3 / 2008
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Descrizione
Incostituzionalità del d.l. Bersani-Visco su spoil system e incarichi dirigenziali esterni Costituzionalità della norma sulla riparametrazione dei contributi svizzeri La Cassazione e la conversione del contratto a termine illegittimo dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001
Il direttore amministrativo di una università non può provvedere alla sostituzione di componenti della Rsu
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Nella Rsu (rappresentanza sindacale unitaria) costituita dai dipendenti dell'Università  di Messina è accaduto che due componenti,appartenenti alla Cgil, siano passati a una diversa organizzazione sindacale mentre un terzo si è dimesso. La Cgil ha chiesto all'Amministrazione di sostituire tali componenti. Il direttore amministrativo dell'Università  ha provveduto alla richiesta sostituzione. Le organizzazioni sindacali Cisl, Uil e Confsal Snals hanno promosso nei confronti dell'Università , davanti al Tribunale di Messina, un procedimento per repressione di comportamento antisindacale, in base all'art. 28 Stat. lav., sostenendo che all'Amministrazione non era consentito interferire nella composizione della Rsu. Il Tribunale ha respinto il ricorso e la successiva opposizione proposta dalle organizzazioni sindacali contro la decisione di rigetto. La Corte di appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale, in quanto ha ritenuto che l'intervento dell'amministrazione fosse giustificato dalla avvenuta decadenza dalla carica verificatasi per i tre componenti della Rsu a causa della situazione di incompatibilità  connessa con la frattura del loro rapporto fiduciario con l'organizzazione di appartenenza. La Snals Confsal Università  ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Messina per violazione dello Statuto dei lavoratori, dell'accordo nazionale del 7 agosto per la costituzione delle Rsu per il personale delle pubbliche amministrazioni, della convenzione Oil 9 luglio 48 che tutela la libertà  sindacale e del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29; essa ha sostenuto che il direttore amministrativo dell'Università  non poteva adottare alcun provvedimento di ingerenza nella Rsu, essendo tale organismo l'unico competente a decidere sulla richiesta avanzata dalla Cgil di sostituzione di membri eletti in seno alla medesima Rsu. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. È stata dedotta in giudizio ' ha osservato la Corte ' la lesione di prerogative sindacali riconosciute dall'ordinamento con la previsione, ad opera dell'art. 47 comma 3 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, sostituito dall'art. 6 del d.lgs. 11 aprile 1997 n. 396 (ora art. 42 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165) della costituzione in ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa, ad iniziativa anche disgiunta delle organizzazioni sindacali di cui al comma 8 dello stesso articolo, di un organismo di rappresentanza unitaria del personale mediante elezioni alle quali è garantita la partecipazione di tutti i lavoratori. Per la parte rimessa alla contrattazione collettiva, il quadro normativo previsto dalla legge in tema di rappresentanza dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro è stato completato con l'accordo collettivo quadro del 7 agosto 1998 per la costituzione delle rappresentanze sindacali unitarie per il personale dei comparti delle pubbliche amministrazioni ' che ha stabilito le modalità  di elezione e funzionamento degli organismi di rappresentanza unitaria del personale non dirigenziale ' e dal contratto collettivo in pari data che ha regolato le modalità  di utilizzo delle libertà  e prerogative sindacali di cui sono titolari le associazioni sindacali ammesse alle trattative nazionali. Ai sensi dell'art. 5, comma 1 del citato accordo collettivo quadro «le Rsu subentrano alle Rsa o alle analoghe strutture sindacali esistenti comunque denominate ed ai loro dirigenti l'esercizio delle competenze contrattuali ad esse spettanti». L'art. 7 del medesimo accordo prevede che in caso di dimissioni di uno dei componenti «lo stesso sarà  sostituito dal primo dei non eletti appartenente alla medesima lista». Secondo il successivo art. 9, la carica di componente della Rsu è incompatibile con qualsiasi altra carica in organismi istituzionali o carica esecutiva in partiti e/o movimenti politici; per altre incompatibilità  «valgono quelle previste dagli statuti delle rispettive associazioni sindacali». Si prevede poi che «il verificarsi in qualsiasi momento di situazioni di incompatibilità  determina la decadenza della carica di componente della Rsu». Nella specie ' ha rilevato la Corte ' la direzione amministrativa dell'Università , ritenendo che con il passaggio di alcuni componenti della Rsu ed altre organizzazioni sindacali si fossero realizzate situazioni di incompatibilità  previste da detta norma, ha rilevato la decadenza dei predetti componenti dalla carica ed ha quindi disposto la sostituzione dei medesimi con i primi non eletti delle rispettive liste. La sentenza impugnata ha escluso l'antisindacalità  di tale comportamento ritenendolo giustificato da una «indeclinabile necessità  anche per le convocazioni alla contrattazione decentrata» ed escludendo, in assenza di disposizioni circa il soggetto che deve provvedere alla sostituzione, «la volontà  di compiere alcuna condotta limitativa dell'attività  sindacale». La decisione ' ha affermato la Corte ' non è conforme a diritto: la disciplina sopra richiamata attribuisce alla rappresentanza unitaria il carattere di organismo autonomo, protetto dagli strumenti di garanzia stabiliti dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori per la tutela della libertà  ed attività  sindacale, su cui non può incidere l'attività  dell'ente o amministrazione datore di lavoro. Si deve quindi escludere ' ha concluso la Corte ' la possibilità  di riconoscere all'amministrazione qualsiasi potere di ingerenza o controllo sul funzionamento della Rsu, che si porrebbe in evidente contraddizione con l'autonomia attribuita a questo organismo ai fini della realizzazione della sua funzione di rappresentanza dei lavoratori e di protezione dei loro interessi (essendo stabilita come unica regola dall'accordo quadro che le decisioni vengono assunte dalla stessa Rsu a maggioranza dei componenti: v. in questo senso anche l'accordo del 6 aprile 2004 raggiunto tra l'Aran e le organizzazioni sindacali per l'interpretazione autentica di tale patto).
La dedizione patologica al videopoker non esclude la responsabilità di un portalettere per appropriazioni di denaro
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S. D., dipendente della Spa Poste italiane con mansioni di portalettere, è stato licenziato con l'addebito di essersi appropriato di somme riscosseall'atto della consegna di materiale postale gravato di assegno. Egli ha chiesto al Tribunale di Campobasso di annullare il licenziamento, sostenendo di essere stato indotto ad appropriarsi del denaro da una patologica dedizione al gioco d'azzardo. Il consulente tecnico nominato dal Tribunale ha accertato che il dipendente, nel momento in cui l'azione illecita fu compiuta si trovava, a causa della patologica dedizione al gioco d'azzardo (videopoker), nella condizione di non potere esercitare un controllo efficace sulla propria volontà , pur presumibilmente comprendendo il significato di quanto andava compiendo. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del portalettere nel posto di lavoro. La Corte di appello di Campobasso ha riformato questa decisione, rilevando che la forte propensione al gioco d'azzardo riscontrata nel lavoratore non valesse a giustificare o ad attenuare la gravità  dell'addebito, quale elemento idoneo a pregiudicare irreparabilmente il vincolo fiduciario. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Campobasso per vizi di motivazione e violazione di legge. Egli ha sostenuto in particolare che la Corte avrebbe dovuto escludere la gravità  dell'infrazione sotto il profilo soggettivo. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La forte spinta al gioco d'azzardo, anche ammesso che abbia assunto dimensioni patologiche, ' ha affermato la Corte ' non può giustificare l'appropriazione del denaro, che S. D. riscuoteva dai consegnatari dei plichi, trattandosi di comportamento autonomo rispetto all'impulso a giocare d'azzardo, pur se finalizzato a soddisfare questa esigenza; peraltro ' ha osservato la Corte ' la sentenza impugnata riferisce che l'impossessamento illecito del denaro avvenne non in una, ma in più occasioni, sicché si sarebbe dovuto dimostrare, e ciò non è avvenuto, che ogni volta il lavoratore agà sotto un'irrefrenabile spinta a delinquere; si aggiunga che S. D. non ha mostrato alcuna disponibilità  al superamento del suo stato patologico, giacché, come riferisce la Corte di merito, egli «ha più volte mentito allo stesso medico curante ed ha altresà continuato a giocare nonostante la cura», rivelando in tal modo un'assoluta inidoneità  alle funzioni. Pertanto ' ha concluso la Cassazione ' correttamente la Corte di appello ha ritenuto integrata la giusta causa anche sotto il profilo soggettivo.
Il danno da dequalificazione può presumersi in base alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento
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Il coniuge del portatore di handicap ha diritto alla assegnazione della sede più vicina
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A. D. residente in Foggia insieme al marito convivente portatore di handicap, è stata assunta, a seguito di un concorso,alle dipendenze del ministero dell'Economia e delle Finanze. In sede di assegnazione delle sedi ella ha fatto presente la sua situazione familiare e, invocando l'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, ha chiesto di essere destinata a Bari come addetta alla segreteria della locale Commissione provinciale tributaria, ove risultava la vacanza di un posto. Il ministero l'ha destinata a Lodi, ove ella ha dovuto prendere servizio. Nel contempo tuttavia ella ha chiesto al Tribunale di Foggia, giudice del lavoro, di affermare il suo diritto alla sede di Bari e di condannare il ministero al risarcimento del danno. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha condannato il ministero a risarcire alla lavoratrice il danno costituito dalle spese che ella aveva dovuto sostenere per stabilirsi temporaneamente a Lodi. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Bari, che ha rilevato, tra l'altro, che il ministero non aveva provato l'esistenza di alcun inconveniente per la pubblica amministrazione derivante dall'assegnazione della lavoratrice alla sede di Bari. Il ministero ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Bari per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 ' ha osservato la Corte ' statuisce che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità  un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede; la posizione di vantaggio ex art. 33 si presenta come un vero e proprio diritto soggettivo di scelta da parte del familiare-lavoratore che presta assistenza con continuità  a persone che sono ad esse legate da uno stretto vincolo di parentela o di affinità . La ratio di una siffatta posizione soggettiva va individuata nella tutela della salute psicofisica del portatore di handicap nonché in un riconoscimento del valore della convivenza familiare come luogo naturale di solidarietà  tra i suoi componenti. Nonostante l'innegabile sua portata sociale ' ha affermato la Corte ' la disposizione scrutinata non può però far ritenere che il diritto del genitore o del familiare lavoratore dell'handicappato di scegliere la sede più vicina al proprio domicilio e di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso sia un diritto assoluto o illimitato, in quanto presuppone, oltre agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, altresà la compatibilità  con l'interesse comune; invero secondo il legislatore ' come è dimostrato anche dalla presenza dell'inciso «ove possibile» ' il diritto alla tutela dell'handicappato non può essere fatto valere quando il relativo esercizio venga a ledere in maniera consistente le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, in quanto ciò può tradursi ' soprattutto per quel che riguarda i rapporti di lavoro pubblico ' in un danno per la collettività . In questo caso quindi il diritto del familiare-lavoratore deve bilanciarsi con altri interessi, che trovano anche essi una copertura costituzionale, sicché il riconoscimento del diritto del lavoratore-familiare può ' a seconda delle situazioni fattuali a fronte delle quali si intenda farlo valere ' cedere a rilevanti esigenze economiche, organizzative o produttive dell'impresa, e per quanto riguarda i rapporti di lavoro pubblico, ad interessi della collettività  ostativi di fatto alla operatività  della scelta ex art. 33, comma 5, del d.lgs. n. 104 del 1992. La prova della sussistenza delle ragioni impeditive del diritto alla scelta della sede ' ha affermato la Corte ' fa carico poi, contrariamente a quanto sostenuto dal ministero, sul datore di lavoro; a tale conclusione conducono la lettera della legge, la considerazione che le ragioni da provare sono a diretta e più agevole conoscenza del datore di lavoro, ed infine il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità  in tema di trasferimento ex art. 2103, ultimo comma, cod. civ. secondo cui le ragioni tecniche, organizzative e produttive, poste a base del trasferimento da una unità  produttiva ad altra del lavoratore, debbano essere provate dal datore di lavoro. Alla stregua di quanto sinora esposto ' ha concluso la Corte ' la sentenza impugnata, dopo avere proceduto ad una attenta valutazione delle risultanze istruttorie, ha riconosciuto il diritto di A. D. alla sede dalla stessa richiesta, per esservi un posto vuoto in organico a Bari, per essere stato tale posto riservato ai vincitori del concorso e per avere la lavoratrice portato a conoscenza dell'amministrazione la sua situazione familiare; di contro non è stato provato dal ministero un interesse organizzativo di segno contrario né un danno per la collettività  dalla assegnazione della sede di Bari ad A. D.
Il sindacato può costituirsi parte civile nel processo contro un dirigente imputato di violenza sessuale su una lavoratrice
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S. P., dipendente della Polizia stradale, è stato sottoposto a processo penale davanti al Tribunale di Torino con l'imputazione di avere commesso atti di violenza sessualesu un'ispettrice abbracciandola. Il Tribunale ha ammesso la costituzione come parte civile del sindacato dei lavoratori di Polizia Siulp e, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha affermato la responsabilità  dell'imputato per il reato attribuitogli. S. P. ha proposto appello, censurando la sentenza di primo grado per avere erroneamente interpretato le risultanze istruttorie e per avere ammesso come parte civile il Siulp. La Corte di Torino ha rigettato l'appello. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per essere incorsa in vizi di motivazione e per avere violato l'art. 74 cod. proc. pen. confermando la decisione di ammettere la costituzione di parte civile del Siulp. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che la Corte di appello abbia adeguatamente motivato la sua decisione e non sia incorsa in violazione dell'art. 74 cod. proc. pen. secondo cui il soggetto danneggiato dal reato può esercitare nel processo penale l'azione civile per ottenere il risarcimento. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' la fattispecie di reato attribuita all'imputato costituisce, per la sua natura ed entità , violazione delle norme che presiedono alla tutela del lavoro ed in particolare dell'art. 9 Stat. lav. secondo cui i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di eseguire controlli e di promuovere l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute ed integrità  fisica. Il reato di violenza sessuale commesso sul luogo di lavoro ' ha affermato la Corte ' lede l'integrità  psicofisica del lavoratore, compromettendone la stabilità  psicologica e il rapporto con la realtà  lavorativa e la percezione del luogo, in modo tale che il grave turbamento che ne deriva viola la personalità  morale e conseguentemente la salute del soggetto passivo del reato; sotto tali profili, quindi, esattamente l'ordinanza del Tribunale ammissiva della costituzione della parte civile Siulp ha richiamato proprio la norma citata che, nel tutelare la salute e l'integrità  fisica dei lavoratori, riconosceva agli stessi, mediante proprie rappresentanze, il potere di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, nonché di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute ed integrità , rappresentanza generalmente svolta dalle organizzazioni dei lavoratori. La funzione del sindacato si esplica, quindi ' ha osservato la Corte ' anche attraverso la tutela e la difesa di una condizione lavorativa che non deve essere segnata da episodi che possono intaccare la dignità  lavorativa della persona; su tali basi, la giurisprudenza di legittimità  (sez. IV pen., 16 luglio 1993, n. 10048) ha affermato la legittimazione dei sindacati a costituirsi parte civile in caso di violazione delle norme suddette, alla sola condizione che i lavoratori interessati siano ad essi iscritti (condizione che nel caso in esame risulta documentalmente provata). La successiva evoluzione legislativa, soprattutto con l'entrata in vigore del d.lgs. 19. settembre 1994 n. 626 é stata univoca nell'ampliare il concetto di salute dei lavoratori, sà da comprendervi non solo l'integrità  fisica ma anche quella psichica (emblematica in proposito la previsione dell'art. 17, comma 1, lett. a, legge cit., che parla espressamente di «tutela della salute e dell'integrità  psicofisica dei lavoratori»). Del resto, tale evoluzione è in linea con il principio generale fissato dall'art. 2087 cod. civ. che, in tema di tutela delle condizioni di lavoro, fa espresso riferimento all'obbligo del datore di lavoro di tutelare non solo l'integrità  fisica ma anche «la personalità  morale dei prestatori di lavoro».
La mancata assegnazione delle mansioni superiori a un lavoratore vincitore di un concorso comporta danno da dequalificazione
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Anche questa sentenza è stata brevemente esposta in q. Riv. 2/2008 p. 8.G. D., dipendente dell'Azienda municipale trasporti di Catania con qualifica di impiegato di terza categoria ha partecipato, con successo, a un concorso interno per la promozione a impiegato di terzo livello, programmatore addetto al Centro elaborazione dati. L'amministrazione gli ha riconosciuto la qualifica superiore ma ha continuato a impiegarlo come impiegato di quarto livello, negandogli le mansioni superiori di programmatore. Egli ha chiesto al Tribunale di Catania di ordinare all'azienda di assegnargli le mansioni di programmatore e di condannarla al risarcimento del danno da dequalificazione. Il Tribunale ha accolto integralmente le domande, in quanto ha ritenuto che la mancata adibizione alle mansioni abbia causato una dequalificazione ed ha determinato il riconoscimento rapportandolo al 25% della retribuzione per i primi 12 mesi di inadempimento e al 40% per il periodo successivo, in considerazione dell'aggravamento progressivo della dequalificazione professionale per il protrarsi dell'inadempimento dell'azienda. In grado di appello la Corte di Messina ha confermato questa decisione, rilevando che il danno doveva ravvisarsi nella mancata acquisizione di una maggiore capacità  e che tale danno appare molto evidente e grave per alcuni particolari professioni (come quelle di programmatore) soggette a una continua evoluzione e richiedenti, quindi, continui aggiornamenti, come si verifica in materia di tecnologia informatica, trattandosi di un settore in costante sviluppo, che presuppone un assiduo aggiornamento tecnico, nonché un'attività  pratica di impiego dei diversi programmi applicativi. La Corte di appello ha fatto riferimento, altresà, al danno all'immagine derivante dalla mancata assegnazione alle mansioni meritate col concorso vinto. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Messina per vizi di motivazione e violazione di legge; tra l'altro essa ha sostenuto che il risarcimento era stato riconosciuto senza che fosse stata data la prova del danno derivato dalla dequalificazione. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Appare evidente ' ha osservato la Corte ' che la dequalificazione lamentata va rapportata alle mansioni conseguite a mezzo concorso e mai assegnate; non è contestato che l'attore abbia superato il concorso; non è contestato il livello delle mansioni del posto conseguito a mezzo concorso. Ne consegue ' ha affermato la Corte ' che l'istante avrebbe dovuto ricoprire le mansioni meritate a mezzo concorso e che il permanere, invece, nelle vecchie mansioni, costituisce dequalificazione rispetto alle mansioni raggiunte; per quanto attiene al danno conseguente, la Corte di appello non lo ha ritenuto in re ipsa, ma ha adeguatamente e diffusamente motivato in proposito, riconoscendo il danno nella mancata acquisizione di una maggior capacità .
I contributi previdenziali sulla retribuzione arretrata del lavoratore illegittimamente licenziato sono dovuti al datore
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Questa sentenza è stata pubblicata in q. Riv. 2/2008 p. 7, ma vale la pena soffermarcisi ancora.E. T., dipendente della Banca nazionale dell'agricoltura, ha ottenuto dal giudice del lavoro l'annullamento del licenziamento intimatogli, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della banca a corrispondergli la retribuzione relativa al periodo della data del recesso a quella della reintegrazione. La banca, oltre a corrispondere l'importo dovuto per retribuzione, ha versato all'Inps i relativi contributi previdenziali, ivi compresa la quota a carico di E. T. Successivamente essa ha ottenuto dal Pretore di Roma, nei confronti del dipendente, un decreto ingiuntivo per il rimborso di tale quota. Il lavoratore ha proposto opposizione, sostenendo che l'azienda non aveva il diritto di rivalsa. Il Pretore ha rigettato il ricorso. In grado di appello il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo affermando che i contributi erano integralmente dovuti dalla datrice di lavoro, per il periodo intercorso fra il licenziamento e la reintegra, ancorché i fatti di causa avessero preceduto la modifica dell'art. 18 Stat. lav. attraverso l'art. 1 della legge 11 maggio 1990 n. 108. Essi erano inoltre dovuti nel loro importo intero, ossia senza che una quota parte dovesse gravare sul lavoratore ai sensi dell'art. 19 legge 4 aprile 1952 n. 218 (riordinamento delle pensioni dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità , la vecchiaia e i superstiti): infatti l'art. 23, primo comma, di questa legge imponeva l'intero ammontare dei contributi al datore di lavoro che non avesse «provveduto al pagamento entro i limiti stabiliti» e ciò si era verificato nel caso di specie, in cui il pagamento era avvenuto non alla scadenza bensà solo dopo la sentenza suddetta. La banca ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 19 legge n. 218 del 1952, confermando l'art. 2115 cod. civ. ' ha affermato la Corte ' impone la contribuzione previdenziale tanto al datore quanto al prestatore di lavoro, dichiara il primo responsabile del pagamento anche per la parte a carico del secondo ed autorizza la trattenuta di questa parte sulla retribuzione. A queste regole il successivo art. 23 pone un'eccezione per l'ipotesi in cui il datore non provveda al pagamento dei contributi «entro il termine stabilito »; in tal caso egli è tenuto al pagamento «tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori». Che poi la contribuzione sia dovuta anche per il periodo in cui il lavoratore non abbia potuto rendere le proprie prestazioni perché illegittimamente licenziato, è stabilito dall'art. 18 legge n. 300 del 1990 nel testo modificato dall'art. 1 legge n. 108 del 1990, quest'ultimo da applicare anche per il tempo anteriore alla sua entrata in vigore, secondo quanto deciso dalle Sezioni Unite con sentenza 5 luglio 2007 n. 15143. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte ' ha risposto esattamente al quesito se l'art. 23 cit. debba applicarsi anche nel caso in cui il ritardo nel pagamento dei contributi sia dipeso da un licenziamento illegittimo, seguito da sentenza accertativa dell'illegittimità  e ordinante la reintegrazione del lavoratore nel suo posto; invero l'art. 23 può non trovare applicazione solo quando il ritardo non sia imputabile al datore. Nell'ipotesi in esame ' ha osservato la Corte ' il datore di lavoro, attraverso il licenziamento illegittimo, è incorso in un illecito contrattuale, di cui deve sopportare le conseguenze sia sul piano risarcitorio ai sensi dell'art. 18 Stat. lav. sia sul piano punitivo ai sensi del ripetuto art. 23; nella previsione contenuta nel primo comma di questo articolo, che trasferisce l'obbligo di pagare una parte dei contributi da uno ad altro soggetto, dev'essere ravvisata una pena privata, giustificata dall'intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, di un pagamento di importo superiore all'ammontare del mero risarcimento del danno.
Il licenziamento disciplinare può ritenersi sanzione eccessiva se prima l’azienda aveva tenuto un comportamento tollerante
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Revoche e conferimenti di incarichi dirigenziali nella P.A. devono avvenire nel rispetto di criteri oggettivi e di correttezza
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F. P., dirigente dell'Agenzia delle entrate, ha subito, nel marzo 2001 la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale conferitole nel dicembre 2000,senza che gliene sia stato attribuito un altro. Successivamente l'Agenzia ha proceduto alla distribuzione di altri incarichi dirigenziali, ma F. P. ne è rimasta esclusa. Ella ha ottenuto dal Tribunale di Campobasso un provvedimento d'urgenza, a seguito del quale nel giugno 2002 l'Amministrazione le ha conferito un incarico dirigenziale. Nel successivo giudizio di merito il Tribunale di Campobasso ha dichiarato illegittima la revoca disposta nel marzo 2001 dell'incarico dirigenziale conferito a F. P. nel dicembre 2000 e conseguentemente ha affermato il diritto della dirigente a mantenere la retribuzione in essere al marzo 2001. Il Tribunale ha inoltre condannato l'Agenzia al risarcimento del danno biologico derivato dal demansionamento subito dalla dirigente nel periodo dal marzo 2001 al giugno 2002 e ha dichiarato la cessazione della materia del contendere per il periodo successivo al giugno 2002. L'Agenzia ha proposto appello sostenendo che la revoca dell'incarico dirigenziale era stata disposta nell'ambito di una ristrutturazione della direzione regionale del Molise e che, nell'assegnazione di nuovi incarichi, essa aveva esercitato un potere discrezionale di natura privatistica. La Corte di appello ha rigettato l'impugnazione. L'Agenzia ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Campobasso per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che, in materia di rapporto di impiego, i poteri della pubblica amministrazione, pur avendo, a seguito della riforma del pubblico impiego, natura privatistica, incontrano limiti posti da disposizioni contrattuali o normative, da ritenersi integrate dalle regole di correttezza e buona fede. Nella specie, vengono in considerazione le norme contenute nell'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 165/2001: «Per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità  professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del ministero». Questa disposizione ' ha affermato la Corte ' obbliga, dunque, l'amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizza» l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative, a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte). Nella prospettiva giuridica cosà ricostruita ' ha concluso la Corte ' il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme al diritto, essendo rimasto accertato che nessuna prova l'amministrazione aveva offerto, neppure in giudizio, circa i criteri seguiti e le motivazioni delle scelte, e ciò non tanto con riferimento alla revoca dell'incarico, ma al momento successivo del conferimento dei nuovi incarichi, nel quale era stato esercitato il potere di scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei; in questo comportamento è stato correttamente ravvisato inadempimento contrattuale, produttivo di danno risarcibile.
Una generica rinuncia al risarcimento può ritenersi non idonea a precludere il risarcimento del danno per una specifica malatti
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G. B., dipendente della Spa Alenia Finmeccanica, ha posto termine al rapporto di lavoro per esodo incentivato, sottoscrivendo in sede sindacale, nel luglio del 1992,un accordo transattivo che prevedeva la corresponsione in suo favore non solo del convenuto incentivo, ma anche di una somma a titolo transattivo. L'accordo conteneva una rinuncia del lavoratore «ad ogni e qualsiasi pretesa diretta e/o connessa all'intercorso rapporto di lavoro e alla sua cessazione, quale a mero titolo di esempio: i criteri di computo relativi a Tfr, straordinari, gratifica natalizia etc. se e in quanto dovuta; eventuale indennità  di mensa, se e in quanto dovuta, eventuale risarcimento del danno per qualsiasi titolo richiesto». Successivamente, nel novembre del 1996, G. B. ha convenuto in giudizio l'ex datrice di lavoro, sostenendo di avere contratto il morbo di Parkinson a causa del lavoro svolto presso di essa e chiedendo il risarcimento del danno alla salute. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che la domanda proposta doveva ritenersi preclusa dalla transazione sottoscritta nel 1992 che recava anche la rinuncia a pretese risarcitorie. Il Tribunale ha accolto la domanda del lavoratore, condannando la società  al risarcimento del danno biologico. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Napoli, che ha attribuito alla transazione un effetto preclusivo, rilevando che con essa il lavoratore aveva rinunciato anche a pretese risarcitorie connesse al rapporto di lavoro e che dagli atti processuali risultava che egli, al momento della firma, era consapevole sia della malattia che della sua possibile origine professionale. Gli eredi del lavoratore, nel frattempo deceduto, hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte di Napoli ' ha osservato la Cassazione ' ha concentrato le proprie argomentazioni esclusivamente sulla ritenuta conoscenza da parte di G. B., alla data della transazione in sede sindacale, della patologia sofferta e della possibile origine professionale della stessa, per escludere che l'accordo abbia avuto ad oggetto diritti non ancora maturati ed eventuali (e pertanto radicalmente nulli ai sensi degli artt. 1418, comma 2, e 1325 cod. civ., per mancanza dell'oggetto: Cass. 7 marzo 2005 n. 4822) o diritti esistenti, ma ancora ignoti al titolare e quindi non consapevolmente oggetto di disposizione. La Corte territoriale ' ha rilevato la Cassazione ' ha viceversa completamente trascurato la valutazione della eventuale presenza di una volontà  abdicativa di G. B., anzitutto attraverso l'analisi del tenore letterale delle espressioni usate nel contesto di un accordo che aveva riguardato sia la risoluzione incentivata del rapporto di lavoro che la rinuncia, in via transattiva, da parte del lavoratore «ad ogni e qualsiasi pretesa diretta e/o connessa all'intercorso rapporto di lavoro e alla sua cessazione», cui seguiva la specifica indicazione, sia pure a titolo esemplificativo, di una serie di diritti retributivi, oltre ad un finale riferimento all'«eventuale risarcimento del danno per qualsiasi titolo richiesto». In proposito la Suprema Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui la dichiarazione da parte del lavoratore «di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, a titolo di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 cod. civ., alla condizione che risulti accertato sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre circostanze desumibili aliunde che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati o obbiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi». Ebbene ' ha concluso la Cassazione ' la Corte territoriale ha omesso ogni indagine relativamente alla volontà  abdicativa di G. B. in ordine al diritto in parola, quale desumibile dal testo dell'accordo, il quale, a differenza di quanto concernente alcuni diritti retributivi specificamente elencati, non contiene alcun riferimento specifico al diritto al risarcimento del danno biologico concretatosi in tesi nel morbo di Parkinson e derivante dalla violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 cod. civ., ma reca unicamente, oltre alla espressione di apertura (di rinuncia ad ogni e qualsiasi pretesa) da ritenere riferibile unicamente alla successiva indicazione di titoli specifici, un generico riferimento all'«eventuale risarcimento del danno per qualsiasi titolo richiesto», certamente inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza (e quindi ad esprimere la sua volontà ) di dismettere la pretesa poi azionata in giudizio.
Un contratto per trasporto merci con locazione del veicolo può comportare l’instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato
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La Rai, impresa pubblica di interesse nazionale, è tenuta a rispettare la normativa comunitaria in materia di appalti
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Nel febbraio del 2004 la Rai ha invitato alcune imprese a partecipare a una gara riservata per l'appalto del servizio di vigilanza armata sui propri immobili.All'esito di questa gara essa ha assegnato l'appalto all'Istituto di Vigilanza Città  di Roma e alla Spa Sipro per un biennio, con il corrispettivo di sette milioni di euro. La procedura è stata impugnata davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio dalla Mondialpol, che ha sostenuto che la Rai, essendo un'impresa pubblica, avrebbe dovuto indire una pubblica gara d'appalto in base alla normativa comunitaria e ai decreti legislativi n. 157 e n. 158 del 17 gennaio 1995. Tali norme escludono la necessità  della pubblica gara solo per gli appalti concernenti l'attività  radiotelevisiva vera e propria, mentre ne dispongono l'obbligatorietà  per gli appalti relativi ad attività  occasionarie, quale la vigilanza. Il Tar ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto la Rai «impresa di diritto pubblico» o «impresa pubblica ». Questa decisione è stata confermata dal Consiglio di Stato che ha ritenuto che la Rai Spa costituisca, ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge 25 giugno 1993 n. 206, una società  di interesse nazionale di cui al già  vigente art. 2461 cod. civ. (oggi art. 2451 cod. civ.), società  a totale partecipazione pubblica, i cui componenti del Consiglio di amministrazione sono designati dallo Stato e sulla quale il ministero delle Comunicazioni e l'apposita Commissione parlamentare svolgono funzioni di controllo, vigilanza e indirizzo; la Rai Spa ' ha rilevato il Consiglio di Stato ' è esonerata dall'obbligo della pubblica gara solo per gli appalti di servizi di telecomunicazione (art. 8 del decreto legislativo n. 158/95), ma resta soggetta, per gli altri appalti di lavori e servizi, alla normativa interna di applicazione delle direttive comunitarie, dovendo indire la gara secondo le regole comunitarie, quando debba affidare un servizio come quello per cui è causa, di valore eccedente la soglia comunitaria. Per tale appalto ' ha concluso il Consiglio di Stato ' dovevano quindi applicarsi gli artt. 19 e 28 dello stesso decreto, come previsto dal comma 3 del citato art. 7 e la tutela del cittadino che chieda il controllo del rispetto della normativa e delle direttive citate nella gara e nella aggiudicazione, è affidata dall'art. 6, comma 1, della legge n. 205 del 2000, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato ha anche affermato che «l'annullamento degli atti di attivazione della procedura comporta l'annullamento, per illegittimità  derivata, degli atti ulteriori del procedimento, nonché la caducazione degli effetti dei contratti conclusi dalla Spa Rai con le società  appellate, controinteressate in primo grado». Contro questa decisione la Rai ha proposto ricorso per cassazione contestando la giurisdizione del giudice amministrativo e negando di essere un «organismo di diritto pubblico». La Suprema Corte ha rigettato il ricorso nella parte concernente l'applicabilità  alla Rai della normativa sugli appalti pubblici. La Rai ' ha affermato la Corte ' è impresa pubblica sotto forma societaria, perché lo Stato ha una partecipazione rilevante in essa, detenendone la maggioranza del capitale e conservando ancor oggi, a mezzo della Commissione parlamentare di vigilanza, il potere di nominare i sette noni del suo Consiglio di amministrazione (art. 49 d.lgs. 31 luglio 2005 n. 177 da ora T.U. della radiotelevisione). Il T.U. citato, chiarisce, all'art. 7, che la Rai è «la società  concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo » istituita «al fine di favorire l'istruzione, la crescita civile e il progresso sociale, di promuovere la lingua italiana e la cultura, di salvaguardare l'identità  nazionale e di assicurare prestazioni di utilità  sociale», con il contributo pubblico da essa percepito, costituito dal canone versato dagli utenti; nella norma si precisa poi che l'informazione radiotelevisiva di qualsiasi emittente costituisce comunque un «servizio di interesse generale». Pertanto alla Rai, per gli appalti di servizi che non siano di radiodiffusione e televisione ed eccedano la soglia di valore di cui alle direttive comunitarie ' ha affermato la Corte ' devono applicarsi le regole delle procedure ad evidenza pubblica nella scelta dell'appaltatore, per le quali ha giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo. L'obbligo della Rai Spa di assegnare l'appalto del servizio di vigilanza armata dei suoi cespiti immobiliari, con il procedimento a evidenza pubblica di cui alle norme comunitarie ' ha osservato la Corte ' non è stato rispettato nel caso in esame per il carattere riservato, alle imprese invitate, della gara e per la discriminazione che impediva ai raggruppamenti di imprese di partecipare alla stessa, oltre che per le prescrizioni tecniche difformi da quelle comunitarie. Le Sezioni Unite hanno invece accolto il ricorso della Rai nella parte concernente l'annullamento del contratto stipulato per effetto della gara, dichiarandone la caducazione degli effetti. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ' ha affermato la Corte ' attiene solo alla procedura di affidamento e non può incidere sul contratto successivo. La statuizione sulla caducazione degli effetti del contratto costituisce una pronuncia incidentale della decisione impugnata, neppure chiesta espressamente dalla società  ricorrente; essa sembra emessa al fine di evidenziare come l'interesse della Spa Mondialpol a rinnovare la gara sia stato soddisfatto dai disposti annullamenti.
Il lavoratore che chiede il risarcimento del danno da infortunio sul lavoro non deve provare la colposa inadempienza del datore
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Nel giugno del 1988 C. M. dipendente dell'impresa di lavorazione marmi Fratelli F. è stato investito da un'autogru in lento movimento,mentre l'accompagnava a piedi con il compito di fermare le oscillazioni della pedana carica di marmi trasportata dal mezzo. L'Inail, dopo avere erogato al lavoratore il trattamento previsto per l'infortuni sul lavoro, ha agito davanti al pretore di Caltanissetta per ottenere, in via di regresso, dall'azienda il pagamento di lire 70 milioni circa. L'impresa si è difesa sostenendo che il lavoratore aveva tenuto un comportamento imprudente e imprevedibile camminando tra le ruote dell'autogru e la pedana e accompagnando con le mani il movimento del carico. Sia il pretore che, in grado di appello, la Corte di Caltanissetta, hanno ritenuto l'impresa responsabile dell'infortunio in base all'art. 2087 cod. civ. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità  fisica del lavoratore, e l'hanno condannata a versare all'Inail la somma da questa richiesta. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro che la Corte di Caltanissetta avrebbe dovuto porre a carico dell'Inail la prova della propria colposa inadempienza all'obbligo di adottare le misure di sicurezza necessarie. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato che la responsabilità  conseguente alla violazione dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza (art. 2087 cod. civ.), che entra cosà a far parte del sinallagma contrattuale. Ne consegue ' ha osservato la Corte ' che il riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro proposta dal lavoratore, o dall'Istituto assicuratore in via di regresso, si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni; la regola sovrana in tale materia, desumibile dall'art. 1218 cod. civ., è che il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, il danno, e la sua riconducibilità  al titolo dell'obbligazione, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto ad essere gravato dall'onere di provare il proprio adempimento, o che l'inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile. Nell'applicare tali principi fondamentali civilistici alle complesse obbligazioni scaturenti dal contratto di lavoro, in particolare alla distribuzione degli oneri probatori per la responsabilità  del danno da infortunio sul lavoro ' ha ricordato la Corte ' si è ritenuto, ad es., in caso di infortunio provocato dall'uso di un macchinario, che il lavoratore deve provare il nesso causale tra uso del macchinario ed evento dannoso, restando gravato il datore di lavoro dell'onere di dimostrare di avere osservato le norme stabilite in relazione all'attività  svolta, nonché di avere adottato, ex art. 2087, tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità  del lavoratore; analoga è la soluzione in caso, ad es., di caduta accidentale di operaio edile da palazzo in costruzione, dove nessuno sostiene che tocchi al lavoratore provare l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di sicurezza nell'apprestamento delle opere provvisionali. La formulazione che si rinviene in alcune pronunce di legittimità , secondo cui il lavoratore infortunato ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di sicurezza ' ha affermato la Corte ' non appare coerente con il principio enunciato dalle Sezioni Unite e non può pertanto essere seguita. Il principio sopra esposto ' ha aggiunto la Cassazione ' non comporta l'affermazione di una responsabilità  oggettiva ex art. 2087 cod. civ., nella stessa misura in cui l'allegazione del mancato pagamento di una somma di denaro non comporta una responsabilità  oggettiva del debitore, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ.; la colpa del danneggiante è essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità  civile, ma vi è una diversità  di regime probatorio: nella responsabilità  extracontrattuale, il danneggiato deve provare il fatto, il danno, il nesso causale, e la colpa del danneggiante, ai sensi dell'art. 2697 cod. civ.; nella responsabilità  contrattuale l'art. 1218 (e l'art. 2087) cod. civ. pone una presunzione legale di colpa del debitore, ed opera una inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale anche della sua responsabilità  contrattuale. La Corte ha quindi formulato il seguente principio di diritto: «La responsabilità  del datore di lavoro ex art. 2087 codice civile è di carattere contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni; da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio sul lavoro, o l'Istituto assicuratore che agisca in via di regresso, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno».
Incompatibilità con gli obblighi verso il datore di lavoro per il dipendente assente con diagnosi di «astenia psicofisica»
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F. C., dipendente della Draco Italiana Spa, si è assentato per malattia nel periodo dal 30 giugno al 30 luglio 2000 con diagnosi di «astenia psico-fisica».L'azienda, avendo accertato che durante l'assenza egli aveva lavorato in una farmacia, prevalentemente nelle ore serali, lo ha licenziato in tronco. Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Milano hanno ritenuto illegittimo il licenziamento. Nella motivazione della sua decisione, la Corte di appello ha richiamato i principi più volte affermati dalla Suprema Corte, secondo cui lo svolgimento da parte del dipendente di una attività  lavorativa in proprio o presso terzi durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia costituisce inadempimento contrattuale nei confronti del datore di lavoro solo allorché tale attività  riveli l'inesistenza della malattia stessa nonché quando essa possa ritardare o pregiudicare la guarigione e quindi il rientro in servizio del lavoratore. Nell'applicare tali principi al caso in esame, la Corte territoriale ha peraltro ritenuto che il comportamento di F. C., di svolgimento di una attività  lavorativa nel periodo di assenza dal lavoro per malattia dal 30 giugno al 30 luglio 2000, non realizzasse un grave inadempimento agli obblighi contrattuali, in ragione del fatto che si era trattato di un tirocinio presso una farmacia, iniziato già  nel 1999, svolto prevalentemente nelle ore serali, come tale non valutabile come pregiudizievole per la guarigione o incompatibile con la malattia denunciata («astenia psico-fisica» come certificato e confermato in giudizio dal suo medico). L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte ha richiamato la sua costante giurisprudenza in materia di svolgimento di altra attività  lavorativa da parte del dipendente assente per malattia, secondo cui tale comportamento può giustificare il licenziamento per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà , oltre che nell'ipotesi in cui l'attività  esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche quando la medesima attività , valutata ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e con essa il rientro del lavoratore in servizio. Nell'applicare tale regola ' ha osservato la Cassazione ' la Corte territoriale ha affermato in maniera sostanzialmente apodittica e prevalentemente sulla base di mere ipotesi, che il lavoro svolto da F. C. negli orari prevalentemente notturni presso una farmacia della periferia milanese sia compatibile con la situazione di astenia che lo aveva fatto ritenere temporaneamente inidoneo a svolgere l'attività  lavorativa di impiego presso la datrice di lavoro Draco italiana, senza approfondire in maniera adeguata le cause della malattia, le caratteristiche proprie di essa, in un passo della sentenza definita «depressione», né le concrete mansioni svolte da F. C. sia presso la Draco che presso la farmacia, tutti elementi di rilevanza decisiva in direzione del duplice accertamento prima enunciato. La Suprema Corte ha pertanto cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte di appello di Brescia, che dovrà  approfondire la compatibilità  o meno del lavoro espletato dal dipendente presso terzi con lo stato di malattia denunciato e la sua idoneità  o non idoneità  a pregiudicare o ritardare, secondo una valutazione ex ante, la ripresa del servizio.
Il credito verso il fondo di garanzia Inps per il tfr può essere validamente ceduto dal lavoratore a una società finanziaria
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A. A., dipendente della Snc Alfimec, dichiarata fallita, ha ottenuto l'ammissione al passivo del fallimento per il suo credito per trattamento di fine rapporto;quindi ha ceduto alla società  finanziaria Futura Spa il suo credito verso il Fondo di Garanzia gestito dall'Inps per il pagamento del Tfr. La Spa Futura ha fatto valere, nei confronti dell'Inps, il credito cedutole, ma l'Istituto ha rifiutato il pagamento. La società  finanziaria ha chiesto al Tribunale di Brescia di condannare l'Inps al pagamento della somma dovuta dal Fondo di Garanzia per il Tfr maturato da A. A. nei confronti della datrice di lavoro fallita. Il Tribunale ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto la cessione del credito per Tfr non compatibile con la disciplina dell'accollo, da parte del Fondo di garanzia, delle obbligazioni del datore di lavoro insolvente. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia, che ha condannato l'Inps a pagare alla Spa Futura la somma di euro 11.027,00 corrispondente al Tfr dovuto ad A. A. L'Inps ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Brescia per violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la normativa sul Fondo di garanzia per il Tfr non escluda che il credito del lavoratore verso il Fondo possa essere ceduto. La Corte ha ricordato che, in base all'art. 2 della legge n. 297/82, il Fondo di garanzia per il Tfr ha «lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all'art. 2120 cod. civ., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto». L'espressione «aventi diritto» ' ha affermato la Corte ' deve intendersi riferita a tutti gli aventi causa, ivi compresi i cessionari del credito.
Se la divisa aziendale dev’essere indossata per ragioni estetiche, i lavoratori non hanno diritto allo spogliatoio per cambiar
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La riduzione della retribuzione pattuita con il lavoratore è illegittima – Essa giustifica le dimissioni senza preavviso
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Il contratto collettivo non continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, in base all’art. 2074 cod. civ.
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Questione di legittimità costituzionale dell’art. 1917 cod. civ.
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I turni di lavoro devono essere comunicati con congruo anticipo – Per consentire ai dipendenti di programmare il tempo libero
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Salute e sicurezza – Campi elettromagnetici
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Ammissione ai corsi di laurea universitari
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L'articolo 4 del decreto stabilisce che il punteggio massimo degli esami di ammissione ai corsi di laurea universitari ad accesso programmato,di cui all'articolo 1 della legge n. 264/1999, a partire dall'anno accademico 2008/09, è di 105 punti: 80 punti sono assegnati sulla base del risultato del test di ingresso e 25 punti sono assegnati agli studenti che abbiano conseguito risultati scolastici di particolare valore, appositamente certificati dai dirigenti scolastici, nell'ultimo triennio continuativo e nell'esame di Stato. (Gazzetta ufficiale n. 32 del 7 febbraio 2008
Percorsi di orientamento al lavoro
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Il decreto stabilisce che le scuole statali e paritarie dell'istruzione secondaria di secondo grado inseriscano,nel piano dell'offerta formativa, azioni di orientamento e iniziative di informazione finalizzate alla conoscenza, delle opportunità  formative offerte dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore, e dai percorsi finalizzati alle professioni e al lavoro. Tali iniziative, che si concretizzeranno attraverso intese e convenzioni con associazioni, collegi professionali, enti ed imprese, dovranno tenere conto delle vocazioni degli studenti e dei fabbisogni formativi del mondo del lavoro e delle professioni. (Gazzetta ufficiale n. 32 del 7 febbraio 2008)
Salute e sicurezza dei lavoratori
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Il decreto contiene le disposizioni per il riassetto e la riforma delle norme in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoromediante il riordino e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo. Le disposizioni si applicano a tutti i lavoratori, subordinati e autonomi di tutti i settori di attività , privati e pubblici, e a tutte le tipologie di rischio. Gli obblighi di prevenzione e protezione dei prestatori di lavoro nell'ambito di un contratto di somministrazione sono a carico dell'utilizzatore. In caso di distacco del lavoratore gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato. Il decreto si applica ai lavoratori a progetto e ai collaboratori coordinati e continuativi solo qualora la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente. Il Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività  di vigilanza in materia di salute e sicurezza sul lavoro, istituito presso il ministero della Salute, nel rispetto della leale collaborazione tra Stato e Regioni, ha il compito di: a) stabilire le linee comuni delle politiche nazionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro; b) individuare obiettivi e programmi dell'azione pubblica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori; c) definire la programmazione annuale in ordine ai settori prioritari di intervento dell'azione di vigilanza, i piani di attività  e i progetti operativi a livello nazionale, tenendo conto delle indicazioni provenienti dai comitati regionali di coordinamento e dai programmi di azione individuati in sede comunitaria; d) programmare il coordinamento della vigilanza a livello nazionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro; e) garantire lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere l'uniformità  dell'applicazione della normativa vigente; f) individuare le priorità  della ricerca in tema di prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Il datore di lavoro, in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, non può delegare la valutazione di tutti i rischi e la relativa elaborazione del documento previsto, nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Il datore di lavoro può delegare funzioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori solo qualora la delega: a) risulti da atto scritto con data certa e sia tempestivamente pubblicizzata; b) sia accettata dal delegato per iscritto, il quale deve possedere tutti i requisiti di professionalità  ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; c) attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate e l'autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate. La delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. Il datore di lavoro effettua la valutazione dei rischi ed elabora il relativo documento in collaborazione con il responsabile del servizio prevenzione e protezione e del medico competente, previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Il datore di lavoro e i dirigenti, secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, hanno l'obbligo di: a) nominare il medico competente per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria; b) designare preventivamente i lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza; c) affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto delle capacità  e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza; d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e il medico competente, ove presente; e) prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico; f) adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento; g) consentire ai lavoratori di verificare, mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l'applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute; h) comunicare all'Inail, o all'Ipsema, in relazione alle rispettive competenze, a fini statistici e informativi, i dati relativi agli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell'evento e, a fini assicurativi, le informazioni relative agli infortuni sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni; i) aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione; l) comunicare annualmente all'Inail i nominativi dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; m) fornire al servizio di prevenzione e protezione ed al medico competente informazioni in merito alla natura dei rischi, all'organizzazione del lavoro, alla programmazione e l'attuazione delle misure preventive e protettive, nonché i dati relativi alle malattie professionali. Il datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della propria azienda, o di una singola unità  produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero ciclo produttivo dell'azienda medesima: a) verifica dell'idoneità  tecnico professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare in appalto o mediante contratto d'opera o di somministrazione. Fino alla data di entrata in vigore del decreto in materia di definizione del sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità : 1) acquisizione del certificato di iscrizione alla Camera di commercio, industria e artigianato, 2) acquisizione dell'autocertificazione dell'impresa appaltatrice o dei lavoratori autonomi del possesso dei requisiti di idoneità  tecnico professionale; b) fornisce agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività . (Gazzetta ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008)
Precisa indicazione dell’inizio e della fine della astensione secondo la regolamentazione del settore delle telecomunicazioni
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Produttività del lavoro
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Il decreto introduce in via sperimentale, per il settore privato e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore nell'anno 2007 a 30.000 euro,e salva espressa rinuncia del prestatore di lavoro, nel periodo dal 1° luglio 2008 al 31 dicembre 2008, «una imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento, entro il limite di importo complessivo di 3.000 euro lordi, le somme erogate a livello aziendale: a) per prestazioni di lavoro straordinario, ai sensi del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, effettuate nel periodo suddetto; b) per prestazioni di lavoro supplementare ovvero per prestazioni rese in funzione di clausole elastiche effettuate nel periodo suddetto e con esclusivo riferimento a contratti di lavoro a tempo parziale stipulati prima della data di entrata in vigore del presente provvedimento; c) in relazione a incrementi di produttività , innovazione ed efficienza organizzativa altri elementi di competitività  e redditività  legati all'andamento economico dell'impresa». Tali somme erogate non concorrono ai fini fiscali e della determinazione della situazione economica del prestatore di lavoro e del suo nucleo familiare entro il limite di 3.000 euro, ma saranno computati ai fini dell'accesso alle prestazioni previdenziali e assistenziali. Trenta giorni prima del termine della sperimentazione, il ministro del Lavoro con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, daranno luogo a una verifica degli effetti delle disposizioni in esso contenute. (Gazzetta ufficiale n. 124 del 28 maggio 2008)
Schede del personale dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e dell’arma dei carabinieri
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Computo dei «giorni lavorativi ai fini del termine per il tentativo di conciliazione da parte delle p.a.
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La Commissione ha rilevato che ' con riguardo al termine entro il quale deve essere esperito il tentativo di conciliazione ' l'indicazione dei «giorni lavorativi» (3 o 5)prevista dalle diverse Regolamentazioni ed Accordi di settore generalmente si riferisce alla qualificazione dei giorni con riferimento all'attività  prestata presso l'amministrazione medesima, atteso che si tratta di un termine ultimo entro il quale la pubblica amministrazione deve procedere alla convocazione ed alla promozione del tentativo di conciliazione. Pertanto la Commissione ha adottato una delibera di indirizzo secondo cui, ove nelle Regolamentazioni provvisorie o negli Accordi di settore si faccia riferimento «ai giorni lavorativi», entro i quali deve essere promosso ed esperito il tentativo di conciliazione, per la qualificazione dei giorni deve essere preso a riferimento l'orario di lavoro della pubblica amministrazione che deve promuovere l'esperimento del tentativo di conciliazione.
Immediata pubblicazione dei dati sugli scioperi
Abbonati
A seguito della richiesta delle Oo.Ss. di conoscere le modalità  di pubblicazione delle informazioni di cui all'art. 5 della legge n. 146/90,la Commissione ha integralmente confermato le disposizioni adottate in precedenza con la delibera del 21 gennaio 1993. Dopo avere ribadito che la tempestiva conoscenza dei dati inerenti alle astensioni dal lavoro è di particolare utilità  in quanto permette all'utenza di valutare sia la congruità  dell'intervallo intercorrente tra la cessazione dello sciopero e la riattivazione del servizio normale, sia la qualità  e la quantità  del servizio erogato durante lo sciopero in rapporto al numero degli aderenti al medesimo. Inoltre, tale conoscenza ' consentendo all'utenza di formulare attendibili previsioni in ordine all'incidenza sui servizi di eventuali scioperi successivamente proclamati dalle medesime Oo.Ss. ' rappresenta un'indispensabile integrazione della comunicazione agli utenti cui sono tenuti i datori di lavoro ed i mezzi di comunicazione di massa, in forza dei commi 6 e 7 dell'art. 2, legge 146/1990. Infine queste informazioni accrescono la trasparenza della dinamica conflittuale, favorendo l'indiretto controllo dell'utenza sullo stesso operato delle Amministrazioni od Imprese erogatrici di servizi pubblici essenziali. Per queste ragioni la Commissione ha riaffermato che i datori di lavoro siano tenuti a trasmettere subito dopo la cessazione dello sciopero i dati di cui all'art. 5 della legge 146/90, in caso di sciopero nazionale, alla Rai e, in caso di scioperi locali, alle emittenti locali, affinché siano immediatamente resi noti nel corso dei telegiornali, nonché trasmessi ai quotidiani di cui alla delibera richiamata, affinché siano pubblicati nella prima edizione utile, opportunamente distinguendo tra scioperi nazionali e scioperi locali, nonché trasmessi alla stessa Commissione di garanzia. La Commissione ha ora disposto anche di considerare la mancanza di comunicazione, a questa Commissione, delle informazioni di cui all'art. 5 della legge n. 146 del 1990 e successive modificazioni, come inottemperanza a quanto previsto dall'art. 2, comma 6, della legge stessa, anche al fine di un eventuale provvedimento sanzionatorio.
Termine per la seconda fase della procedura di raffreddamento nel settore del trasporto aereo
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La Commissione ha rilevato che la disciplina del settore del Trasporto Aereo di cui alla delibera n. 01/92,non prevede un termine entro il quale le parti devono attivare la seconda fase della procedura di raffreddamento e conciliazione, sebbene il ricorso a dette procedure sia obbligatorio per entrambe le parti e che «la mancata attuazione anche di una sola fase delle stesse non può determinare l'aggravamento del conflitto in corso ». La commissione ha quindi deliberato di indicare in novanta giorni dall'esaurimento della prima fase delle procedure di raffreddamento e conciliazione, il termine perentorio entro il quale le parti sono tenute ad avanzare la richiesta di attivazione della seconda fase di dette procedure.
Prestazioni ai superstiti previste da un regime obbligatorio previdenziale di categoria – Nozione di «retribuzione»
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Calcolo dei periodi assicurativi – Domanda di pensione – Residenza in uno Stato terzo
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Regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia istituito da un ente federato di uno Stato membro
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Prestazioni corrisposte nell'ambito di un regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia,che attribuisce il diritto, secondo criteri obiettivi e in base ad una situazione legalmente definita, all'accollo, da parte di una cassa di assicurazione contro la mancanza di autonomia, delle spese sostenute per la prestazione di aiuto e di servizi non aventi carattere medico alle persone che soffrano di una riduzione della propria autonomia a causa di una grave e prolungata incapacità , rientrano nella sfera di applicazione ratione materiae del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità . Infatti, prestazioni intese a migliorare lo stato di salute nonché la vita delle persone prive di autonomia mirano essenzialmente a integrare le prestazioni dell'assicurazione malattia e devono essere considerate «prestazioni di malattia » ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. a), di tale regolamento. Peraltro, un tale regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia disciplinato da disposizioni nazionali applicabili solo ad una parte del territorio di uno Stato membro non può essere escluso dalla sfera di applicazione del regolamento n. 1408/71, atteso che è finanziato, quantomeno in parte, da contributi versati dagli assicurati, e non è menzionato dall'allegato II, sezione III, del regolamento n. 1408/71. Gli artt. 39 Ce e 43 Ce devono essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa di un ente federato di uno Stato membro, come quella che disciplina l'assicurazione contro la mancanza di autonomia, istituita dalla Comunità  fiamminga, che limita l'affiliazione al regime previdenziale e il beneficio delle prestazioni che esso prevede alle persone che risiedono nel territorio compreso nella competenza di tale ente ovvero esercitano un'attività  lavorativa nel territorio medesimo pur risiedendo in un altro Stato membro, in quanto tale limitazione incide su cittadini di altri Stati membri o su cittadini dello Stato medesimo che abbiano esercitato il loro diritto alla libera circolazione all'interno della Comunità  europea. Gli artt. 39 Ce e 43 Ce devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di un ente federato di uno Stato membro che limiti l'affiliazione ad un regime di previdenza sociale ed il beneficio delle prestazioni previste dal regime medesimo alle sole persone residenti nel territorio di tale ente, in quanto detta limitazione incida su cittadini di altri Stati membri che esercitino un'attività  lavorativa nel territorio dell'ente medesimo, ovvero su cittadini dello Stato stesso che abbiano esercitato il proprio diritto alla libera circolazione all'interno della Comunità  europea.
Clausole 4 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione – Condizioni di impiego
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Previdenza sociale – Assegni familiari – Sospensione del diritto alle prestazioni – Legislazione applicabile
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Rapporto di pubblico impiego – Contratto di formazione e lavoro – Requisiti di età – Legittimità
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P.I. - Servizio svolto da docente non di ruolo presso istituto non pareggiato - Disparità di trattamento economico e giuridico
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Non sussiste alcun diritto all'equiparazione, ai fini giuridici ed economici, del servizio svolto da un docente presso un Istituto «non pareggiato» rispetto ai docenti non di ruoloche hanno svolto il medesimo servizio presso un Istituto «pareggiato ». Nella fattispecie, il lavoratore, dipendente della Provincia regionale di Caltanissetta, dopo essere stato immesso nel ruolo definitivo dei docenti presso l'Istituto musicale non pareggiato «Vincenzo Bellini» di Mazzarino, ha chiesto il riconoscimento, ai fini giuridici ed economici, del servizio svolto negli anni compresi dal 1991 al 2002, come docente non di ruolo presso il medesimo Istituto. Il professore censurava la disparità  di trattamento rispetto ai docenti non di ruolo che avevano svolto il proprio servizio presso l'Istituto pareggiato «Vincenzo Bellini» di Caltanissetta, pur essendo tutti dipendenti della Provincia regionale di Caltanissetta. Il Tribunale di Caltanissetta ha rigettato la domanda del ricorrente sostenendo che, nella fattispecie, debba trovare applicazione l'art. 485 d.lgs. 297/94, secondo cui il diritto alla ricostruzione della carriera spetta soltanto al personale docente delle scuole di istruzione secondaria ed artistica, prestato presso le scuole statali e pareggiate. Poiché l'Istituto di Mazzarino, al tempo in cui il docente ha prestato servizio, non era pareggiato, non gli spetta il riconoscimento della continuità  del servizio. Il decidente afferma, infatti, che l'Amministrazione avrebbe correttamente rigettato la richiesta del docente, perché, in applicazione della norma richiamata, non potrebbe riconoscere al lavoratore il servizio prestato prima dell'immissione in ruolo, «in considerazione della diversa natura giuridica dell'Istituto musicale di Mazzarino e dell'Istituto musicale di Caltanissetta e della netta differenza delineata dal legislatore nel Testo Unico in materia di Istruzione tra scuole non statali pareggiate e scuole non statali non pareggiate». Secondo il Tribunale nisseno, a nulla vale la considerazione che l'Istituto musicale di Mazzarino fosse in attesa del provvedimento di pareggiamento, perché non si può parificare la posizione giuridica di un istituto in attesa di pareggiamento con quella di un istituto già  pareggiato, equiparando la posizione degli insegnanti, perché le carriere hanno seguito un iter professionale differente, proprio in ragione della diversa qualificazione dei due Istituti. Per le medesime ragioni, il giudice di primo grado ha rigettato la richiesta di sottoporre alla Corte costituzionale la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 485 d. lgs. 297/94, per presunto contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione. È stata, infine, rigettata la richiesta di indennizzare, ai sensi dell'art. 2041 cod. civ., il docente per l'ingiustificato arricchimento dell'Amministrazione resistente a causa dei benefici derivanti dall'utilizzazione della prestazione. Sul punto, il Tribunale si limita a rilevare che la disposizione del codice civile, per essere applicata, richiede che l'arricchimento di un soggetto ai danni di un altro abbia il carattere dell'indebito «e tale non può essere l'eventuale vantaggio che tragga origine da una norma legislativa».
Compenso per prestazioni di assistenza domiciliare
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Alcuni dipendenti dell'Asl adivano il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli per ottenere il riconoscimento del diritto all'indennità  di assistenza domiciliare,ai sensi di quanto disposto dall'articolo 26 Ccnl comparto Sanità , per un totale di giorni indicati in ricorso e attestati dal certificato a firma del Responsabile del distretto. L'Asl convenuta non si costituiva. Il giudice del lavoro adito, decidendo la causa, accoglieva integralmente la domanda degli istanti e riconosceva il fondamento del diritto nell'Accordo integrativo del Ccnl che all'art. 26 espressamente prevede che «a decorrere dal 1° gennaio del 2003, al personale del ruolo sanitario [â?¦] nonché agli ausiliari specializzati [â?¦] dipendenti dell'azienda o ente che espletano in via diretta le prestazioni di assistenza domiciliare presso l'utente compete un'indennità  giornaliera ' nella misura sottoindicata ' per ogni giorno di servizio prestato: a) [â?¦] b) personale appartenente alla categoria D, ivi compreso il livello economico Ds: â?¬ 5,16 lordi». Risulta importante evidenziare che le condizioni poste a base del riconoscimento del diritto invocato sono: l'appartenenza al personale aziendale, l'attività  di assistenza domiciliare e la presenza in servizio. Avendo gli istanti provato documentalmente tutti i requisiti invocati dalla norma: l'inquadramento nel livello D (mediante deposito di buste paga) e l'effettivo svolgimento di assistenza domiciliare dal 1° gennaio 2003 al 2006 (mediante prospetti versati in atti) è loro applicabile il disposto dell'art. 26 del Ccnl del 19 aprile 2004 con condanna della convenuta al pagamento in favore dei ricorrenti delle somme richieste, rimaste incontestate stante la mancata costituzione della convenuta, a titolo di indennità  di assistenza domiciliare.
Diritto al Tfr del socio lavoratore di cooperativa e inopponibilità della relativa rinuncia
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Dopo aver lavorato circa vent'anni, al socio lavoratore della cooperativa YY veniva corrisposto solo parzialmente il Trattamento di fine rapporto.Adiva quindi il giudice del lavoro al fine di ottenere la condanna della convenuta al pagamento dell'integrale importo oltre accessori. La convenuta si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso per quanto maturato a tale titolo fino al 1995, per aver il ricorrente rinunciato ad ogni azione di responsabilità  nei confronti della Cooperativa, e l'estromissione dal giudizio per il periodo successivo, in quanto il giudice del lavoro in un diverso giudizio promosso sempre dal ricorrente aveva rilevato l'interposizione di manodopera tra la convenuta cooperativa e la Spa Ferrovie dello Stato, dichiarando il ricorrente lavoratore subordinato di quest'ultima sin dal 1995. Il giudice del lavoro adito, decidendo la causa, accoglieva integralmente la domanda del ricorrente. In particolare, il giudice del lavoro ha evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cooperativa, «dagli atti risulta che l'assunzione è avvenuta solo il 22 ottobre 2004 con verbale di conciliazione, [â?¦] verbale ad avviso del giudicante inopponibile alla convenuta spiegando i suoi effetti unicamente tra le parti cui esso si riferisce. Prima di tale data non può escludersi l'obbligazione della convenuta la quale resta obbligata in via solidale. La delibera del 2004, con la quale il ricorrente come gli altri soci lavoratori ha deliberato di rinunciare ad ogni azione di responsabilità  nei confronti della Cooperativa per ogni problematica relativa al Tfr, è in opponibile riguardando diritti indisponibili». A sostegno della propria tesi il giudicante pone la sentenza della Suprema Corte di cassazione n. 12983/92 per la quale «la dichiarazione rilasciata dal lavoratore che dà  atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non avere altro da pretendere dal proprio datore di lavoro, costituisce di norma una mera dichiarazione di scienza e di opinione la cosiddetta quietanza a saldo o liberatoria, come tale non preclusiva, in caso di errore, della possibilità  di agire, nel termine di prescrizione, per il riconoscimento dei diritti che risultassero viceversa in realtà  insoddisfatti». Ne consegue, l'incontestabilità  del diritto del lavoratore a percepire l'integrale importo maturato a titolo di trattamento di fine rapporto al momento della risoluzione del rapporto di lavoro subordinato e la conseguente condanna di parte convenuta al pagamento della differenza ancora da corrispondere, oltre accessori.
Riconoscimento della qualifica corrispondente a quella posseduta nell’ente di provenienza
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Contratto a tempo determinato – Omessa specificazione nominativo dipendente da sostituire – Nullità – Sussistenza
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Riconoscimento della natura professionale di una malattia non tabellata – Sussistenza
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Infortunio sul lavoro – Richiesta risarcimento danni - Inammissibilità per intervenuta transazione su rivendicazioni economi
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Accertamento lavoro subordinato – Distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo
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Licenziamento disciplinare – Termine previsto dal Ccnl per l’adozione dello stesso – Natura perentoria
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Diritto di assemblea – Clausola del contratto collettivo che ne riconosce la titolarità in capo alle OO.SS. provinciali
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Esclusione socio lavoratore – Estinzione rapporto di lavoro – Necessità atto formale di licenziamento – Insussistente
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Referendum – Elezioni amministrative – Protrazione operazioni oltre la mezzanotte - Diritto al riposo pieno per tale giornat
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Ricorso per decreto ingiuntivo – Opposizione – Transazione – Obbligazioni tributarie – C.d. «Patto di netto»
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Opposizione a decreto ingiuntivo – Utilizzo dell’autovettura aziendale per fini personali – Legittimità
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Determinazione equitativa del termine esterno di un licenziamento per superamento di comporto
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Un lavoratore disabile veniva licenziato per superamento del periodo di comporto a seguito di una pluralità  di episodi morbosiche avevano determinato 527 giorni di assenza per malattia nel triennio precedente il licenziamento sulla base di una norma del Ccnl in vigore al momento della risoluzione che aveva stabilito un termine interno di tolleranza di 18 mesi per malattie intermittenti senza tuttavia indicare il termine esterno di riferimento. Il Tribunale di Milano e la locale Corte di appello rigettavano la pretesa del lavoratore ritenendo che nel caso di assenze verificatesi a cavallo di due successivi contratti collettivi, il termine esterno ben poteva ricompredere assenze maturate in vigenza del precedente contratto collettivo. In sede di legittimità  il lavoratore rilevava che in mancanza di una norma di coordinamento fra due contratti i principi di buona fede contrattuale escludono che la retroattività  del termine esterno possa retroagire fino a comprendere assenze maturate nel precedente contratto collettivo ormai esaurito. La Corte di cassazione ha respinto il gravame del lavoratore affermando che nel caso in cui ad una disciplina collettiva ne succeda un'altra di analoga natura si realizza l'immediata sostituzione delle nuove clausole a quelle precedenti, ancorché la nuova disciplina sia meno favorevole al lavoratore. Sulla base di tali principi i giudici della Suprema Corte hanno quindi ritenuto che in caso di assenze per malattia verificatesi a cavallo di due successivi contratti collettivi l'equitativa fissazione del termine esterno del periodo di comporto, con riferimento alla durata del contratto collettivo, non costituisce ostacolo a calcolare il comporto con riferimento alle assenze complessive del lavoratore, ancorché iniziate prima dell'entrata in vigore del secondo contratto.
Il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova
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Un lavoratore assunto alle dipendenze di una azienda alberghiera con contratto assoggettato ad una clausola di provaveniva licenziato nel corso del periodo di prova a causa delle numerose assenze effettuate a causa di malattia. Il Tribunale di Roma con sentenza confermata in sede di appello accoglieva la domanda del ricorrente. La Suprema Corte nel respingere il ricorso di legittimità  formulato dall'azienda soccombente ha affermato che il mancato superamento del periodo di prova costituisce un giustificato motivo di recesso che deve essere espressamente indicato e qualificato come tale. Un recesso intimato nel corso del periodo di prova per altri motivi non può poi essere ricondotto nell'ambito della libera recedibilità  stabilita nel patto di prova.
La nullità di un licenziamento in maternità sussiste dallo stato oggettivo, mentre il danno matura quando il datore è informa
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Una lavoratrice nel corso del suo periodo di gravidanza non comunicato all'azienda veniva licenziata dall'azienda datrice di lavoro nel corso di una ristrutturazione.Dopo alcuni mesi la dipendente impugnava il licenziamento e richiedeva il ripristino del rapporto lavoratorivo oltre il pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. Il Tribunale di Roma e la locale Corte di appello accoglievano parzialmente la domanda escludendo la sussistenza di un danno risarcibile. La Suprema Corte ha, viceversa, accolto il ricorso della lavoratrice ricordando il suo consolidato orientamento secondo cui il divieto di licenziamento di cui all'art. 2 della legge 1204/71 opera in connessione con lo stato obiettivo della gravidanza e pertanto il licenziamento intimato nonostante il divieto comporta anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto e ancorché il datore di lavoro sia inconsapevole dello stato di gravidanza. Con riferimento alla maturazione del danno la Corte di cassazione ha comunque ritenuto che almeno dalla notifica del ricorso il datore di lavoro era stato reso consapevole dello stato della propria lavoratrice non potendo oltre tale data ritenersi esente da responsabilità  per mancata informazione.
Dopo la riforma del giudizio di Cassazione il contratto collettivo deve essere prodotto nel testo integrale e non in estratto
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Un dipendente da ente lirico conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Palermo per ottenere la riliquidazione dell'indennità  di anzianità  e del Tfrcon il computo dei compensi percepiti per le attività  promozionali. Il giudice accoglieva la domanda interpretando l'art. 43, comma 4, del Ccnl 17 gennaio 1989 con una decisione emessa ai sensi dell'art. 420-bis cod. proc. civ. La Cassazione ha dichiarato improcedibile il ricorso ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. affermando che la norma sopra citata «impone a carico del ricorrente un onere di produzione che ha per oggetto il contratto nel suo testo integrale e non già  nella sola parte su cui si è svoltoil contraddittorio o che viene invocata nel ricorso per cassazione. La chiarezza della disposizione sopra citata, nella parte in cui siriferisce ai contratti o accordi collettivi, non lascia spazio, in applicazione dei criteri ermeneutici fissati dall'art. 12, comma 1, delle Disposizioni sulla legge in generale, ad una interpretazione diversa, che consideri cioè sufficiente una produzione limitata ad un «estratto» del contratto collettivo ancorché contenente tutte le norme della cui interpretazione si controverte. L'interpretazione accolta appare, del resto, la più coerente con le finalità  che la riforma introdotta col d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha inteso perseguire con l'introduzione del meccanismo di accertamento pregiudiziale dell'efficacia, validità  ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi disciplinato dall'art. 420-bis cod. proc. civ., tenuto conto del fatto che l'adempimento previsto dall'art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, ha carattere strumentale rispetto al giudizio di cassazione previsto dal citato art. 420-bis cod. proc. civ.».
La Cassazione torna nuovamente sul riparto probatorio in materia di infortuni sul lavoro
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Un lavoratore addetto a funzioni di capo squadra nel corso della prestazione lavorativa subiva un grave infortunioa seguito dello sganciamento di una paratia che lo stesso era tenuto a controllare prima di iniziare la propria attività  lavorativa nel cantiere. Il Tribunale di Milano con sentenza confermata in sede di appello, respingeva la domanda di risarcimento sul rilievo che non risultava provata la responsabilità  dell'azienda anche tenuto conto dell'esperienza del lavoratore, del suo ruolo di caposquadra che gli imponeva di effettuare il controllo dell'aggancio del pannello che, omesso, era stato poi la ragione dell'infortunio da parte dello stesso dipendente. La Corte nell'accogliere il ricorso del lavoratore, ha ritenuto, viceversa, l'erroneità  della decisione della Corte di appello che ha attuato un inesatto riparto dell'onere probatorio. La Corte di cassazione, infatti, in manifesto contrasto con alcuni precedenti ha affermato che la formulazione che si rinviene in alcune pronunzie secondo cui il lavoratore infortunato ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di sicurezza non appare conforme al principio di riparto dell'onere della prova in materia di inadempienza di obbligazioni contrattuali. Diversamente dalla responsabilità  aquiliana la responsabilità  del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. ' conclude la Suprema Corte ' è di carattere contrattuale perché il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni. Da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, il danno ed il nesso causale con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. In tale prospettiva le qualità  professionali di un lavoratore tenuto ad una particolare diligenza e sorveglianza sull'operato di altri lavoratori della squadra possono indurre il giudice del merito ad una particolare valutazione del suo concorso causale ad un infortunio a proprio danno ma non ad escludere l'incidenza causale su tale infortunio. Il datore di lavoro ' conclude, infatti, la Cassazione ' assume una obbligazione di sicurezza in termini assai severi in quanto le norme a prevenzione degli infortuni sono dirette ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose per il lavoratore certamente se derivanti da disattenzione, ma anche se ascrivibili a sua imperizia o negligenza. Sulla base di tale gravoso impegno il datore di lavoro è responsabile dell'infortunio sia quando ometta di adottare le misure idonee protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente.
Il rifiuto ad essere regolarizzati non costituisce un valido indizio per escludere la subordinazione del rapporto di lavoro
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Nel respingere il gravame di legittimità  promosso da una azienda che aveva visto accertata dal Tribunale di Cremala sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con un collaboratore che in più occasioni aveva rifiutato la regolarizzazione del rapporto, la Corte di cassazione ha ritenuto ininfluente tale circostanza nel giudizio di qualificazione del rapporto lavorativo. Afferma, infatti, la Corte di cassazione che il rifiuto della regolarizzazione semmai è indice della consapevolezza del datore di lavoro circa la natura subordinata del rapporto. D'atra parte ' prosegue la Corte ' anche a voler trarne la conclusione dell'esistenza di una comune volontà  contrattuale di mantenere il rapporto nell'alveo della libera collaborazione, deve comunque rilevarsi che ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro poiché il contratto dà  vita ad un rapporto che si protrae nel tempo la volontà  che esso esprime cosà come il nomen iuris non costituiscono fattori assorbenti divenendo, viceversa, il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario anche per l'accertamento di una diversa volontà  intervenuta nel corso di attuazione del rapporto e diretta a modificare l'originario assetto.
Prima decisione della Cassazione sulla normativa di attuazione della direttiva dei contratti a termine
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Nel corso di un giudizio promosso da alcuni lavoratori assunti la società  concessionaria del servizio postale,soccombente nei giudizi di merito, ricorreva innanzi alla Corte di cassazione rilevando l'illegittimità  della sentenza che aveva fatto discendere dal sistema la regola per la quale in caso di apposizione del termine non consentita il contratto si trasforma a tempo indeterminato nonostante la mancanza di una espressa previsione. Poste italiane Spa in particolare rilevava che dalla mancanza di una regola di conversione espressa non può desumersi la sussistenza di un principio di trasformazione del contratto a tempo indeterminato. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso ha affermato che il decreto legislativo 368/2001 anche prima della integrazione della legge 247/2007 ha senz'altro confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione di una clausola di durata una ipotesi derogatoria rispetto al principio generale. Nell'affermare tale principio la Corte di cassazione ha ritenuto che la regola trova il proprio fondamento sia su una lettura attenta della direttiva comunitaria che dei lavoratori preparatori della legge di attuazione. A seguito di una attenta disamina del contenuto della direttiva la Corte di cassazione ha affermato che la stessa introduce a livello comunitario il principio della eccezionalità  del contratto a termine, espressamente dissentendo dalla tesi che ritiene oggetto della direttiva i rinnovi e non il primo ed unico contratto a tempo determinato in quanto di per sé sia estraneo all'oggetto della direttiva. Sulla base di tali principi la Corte ha escluso che possa, quindi, trovare applicazione l'istituto della nullità  totale del contratto ai sensi dell'art. 1419 cod. civ. che costituisce, peraltro, un principio di carattere eccezionale. La Suprema Corte, richiamando un autorevole precedente della Corte costituzionale in materia di part-time, ha altresà affermato che alla nullità  totale del contratto osta l'inderogabilità  tipica delle norme poste a tutela dei lavoratori dal momento che la clausola invalida viene sostituita da una regola posta a tutela di interessi collettivi di preminente interesse pubblico. Nel richiamare i principi stabiliti dalla consulta con riferimento al rapporto di part-time, il Supremo Collegio ha quindi ritenuto che le considerazioni svolte dal giudice delle leggi per la loro portata generale nel quadro della eteroregolazione del contratto di lavoro subordinato si attagliano perfettamente al nuovo regime stabilito dall'art. 1 del decreto legislativo 368/2001, senza che rilevi in alcun modo la mancanza di una norma sanzionatoria espressa.
La mobilità ben può essere limitata alla situazione occupazionale di una singola unità produttiva
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Un lavoratore addetto presso uno stabilimento nella provincia di Salerno di una multinazionale della ceramica veniva licenziatoall'esito di una procedura di mobilità  che prevedeva la chiusura dello stabilimento. Nel corso del giudizio innanzi al Tribunale di Salerno il lavoratore eccepiva l'insufficienza della comunicazione fornita dall'azienda alle Oo.Ss. che non prevedeva le misure alternative ai licenziamenti e comunque la mancata disamina delle analoghe professionalità  e situazioni aziendali esistenti negli altri stabilimenti italiani dell'azienda. La domanda del lavoratore veniva respinta nei due giudizi di merito. La Suprema Corte respingeva il ricorso di legittimità  del lavoratore confermando la legittimità  della locale Corte di appello. In particolare la Corte di cassazione ha affermato che sulla base della nuova disciplina contenuta nella legge 223/91 che ha attribuito un ruolo rilevante in capo alle Oo.Ss. destinatarie di dettagliate informazioni in ordine alle ragione del ricorso alla mobilità , i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della risoluzione del personale a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. Ne deriva che, a differenza di quanto accadeva prima dell'entrata in vigore della legge 223/91, condotte datoriali ' quali la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, l'assunzione di nuovi lavoratori o la devoluzione all'esterno dell'impresa di parte della produzione ' successive al licenziamento collettivo non sono suscettibili di incidere sulla validità  del licenziamento stesso una volta che la procedura per mobilità  si sia svolta nel rispetto dei vari adempimenti previsti. Nel respingere il gravame, la Cassazione ha quindi affermato che la lettera della legge non consente di dubitare che la riduzione o trasformazione di attività  o di lavoro, ovvero la cessazione di attività  ed il connesso numero minimo di licenziamento può riguardare una singola unità  produttiva. Ciò posto ' conclude la Corte ' nel caso in cui sia disposta la chiusura di un settore o ramo di azienda, tenuto conto che ai fini dell'applicazione dei criteri di scelta dettati dall'art. 5 della legge 223/91 la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità  può essere effettuata avendo riguardo soltanto ai lavoratori addetti al settore o al ramo interessato dalla chiusura o dalla ristrutturazione e non rilevano analoghe professionalità  presenti all'intero complesso organizzativo e produttivo presso altre unità  produttive.
Invalidi civili
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La Corte costituzionale, pur dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità  costituzionaledella norma impugnata nella parte in cui non prevede, ai fini della pensione di inabilità  civile, l'esclusione dal computo dei redditi del nucleo familiare del richiedente (come invece accade per l'assegno di invalidità  civile), tra le righe ha evidenziato di ritenere «non implausibile» una lettura della norma che, costituzionalmente orientata, possa prevedere una giusta parificazione tra le due prestazioni in ordine al computo del reddito. Nel senso, ovviamente, di escludere il reddito familiare-coniugale dalle condizioni reddituali per ottenere la pensione di inabilità  civile. In effetti siamo di fronte ad una netta spaccatura interpretativa tra chi sostiene (come lo stesso Inps a livello amministrativo e, ovviamente, i patronati) l'interpretazione a favore degli inabili civili e chi, invece, sostiene il contrario (alcune sentenze di Cassazione e la consulenza legale Inps).
Il trattamento pensionistico non riduce il danno subito dal lavoratore reintegrato al suo posto dopo un licenziamento inefficace
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Lamentando di essere stato verbalmente licenziato, Un lavoratore adiva, al fine di vedere disposto il ripristino del proprio rapporto lavorativo,il Tribunale di Teramo che, accertata l'inefficacia del recesso, condannava l'azienda al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate. La sentenza veniva riformata relativamente al capo della quantificazione del risarcimento danni dalla Corte di appello di L'Aquila che limitava il danno detraendo il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore. La Corte di cassazione nell'accogliere il gravame del lavoratore ha affermato, richiamando un precedente specifico delle Sezioni Unite, che in caso di licenziamento illegittimo il danno non può essere decurtato degli importi percepiti eventualmente a titolo di pensione, atteso che i diritto di pensione discende da presupposti (limiti età  e requisiti di contribuzione) stabiliti dalla legge e prescinde del tutto dalla disponibilità  e dall'impiego di energie lavorative e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Sulla base di tali principi la Corte di cassazione, ha quindi ritenuto che le utilità  economiche che il lavoratore ritrae dalla collocazione in quiescenza, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso esercitato dal datore di lavoro, si sottraggono alla operatività  della regola della compensatio lucri cum damno.
Contributi svizzeri
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È legittima l'interpretazione autentica fornita dalla legge Finanziaria 2007 con riguardo alla riparametrazione del trattamento pensionisticoin relazione a periodi di lavoro svolti in Svizzera. La Corte di cassazione aveva sostenuto l'incostituzionalità  della norma impugnata in riferimento all'art. 3, comma 1, art. 38, comma 2, e art. 35, comma 4, della Costituzione qualificando la norma come innovativa e non interpretativa. Il carattere innovativo sarebbe derivato dall'incontrastato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale il lavoratore italiano, richiedente il trasferimento dei contributi, avrebbe avuto diritto alla determinazione della pensione sulla base della retribuzione effettivamente percepita in Svizzera, non rilevando la minore aliquota contributiva elvetica. L'introduzione di un nuovo criterio di calcolo, non ricavabile dalla disposizione interpretata, avrebbe violato l'art. 3, comma 1, Cost. e con esso l'affidamento riposto dai titolari di pensione nella certezza dei rapporti giuridici. La Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione affermando che la norma ha reso esplicito un precetto già  contenuto nella normativa previdenziale, secondo il quale, nei casi in cui occorre calcolare la retribuzione pensionabile di chi abbia versato i contributi secondo sistemi diversi da quello italiano, si procede ad una riparametrazione della retribuzione percepita all'estero che consenta di rendere il rapporto (tra retribuzione pensionabile e contributi versati) omogeneo a quello vigente in Italia. La norma censurata, quindi, non determina alcuna lesione dell'affidamento del cittadino nella certezza dell'ordinamento giuridico nella parte in cui dà  della disposizione interpretata un significato rientrante nelle possibili letture del testo originario.
Spoil system e incarichi dirigenziali esterni
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È incostituzionale la norma del d.l. Bersani-Visco nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali «esterni» (dipendenti da altre amministrazioni),conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legge. La Corte costituzionale ha quindi accolto la questione sollevata dal Tribunale di Roma. Riprendendo quanto già  enunciato nella sentenza n. 103/2007 (sullo spoil system per gli incarichi dirigenziali «interni»), la Corte ha sottolineato come sia necessario assicurare la continuità  dell'azione amministrativa e una chiara distinzione tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione, in armonia con l'art. 97 Cost. D'altra parte, sostiene il giudice costituzionale, non vi sono ragioni per distinguere tra dirigenti esterni ed interni, considerando che la natura esterna dell'incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale.
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