contestati, tenuto conto delle date in
cui si può ritenere che la banca sia venuta a conoscenza di determinate vicende (ad es. i
protesti); ha ritenuto non sufficientemente grave la mancanza relativa alla posizione Norma
T. Si tratta ' ha affermato la Corte ' di questioni di merito, che il giudice di appello ha
risolto con apprezzamento in fatto, insuscettibile di riesame in sede di legittimità , in quanto
adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, talché essa si sottrae
alle censure proposte.
Le controversie relative al conferimento dell'incarico di dirigente medico devono essere proposte davanti al giudice ordinario
Lucio De., medico chirurgo, è stato incluso da una commissione giudicatrice nella rosa di candidati dichiarati idonei all'incarico di direttoredel reparto di chirurgia
plastica del centro per grandi ustionati dell'Azienda ospedaliera «A. Cardarelli» di Napoli.
Il direttore generale dell'azienda ha però disposto la sua esclusione da tale rosa per
ragioni di età ed ha assegnato l'incarico al candidato Roberto Da. Lucio De. ha impugnato
il provvedimento di esclusione davanti al Tribunale amministrativo regionale della Campania,
che ha accolto il ricorso. Contro questa decisione Roberto Da. ha proposto appello
davanti al Consiglio di Stato, sostenendo, tra l'altro, che la controversia avrebbe dovuto
essere decisa dal giudice ordinario e non da quello amministrativo. Il Consiglio di Stato ha
accolto l'appello, dichiarando la giurisdizione del giudice ordinario. La decisione del Consiglio
di Stato è stata impugnata da Lucio De. con ricorso per cassazione. Egli ha sostenuto
che, trattandosi di un pubblico concorso, la materia doveva ritenersi rientrante nella
giurisdizione del giudice amministrativo. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso confermando
la giurisdizione del giudice ordinario. Nella disciplina per il conferimento dell'incarico
di dirigente medico del secondo livello ' ha affermato la Corte ' non è presente alcun
elemento idoneo a ricondurre la stessa ad una procedura concorsuale, ancorché atipica:
nel sistema del d.lgs. n. 502 del 1992 e del d.P.R. n. 484 del 1997, viene demandato ad
un'apposita commissione il compito di verificare i requisiti di idoneità dei candidati alla
copertura dell'incarico, senza attribuire punteggi e senza formare una graduatoria, ma
semplicemente predisponendo un elenco di candidati, tutti idonei perché in possesso dei
requisiti di professionalità previsti dalla legge e delle capacità manageriali richieste in relazione
alla natura dell'incarico da conferire. Questo elenco viene sottoposto al direttore
generale dell'Azienda unità sanitaria locale, il quale, nell'ambito dei nominativi indicati
dalla commissione, conferisce l'incarico sulla base di una scelta di carattere essenzialmente
fiduciario, affidata alla sua responsabilità manageriale (art. 3, comma 1-quater,
d.lgs. n. 502 del 1992); né può attribuirsi rilievo, ai fini del riconoscimento della natura
concorsuale della procedura di cui si tratta, alla circostanza che del conferimento dell'incarico
debba essere dato preventivo avviso da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale, avendo
detto avviso la sola funzione di ampliare il campo dei soggetti tra i quali si deve operare
la scelta. Difetta, nella fattispecie ' ha osservato la Corte ' l'aspetto più qualificante della
procedura concorsuale, consistente nello svolgimento di prove selettive all'esito delle
quali viene formata la graduatoria finale, con l'individuazione del candidato vincitore del
concorso ed avente quindi diritto al posto. Spetta, invero, al direttore generale attribuire
l'incarico all'uno o all'altro degli idonei, con atto certamente adottato nell'esercizio delle
capacità e dei poteri del privato datore di lavoro, ai sensi dell'art. 5, d.lgs. n. 165 del 2001.
Dall'altra parte ' ha osservato la Corte ' gli atti organizzativi delle aziende sanitarie hanno
natura privatistica; secondo l'art. 3, comma 1-bis, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502,
nel testo attuale, in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le unità sanitarie
locali si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale;
la loro organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati con atto aziendale
di diritto privato, nel rispetto dei principi e criteri previsti da disposizioni regionali.
L'atto aziendale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnicoprofessionale,
soggette a rendicontazione analitica. E il comma 1-ter dello stesso articolo
aggiunge, nel contesto di disposizioni coerenti, che le aziende agiscono mediante atti di
diritto privato. Per le aziende ospedaliere-universitarie ' ha affermato la Corte ' analoga
previsione è contenuta nell'art. 3 comma 2, d.lgs. 23 dicembre 1999, n. 517, e nell'attuativa
normativa regolamentare statale (art. 5 comma 2, d.P.C.m. 24 maggio 2001, in Gazzetta
Ufficiale, 9 agosto, n. 184). Il carattere speciale delle disposizioni indicate, rafforzato
dall'epoca in cui sono stati introdotti i dati normativi specificati, esclude l'applicazione
della normativa generale, con la conseguenza che tutti gli atti organizzativi delle aziende
sanitarie vanno considerati di natura non autoritativa e privatistica.
L'impiegato ministeriale incaricato della reggenza di un ufficio ha diritto alle differenze per le mansioni superiori svolte
Carla M., dipendente del ministero della Giustizia inquadrata con la IX qualifica funzionale, ha svolto per cinque anni le mansioni superiori di primo dirigentedell'ufficio del giudice di pace, essendo stata nominata reggente di tale ufficio, in attesa
della copertura del posto rimasto vacante. Quando è stato nominato il nuovo titolare dell'ufficio,
sono cessate le sue funzioni di reggente. Nel marzo del 2001 ella ha chiesto al Tribunale
di Firenze di condannare il ministero a corrisponderle le differenze di retribuzione
per le mansioni superiori svolte. Il Tribunale ha dichiarato il suo difetto di giurisdizione per
il periodo sino al 30 giugno 98 ed ha condannato il ministero al pagamento di 41.000,00
euro a titolo di differenze retributive maturate nel periodo successivo. Questa decisione è
stata confermata dalla Corte d'Appello di Firenze con le seguenti argomentazioni: a) la funzione
vicaria rispetto al dirigente, attribuita all'impiegato inquadrato nell'ex IX qualifica
funzionale, poi area C3, presuppone che il posto sia coperto dal titolare, mentre nel caso
di specie il titolare dell'ufficio era stato nominato solo in data 17 ottobre 2000; b) sebbene
stipulato in data 19 febbraio 1999, il contratto collettivo di comparto, recante il nuovo sistema
di inquadramento del personale, trovava applicazione dal 1° gennaio 1998, giusta la
previsione specifica del suo art. 2, e questa era la data di decorrenza del diritto alla retribuzione
delle mansioni superiori, diritto contemplato dall'art. 56, comma 6, primo periodo,
d.lgs. 29/1993 nel testo introdotto dall'art. 15 d.lgs. 387/1998 (ora art. 52 d.lgs.
165/2001); c) la diversa previsione dell'art. 24, comma 4, dello stesso Ccnl, circa la necessità
della definizione da parte delle amministrazioni dei criteri relativi alla materia del conferimento
delle mansioni superiori per l'entrata in vigore della nuova disciplina delle mansioni
superiori, non poteva derogare la previsione legale. Il ministero della Giustizia ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Firenze per erronea interpretazione
della normativa collettiva applicabile e per violazione di legge. La Suprema
Corte ha rigettato il ricorso in quanto, tra l'altro, ha ritenuto infondata la tesi ministeriale
secondo cui tra le mansioni del personale appartenente alla nona qualifica funzionale erano
comprese le funzioni di reggenza dell'ufficio. La Corte ha comunque affermato che il
diritto del pubblico impiegato di essere compensato per lo svolgimento di mansioni superiori
non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell'assegnazione e
alla previsione dei contratti collettivi. Nella motivazione della sentenza della Suprema Corte
si legge, sul punto, quanto segue: «Infondata è la tesi secondo la quale la «reggenza»
dell'ufficio sarebbe compresa tra le mansioni della IX qualifica funzionale (poi C/3). Dispone
l'art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 ' Norme risultanti dalla disciplina prevista
dall'accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai ministeri
' che il personale appartenente alla nona qualifica funzionale, istituita dall'art. 2 del
decreto-legge 28 gennaio 1986, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo
1986, n. 78, espleta, tra l'altro, le funzioni di sostituzione del dirigente in caso di assenza
o di impedimento, nonché di reggenza dell'ufficio in attesa della destinazione del dirigente
titolare. L'interpretazione della norma, rispettosa del canone di ragionevolezza di cui all'art.
3 Cost. e dei principi di tutela del lavoro (art. 35 e 36 Cost.; art. 2103 cod. civ.; art. 52
d.lgs. 165/2001), è nel senso che l'ipotesi della reggenza costituisce una specificazione dei
compiti di sostituzione del titolare assente o impedito, contrassegnata anch'essa dalla
straordinarietà e temporaneità , come reso palese dall'espressione «in attesa della destinazione
del dirigente titolare». Di conseguenza, la reggenza dell'ufficio è consentita, senza
dar luogo agli effetti collegati allo svolgimento di mansioni superiori, allorquando sia
stato aperto il procedimento di copertura del posto vacante e nei limiti di tempo ordinariamente
previsti per tale copertura. Al di fuori di questa specifica ipotesi contemplata dalla
norma regolamentare, la reggenza dell'ufficio concreta svolgimento di mansioni dirigenziali
e correttamente il giudice del merito ne ha ritenuto la sussistenza con riguardo ad
una vacanza esistente fin dal 1995 e di nomina del dirigente soltanto nell'anno 2000. Né la
situazione è mutata per effetto della nuova classificazione del personale attuata dal Ccnl
del comparto ministeri 16 febbraio 1999 (all. A), le cui disposizioni, anzi, sono state interpretate
da questa Corte nel senso che non ricomprende tra le mansioni proprie del profilo
lavorativo relativo alla posizione economica «C3» le funzioni di reggenza della posizione
lavorativa dirigenziale. Tutte le restanti censure attengono, con le diverse argomentazioni
sopra riferite, al tema del diritto della M. ad essere retribuita per le mansioni superiori svolte.
La giurisprudenza della Corte ha già scrutinato la questione con riguardo al periodo precedente
l'entrata in vigore della disposizione ora recata dall'art. 52 d.lgs. 165/2001 (art. 56
del d.lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall'art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998 e successivamente
modificato dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998), con specifico riferimento alla previsione,
del comma 5 (Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l'assegnazione del
lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la
differenza di trattamento economico con la qualifica superiore). È stato enunciato il principio
di diritto secondo il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione
della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal comma 6 dell'art.
56 del d.lgs. n. 29 del 1993 come modificato dall'art. 25 del d.lgs. n. 80 del 1998, è
stato soppresso dall'art. 15 del d.lgs. n. 387 del 1998 con efficacia retroattiva, atteso che
la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di
carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le
norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e
quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all'intero periodo
transitorio. In mancanza di ragioni nuove e diverse, opera il principio di fedeltà ai precedenti,
sul quale si fonda, per larga parte, l'assolvimento della funzione ordinamentale e, al
contempo, di rilevanza costituzionale, di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione
della legge nonché l'unità del diritto oggettivo nazionale affidata alla Corte di
cassazione. La portata retroattiva della disposizione risulta, peraltro, conforme alla giurisprudenza
della Corte costituzionale, che ha ritenuto l'applicabilità anche nel pubblico impiego
dell'art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione
proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente
intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto
con i principi costituzionali. Al principio enunciato consegue che il diritto ad essere
compensato per lo svolgimento di mansioni superiori (nella misura stabilita specificamente
dalla legge, pari alla differenza di retribuzione con la qualifica cui corrispondono le mansioni
svolte di fatto) non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità dell'assegnazione
e alle previsioni dei contratti collettivi.»
Una relazione ispettiva basata su notizie di informatori non identificati non ha validità probatoria
Sergio G. gestore di una mensa aziendale è stato licenziato con l'addebito, tra l'altro, di avere fatto pagare ad avventori esterni, per il pasto,anziché 8.000 lire
come stabilito dall'azienda, la minor somma di 5.000 lire, e di avere trattenuto per sé
quanto incassato, senza registrarlo. Egli ha impugnato il licenziamento, davanti al Tribunale
di Napoli, contestando l'addebito. L'azienda si è difesa producendo la relazione di
due suoi ispettori, basate su informazioni da loro ottenute interpellando alcuni avventori
non identificati. Gli ispettori, sentiti come testi, hanno confermato la relazione. Il Tribunale
ha rigettato il ricorso del lavoratore. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello
di Napoli, che ha annullato il licenziamento. La Corte ha ritenuto che la relazione ispettiva
non fosse idonea a provare la fondatezza dell'addebito, in quanto riferiva informazioni
rese da persone non identificate. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Napoli abbia
validamente motivato la sua decisione escludendo la validità probatoria delle deposizioni
rese dai due ispettori. I testi ' ha osservato la Corte ' hanno riferito solo informazioni
de relato non controllabili, perché nessun avventore esterno è stato mai identificato.
La falsa registrazione di presenza può essere ritenuta non sufficiente a giustificare il licenziamento
Gennaro B. dipendente della Srl Ristop con mansioni di responsabile di filiale è stato licenziato, nell'aprile del 1998,con l'addebito di avere sottoscritto la scheda di
presenza del giorno di Pasqua, pur non avendo lavorato. Egli ha impugnato il licenziamento
davanti al pretore di Avellino sostenendo tra l'altro che, anche se non era stato presente
la domenica di Pasqua, egli aveva lavorato il giorno successivo, per oltre 20 ore, dalle
2,45 alle 21,30. Sia il pretore che la Corte d'Appello di Napoli hanno ritenuto illegittimo
il licenziamento, in quanto hanno escluso che la condotta tenuta dal lavoratore fosse idonea
a far venire meno la base fiduciaria del rapporto. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la sentenza della Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione
di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte napoletana ' ha osservato
la Cassazione ' ha accertato la sussistenza della violazione contestata ma, in considerazione
del notevole impegno lavorativo espletato nella successiva giornata del lunedà,
ha ritenuto che l'illecito, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo, non fosse tale
da compromettere in modo grave il necessario livello di fiducia esigibile da chi ricopriva il
delicato incarico di preposto ad una filiale dell'azienda; non meritasse, quindi, la massima
sanzione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo. Si tratta ' ha concluso
la Corte ' di un apprezzamento di fatto congruamente motivato, avverso il quale la
Ristop oppone una diversa valutazione, come tale inammissibile in questa sede.
Il lavoratore ha diritto ad accedere ai dati personali detenuti dal datore di lavoro
Un lavoratore riceveva numerose lettere di contestazione disciplinare aventi ad oggetto presunti comportamenti ritenuti difformi rispetto agli obblighi contrattualigravanti sull'interessato in qualità di impiegato addetto al «call center-ufficio
anagrafica». In particolare, secondo la società , l'interessato non avrebbe prestato diligentemente
assistenza telefonica ai fornitori esterni, ad esempio, non rispondendo a numerose
chiamate inoltrate al suo recapito telefonico, oppure facendo cadere deliberatamente
la linea (in una circostanza, tali disservizi sarebbero stati segnalati anche dal centralino
aziendale) o lasciando in attesa i fornitori per diverso tempo o commentando a voce
alta (e senza chiudere la comunicazione) la richiesta rivoltagli da un fornitore con l'uso
di espressioni irriguardose, ecc. Il lavoratore chiedeva, ai sensi degli artt. 7 e 8 del codice
in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. n. 196/2003), di conoscere gli estremi
del recapito telefonico che è stato a lui associato, cui si faceva riferimento in una lettera
di contestazione, nonché di conoscere l'origine e le modalità di trattamento dei dati personali
che lo riguardano. Al rifiuto dell'azienda egli proponeva ricorso ai sensi dell'art. 145
del codice in relazione all'origine dei dati, l'interessato ha chiesto inoltre di conoscere le
fonti dalle quali la società avrebbe appreso gli episodi contestati, chiedendo di sapere se
ciò è avvenuto tramite «apparecchiature di controllo a distanza dell'attività lavorativa»,
oppure grazie all'intervento di persone fisiche (chiedendo in tal caso l'indicazione dell'identità
dei segnalanti. Il ricorrente ha infine chiesto di conoscere «sulla base di quali modalità
di trattamento egli sia stato individuato responsabile degli episodi». La società resisteva
osservando che «il trattamento dei dati oggetto del ricorso [â?¦] è volto esclusivamente
a far valere e/o difendere in sede giudiziaria» i propri diritti. La società ha inoltre
sostenuto che il pregiudizio derivante dalla comunicazione dei dati per l'esercizio dei propri
diritti in sede giudiziaria «sarebbe ampiamente comprovato dalla documentazione
presentata» con il ricorso. L'Autorità ha obbligato la società a comunicare, per ciascuna
delle contestazioni disciplinari, l'origine dei dati e le modalità del loro trattamento, anche
chiarendo in modo inequivocabile che le fonti e le modalità già indicate sono comuni a tutti
i singoli episodi. Secondo il Garante se la società è tenuta a comunicare il numero dell'utenza
telefonica richiesto dal lavoratore questi non ha diritto a conoscere l'identità dei
fornitori e dei dipendenti della società resistente che avrebbero effettuato le segnalazioni
poste a base delle contestazioni disciplinari. Il titolare del trattamento può legittimamente
soddisfare la richiesta di conoscere l'origine di tali dati indicando solo i ruoli, le categorie,
gli uffici aziendali da cui sono provenute le segnalazioni in questione, senza indicare
anche l'identità delle persone fisiche che materialmente le hanno effettuate. Ai sensi
dell'art. 7 del codice, ha sottolineato l'Autorità , l'interessato ha infatti il diritto di conoscere
l'origine dei dati che lo riguardano, ma non anche quello di accedere ai dati personali
riferiti a terzi.
Regolamento trattamento dati sensibili e giudiziari dell'Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori
L'Istituto per lo sviluppo della formazione, al pari degli altri soggetti pubblici, può trattare i dati sensibili e giudiziari,in base ad un'espressa disposizione di legge
nella quale siano specificati i tipi di dati, le operazioni eseguibili e le finalità di rilevante
interesse pubblico perseguite. In presenza di una disposizione primaria che si limiti a
specificare solo la finalità di rilevante interesse pubblico, è necessario identificare e rendere
pubblici i tipi di dati sensibili o giudiziari, nonché le operazioni eseguibili in relazione
alle finalità perseguite nei singoli casi al fine di rendere legittimo il trattamento (art. 20
del codice). Relativamente al trattamento per finalità di rilevante interesse pubblico l'Autorità
ha rilevato che il trattamento di dati giudiziari effettuato nel quadro della gestione
di gare ed appalti trova già compiuta disciplina nell'apposita autorizzazione generale del
Garante (aut. n. 7/2005 al trattamento dei dati a carattere giudiziario da parte di privati,
di enti pubblici economici e di soggetti pubblici). Le operazioni di interconnessione, rientrando
tra quelle che possono spiegare effetti maggiormente significativi per gli interessati,
devono essere delimitate rigorosamente in conformità al principio di indispensabilità ,
ed essere meglio evidenziate individuando, in caso di raffronti e di interconnessioni
aventi ad oggetto banche dati di altri titolari del trattamento, la base normativa che le autorizza
(art. 22, commi 9 e 11, del codice). Ciò, con particolare riferimento alle operazioni
di interconnessione e di raffronto con gli archivi degli uffici giudiziari, prefetture e uffici
provinciali per l'impiego rispetto alle quali va rivalutata l'indispensabilità di tale operazione,
considerato che l'«interconnessione» evidenzia, in sostanza, una relazione tra sistemi
informativi reciprocamente accessibili a date condizioni. Ha poi rilevato il Garante
che l'operazione di comunicazione verso «altri soggetti pubblici o comunitari per rendicontazione
di progetti finanziati», prevista nell'ambito della gestione e instaurazione dei
rapporti di lavoro, è indicata in modo generico, senza specificare le basi normative eventualmente
esistenti, oltre che l'effettiva indispensabilità .
Corsi di formazione professionale nella Regione Puglia
L'Autorità Garante ha evidenziato le restrizioni della concorrenza derivanti dall'articolo 2 del Regolamento della Regione Puglia n. 13 del 23 dicembre 2004,recante «Modalità di autorizzazione e finanziamento dei centri di assistenza», nonché dall'articolo
2 del Regolamento regionale n. 14 del 23 dicembre 2004 recante «Modalità di organizzazione,
durata e materie dei corsi professionali». La legge regionale 11 agosto 2003,
n. 11, recante «Nuova disciplina del commercio», all'articolo 22 comma 2, prevede che: «Al
fine di sviluppare i processi di ammodernamento della rete distributiva, possono essere istituiti
centri di assistenza tecnica alle imprese, costituiti, anche in forma consortile, dalle
associazioni di categoria maggiormente rappresentative del settore a livello provinciale e
da altri soggetti interessati». In attuazione del suddetto articolo 22, l'articolo 2 del Regolamento
regionale n. 13/2004 ha stabilito che i Centri di assistenza tecnica possano essere
costituiti anche in forma consortile dalle organizzazioni di categoria degli operatori
commerciali maggiormente rappresentative a livello provinciale e presenti nel Cnel e dalle
Camere di commercio, anche attraverso la loro Unione regionale. La norma regionale
non individua particolari limitazioni per coloro che potranno costituire i Centri di assistenza
tecnica, limitandosi a prevedere che questi possano essere costituiti non solo da
associazioni di categoria maggiormente rappresentative del settore a livello provinciale
ma anche da altri soggetti interessati. La disposizione normativa in questione, consentirebbe
quindi ad una pluralità di organismi interessati di offrire alle imprese commerciali
l'assistenza tecnica consistente in svariate attività tra cui la formazione professionale. Diversamente
da quanto stabilito dalla legge regionale, invece, il regolamento n. 13/2003 limita
la possibilità di costituire i Centri di assistenza tecnica alle Camere di Commercio ed
alle organizzazioni di categoria presenti nel Cnel. Conseguentemente, la disposizione normativa
riduce in modo artificioso il numero dei soggetti che potranno offrire il servizio, con
effetti anche sulle possibilità di scelta dell'utente finale.Neppure può essere invocata per
giustificare la previsione dell'adesione al Cnel, osserva l'Autorità , la necessità per l'amministrazione
regionale di assicurare elevati standard qualitativi. Si osserva infatti che standard
di qualità delle prestazioni non potrebbero essere stabiliti a priori tenendo esclusivamente
conto delle caratteristiche possedute da un'organizzazione, per un corretto funzionamento
del mercato, sarebbe auspicabile una normativa regionale la quale, piuttosto
che individuare direttamente i soggetti che potranno costituire i Centri di assistenza tecnica,
si limitasse ad indicare i requisiti minimi nonché criteri di valutazione oggettivi e trasparenti,
per consentire al maggior numero di soggetti, una volta offerte garanzie di competenze
professionale e di capacità gestionale e logistica, di svolgere, previo accreditamento,
i servizi di assistenza alle imprese commerciali. In conclusione, l'Autorità auspica
un riesame della normativa al fine di adeguarla ai principi della concorrenza.
Tabella di valutazione dei titoli da utilizzare nei confronti del personale docente ed educativo
L'Autorità Garante ha segnalato la situazione distorsiva della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato derivante dal decreto ministeriale 15 marzo 2007,n. 27 con il quale è stata approvata la tabella di valutazione dei titoli, da utilizzare
nei confronti del personale docente ed educativo, inserito nella terza fascia delle
graduatorie ad esaurimento, di cui all'articolo 1, comma 605 della legge n. 296 del 27 dicembre
2006. Se da un lato, in materia di formazione per il personale della scuola, il d.m.
n. 177/200 e la direttiva n. 90/2003, consentono una pluralità di offerte formative da parte
di soggetti qualificati come le università e di soggetti accreditati, senza alcuna distinzione,
dall'altro, la lettera c) intitolata «Altri titoli» della tabella approvata con il d.m. n.
27/2007, attribuisce specifici punteggi ai corsi universitari ma non riconosce alcun punteggio
ai corsi di formazione realizzati dai soggetti accreditati. Secondo l'Autorità se al
soggetto accreditato non può essere riconosciuta la possibilità di rilasciare attestati a cui
l'amministrazione attribuisce un punteggio, l'accreditamento rimarrebbe un mero atto
formale al quale non si può accompagnare la possibilità di svolgere in concreto l'attività
formativa in concorrenza con gli altri operatori del mercato. Ciò comporterebbe restrizioni
della concorrenza, in quanto la domanda di formazione del personale della scuola finisce
per indirizzarsi esclusivamente verso quei soggetti, come le università , in grado di rilasciare
attestati con punteggio. Conseguentemente, viene limitato l'accesso al mercato
della formazione a quei soggetti che, pur ritenuti idonei dall'amministrazione allo svolgimento
dell'attività formativa, non possono, tuttavia, rilasciare attestati con un punteggio.
Infine, la situazione delineata dal d.m. n. 27/2007, non sembra neppure garantire e tutelare
gli utenti finali che dovendo accedere ad un'offerta formativa risultano privati della
possibilità di scelta tra una vasta gamma di prodotti formativi e tra una pluralità di soggetti
qualificati. Infatti, il raffronto concorrenziale tra più operatori offre garanzia per l'utente
finale in termini di prezzo e qualità del servizio e nello stesso tempo incentiva l'efficienza
produttiva ed organizzativa delle imprese.
Blocco dei varchi di ingresso
Alcune organizzazioni sindacali sono state sanzionate dalla Commissione per la violazione dell'art. 6 del codice di autoregolamentazione degli autotrasportatoriin conto terzi in base al quale «la proclamazione della protesta non dovrà prevedere
l'effettuazione di blocchi stradali o di iniziative già sancite e sanzionate dal codice della
strada in materia di circolazione stradale». Nel caso di specie le Associazioni degli autotrasportatori
interessate dal procedimento avevano proclamato la «sospensione dei servizi
di trasporto merci su strada» comunicando ai propri iscritti che «i varchi ai terminal genovesi
verranno presidiati e si consiglia a chiunque non voglia partecipare alle nostre iniziative
di starsene a casa». In effetti dinanzi agli accessi ai varchi del porto di Genova si erano
radunati alcuni autotrasportatori, che abbandonavano i propri mezzi davanti alle entrate
dei terminal, impedendone l'accesso. Dall'accertamento della violazione del codice
di autoregolamentazione è derivata l'emissione della sanzione.
Successione nell’appalto – Obbligo di riassunzione dei lavoratori da parte dell’impresa subentrante – Riconoscimento
Congedi parentali – Permesso giornaliero per allattamento – Spetta al padre anche se la madre è lavoratrice autonoma
Regolamentazione del settore della vigilanza privata
L'Autorità Garante ha formulato alcune osservazioni in merito alla regolamentazione del settore della vigilanza privatacon specifico riferimento all'accesso e alle
modalità di esercizio di tale attività . La vigente regolamentazione delle attività di vigilanza
privata risulta sotto diversi aspetti ' osserva l'Autorità ' ingiustificatamente limitativa,
come ritiene anche la Commissione Ce che ha recentemente avviato una procedura
di infrazione nei confronti dello Stato italiano per violazione da parte degli articoli 43 e 49
del Trattato Ce. Infatti, lo svolgimento di servizi di vigilanza è caratterizzato da una pluralità
di strumenti di regolamentazione, che incidono e limitano diversi aspetti dell'attività ,
quali le condizioni di entrata, l'impiego dei fattori produttivi, le caratteristiche del servizio
ed i comportamenti di prezzo. In particolare, la licenza indica i servizi che possono essere
prestati dall'istituto e ne delimita l'ambito territoriale di operatività , reca l'approvazione
dell'assetto aziendale, relativamente all'organico e ai principali beni e risorse con cui l'attività
viene esercitata; essa contiene altresà l'approvazione della tariffa massima e spesso
anche della tariffa minima; infine, il rilascio della licenza, può essere negato in considerazione
del numero o dell'importanza degli istituti già esistenti o per ragioni di sicurezza
pubblica o di ordine pubblico. Pur dichiarandosi consapevole dell'importanza delle esigenze
di sicurezza e di ordine pubblico che giustificano la regolamentazione del settore
della vigilanza privata e l'attribuzione ai prefetti di un potere di valutazione discrezionale,
secondo i principi generali concernenti l'azione amministrativa, tali potestà devono, secondo
il Garante, risultare contenute entro i limiti posti dalla legislazione vigente e devono
comunque essere proporzionate ai soli fini pubblicistici sopraindicati senza limitare la
libertà di accesso a questo mercato e interferire con la creazione e il mantenimento di un
assetto competitivo nel rispetto della legge n. 287/90 e più in generale dell'art. 41 della
Costituzione. Secondo l'autorità le limitazioni in termini di rilascio della licenza, di ambito
geografico di autorizzazione, di guardie giurate che l'impresa può utilizzare, di tipologie
di servizi, nonché con riferimento ai prezzi praticabili, comportano notevoli rigidità nell'accesso
al mercato e limitazioni alla libertà di concorrenza che in ultima analisi provocano
prezzi più elevati e minore qualità dei servizi ai clienti finali. Gli esosi costi di entrata
derivanti dalla regolamentazione determinano spesso la presenza di un operatore dominante
o di situazioni oligopolistiche, in cui si registrano prezzi elevati proprio in mancanza
di una minaccia di entrata. In tale situazione, infatti, l'operatore dominante, rimasto per
la Prefettura competente come principale fonte delle informazioni relative ai costi di produzione
del servizio, è anche posto in condizione di esercitare una influenza determinante
sulle valutazioni di congruità di tutte le tariffe sottoposte alla autorizzazione prefettizia.
Tale circostanza assume particolare rilievo in considerazione della fase evolutiva che il
settore sta attraversando in questi anni, in cui si va manifestando un fenomeno di ampliamento
geografico della dimensione della domanda, cui l'offerta comincia a fare fronte
attraverso reti di vendita sovra-provinciali dei servizi prodotti e forniti a livello locale dagli
istituti di vigilanza. La presenza di operatori dominanti nei mercati locali è, infatti, in grado
di impedire l'affermarsi di comportamenti pro-concorrenziali non solo a livello locale,
ma anche a livello sovraprovinciale, impedendo il manifestarsi nei mercati locali di una
pressione concorrenziale anche da parte delle reti di vendita. In conclusione, l'Autorità auspica
che, al fine di evitare che si verifichino ingiustificate distorsioni della concorrenza e
del funzionamento del mercato, delle considerazioni sopra espresse si tenga in primo luogo
conto nell'applicazione della normativa vigente. Per le problematiche che non siano risolvibili
in via amministrativa, l'Autorità auspica un intervento regolamentare e/o normativo
che superi le limitazioni concorrenziali presenti nell'attuale assetto regolatorio.
Licenziamento per giusta causa – Violazione del principio di immediata contestazione – Insussistenza
Infortunio sul lavoro – Dipendente responsabile del sinistro stradale in danno di altro lavoratore - Azione surrogatoria Inail
Lavoro pubblico – Contratto a termine – Successione di più contratti – Divieto di trasformazione – Ammissibilità
Lavoro a progetto – Licenziamento per non superamento del periodo di prova – Accertamento rapporto di lavoro subordinato
Giurisdizione giudice italiano – Applicazione legge italiana – Natura subordinata di fatto – Differenze retributive
Licenziamento individuale per giusto motivo oggettivo
Un lavoratore, licenziato per giustificato motivo oggettivo (soppressione dell'ufficio ove prestava la sua attività ),impugna giudizialmente il recesso individuale
e dalle difese della convenuta apprende per la prima volta che questa, entro i 120 giorni
dal licenziamento, ha proceduto ad una riduzione del personale per un numero di unità
superiore a cinque; propone quindi un secondo ricorso con il quale denuncia l'inefficacia
del recesso «collettivo» per violazione dell'art. 24 della legge n. 223/91. Il Tribunale di Parma
' dopo aver riunito le due cause ' rigetta l'eccezione della società di inammissibilità
della seconda domanda, considerandola domanda «nuova» rispetto a quella contenuta
nel primo ricorso (essendo basata su causa petendi e fatti diversi) e come tale ben ammissibile,
in quanto il divieto di proporre domande nuove opera solo all'interno dello stesso
giudizio e non preclude un nuovo e separato ricorso, non operando il principio del ne
bis in idem. Il giudice parmigiano accoglie quindi il secondo ricorso proposto, sulla base
della presunzione di riconducibiltà ad una medesima causale di tutti i licenziamenti, sempreché
attuati nell'arco dei 120 giorni e non dovuti a ragioni soggettive, dettata dalla legge
n. 223/91, richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale
il legislatore, ricorrendo all'espressione di valore e portata onnicomprensiva «riduzione
o trasformazione dell'attività di lavoro» di cui all'art. 24 legge n. 223 del 1991, ha inteso ricomprendere
nella fattispecie della riduzione del personale tutte le ipotesi in precedenza
configurabili come causa di licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo.
Il Tribunale fa cosà dipendere il discrimine tra le due fattispecie di licenziamento
unicamente dall'elemento numerico e non invece dalla diversa tipologia delle ragioni
d'impresa, negando cosà una differenza ontologica tra licenziamenti collettivi e licenziamenti
plurimi per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 11251/1999; Cass. n. 11455/1999;
nello steso senso Cass. n. 144471/2000; Cass. n. 2463/2000; Cass. n. 8777/2001; Cass.
n. 1364/2003 e Cass. 4274/2003).
Soggetti danneggiati da trasfusioni e somministrazioni di emoderivati a causa di vaccinazioni obbligatorie
Il Tribunale di Bologna conferma, sulla base del principio affermato dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 15894/2005,che l'indennizzo previsto dalla
legge n. 210/92 a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile
a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati,
deve contemplare la rivalutazione Istat sulla somma corrispondente all'indennità integrativa
speciale. Nella fattispecie, il contenzioso riguardava l'accertamento del diritto
alla rivalutazione dell'indennità integrativa speciale ricompresa nell'indennizzo di cui
alla legge 210/92, riconosciuto al ricorrente fin dal febbraio 1994 e, quindi, sulla base
del disposto del d.P.C.m. 26 maggio 2000 e del d.P.C.m. 8 gennaio 2002, il giudicante
individua nel ministero della Salute il soggetto sul quale ricadono in via esclusiva gli
oneri economici conseguenti all'accoglimento dell'istanza. Nel merito, dopo aver rilevato
che l'indennizzo di cui alla legge 210/92 consiste in un assegno reversibile per 15
anni, rivalutabile annualmente sulla base del tasso di inflazione programmato e dell'indennità
integrativa speciale di cui alla legge n. 324/1959 e successive modificazioni
prevista per la prima qualifica funzionale degli impiegati civili dello stato, il Tribunale
pone in evidenza come sarebbe del tutto illogico ritenere rivalutabile ' come peraltro
è accaduto a seguito del cd. taglio della scala mobile riguardante l'indennità di
contingenza in generale ' soltanto la prima componente e non la seconda. Viene quindi
acquisito il principio per cui l'indennità integrativa speciale, entrando a far parte dell'indennizzo
inteso nella sua globalità , ne ha acquistato tutte le caratteristiche, ivi
compresa quella della sua rivalutabilità secondo il tasso annuale di inflazione programmata.
Lavoro pubblico – Pluralità di contratti a tempo determinato – Illegittimità del termine – Risoluzione rapporto – Cons
Licenziamento disciplinare – Termine di cinque giorni per le giustificazioni – Termine massimo – Esclusione
Termine cd. a ritroso in scadenza nella giornata di sabato – Proroga al primo giorno seguente non festivo – Esclusione
Le risultanze di una riproduzione fonografica contestata possono essere oggetto di libero apprezzamento del giudice
Un lavoratrice adiva il Tribunale d Firenze al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dalle dimissioniper giusta causa rassegnate a seguito di ingiurie e
molestie ricevute in ufficio nel corso del rapporto ed oggetto di una denunzia penale. A
fondamento della propria pretesa la ricorrente depositava una riproduzione fonografica
che veniva tuttavia disconosciuta dalla società convenuta in sede di costituzione in giudizio.
Disposta una consulenza fonografica la domanda della ricorrente veniva accolta con
decisione confermata dalla locale Corte di Appello. Nel proporre gravame di legittimità la
società datrice di lavoro censurava la decisione dei giudici toscani sul rilievo che la contestazione
della riproduzione fonografica, ritualmente effettuata, impediva la trascrizione
del nastro. Nel rigettare il ricorso della società la Corte di Cassazione ha confermato l'iter
logico della decisione di appello richiamando di aderire all'indirizzo giurisprudenziale che
sostiene che il disconoscimento, che fa perdere alle riproduzioni meccaniche la loro qualità
di prova va distinto dal mancato riconoscimento, diretto o indiretto, che non esclude
il libero apprezzamento da parte de giudice delle riproduzioni legittimamente acquisite.
Livello occupazionale e tutela reale
La Suprema Corte ribadisce quanto già affermato dalle Sezioni Unite in ordine all'esistenza in capo del datore di lavoro di un onere della provadel livello occupazionale aziendale al fine di evitare le conseguenze derivanti dalla tutela reale nel caso di
licenziamenti dichiarati illegittimi con particolare riferimento alla reintegrazione del posto
di lavoro. Ciò che va segnalato è che con questa sentenza la Corte precisa che la deduzione
relativa costituisce una eccezione processuale in senso proprio che il datore di lavoro
convenuto deve proporre e chiedere di provare entro il termine previsto dall'art. 416
cod. proc. civ.
In sede di riassunzione di una causa è inammissibile la deduzione di nuovi mezzi istruttori
Una lavoratrice adiva il locale magistrato del lavoro al fine di vedersi riconoscere il pagamento di una indennità dovuta dall'Inpsla decisione di primo grado veniva
riformata in sede di appello dal Tribunale di Messina che, ritenuta la nullità della notifica
del ricorso introduttivo, rimetteva le parti al giudice di primo grado. In sede di riassunzione
la lavoratrice articolava nel proprio ricorso in riassunzione una prova testimoniale
che veniva ritenuta ammissibile dal giudice della riassunzione. All'esito del giudizio
veniva riconosciuto il diritto alla prestazione dovuta dall'istituto previdenziale e la decisione
veniva confermata in sede di appello. Avverso tale decisione ha proposto ricorso di
legittimità l'ente previdenziale lamentando l'intervenuta decadenza istruttoria cui era incorsa
la lavoratrice non rilevata dai giudici della riassunzione. La Corte di Cassazione nell'accogliere
il ricorso dell'ente previdenziale ha ritenuto che nelle controversie soggette al
rito di lavoro la riassunzione del giudizio in primo grado dopo che il giudice di appello, in
applicazione degli artt. 353 e 354 cod. proc. civ. ne abbia disposto la rimessione per nullità
della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, comporta la continuazione di
quello precedentemente instaurato con conseguente impedimento di decadenze a sfavore
dell'attore e non l'instaurazione di un nuovo giudizio. In forza di tale rilievo la Suprema
Corte ha quindi affermato che l'attore qualora non abbia indicato nell'atto introduttivo i
mezzi di prova dei quali intende avvalersi, decade dal relativo onere, con conseguente inammissibilità
di quelli indicati nell'atto di riassunzione perché tardivamente proposti,
fermo restando la possibilità da parte del giudice di esercitare i poteri istruttori come consentiti
dall'art. 420 cod. proc. civ.
Risarcibilità della prestazione effettuata dopo il sesto giorno di attività lavorativa
Alcuni lavoratori addetti alla conduzione di mezzi adibiti al trasporto pubblico adivano il giudice del lavorolamentando la violazione della cadenza settimanale del
riposo. Nell'analizzare la deroga prevista dalla legislazione speciale la Corte di Cassazione
ha precisato che la facoltà prevista per il personale viaggiante su linee extraurbane dipendente
da imprese addette al pubblico servizio di trasporto che consente il cumulo di
riposi, non consente di spostare il giorno di riposo oltre il sesto giorno di lavoro dovendosi
ritenere altresà invalida una diversa clausola contrattuale collettiva. Sulla base di tali rilievi
la Suprema Corte ha precisato che il lavoro prestato oltre il sesto giorno lavorativo in
violazione della normativa sul diritto al riposo settimanale deve essere risarcito.
La Cassazione attenua l’efficacia reale del preavviso per i rapporti di lavoro liberamente recedibili
Obbligazione di sicurezza in capo ai datori di lavoro per lavoratori apprendisti
Un apprendista marmista mentre aiutava alcuni colleghi più esperti a caricare una lastra di marmo su un piano di lavorazione subiva un grave infortunio sul lavoro.Nel corso del giudizio di risarcimento promosso dal lavoratore la Corte di Appello
di Lecce, riscontrato il rispetto degli adempimenti previsti dagli artt. 46 e 47 del decreto
legislativo 626/94 da parte dell'azienda rigettava l'appello del lavoratore. La decisione veniva
riformata dalla Corte di Cassazione che, nel cassare la decisione dei giudici pugliesi,
ha affermato che il lavoratore non ha l'onere di provare specifiche omissioni del datore in
relazione alle norme antiinfortunistiche, essendo soltanto tenuto a provare l'infortunio, il
danno derivatone, il nesso causale tra l'uno e l'altro, la nocività dell'ambiente lavorativo,
gravando sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautela necessarie
ad evitare il verificarsi dell'evento dannoso. Nel precisare l'ambito delle misure
che devono essere adottate dal datore di lavoro la Suprema Corte ha chiarito che non rientra
soltanto l'osservanza di puntuali precetti relativi alle macchine impiegate o a specifiche
lavorazioni, ma anche l'adozione di misure organizzative del lavoro, tali da evitare che
lavoratori inesperti siano coinvolti in lavorazioni pericolose, e l'informazione dei dipendenti
sui rischi e la pericolosità di macchine o lavorazioni. Nell'affermare tale principio i
giudici di legittimità hanno sancito che il contenuto dell'obbligazione di sicurezza nei due
aspetti considerati assume un valore più intenso nei confronti dei lavoratori di giovane età
o professionalmente esperti, e si esalta in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge
pone a carico del datore di lavoro precisi obblighi di formazione e addestramento tra i
quali non può che primeggiare l'educazione alla sicurezza del lavoro. Sulla base di tali affermazioni
la Suprema Corte ha cassato la decisione dei giudici leccesi rilevando che il
semplice rispetto delle norme antiinfortunistiche specifiche previste dalla legislazione
speciale non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare di avere adottato tutte le
cautele necessarie per evitare l'infortunio.
La precarietà esclude la decorrenza della prescrizione anche in ambiti lavorativi caratterizzati da stabilità reale
Un lavoratore assunto sulla base di una pluralità di contratti a termine alle dipendenze di un'azienda commerciale rivendicava l'unitarietà del rapporto lavorativoa tempo indeterminato ed il pagamento delle differenze retributive maturate. La
società convenuta in sede di costituzione in giudizio nel contestare la domanda del lavoratore
comunque rilevava la prescrizione dei diritti retributivi in considerazione del livello
occupazionale dell'azienda che assicurava la tutela reale al rapporto di lavoro. La decisione
del giudice di primo grado, confermata dalla Corte di Appello di Salerno, riconosceva
la nullità dei termini apposti ai vari contratti di lavoro ed escludendo il diritto alla percezione
di una retribuzione negli intervalli non lavorati, in assenza di un valido atto di messa
in mora, limitava nei limiti della prescrizione quinquennale le differenze retributive rivendicate
dal lavoratore. La Corte di Cassazione adita dal lavoratore che lamentava il
mancato integrale riconoscimento delle differenze retributive ha parzialmente accolto il ricorso
di legittimità . Nel confermare, sulla base dell'orientamento consolidato, l'insussistenza
di un diritto alla retribuzione negli intervalli non lavorati tra vari contratti a termine
ha comunque cassato la decisione dei giudici di appello nella parte in cui avevano applicato
la prescrizione quinquennale. I giudici della cassazione hanno, infatti, osservato che
una volta accertato che il rapporto di lavoro si è di fatto svolto in forma che esclude la tutela
reale, la successiva declaratoria di sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato
assoggettato alla tutela reale, non vale a far decorrere la prescrizione quinquennale.
La Corte ha inoltre precisato ' richiamando le decisioni della Corte costituzionale
in materia di prescrizione dei crediti di lavoro ' che non è consentito al giudice del
merito accertare se vi sia stato o meno un «metus» del lavoratore che gli abbia impedito
di azionare i suoi diritti.
Il datore non è responsabile per l'infortunio subito dal lavoratore nel corso di una trasferta
Un funzionario di un istituto di credito adiva il Tribunale di Roma al fine di vedere accertata la responsabilità dell'azienda nell'infortunio subitoin occasione
di un incidente stradale avvenuto nel corso di una trasferta. Deduceva il lavoratore di essere
costretto a frequenti spostamenti di lavoro per un totale di 40.000 Km l'anno ed uno
stress psico-fisico derivante dalla necessità di costanti aggiornamenti professionali. La
domanda del lavoratore veniva respinta sia in primo che in secondo grado allorché i giudici
ritenevano non sussistere un nesso causale tra l'incidente e le circostanze dedotte dal
lavoratore. A seguito del gravame di legittimità promosso dal lavoratore la decisione della
Corte di Appello di Roma veniva cassata poiché la decisione si era discostata dal principio
della causalità adeguata che permea il sistema risarcitorio civilistico. Nel corso del
giudizio di rinvio la Corte di Appello di L'Aquila, acquisite le prove ritualmente richieste
dalle parti, respingeva la domanda del lavoratore. Osservavano, infatti, i giudici del rinvio
che la situazione lavorativa del lavoratore «è la normale attività lavorativa svolta da tutti
i lavoratori incaricati della promozione di affari per conto del datore di lavoro, che la necessità
di costante aggiornamento professionale, propria di chi svolge attività professionalmente
qualificata, non può essere invocata come fonte di stress imputabile al datore
di lavoro, che analoghe osservazioni valgono per gli orari di lavoro tipici di quella attività ».
Ad ulteriore conferma dell'assenza di profili di responsabilità aziendale la Corte abruzzese
rilevava che la missione nell'ambito della quale era avvenuto l'incidente stradale era iniziata
dopo oltre un mese dalla precedente e dopo solo quattro giorni dal suo inizio. Sulla
base di tali rilievi il giudice di rinvio escludeva che le condizioni di stanchezza o di abbassamento
della soglia di attenzione fossero in nesso causale con l'incidente, avvenuto
esclusivamente ad un comportamento imprudente, e cosciente e volontario del lavoratore.
La Corte di Cassazione, nuovamente adita dal lavoratore, ha respinto il ricorso del lavoratore
ritenendo che i rilievi della Corte territoriale escludevano una causalità adeguata
tra le modalità della prestazione lavorativa e l'infortunio.
Lo stato di precarietà di un lavoratore a termine giustifica l’attesa del dipendente nell’adire le vie giudiziarie
Congedo parentale per il coniuge del disabile
Il diritto al congedo straordinario per assistenza deve essere riconosciuto anche al coniuge del disabile da assistere.La Corte costituzionale ha quindi accolto la
questione sollevata dal Tribunale di Cuneo nella parte in cui la norma non prevede il diritto
del lavoratore a fruire del congedo straordinario retribuito nel caso in cui debba assistere
il coniuge che versi in una situazione di disabilità grave. Il giudice piemontese sosteneva
che il legislatore, riconoscendo il diritto al congedo parentale esclusivamente ai
genitori del disabile o, in alternativa, in caso di loro scomparsa o impossibilità (dopo la
sentenza Corte cost. n. 233/05) ai fratelli o sorelle conviventi con il portatore di handicap,
«determinerebbe un ingiustificato trattamento deteriore di un soggetto, il coniuge, tenuto
ai medesimi di assistenza morale e materiale nei confronti del consorte disabile». La
Corte costituzionale, nel dichiarare fondata la questione, ha ricordato come già abbia più
volte evidenziato la centralità della famiglia nell'assistenza del disabile e, in particolare,
nel soddisfacimento dell'esigenza di socializzazione quale fondamentale fattore di sviluppo
della personalità e idoneo strumento di tutela della salute del disabile intesa nella
sua accezione più ampia: «La norma, infatti, esclude dal novero dei beneficiari del congedo
straordinario retribuito il coniuge, pur essendo questi, sulla base del vincolo matrimoniale
e in conformità dell'ordinamento giuridico vigente, tenuto al primo posto (articolo
433 cod. civ.) all'adempimento degli obblighi di assistenza morale e materiale del proprio
consorte; obblighi che l'ordinamento fa derivare dal matrimonio». Da tutto ciò non può
non derivare l'illegittimità costituzionale della norma impugnata.
«Bonus bebè» e competenze regionali
Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano non possono legiferare in materia di concessione di assegni ai figlinati o adottati nel 2005 e 2006 (cd. «bonus
bebè»). Ad avviso della Corte, le provvidenze previste dalle norme impugnate dalla provincia
autonoma di Bolzano presentano caratteristiche tali da poterne affermare la loro
natura «previdenziale», ricadenti pertanto nella previsione del secondo comma, lettera o),
dell'art. 117 Cost., come materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato. Tali caratteristiche
sono, ad avviso della Corte, la «temporaneità », il «carattere indennitario» e il
fatto di «prescindere da ogni situazione di bisogno, di disagio o di difficoltà economica».
Per queste ragioni la Corte ha rigettato il ricorso della Provincia di Bolzano, la quale sosteneva
trattarsi, invece, di materia rientrante nella «assistenza e beneficenza pubblica»
(come tale di competenza «residuale» esclusiva delle Regioni e Province autonome: art.
117, quarto comma, Cost.).