Descrizione
Incostituzionalità del d.l. Bersani-Visco su spoil system e incarichi dirigenziali esterni Costituzionalità della norma sulla riparametrazione dei contributi svizzeri La Cassazione e la conversione del contratto a termine illegittimo dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 368 del 2001Il direttore amministrativo di una università non può provvedere alla sostituzione di componenti della Rsu
Nella Rsu (rappresentanza sindacale unitaria) costituita dai dipendenti dell'Università di Messina è accaduto che due componenti,appartenenti alla Cgil,
siano passati a una diversa organizzazione sindacale mentre un terzo si è dimesso. La
Cgil ha chiesto all'Amministrazione di sostituire tali componenti. Il direttore amministrativo
dell'Università ha provveduto alla richiesta sostituzione. Le organizzazioni sindacali
Cisl, Uil e Confsal Snals hanno promosso nei confronti dell'Università , davanti al
Tribunale di Messina, un procedimento per repressione di comportamento antisindacale,
in base all'art. 28 Stat. lav., sostenendo che all'Amministrazione non era consentito
interferire nella composizione della Rsu. Il Tribunale ha respinto il ricorso e la successiva
opposizione proposta dalle organizzazioni sindacali contro la decisione di rigetto.
La Corte di appello di Messina ha confermato la sentenza del Tribunale, in quanto
ha ritenuto che l'intervento dell'amministrazione fosse giustificato dalla avvenuta
decadenza dalla carica verificatasi per i tre componenti della Rsu a causa della situazione
di incompatibilità connessa con la frattura del loro rapporto fiduciario con l'organizzazione
di appartenenza. La Snals Confsal Università ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Messina per violazione dello Statuto
dei lavoratori, dell'accordo nazionale del 7 agosto per la costituzione delle Rsu per il
personale delle pubbliche amministrazioni, della convenzione Oil 9 luglio 48 che tutela
la libertà sindacale e del decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29; essa ha sostenuto
che il direttore amministrativo dell'Università non poteva adottare alcun provvedimento
di ingerenza nella Rsu, essendo tale organismo l'unico competente a decidere
sulla richiesta avanzata dalla Cgil di sostituzione di membri eletti in seno alla medesima
Rsu.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. È stata dedotta in giudizio ' ha osservato la Corte
' la lesione di prerogative sindacali riconosciute dall'ordinamento con la previsione,
ad opera dell'art. 47 comma 3 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, sostituito dall'art. 6 del
d.lgs. 11 aprile 1997 n. 396 (ora art. 42 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165) della costituzione
in ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa, ad iniziativa anche disgiunta
delle organizzazioni sindacali di cui al comma 8 dello stesso articolo, di un organismo
di rappresentanza unitaria del personale mediante elezioni alle quali è garantita
la partecipazione di tutti i lavoratori. Per la parte rimessa alla contrattazione
collettiva, il quadro normativo previsto dalla legge in tema di rappresentanza dei lavoratori
e delle organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro è stato completato con
l'accordo collettivo quadro del 7 agosto 1998 per la costituzione delle rappresentanze
sindacali unitarie per il personale dei comparti delle pubbliche amministrazioni ' che
ha stabilito le modalità di elezione e funzionamento degli organismi di rappresentanza
unitaria del personale non dirigenziale ' e dal contratto collettivo in pari data che
ha regolato le modalità di utilizzo delle libertà e prerogative sindacali di cui sono titolari
le associazioni sindacali ammesse alle trattative nazionali. Ai sensi dell'art. 5, comma
1 del citato accordo collettivo quadro «le Rsu subentrano alle Rsa o alle analoghe
strutture sindacali esistenti comunque denominate ed ai loro dirigenti l'esercizio delle
competenze contrattuali ad esse spettanti». L'art. 7 del medesimo accordo prevede
che in caso di dimissioni di uno dei componenti «lo stesso sarà sostituito dal primo dei
non eletti appartenente alla medesima lista». Secondo il successivo art. 9, la carica di
componente della Rsu è incompatibile con qualsiasi altra carica in organismi istituzionali
o carica esecutiva in partiti e/o movimenti politici; per altre incompatibilità «valgono
quelle previste dagli statuti delle rispettive associazioni sindacali». Si prevede
poi che «il verificarsi in qualsiasi momento di situazioni di incompatibilità determina la
decadenza della carica di componente della Rsu». Nella specie ' ha rilevato la Corte '
la direzione amministrativa dell'Università , ritenendo che con il passaggio di alcuni
componenti della Rsu ed altre organizzazioni sindacali si fossero realizzate situazioni
di incompatibilità previste da detta norma, ha rilevato la decadenza dei predetti componenti
dalla carica ed ha quindi disposto la sostituzione dei medesimi con i primi non
eletti delle rispettive liste. La sentenza impugnata ha escluso l'antisindacalità di tale
comportamento ritenendolo giustificato da una «indeclinabile necessità anche per le
convocazioni alla contrattazione decentrata» ed escludendo, in assenza di disposizioni
circa il soggetto che deve provvedere alla sostituzione, «la volontà di compiere alcuna
condotta limitativa dell'attività sindacale». La decisione ' ha affermato la Corte '
non è conforme a diritto: la disciplina sopra richiamata attribuisce alla rappresentanza
unitaria il carattere di organismo autonomo, protetto dagli strumenti di garanzia
stabiliti dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori per la tutela della libertà ed attività
sindacale, su cui non può incidere l'attività dell'ente o amministrazione datore di lavoro.
Si deve quindi escludere ' ha concluso la Corte ' la possibilità di riconoscere all'amministrazione
qualsiasi potere di ingerenza o controllo sul funzionamento della Rsu,
che si porrebbe in evidente contraddizione con l'autonomia attribuita a questo organismo
ai fini della realizzazione della sua funzione di rappresentanza dei lavoratori
e di protezione dei loro interessi (essendo stabilita come unica regola dall'accordo
quadro che le decisioni vengono assunte dalla stessa Rsu a maggioranza dei componenti:
v. in questo senso anche l'accordo del 6 aprile 2004 raggiunto tra l'Aran e le organizzazioni
sindacali per l'interpretazione autentica di tale patto).
La dedizione patologica al videopoker non esclude la responsabilità di un portalettere per appropriazioni di denaro
S. D., dipendente della Spa Poste italiane con mansioni di portalettere, è stato licenziato con l'addebito di essersi appropriato di somme riscosseall'atto della consegna di materiale postale gravato di assegno. Egli ha chiesto al Tribunale di
Campobasso di annullare il licenziamento, sostenendo di essere stato indotto ad appropriarsi
del denaro da una patologica dedizione al gioco d'azzardo. Il consulente tecnico
nominato dal Tribunale ha accertato che il dipendente, nel momento in cui l'azione
illecita fu compiuta si trovava, a causa della patologica dedizione al gioco d'azzardo
(videopoker), nella condizione di non potere esercitare un controllo efficace sulla
propria volontà , pur presumibilmente comprendendo il significato di quanto andava
compiendo. Il Tribunale ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione del
portalettere nel posto di lavoro. La Corte di appello di Campobasso ha riformato questa
decisione, rilevando che la forte propensione al gioco d'azzardo riscontrata nel lavoratore
non valesse a giustificare o ad attenuare la gravità dell'addebito, quale elemento
idoneo a pregiudicare irreparabilmente il vincolo fiduciario. Il lavoratore ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Campobasso per
vizi di motivazione e violazione di legge. Egli ha sostenuto in particolare che la Corte
avrebbe dovuto escludere la gravità dell'infrazione sotto il profilo soggettivo.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La forte spinta al gioco d'azzardo, anche ammesso
che abbia assunto dimensioni patologiche, ' ha affermato la Corte ' non può
giustificare l'appropriazione del denaro, che S. D. riscuoteva dai consegnatari dei plichi,
trattandosi di comportamento autonomo rispetto all'impulso a giocare d'azzardo,
pur se finalizzato a soddisfare questa esigenza; peraltro ' ha osservato la Corte ' la
sentenza impugnata riferisce che l'impossessamento illecito del denaro avvenne non
in una, ma in più occasioni, sicché si sarebbe dovuto dimostrare, e ciò non è avvenuto,
che ogni volta il lavoratore agà sotto un'irrefrenabile spinta a delinquere; si aggiunga
che S. D. non ha mostrato alcuna disponibilità al superamento del suo stato patologico,
giacché, come riferisce la Corte di merito, egli «ha più volte mentito allo stesso
medico curante ed ha altresà continuato a giocare nonostante la cura», rivelando in
tal modo un'assoluta inidoneità alle funzioni. Pertanto ' ha concluso la Cassazione '
correttamente la Corte di appello ha ritenuto integrata la giusta causa anche sotto il
profilo soggettivo.
Il danno da dequalificazione può presumersi in base alla natura, all’entità e alla durata del demansionamento
Il coniuge del portatore di handicap ha diritto alla assegnazione della sede più vicina
A. D. residente in Foggia insieme al marito convivente portatore di handicap, è stata assunta, a seguito di un concorso,alle dipendenze del ministero dell'Economia
e delle Finanze. In sede di assegnazione delle sedi ella ha fatto presente la sua
situazione familiare e, invocando l'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, ha chiesto
di essere destinata a Bari come addetta alla segreteria della locale Commissione
provinciale tributaria, ove risultava la vacanza di un posto. Il ministero l'ha destinata a
Lodi, ove ella ha dovuto prendere servizio. Nel contempo tuttavia ella ha chiesto al Tribunale
di Foggia, giudice del lavoro, di affermare il suo diritto alla sede di Bari e di condannare
il ministero al risarcimento del danno. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha
condannato il ministero a risarcire alla lavoratrice il danno costituito dalle spese che
ella aveva dovuto sostenere per stabilirsi temporaneamente a Lodi. Questa decisione
è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Bari, che ha rilevato, tra l'altro,
che il ministero non aveva provato l'esistenza di alcun inconveniente per la pubblica
amministrazione derivante dall'assegnazione della lavoratrice alla sede di Bari. Il ministero
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Bari
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 33 della legge 5 febbraio 1992 n. 104 '
ha osservato la Corte ' statuisce che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto
di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il
terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina
al proprio domicilio, e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede;
la posizione di vantaggio ex art. 33 si presenta come un vero e proprio diritto soggettivo
di scelta da parte del familiare-lavoratore che presta assistenza con continuità
a persone che sono ad esse legate da uno stretto vincolo di parentela o di affinità . La
ratio di una siffatta posizione soggettiva va individuata nella tutela della salute psicofisica
del portatore di handicap nonché in un riconoscimento del valore della convivenza
familiare come luogo naturale di solidarietà tra i suoi componenti. Nonostante
l'innegabile sua portata sociale ' ha affermato la Corte ' la disposizione scrutinata non
può però far ritenere che il diritto del genitore o del familiare lavoratore dell'handicappato
di scegliere la sede più vicina al proprio domicilio e di non essere trasferito in
altra sede senza il suo consenso sia un diritto assoluto o illimitato, in quanto presuppone,
oltre agli altri requisiti esplicitamente previsti dalla legge, altresà la compatibilità
con l'interesse comune; invero secondo il legislatore ' come è dimostrato anche
dalla presenza dell'inciso «ove possibile» ' il diritto alla tutela dell'handicappato non
può essere fatto valere quando il relativo esercizio venga a ledere in maniera consistente
le esigenze economiche ed organizzative del datore di lavoro, in quanto ciò può
tradursi ' soprattutto per quel che riguarda i rapporti di lavoro pubblico ' in un danno
per la collettività . In questo caso quindi il diritto del familiare-lavoratore deve bilanciarsi
con altri interessi, che trovano anche essi una copertura costituzionale, sicché il
riconoscimento del diritto del lavoratore-familiare può ' a seconda delle situazioni fattuali
a fronte delle quali si intenda farlo valere ' cedere a rilevanti esigenze economiche,
organizzative o produttive dell'impresa, e per quanto riguarda i rapporti di lavoro
pubblico, ad interessi della collettività ostativi di fatto alla operatività della scelta ex
art. 33, comma 5, del d.lgs. n. 104 del 1992. La prova della sussistenza delle ragioni impeditive
del diritto alla scelta della sede ' ha affermato la Corte ' fa carico poi, contrariamente
a quanto sostenuto dal ministero, sul datore di lavoro; a tale conclusione
conducono la lettera della legge, la considerazione che le ragioni da provare sono a diretta
e più agevole conoscenza del datore di lavoro, ed infine il consolidato indirizzo
della giurisprudenza di legittimità in tema di trasferimento ex art. 2103, ultimo comma,
cod. civ. secondo cui le ragioni tecniche, organizzative e produttive, poste a base del
trasferimento da una unità produttiva ad altra del lavoratore, debbano essere provate
dal datore di lavoro. Alla stregua di quanto sinora esposto ' ha concluso la Corte ' la
sentenza impugnata, dopo avere proceduto ad una attenta valutazione delle risultanze
istruttorie, ha riconosciuto il diritto di A. D. alla sede dalla stessa richiesta, per esservi
un posto vuoto in organico a Bari, per essere stato tale posto riservato ai vincitori
del concorso e per avere la lavoratrice portato a conoscenza dell'amministrazione
la sua situazione familiare; di contro non è stato provato dal ministero un interesse organizzativo
di segno contrario né un danno per la collettività dalla assegnazione della
sede di Bari ad A. D.
Il sindacato può costituirsi parte civile nel processo contro un dirigente imputato di violenza sessuale su una lavoratrice
S. P., dipendente della Polizia stradale, è stato sottoposto a processo penale davanti al Tribunale di Torino con l'imputazione di avere commesso atti di violenza sessualesu un'ispettrice abbracciandola. Il Tribunale ha ammesso la costituzione
come parte civile del sindacato dei lavoratori di Polizia Siulp e, dopo aver sentito
alcuni testimoni, ha affermato la responsabilità dell'imputato per il reato attribuitogli.
S. P. ha proposto appello, censurando la sentenza di primo grado per avere erroneamente
interpretato le risultanze istruttorie e per avere ammesso come parte civile
il Siulp. La Corte di Torino ha rigettato l'appello. L'imputato ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per essere incorsa in vizi di
motivazione e per avere violato l'art. 74 cod. proc. pen. confermando la decisione di
ammettere la costituzione di parte civile del Siulp.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che la Corte di appello
abbia adeguatamente motivato la sua decisione e non sia incorsa in violazione dell'art.
74 cod. proc. pen. secondo cui il soggetto danneggiato dal reato può esercitare nel
processo penale l'azione civile per ottenere il risarcimento. Nel caso in esame ' ha osservato
la Corte ' la fattispecie di reato attribuita all'imputato costituisce, per la sua
natura ed entità , violazione delle norme che presiedono alla tutela del lavoro ed in particolare
dell'art. 9 Stat. lav. secondo cui i lavoratori, mediante loro rappresentanze,
hanno diritto di eseguire controlli e di promuovere l'attuazione di tutte le misure idonee
a tutelare la loro salute ed integrità fisica. Il reato di violenza sessuale commesso
sul luogo di lavoro ' ha affermato la Corte ' lede l'integrità psicofisica del lavoratore,
compromettendone la stabilità psicologica e il rapporto con la realtà lavorativa e la
percezione del luogo, in modo tale che il grave turbamento che ne deriva viola la personalità
morale e conseguentemente la salute del soggetto passivo del reato; sotto tali
profili, quindi, esattamente l'ordinanza del Tribunale ammissiva della costituzione
della parte civile Siulp ha richiamato proprio la norma citata che, nel tutelare la salute
e l'integrità fisica dei lavoratori, riconosceva agli stessi, mediante proprie rappresentanze,
il potere di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni
e delle malattie professionali, nonché di promuovere la ricerca, l'elaborazione e
l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute ed integrità , rappresentanza
generalmente svolta dalle organizzazioni dei lavoratori. La funzione del sindacato
si esplica, quindi ' ha osservato la Corte ' anche attraverso la tutela e la difesa di
una condizione lavorativa che non deve essere segnata da episodi che possono intaccare
la dignità lavorativa della persona; su tali basi, la giurisprudenza di legittimità
(sez. IV pen., 16 luglio 1993, n. 10048) ha affermato la legittimazione dei sindacati a costituirsi
parte civile in caso di violazione delle norme suddette, alla sola condizione che
i lavoratori interessati siano ad essi iscritti (condizione che nel caso in esame risulta
documentalmente provata). La successiva evoluzione legislativa, soprattutto con l'entrata
in vigore del d.lgs. 19. settembre 1994 n. 626 é stata univoca nell'ampliare il concetto
di salute dei lavoratori, sà da comprendervi non solo l'integrità fisica ma anche
quella psichica (emblematica in proposito la previsione dell'art. 17, comma 1, lett. a,
legge cit., che parla espressamente di «tutela della salute e dell'integrità psicofisica
dei lavoratori»). Del resto, tale evoluzione è in linea con il principio generale fissato
dall'art. 2087 cod. civ. che, in tema di tutela delle condizioni di lavoro, fa espresso riferimento
all'obbligo del datore di lavoro di tutelare non solo l'integrità fisica ma anche
«la personalità morale dei prestatori di lavoro».
La mancata assegnazione delle mansioni superiori a un lavoratore vincitore di un concorso comporta danno da dequalificazione
Anche questa sentenza è stata brevemente esposta in q. Riv. 2/2008 p. 8.G. D.,
dipendente dell'Azienda municipale trasporti di Catania con qualifica di impiegato di
terza categoria ha partecipato, con successo, a un concorso interno per la promozione
a impiegato di terzo livello, programmatore addetto al Centro elaborazione dati. L'amministrazione
gli ha riconosciuto la qualifica superiore ma ha continuato a impiegarlo
come impiegato di quarto livello, negandogli le mansioni superiori di programmatore.
Egli ha chiesto al Tribunale di Catania di ordinare all'azienda di assegnargli le mansioni
di programmatore e di condannarla al risarcimento del danno da dequalificazione. Il
Tribunale ha accolto integralmente le domande, in quanto ha ritenuto che la mancata
adibizione alle mansioni abbia causato una dequalificazione ed ha determinato il riconoscimento
rapportandolo al 25% della retribuzione per i primi 12 mesi di inadempimento
e al 40% per il periodo successivo, in considerazione dell'aggravamento progressivo
della dequalificazione professionale per il protrarsi dell'inadempimento dell'azienda.
In grado di appello la Corte di Messina ha confermato questa decisione, rilevando
che il danno doveva ravvisarsi nella mancata acquisizione di una maggiore capacità
e che tale danno appare molto evidente e grave per alcuni particolari professioni
(come quelle di programmatore) soggette a una continua evoluzione e richiedenti,
quindi, continui aggiornamenti, come si verifica in materia di tecnologia informatica,
trattandosi di un settore in costante sviluppo, che presuppone un assiduo aggiornamento
tecnico, nonché un'attività pratica di impiego dei diversi programmi applicativi.
La Corte di appello ha fatto riferimento, altresà, al danno all'immagine derivante
dalla mancata assegnazione alle mansioni meritate col concorso vinto. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Messina
per vizi di motivazione e violazione di legge; tra l'altro essa ha sostenuto che il risarcimento
era stato riconosciuto senza che fosse stata data la prova del danno derivato
dalla dequalificazione.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Appare evidente ' ha osservato la Corte ' che
la dequalificazione lamentata va rapportata alle mansioni conseguite a mezzo concorso
e mai assegnate; non è contestato che l'attore abbia superato il concorso; non è
contestato il livello delle mansioni del posto conseguito a mezzo concorso. Ne consegue
' ha affermato la Corte ' che l'istante avrebbe dovuto ricoprire le mansioni meritate
a mezzo concorso e che il permanere, invece, nelle vecchie mansioni, costituisce
dequalificazione rispetto alle mansioni raggiunte; per quanto attiene al danno conseguente,
la Corte di appello non lo ha ritenuto in re ipsa, ma ha adeguatamente e diffusamente
motivato in proposito, riconoscendo il danno nella mancata acquisizione di una
maggior capacità .
I contributi previdenziali sulla retribuzione arretrata del lavoratore illegittimamente licenziato sono dovuti al datore
Questa sentenza è stata pubblicata in q. Riv. 2/2008 p. 7, ma vale la pena soffermarcisi ancora.E. T., dipendente della Banca nazionale dell'agricoltura, ha ottenuto
dal giudice del lavoro l'annullamento del licenziamento intimatogli, con ordine di
reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della banca a corrispondergli la retribuzione
relativa al periodo della data del recesso a quella della reintegrazione. La banca,
oltre a corrispondere l'importo dovuto per retribuzione, ha versato all'Inps i relativi
contributi previdenziali, ivi compresa la quota a carico di E. T. Successivamente essa
ha ottenuto dal Pretore di Roma, nei confronti del dipendente, un decreto ingiuntivo
per il rimborso di tale quota. Il lavoratore ha proposto opposizione, sostenendo che
l'azienda non aveva il diritto di rivalsa. Il Pretore ha rigettato il ricorso. In grado di appello
il Tribunale ha revocato il decreto ingiuntivo affermando che i contributi erano integralmente
dovuti dalla datrice di lavoro, per il periodo intercorso fra il licenziamento
e la reintegra, ancorché i fatti di causa avessero preceduto la modifica dell'art. 18
Stat. lav. attraverso l'art. 1 della legge 11 maggio 1990 n. 108. Essi erano inoltre dovuti
nel loro importo intero, ossia senza che una quota parte dovesse gravare sul lavoratore
ai sensi dell'art. 19 legge 4 aprile 1952 n. 218 (riordinamento delle pensioni dell'assicurazione
obbligatoria per l'invalidità , la vecchiaia e i superstiti): infatti l'art. 23,
primo comma, di questa legge imponeva l'intero ammontare dei contributi al datore di
lavoro che non avesse «provveduto al pagamento entro i limiti stabiliti» e ciò si era verificato
nel caso di specie, in cui il pagamento era avvenuto non alla scadenza bensà
solo dopo la sentenza suddetta. La banca ha proposto ricorso per cassazione, censurando
la decisione del Tribunale di Roma per violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 19 legge n. 218 del 1952, confermando
l'art. 2115 cod. civ. ' ha affermato la Corte ' impone la contribuzione previdenziale tanto
al datore quanto al prestatore di lavoro, dichiara il primo responsabile del pagamento
anche per la parte a carico del secondo ed autorizza la trattenuta di questa parte
sulla retribuzione. A queste regole il successivo art. 23 pone un'eccezione per l'ipotesi
in cui il datore non provveda al pagamento dei contributi «entro il termine stabilito
»; in tal caso egli è tenuto al pagamento «tanto per la quota a proprio carico quanto
per quella a carico dei lavoratori». Che poi la contribuzione sia dovuta anche per il periodo
in cui il lavoratore non abbia potuto rendere le proprie prestazioni perché illegittimamente
licenziato, è stabilito dall'art. 18 legge n. 300 del 1990 nel testo modificato
dall'art. 1 legge n. 108 del 1990, quest'ultimo da applicare anche per il tempo anteriore
alla sua entrata in vigore, secondo quanto deciso dalle Sezioni Unite con sentenza
5 luglio 2007 n. 15143. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte ' ha risposto
esattamente al quesito se l'art. 23 cit. debba applicarsi anche nel caso in cui il
ritardo nel pagamento dei contributi sia dipeso da un licenziamento illegittimo, seguito
da sentenza accertativa dell'illegittimità e ordinante la reintegrazione del lavoratore
nel suo posto; invero l'art. 23 può non trovare applicazione solo quando il ritardo
non sia imputabile al datore. Nell'ipotesi in esame ' ha osservato la Corte ' il datore
di lavoro, attraverso il licenziamento illegittimo, è incorso in un illecito contrattuale, di
cui deve sopportare le conseguenze sia sul piano risarcitorio ai sensi dell'art. 18 Stat.
lav. sia sul piano punitivo ai sensi del ripetuto art. 23; nella previsione contenuta nel
primo comma di questo articolo, che trasferisce l'obbligo di pagare una parte dei contributi
da uno ad altro soggetto, dev'essere ravvisata una pena privata, giustificata
dall'intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria,
per il caso di inadempimento, di un pagamento di importo superiore all'ammontare
del mero risarcimento del danno.
Il licenziamento disciplinare può ritenersi sanzione eccessiva se prima l’azienda aveva tenuto un comportamento tollerante
Revoche e conferimenti di incarichi dirigenziali nella P.A. devono avvenire nel rispetto di criteri oggettivi e di correttezza
F. P., dirigente dell'Agenzia delle entrate, ha subito, nel marzo 2001 la revoca anticipata dell'incarico dirigenziale conferitole nel dicembre 2000,senza che gliene sia stato attribuito un altro. Successivamente l'Agenzia ha proceduto alla distribuzione di
altri incarichi dirigenziali, ma F. P. ne è rimasta esclusa. Ella ha ottenuto dal Tribunale di
Campobasso un provvedimento d'urgenza, a seguito del quale nel giugno 2002 l'Amministrazione
le ha conferito un incarico dirigenziale. Nel successivo giudizio di merito il Tribunale
di Campobasso ha dichiarato illegittima la revoca disposta nel marzo 2001 dell'incarico
dirigenziale conferito a F. P. nel dicembre 2000 e conseguentemente ha affermato
il diritto della dirigente a mantenere la retribuzione in essere al marzo 2001. Il Tribunale
ha inoltre condannato l'Agenzia al risarcimento del danno biologico derivato dal demansionamento
subito dalla dirigente nel periodo dal marzo 2001 al giugno 2002 e ha dichiarato
la cessazione della materia del contendere per il periodo successivo al giugno 2002.
L'Agenzia ha proposto appello sostenendo che la revoca dell'incarico dirigenziale era stata
disposta nell'ambito di una ristrutturazione della direzione regionale del Molise e che,
nell'assegnazione di nuovi incarichi, essa aveva esercitato un potere discrezionale di natura
privatistica. La Corte di appello ha rigettato l'impugnazione. L'Agenzia ha proposto ricorso
per cassazione censurando la decisione della Corte di Campobasso per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che, in materia di rapporto di impiego,
i poteri della pubblica amministrazione, pur avendo, a seguito della riforma del pubblico
impiego, natura privatistica, incontrano limiti posti da disposizioni contrattuali o normative,
da ritenersi integrate dalle regole di correttezza e buona fede. Nella specie, vengono
in considerazione le norme contenute nell'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 165/2001: «Per
il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla
natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali
del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti
con riferimento agli obiettivi fissati nella direttiva annuale e negli altri atti di indirizzo del
ministero». Questa disposizione ' ha affermato la Corte ' obbliga, dunque, l'amministrazione
datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche
per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, «procedimentalizza»
l'esercizio del potere di conferimento degli incarichi (obbligando a valutazioni anche comparative,
a consentire forme adeguate di partecipazione ai processi decisionali, ad esternare
le ragioni giustificatrici delle scelte). Nella prospettiva giuridica cosà ricostruita ' ha
concluso la Corte ' il dispositivo della sentenza impugnata risulta conforme al diritto, essendo
rimasto accertato che nessuna prova l'amministrazione aveva offerto, neppure in
giudizio, circa i criteri seguiti e le motivazioni delle scelte, e ciò non tanto con riferimento
alla revoca dell'incarico, ma al momento successivo del conferimento dei nuovi incarichi,
nel quale era stato esercitato il potere di scelta dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei;
in questo comportamento è stato correttamente ravvisato inadempimento contrattuale,
produttivo di danno risarcibile.
Una generica rinuncia al risarcimento può ritenersi non idonea a precludere il risarcimento del danno per una specifica malatti
G. B., dipendente della Spa Alenia Finmeccanica, ha posto termine al rapporto di lavoro per esodo incentivato, sottoscrivendo in sede sindacale, nel luglio del 1992,un accordo transattivo che prevedeva la corresponsione in suo favore non solo del
convenuto incentivo, ma anche di una somma a titolo transattivo. L'accordo conteneva una
rinuncia del lavoratore «ad ogni e qualsiasi pretesa diretta e/o connessa all'intercorso
rapporto di lavoro e alla sua cessazione, quale a mero titolo di esempio: i criteri di computo
relativi a Tfr, straordinari, gratifica natalizia etc. se e in quanto dovuta; eventuale indennità
di mensa, se e in quanto dovuta, eventuale risarcimento del danno per qualsiasi
titolo richiesto». Successivamente, nel novembre del 1996, G. B. ha convenuto in giudizio
l'ex datrice di lavoro, sostenendo di avere contratto il morbo di Parkinson a causa del lavoro
svolto presso di essa e chiedendo il risarcimento del danno alla salute. L'azienda si
è difesa sostenendo, tra l'altro, che la domanda proposta doveva ritenersi preclusa dalla
transazione sottoscritta nel 1992 che recava anche la rinuncia a pretese risarcitorie. Il Tribunale
ha accolto la domanda del lavoratore, condannando la società al risarcimento del
danno biologico. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello,
dalla Corte di Napoli, che ha attribuito alla transazione un effetto preclusivo, rilevando che
con essa il lavoratore aveva rinunciato anche a pretese risarcitorie connesse al rapporto
di lavoro e che dagli atti processuali risultava che egli, al momento della firma, era consapevole
sia della malattia che della sua possibile origine professionale. Gli eredi del lavoratore,
nel frattempo deceduto, hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la
decisione della Corte di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte di Napoli ' ha osservato la Cassazione '
ha concentrato le proprie argomentazioni esclusivamente sulla ritenuta conoscenza da
parte di G. B., alla data della transazione in sede sindacale, della patologia sofferta e della
possibile origine professionale della stessa, per escludere che l'accordo abbia avuto ad
oggetto diritti non ancora maturati ed eventuali (e pertanto radicalmente nulli ai sensi degli
artt. 1418, comma 2, e 1325 cod. civ., per mancanza dell'oggetto: Cass. 7 marzo 2005 n.
4822) o diritti esistenti, ma ancora ignoti al titolare e quindi non consapevolmente oggetto
di disposizione. La Corte territoriale ' ha rilevato la Cassazione ' ha viceversa completamente
trascurato la valutazione della eventuale presenza di una volontà abdicativa di G.
B., anzitutto attraverso l'analisi del tenore letterale delle espressioni usate nel contesto di
un accordo che aveva riguardato sia la risoluzione incentivata del rapporto di lavoro che la
rinuncia, in via transattiva, da parte del lavoratore «ad ogni e qualsiasi pretesa diretta e/o
connessa all'intercorso rapporto di lavoro e alla sua cessazione», cui seguiva la specifica
indicazione, sia pure a titolo esemplificativo, di una serie di diritti retributivi, oltre ad un finale
riferimento all'«eventuale risarcimento del danno per qualsiasi titolo richiesto». In
proposito la Suprema Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui la dichiarazione
da parte del lavoratore «di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, a titolo
di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e
alla conclusione del relativo rapporto, può assumere valore di rinuncia o di transazione,
che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 cod. civ., alla condizione
che risulti accertato sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso
di altre circostanze desumibili aliunde che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza
di diritti determinati o obbiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi
o di transigere sui medesimi». Ebbene ' ha concluso la Cassazione ' la Corte territoriale
ha omesso ogni indagine relativamente alla volontà abdicativa di G. B. in ordine al
diritto in parola, quale desumibile dal testo dell'accordo, il quale, a differenza di quanto
concernente alcuni diritti retributivi specificamente elencati, non contiene alcun riferimento
specifico al diritto al risarcimento del danno biologico concretatosi in tesi nel morbo di
Parkinson e derivante dalla violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 cod. civ., ma reca
unicamente, oltre alla espressione di apertura (di rinuncia ad ogni e qualsiasi pretesa) da
ritenere riferibile unicamente alla successiva indicazione di titoli specifici, un generico riferimento
all'«eventuale risarcimento del danno per qualsiasi titolo richiesto», certamente
inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza (e quindi ad esprimere la sua volontà )
di dismettere la pretesa poi azionata in giudizio.
Un contratto per trasporto merci con locazione del veicolo può comportare l’instaurarsi di un rapporto di lavoro subordinato
La Rai, impresa pubblica di interesse nazionale, è tenuta a rispettare la normativa comunitaria in materia di appalti
Nel febbraio del 2004 la Rai ha invitato alcune imprese a partecipare a una gara riservata per l'appalto del servizio di vigilanza armata sui propri immobili.All'esito
di questa gara essa ha assegnato l'appalto all'Istituto di Vigilanza Città di Roma e
alla Spa Sipro per un biennio, con il corrispettivo di sette milioni di euro. La procedura è
stata impugnata davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio dalla Mondialpol,
che ha sostenuto che la Rai, essendo un'impresa pubblica, avrebbe dovuto indire una
pubblica gara d'appalto in base alla normativa comunitaria e ai decreti legislativi n. 157 e
n. 158 del 17 gennaio 1995. Tali norme escludono la necessità della pubblica gara solo per
gli appalti concernenti l'attività radiotelevisiva vera e propria, mentre ne dispongono l'obbligatorietà
per gli appalti relativi ad attività occasionarie, quale la vigilanza. Il Tar ha accolto
il ricorso, in quanto ha ritenuto la Rai «impresa di diritto pubblico» o «impresa pubblica
». Questa decisione è stata confermata dal Consiglio di Stato che ha ritenuto che la
Rai Spa costituisca, ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge 25 giugno 1993 n. 206, una società
di interesse nazionale di cui al già vigente art. 2461 cod. civ. (oggi art. 2451 cod. civ.), società
a totale partecipazione pubblica, i cui componenti del Consiglio di amministrazione
sono designati dallo Stato e sulla quale il ministero delle Comunicazioni e l'apposita Commissione
parlamentare svolgono funzioni di controllo, vigilanza e indirizzo; la Rai Spa ' ha
rilevato il Consiglio di Stato ' è esonerata dall'obbligo della pubblica gara solo per gli appalti
di servizi di telecomunicazione (art. 8 del decreto legislativo n. 158/95), ma resta soggetta,
per gli altri appalti di lavori e servizi, alla normativa interna di applicazione delle direttive
comunitarie, dovendo indire la gara secondo le regole comunitarie, quando debba
affidare un servizio come quello per cui è causa, di valore eccedente la soglia comunitaria.
Per tale appalto ' ha concluso il Consiglio di Stato ' dovevano quindi applicarsi gli artt.
19 e 28 dello stesso decreto, come previsto dal comma 3 del citato art. 7 e la tutela del cittadino
che chieda il controllo del rispetto della normativa e delle direttive citate nella gara
e nella aggiudicazione, è affidata dall'art. 6, comma 1, della legge n. 205 del 2000, alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato ha anche affermato
che «l'annullamento degli atti di attivazione della procedura comporta l'annullamento,
per illegittimità derivata, degli atti ulteriori del procedimento, nonché la caducazione degli
effetti dei contratti conclusi dalla Spa Rai con le società appellate, controinteressate in
primo grado». Contro questa decisione la Rai ha proposto ricorso per cassazione contestando
la giurisdizione del giudice amministrativo e negando di essere un «organismo di
diritto pubblico».
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso nella parte concernente l'applicabilità alla Rai della
normativa sugli appalti pubblici. La Rai ' ha affermato la Corte ' è impresa pubblica sotto
forma societaria, perché lo Stato ha una partecipazione rilevante in essa, detenendone
la maggioranza del capitale e conservando ancor oggi, a mezzo della Commissione parlamentare
di vigilanza, il potere di nominare i sette noni del suo Consiglio di amministrazione
(art. 49 d.lgs. 31 luglio 2005 n. 177 da ora T.U. della radiotelevisione). Il T.U. citato, chiarisce,
all'art. 7, che la Rai è «la società concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo
» istituita «al fine di favorire l'istruzione, la crescita civile e il progresso sociale, di
promuovere la lingua italiana e la cultura, di salvaguardare l'identità nazionale e di assicurare
prestazioni di utilità sociale», con il contributo pubblico da essa percepito, costituito
dal canone versato dagli utenti; nella norma si precisa poi che l'informazione radiotelevisiva
di qualsiasi emittente costituisce comunque un «servizio di interesse generale». Pertanto
alla Rai, per gli appalti di servizi che non siano di radiodiffusione e televisione ed eccedano
la soglia di valore di cui alle direttive comunitarie ' ha affermato la Corte ' devono
applicarsi le regole delle procedure ad evidenza pubblica nella scelta dell'appaltatore, per
le quali ha giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo. L'obbligo della Rai Spa di assegnare
l'appalto del servizio di vigilanza armata dei suoi cespiti immobiliari, con il procedimento
a evidenza pubblica di cui alle norme comunitarie ' ha osservato la Corte ' non è
stato rispettato nel caso in esame per il carattere riservato, alle imprese invitate, della gara
e per la discriminazione che impediva ai raggruppamenti di imprese di partecipare alla
stessa, oltre che per le prescrizioni tecniche difformi da quelle comunitarie.
Le Sezioni Unite hanno invece accolto il ricorso della Rai nella parte concernente l'annullamento
del contratto stipulato per effetto della gara, dichiarandone la caducazione degli
effetti. La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ' ha affermato la Corte ' attiene
solo alla procedura di affidamento e non può incidere sul contratto successivo. La
statuizione sulla caducazione degli effetti del contratto costituisce una pronuncia incidentale
della decisione impugnata, neppure chiesta espressamente dalla società ricorrente;
essa sembra emessa al fine di evidenziare come l'interesse della Spa Mondialpol a
rinnovare la gara sia stato soddisfatto dai disposti annullamenti.
Il lavoratore che chiede il risarcimento del danno da infortunio sul lavoro non deve provare la colposa inadempienza del datore
Nel giugno del 1988 C. M. dipendente dell'impresa di lavorazione marmi Fratelli F. è stato investito da un'autogru in lento movimento,mentre l'accompagnava a
piedi con il compito di fermare le oscillazioni della pedana carica di marmi trasportata dal
mezzo. L'Inail, dopo avere erogato al lavoratore il trattamento previsto per l'infortuni sul
lavoro, ha agito davanti al pretore di Caltanissetta per ottenere, in via di regresso, dall'azienda
il pagamento di lire 70 milioni circa. L'impresa si è difesa sostenendo che il lavoratore
aveva tenuto un comportamento imprudente e imprevedibile camminando tra le
ruote dell'autogru e la pedana e accompagnando con le mani il movimento del carico. Sia
il pretore che, in grado di appello, la Corte di Caltanissetta, hanno ritenuto l'impresa responsabile
dell'infortunio in base all'art. 2087 cod. civ. che impone al datore di lavoro di
adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica del lavoratore, e l'hanno
condannata a versare all'Inail la somma da questa richiesta. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione, sostenendo, tra l'altro che la Corte di Caltanissetta avrebbe dovuto
porre a carico dell'Inail la prova della propria colposa inadempienza all'obbligo di adottare
le misure di sicurezza necessarie.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato che la responsabilità conseguente
alla violazione dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale, perché il contenuto
del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 cod.
civ.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza (art. 2087 cod. civ.), che entra
cosà a far parte del sinallagma contrattuale. Ne consegue ' ha osservato la Corte ' che il
riparto degli oneri probatori in caso di domanda di risarcimento del danno da infortunio
sul lavoro proposta dal lavoratore, o dall'Istituto assicuratore in via di regresso, si pone
negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni; la regola
sovrana in tale materia, desumibile dall'art. 1218 cod. civ., è che il creditore che agisca
per il risarcimento del danno deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto,
il danno, e la sua riconducibilità al titolo dell'obbligazione, limitandosi alla mera allegazione
della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto
ad essere gravato dall'onere di provare il proprio adempimento, o che l'inadempimento
è dovuto a causa a lui non imputabile. Nell'applicare tali principi fondamentali civilistici
alle complesse obbligazioni scaturenti dal contratto di lavoro, in particolare alla distribuzione
degli oneri probatori per la responsabilità del danno da infortunio sul lavoro '
ha ricordato la Corte ' si è ritenuto, ad es., in caso di infortunio provocato dall'uso di un
macchinario, che il lavoratore deve provare il nesso causale tra uso del macchinario ed evento
dannoso, restando gravato il datore di lavoro dell'onere di dimostrare di avere osservato
le norme stabilite in relazione all'attività svolta, nonché di avere adottato, ex art.
2087, tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore; analoga è la soluzione
in caso, ad es., di caduta accidentale di operaio edile da palazzo in costruzione, dove
nessuno sostiene che tocchi al lavoratore provare l'inadempimento del datore di lavoro
all'obbligo di sicurezza nell'apprestamento delle opere provvisionali. La formulazione
che si rinviene in alcune pronunce di legittimità , secondo cui il lavoratore infortunato ha
l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di
sicurezza ' ha affermato la Corte ' non appare coerente con il principio enunciato dalle
Sezioni Unite e non può pertanto essere seguita. Il principio sopra esposto ' ha aggiunto
la Cassazione ' non comporta l'affermazione di una responsabilità oggettiva ex art. 2087
cod. civ., nella stessa misura in cui l'allegazione del mancato pagamento di una somma di
denaro non comporta una responsabilità oggettiva del debitore, ai sensi dell'art. 1218 cod.
civ.; la colpa del danneggiante è essenziale per qualsiasi tipo di responsabilità civile, ma
vi è una diversità di regime probatorio: nella responsabilità extracontrattuale, il danneggiato
deve provare il fatto, il danno, il nesso causale, e la colpa del danneggiante, ai sensi
dell'art. 2697 cod. civ.; nella responsabilità contrattuale l'art. 1218 (e l'art. 2087) cod.
civ. pone una presunzione legale di colpa del debitore, ed opera una inversione dell'onere
probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre
elemento essenziale anche della sua responsabilità contrattuale. La Corte ha quindi
formulato il seguente principio di diritto: «La responsabilità del datore di lavoro ex art.
2087 codice civile è di carattere contrattuale, perché il contenuto del contratto individuale
di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione
che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue
che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone
negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni;
da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio
sul lavoro, o l'Istituto assicuratore che agisca in via di regresso, deve allegare e provare la
esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di questo con la prestazione,
mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non
imputabile, e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure
per evitare il danno».
Incompatibilità con gli obblighi verso il datore di lavoro per il dipendente assente con diagnosi di «astenia psicofisica»
F. C., dipendente della Draco Italiana Spa, si è assentato per malattia nel periodo dal 30 giugno al 30 luglio 2000 con diagnosi di «astenia psico-fisica».L'azienda, avendo accertato che durante l'assenza egli aveva lavorato in una farmacia, prevalentemente
nelle ore serali, lo ha licenziato in tronco. Sia il Tribunale che, in grado di appello,
la Corte di Milano hanno ritenuto illegittimo il licenziamento. Nella motivazione della sua
decisione, la Corte di appello ha richiamato i principi più volte affermati dalla Suprema
Corte, secondo cui lo svolgimento da parte del dipendente di una attività lavorativa in proprio
o presso terzi durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia costituisce inadempimento
contrattuale nei confronti del datore di lavoro solo allorché tale attività riveli
l'inesistenza della malattia stessa nonché quando essa possa ritardare o pregiudicare la
guarigione e quindi il rientro in servizio del lavoratore. Nell'applicare tali principi al caso
in esame, la Corte territoriale ha peraltro ritenuto che il comportamento di F. C., di svolgimento
di una attività lavorativa nel periodo di assenza dal lavoro per malattia dal 30 giugno
al 30 luglio 2000, non realizzasse un grave inadempimento agli obblighi contrattuali,
in ragione del fatto che si era trattato di un tirocinio presso una farmacia, iniziato già nel
1999, svolto prevalentemente nelle ore serali, come tale non valutabile come pregiudizievole
per la guarigione o incompatibile con la malattia denunciata («astenia psico-fisica»
come certificato e confermato in giudizio dal suo medico). L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte ha richiamato la sua costante giurisprudenza
in materia di svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente
per malattia, secondo cui tale comportamento può giustificare il licenziamento per violazione
dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali
di diligenza e fedeltà , oltre che nell'ipotesi in cui l'attività esterna sia di per sé sufficiente
a far presumere l'inesistenza della malattia, anche quando la medesima attività , valutata
ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare
o ritardare la guarigione e con essa il rientro del lavoratore in servizio. Nell'applicare
tale regola ' ha osservato la Cassazione ' la Corte territoriale ha affermato in maniera
sostanzialmente apodittica e prevalentemente sulla base di mere ipotesi, che il lavoro
svolto da F. C. negli orari prevalentemente notturni presso una farmacia della periferia
milanese sia compatibile con la situazione di astenia che lo aveva fatto ritenere temporaneamente
inidoneo a svolgere l'attività lavorativa di impiego presso la datrice di lavoro
Draco italiana, senza approfondire in maniera adeguata le cause della malattia, le caratteristiche
proprie di essa, in un passo della sentenza definita «depressione», né le concrete
mansioni svolte da F. C. sia presso la Draco che presso la farmacia, tutti elementi di
rilevanza decisiva in direzione del duplice accertamento prima enunciato. La Suprema
Corte ha pertanto cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte di appello
di Brescia, che dovrà approfondire la compatibilità o meno del lavoro espletato dal dipendente
presso terzi con lo stato di malattia denunciato e la sua idoneità o non idoneità
a pregiudicare o ritardare, secondo una valutazione ex ante, la ripresa del servizio.
Il credito verso il fondo di garanzia Inps per il tfr può essere validamente ceduto dal lavoratore a una società finanziaria
A. A., dipendente della Snc Alfimec, dichiarata fallita, ha ottenuto l'ammissione al passivo del fallimento per il suo credito per trattamento di fine rapporto;quindi
ha ceduto alla società finanziaria Futura Spa il suo credito verso il Fondo di Garanzia gestito
dall'Inps per il pagamento del Tfr. La Spa Futura ha fatto valere, nei confronti dell'Inps,
il credito cedutole, ma l'Istituto ha rifiutato il pagamento. La società finanziaria ha chiesto
al Tribunale di Brescia di condannare l'Inps al pagamento della somma dovuta dal Fondo
di Garanzia per il Tfr maturato da A. A. nei confronti della datrice di lavoro fallita. Il Tribunale
ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto la cessione del credito per Tfr non
compatibile con la disciplina dell'accollo, da parte del Fondo di garanzia, delle obbligazioni
del datore di lavoro insolvente. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado
di appello, dalla Corte di Brescia, che ha condannato l'Inps a pagare alla Spa Futura la
somma di euro 11.027,00 corrispondente al Tfr dovuto ad A. A. L'Inps ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Brescia per violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la normativa sul Fondo
di garanzia per il Tfr non escluda che il credito del lavoratore verso il Fondo possa essere
ceduto. La Corte ha ricordato che, in base all'art. 2 della legge n. 297/82, il Fondo di garanzia
per il Tfr ha «lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo
nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all'art. 2120 cod. civ., spettante
ai lavoratori o loro aventi diritto». L'espressione «aventi diritto» ' ha affermato la
Corte ' deve intendersi riferita a tutti gli aventi causa, ivi compresi i cessionari del credito.
Se la divisa aziendale dev’essere indossata per ragioni estetiche, i lavoratori non hanno diritto allo spogliatoio per cambiar
La riduzione della retribuzione pattuita con il lavoratore è illegittima – Essa giustifica le dimissioni senza preavviso
Il contratto collettivo non continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, in base all’art. 2074 cod. civ.
I turni di lavoro devono essere comunicati con congruo anticipo – Per consentire ai dipendenti di programmare il tempo libero
Ammissione ai corsi di laurea universitari
L'articolo 4 del decreto stabilisce che il punteggio massimo degli esami di ammissione ai corsi di laurea universitari ad accesso programmato,di cui all'articolo 1 della legge n. 264/1999, a partire dall'anno accademico 2008/09, è di 105
punti: 80 punti sono assegnati sulla base del risultato del test di ingresso e 25 punti
sono assegnati agli studenti che abbiano conseguito risultati scolastici di particolare
valore, appositamente certificati dai dirigenti scolastici, nell'ultimo triennio continuativo
e nell'esame di Stato.
(Gazzetta ufficiale n. 32 del 7 febbraio 2008
Percorsi di orientamento al lavoro
Il decreto stabilisce che le scuole statali e paritarie dell'istruzione secondaria di secondo grado inseriscano,nel piano dell'offerta formativa, azioni di orientamento e
iniziative di informazione finalizzate alla conoscenza, delle opportunità formative offerte
dai percorsi di istruzione e formazione tecnica superiore, e dai percorsi finalizzati alle professioni
e al lavoro. Tali iniziative, che si concretizzeranno attraverso intese e convenzioni
con associazioni, collegi professionali, enti ed imprese, dovranno tenere conto delle vocazioni
degli studenti e dei fabbisogni formativi del mondo del lavoro e delle professioni.
(Gazzetta ufficiale n. 32 del 7 febbraio 2008)
Salute e sicurezza dei lavoratori
Il decreto contiene le disposizioni per il riassetto e la riforma delle norme in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoromediante il riordino
e il coordinamento delle medesime in un unico testo normativo. Le disposizioni si
applicano a tutti i lavoratori, subordinati e autonomi di tutti i settori di attività , privati e
pubblici, e a tutte le tipologie di rischio. Gli obblighi di prevenzione e protezione dei prestatori
di lavoro nell'ambito di un contratto di somministrazione sono a carico dell'utilizzatore.
In caso di distacco del lavoratore gli obblighi di prevenzione e protezione sono
a carico del distaccatario, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare
e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle
mansioni per le quali egli viene distaccato. Il decreto si applica ai lavoratori a progetto
e ai collaboratori coordinati e continuativi solo qualora la prestazione lavorativa si svolga
nei luoghi di lavoro del committente. Il Comitato per l'indirizzo e la valutazione delle
politiche attive e per il coordinamento nazionale delle attività di vigilanza in materia
di salute e sicurezza sul lavoro, istituito presso il ministero della Salute, nel rispetto della
leale collaborazione tra Stato e Regioni, ha il compito di: a) stabilire le linee comuni
delle politiche nazionali in materia di salute e sicurezza sul lavoro; b) individuare obiettivi
e programmi dell'azione pubblica di miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza
dei lavoratori; c) definire la programmazione annuale in ordine ai settori prioritari
di intervento dell'azione di vigilanza, i piani di attività e i progetti operativi a livello nazionale,
tenendo conto delle indicazioni provenienti dai comitati regionali di coordinamento
e dai programmi di azione individuati in sede comunitaria; d) programmare il
coordinamento della vigilanza a livello nazionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro;
e) garantire lo scambio di informazioni tra i soggetti istituzionali al fine di promuovere
l'uniformità dell'applicazione della normativa vigente; f) individuare le priorità
della ricerca in tema di prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Il
datore di lavoro, in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, non
può delegare la valutazione di tutti i rischi e la relativa elaborazione del documento previsto,
nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione
dai rischi. Il datore di lavoro può delegare funzioni in materia di sicurezza e salute dei
lavoratori solo qualora la delega: a) risulti da atto scritto con data certa e sia tempestivamente
pubblicizzata; b) sia accettata dal delegato per iscritto, il quale deve possedere
tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle
funzioni delegate; c) attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e
controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate e l'autonomia di spesa
necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate. La delega di funzioni non esclude
l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da
parte del delegato delle funzioni trasferite. Il datore di lavoro effettua la valutazione dei
rischi ed elabora il relativo documento in collaborazione con il responsabile del servizio
prevenzione e protezione e del medico competente, previa consultazione del rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza. Il datore di lavoro e i dirigenti, secondo le attribuzioni
e competenze ad essi conferite, hanno l'obbligo di: a) nominare il medico competente
per l'effettuazione della sorveglianza sanitaria; b) designare preventivamente i
lavoratori incaricati dell'attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta antincendio,
di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e immediato, di salvataggio,
di primo soccorso e, comunque, di gestione dell'emergenza; c) affidare i compiti
ai lavoratori tenendo conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto
alla loro salute e alla sicurezza; d) fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di
protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione
e il medico competente, ove presente; e) prendere le misure appropriate affinché soltanto
i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni e specifico addestramento accedano
alle zone che li espongono ad un rischio grave e specifico; f) adempiere agli obblighi
di informazione, formazione e addestramento; g) consentire ai lavoratori di verificare,
mediante il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, l'applicazione delle
misure di sicurezza e di protezione della salute; h) comunicare all'Inail, o all'Ipsema, in
relazione alle rispettive competenze, a fini statistici e informativi, i dati relativi agli infortuni
sul lavoro che comportino un'assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello
dell'evento e, a fini assicurativi, le informazioni relative agli infortuni sul lavoro che
comportino un'assenza dal lavoro superiore a tre giorni; i) aggiornare le misure di prevenzione
in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini
della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica
della prevenzione e della protezione; l) comunicare annualmente all'Inail i nominativi
dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; m) fornire al servizio di prevenzione e
protezione ed al medico competente informazioni in merito alla natura dei rischi, all'organizzazione
del lavoro, alla programmazione e l'attuazione delle misure preventive e
protettive, nonché i dati relativi alle malattie professionali. Il datore di lavoro, in caso di
affidamento dei lavori all'impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all'interno della
propria azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonché nell'ambito dell'intero
ciclo produttivo dell'azienda medesima: a) verifica dell'idoneità tecnico professionale
delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi in relazione ai lavori da affidare
in appalto o mediante contratto d'opera o di somministrazione. Fino alla data di
entrata in vigore del decreto in materia di definizione del sistema di qualificazione delle
imprese e dei lavoratori autonomi, la verifica è eseguita attraverso le seguenti modalità :
1) acquisizione del certificato di iscrizione alla Camera di commercio, industria e
artigianato, 2) acquisizione dell'autocertificazione dell'impresa appaltatrice o dei lavoratori
autonomi del possesso dei requisiti di idoneità tecnico professionale; b) fornisce
agli stessi soggetti dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell'ambiente in
cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in
relazione alla propria attività .
(Gazzetta ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008)
Precisa indicazione dell’inizio e della fine della astensione secondo la regolamentazione del settore delle telecomunicazioni
Produttività del lavoro
Il decreto introduce in via sperimentale, per il settore privato e per i titolari di reddito da lavoro dipendente non superiore nell'anno 2007 a 30.000 euro,e
salva espressa rinuncia del prestatore di lavoro, nel periodo dal 1° luglio 2008 al 31 dicembre
2008, «una imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e
delle addizionali regionali e comunali pari al 10 per cento, entro il limite di importo complessivo
di 3.000 euro lordi, le somme erogate a livello aziendale: a) per prestazioni di
lavoro straordinario, ai sensi del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, effettuate nel
periodo suddetto; b) per prestazioni di lavoro supplementare ovvero per prestazioni rese
in funzione di clausole elastiche effettuate nel periodo suddetto e con esclusivo riferimento
a contratti di lavoro a tempo parziale stipulati prima della data di entrata in vigore
del presente provvedimento; c) in relazione a incrementi di produttività , innovazione
ed efficienza organizzativa altri elementi di competitività e redditività legati all'andamento
economico dell'impresa». Tali somme erogate non concorrono ai fini fiscali e della
determinazione della situazione economica del prestatore di lavoro e del suo nucleo
familiare entro il limite di 3.000 euro, ma saranno computati ai fini dell'accesso alle prestazioni
previdenziali e assistenziali. Trenta giorni prima del termine della sperimentazione,
il ministro del Lavoro con le organizzazioni sindacali dei datori e dei prestatori di
lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, daranno luogo a una
verifica degli effetti delle disposizioni in esso contenute.
(Gazzetta ufficiale n. 124 del 28 maggio 2008)
Computo dei «giorni lavorativi ai fini del termine per il tentativo di conciliazione da parte delle p.a.
La Commissione ha rilevato che ' con riguardo al termine entro il quale deve essere esperito il tentativo di conciliazione ' l'indicazione dei «giorni lavorativi» (3 o 5)prevista dalle diverse Regolamentazioni ed Accordi di settore generalmente
si riferisce alla qualificazione dei giorni con riferimento all'attività prestata presso l'amministrazione
medesima, atteso che si tratta di un termine ultimo entro il quale la pubblica
amministrazione deve procedere alla convocazione ed alla promozione del tentativo
di conciliazione. Pertanto la Commissione ha adottato una delibera di indirizzo secondo
cui, ove nelle Regolamentazioni provvisorie o negli Accordi di settore si faccia riferimento
«ai giorni lavorativi», entro i quali deve essere promosso ed esperito il tentativo
di conciliazione, per la qualificazione dei giorni deve essere preso a riferimento l'orario
di lavoro della pubblica amministrazione che deve promuovere l'esperimento del
tentativo di conciliazione.
Immediata pubblicazione dei dati sugli scioperi
A seguito della richiesta delle Oo.Ss. di conoscere le modalità di pubblicazione delle informazioni di cui all'art. 5 della legge n. 146/90,la Commissione ha integralmente
confermato le disposizioni adottate in precedenza con la delibera del 21 gennaio
1993. Dopo avere ribadito che la tempestiva conoscenza dei dati inerenti alle astensioni
dal lavoro è di particolare utilità in quanto permette all'utenza di valutare sia la congruità
dell'intervallo intercorrente tra la cessazione dello sciopero e la riattivazione del
servizio normale, sia la qualità e la quantità del servizio erogato durante lo sciopero in rapporto
al numero degli aderenti al medesimo. Inoltre, tale conoscenza ' consentendo all'utenza
di formulare attendibili previsioni in ordine all'incidenza sui servizi di eventuali
scioperi successivamente proclamati dalle medesime Oo.Ss. ' rappresenta un'indispensabile
integrazione della comunicazione agli utenti cui sono tenuti i datori di lavoro ed i
mezzi di comunicazione di massa, in forza dei commi 6 e 7 dell'art. 2, legge 146/1990. Infine
queste informazioni accrescono la trasparenza della dinamica conflittuale, favorendo
l'indiretto controllo dell'utenza sullo stesso operato delle Amministrazioni od Imprese erogatrici
di servizi pubblici essenziali. Per queste ragioni la Commissione ha riaffermato
che i datori di lavoro siano tenuti a trasmettere subito dopo la cessazione dello sciopero
i dati di cui all'art. 5 della legge 146/90, in caso di sciopero nazionale, alla Rai e, in caso di
scioperi locali, alle emittenti locali, affinché siano immediatamente resi noti nel corso dei
telegiornali, nonché trasmessi ai quotidiani di cui alla delibera richiamata, affinché siano
pubblicati nella prima edizione utile, opportunamente distinguendo tra scioperi nazionali
e scioperi locali, nonché trasmessi alla stessa Commissione di garanzia. La Commissione
ha ora disposto anche di considerare la mancanza di comunicazione, a questa Commissione,
delle informazioni di cui all'art. 5 della legge n. 146 del 1990 e successive modificazioni,
come inottemperanza a quanto previsto dall'art. 2, comma 6, della legge stessa,
anche al fine di un eventuale provvedimento sanzionatorio.
Termine per la seconda fase della procedura di raffreddamento nel settore del trasporto aereo
La Commissione ha rilevato che la disciplina del settore del Trasporto Aereo di cui alla delibera n. 01/92,non prevede un termine entro il quale le parti devono attivare
la seconda fase della procedura di raffreddamento e conciliazione, sebbene il ricorso a
dette procedure sia obbligatorio per entrambe le parti e che «la mancata attuazione anche
di una sola fase delle stesse non può determinare l'aggravamento del conflitto in corso
». La commissione ha quindi deliberato di indicare in novanta giorni dall'esaurimento
della prima fase delle procedure di raffreddamento e conciliazione, il termine perentorio
entro il quale le parti sono tenute ad avanzare la richiesta di attivazione della seconda fase
di dette procedure.
Prestazioni ai superstiti previste da un regime obbligatorio previdenziale di categoria – Nozione di «retribuzione»
Regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia istituito da un ente federato di uno Stato membro
Prestazioni corrisposte nell'ambito di un regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia,che attribuisce il diritto, secondo criteri obiettivi e in base ad una
situazione legalmente definita, all'accollo, da parte di una cassa di assicurazione contro
la mancanza di autonomia, delle spese sostenute per la prestazione di aiuto e di servizi
non aventi carattere medico alle persone che soffrano di una riduzione della propria
autonomia a causa di una grave e prolungata incapacità , rientrano nella sfera di applicazione
ratione materiae del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di
sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si
spostano all'interno della Comunità . Infatti, prestazioni intese a migliorare lo stato di salute
nonché la vita delle persone prive di autonomia mirano essenzialmente a integrare le
prestazioni dell'assicurazione malattia e devono essere considerate «prestazioni di malattia
» ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. a), di tale regolamento. Peraltro, un tale regime di assicurazione
contro la mancanza di autonomia disciplinato da disposizioni nazionali applicabili
solo ad una parte del territorio di uno Stato membro non può essere escluso dalla
sfera di applicazione del regolamento n. 1408/71, atteso che è finanziato, quantomeno in
parte, da contributi versati dagli assicurati, e non è menzionato dall'allegato II, sezione III,
del regolamento n. 1408/71.
Gli artt. 39 Ce e 43 Ce devono essere interpretati nel senso che essi ostano alla normativa
di un ente federato di uno Stato membro, come quella che disciplina l'assicurazione
contro la mancanza di autonomia, istituita dalla Comunità fiamminga, che limita l'affiliazione
al regime previdenziale e il beneficio delle prestazioni che esso prevede alle persone
che risiedono nel territorio compreso nella competenza di tale ente ovvero esercitano
un'attività lavorativa nel territorio medesimo pur risiedendo in un altro Stato membro, in
quanto tale limitazione incide su cittadini di altri Stati membri o su cittadini dello Stato
medesimo che abbiano esercitato il loro diritto alla libera circolazione all'interno della Comunità
europea.
Gli artt. 39 Ce e 43 Ce devono essere interpretati nel senso che ostano alla normativa di
un ente federato di uno Stato membro che limiti l'affiliazione ad un regime di previdenza
sociale ed il beneficio delle prestazioni previste dal regime medesimo alle sole persone residenti
nel territorio di tale ente, in quanto detta limitazione incida su cittadini di altri Stati
membri che esercitino un'attività lavorativa nel territorio dell'ente medesimo, ovvero su
cittadini dello Stato stesso che abbiano esercitato il proprio diritto alla libera circolazione
all'interno della Comunità europea.
Clausole 4 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato nella pubblica amministrazione – Condizioni di impiego
Previdenza sociale – Assegni familiari – Sospensione del diritto alle prestazioni – Legislazione applicabile
P.I. - Servizio svolto da docente non di ruolo presso istituto non pareggiato - Disparità di trattamento economico e giuridico
Non sussiste alcun diritto all'equiparazione, ai fini giuridici ed economici, del servizio svolto da un docente presso un Istituto «non pareggiato» rispetto ai docenti non di ruoloche hanno svolto il medesimo servizio presso un Istituto «pareggiato
». Nella fattispecie, il lavoratore, dipendente della Provincia regionale di Caltanissetta,
dopo essere stato immesso nel ruolo definitivo dei docenti presso l'Istituto musicale
non pareggiato «Vincenzo Bellini» di Mazzarino, ha chiesto il riconoscimento, ai fini giuridici
ed economici, del servizio svolto negli anni compresi dal 1991 al 2002, come docente
non di ruolo presso il medesimo Istituto. Il professore censurava la disparità di trattamento
rispetto ai docenti non di ruolo che avevano svolto il proprio servizio presso l'Istituto
pareggiato «Vincenzo Bellini» di Caltanissetta, pur essendo tutti dipendenti della Provincia
regionale di Caltanissetta. Il Tribunale di Caltanissetta ha rigettato la domanda del
ricorrente sostenendo che, nella fattispecie, debba trovare applicazione l'art. 485 d.lgs.
297/94, secondo cui il diritto alla ricostruzione della carriera spetta soltanto al personale
docente delle scuole di istruzione secondaria ed artistica, prestato presso le scuole statali
e pareggiate. Poiché l'Istituto di Mazzarino, al tempo in cui il docente ha prestato servizio,
non era pareggiato, non gli spetta il riconoscimento della continuità del servizio. Il decidente
afferma, infatti, che l'Amministrazione avrebbe correttamente rigettato la richiesta
del docente, perché, in applicazione della norma richiamata, non potrebbe riconoscere
al lavoratore il servizio prestato prima dell'immissione in ruolo, «in considerazione della
diversa natura giuridica dell'Istituto musicale di Mazzarino e dell'Istituto musicale di
Caltanissetta e della netta differenza delineata dal legislatore nel Testo Unico in materia
di Istruzione tra scuole non statali pareggiate e scuole non statali non pareggiate». Secondo
il Tribunale nisseno, a nulla vale la considerazione che l'Istituto musicale di Mazzarino
fosse in attesa del provvedimento di pareggiamento, perché non si può parificare
la posizione giuridica di un istituto in attesa di pareggiamento con quella di un istituto già
pareggiato, equiparando la posizione degli insegnanti, perché le carriere hanno seguito
un iter professionale differente, proprio in ragione della diversa qualificazione dei due Istituti.
Per le medesime ragioni, il giudice di primo grado ha rigettato la richiesta di sottoporre
alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art. 485 d. lgs.
297/94, per presunto contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione. È stata, infine, rigettata
la richiesta di indennizzare, ai sensi dell'art. 2041 cod. civ., il docente per l'ingiustificato arricchimento dell'Amministrazione resistente a causa dei benefici derivanti dall'utilizzazione
della prestazione. Sul punto, il Tribunale si limita a rilevare che la disposizione
del codice civile, per essere applicata, richiede che l'arricchimento di un soggetto ai
danni di un altro abbia il carattere dell'indebito «e tale non può essere l'eventuale vantaggio
che tragga origine da una norma legislativa».
Compenso per prestazioni di assistenza domiciliare
Alcuni dipendenti dell'Asl adivano il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli per ottenere il riconoscimento del diritto all'indennità di assistenza domiciliare,ai sensi di quanto disposto dall'articolo 26 Ccnl comparto Sanità , per un totale di giorni
indicati in ricorso e attestati dal certificato a firma del Responsabile del distretto. L'Asl
convenuta non si costituiva. Il giudice del lavoro adito, decidendo la causa, accoglieva integralmente
la domanda degli istanti e riconosceva il fondamento del diritto nell'Accordo
integrativo del Ccnl che all'art. 26 espressamente prevede che «a decorrere dal 1° gennaio
del 2003, al personale del ruolo sanitario [â?¦] nonché agli ausiliari specializzati [â?¦] dipendenti
dell'azienda o ente che espletano in via diretta le prestazioni di assistenza domiciliare
presso l'utente compete un'indennità giornaliera ' nella misura sottoindicata ' per
ogni giorno di servizio prestato: a) [â?¦] b) personale appartenente alla categoria D, ivi compreso
il livello economico Ds: â?¬ 5,16 lordi». Risulta importante evidenziare che le condizioni
poste a base del riconoscimento del diritto invocato sono: l'appartenenza al personale
aziendale, l'attività di assistenza domiciliare e la presenza in servizio. Avendo gli istanti
provato documentalmente tutti i requisiti invocati dalla norma: l'inquadramento nel
livello D (mediante deposito di buste paga) e l'effettivo svolgimento di assistenza domiciliare
dal 1° gennaio 2003 al 2006 (mediante prospetti versati in atti) è loro applicabile il disposto
dell'art. 26 del Ccnl del 19 aprile 2004 con condanna della convenuta al pagamento
in favore dei ricorrenti delle somme richieste, rimaste incontestate stante la mancata
costituzione della convenuta, a titolo di indennità di assistenza domiciliare.
Diritto al Tfr del socio lavoratore di cooperativa e inopponibilità della relativa rinuncia
Dopo aver lavorato circa vent'anni, al socio lavoratore della cooperativa YY veniva corrisposto solo parzialmente il Trattamento di fine rapporto.Adiva quindi il giudice del lavoro al fine di ottenere la condanna della convenuta al pagamento dell'integrale
importo oltre accessori. La convenuta si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso
per quanto maturato a tale titolo fino al 1995, per aver il ricorrente rinunciato ad ogni azione
di responsabilità nei confronti della Cooperativa, e l'estromissione dal giudizio per
il periodo successivo, in quanto il giudice del lavoro in un diverso giudizio promosso sempre
dal ricorrente aveva rilevato l'interposizione di manodopera tra la convenuta cooperativa
e la Spa Ferrovie dello Stato, dichiarando il ricorrente lavoratore subordinato di quest'ultima
sin dal 1995. Il giudice del lavoro adito, decidendo la causa, accoglieva integralmente
la domanda del ricorrente. In particolare, il giudice del lavoro ha evidenziato che,
contrariamente a quanto sostenuto dalla Cooperativa, «dagli atti risulta che l'assunzione
è avvenuta solo il 22 ottobre 2004 con verbale di conciliazione, [â?¦] verbale ad avviso del
giudicante inopponibile alla convenuta spiegando i suoi effetti unicamente tra le parti cui
esso si riferisce. Prima di tale data non può escludersi l'obbligazione della convenuta la
quale resta obbligata in via solidale. La delibera del 2004, con la quale il ricorrente come
gli altri soci lavoratori ha deliberato di rinunciare ad ogni azione di responsabilità nei confronti
della Cooperativa per ogni problematica relativa al Tfr, è in opponibile riguardando
diritti indisponibili». A sostegno della propria tesi il giudicante pone la sentenza della Suprema
Corte di cassazione n. 12983/92 per la quale «la dichiarazione rilasciata dal lavoratore
che dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni
sua spettanza e di non avere altro da pretendere dal proprio datore di lavoro, costituisce
di norma una mera dichiarazione di scienza e di opinione la cosiddetta quietanza a
saldo o liberatoria, come tale non preclusiva, in caso di errore, della possibilità di agire,
nel termine di prescrizione, per il riconoscimento dei diritti che risultassero viceversa in
realtà insoddisfatti». Ne consegue, l'incontestabilità del diritto del lavoratore a percepire
l'integrale importo maturato a titolo di trattamento di fine rapporto al momento della risoluzione
del rapporto di lavoro subordinato e la conseguente condanna di parte convenuta
al pagamento della differenza ancora da corrispondere, oltre accessori.
Contratto a tempo determinato – Omessa specificazione nominativo dipendente da sostituire – Nullità – Sussistenza
Infortunio sul lavoro – Richiesta risarcimento danni - Inammissibilità per intervenuta transazione su rivendicazioni economi
Licenziamento disciplinare – Termine previsto dal Ccnl per l’adozione dello stesso – Natura perentoria
Diritto di assemblea – Clausola del contratto collettivo che ne riconosce la titolarità in capo alle OO.SS. provinciali
Esclusione socio lavoratore – Estinzione rapporto di lavoro – Necessità atto formale di licenziamento – Insussistente
Referendum – Elezioni amministrative – Protrazione operazioni oltre la mezzanotte - Diritto al riposo pieno per tale giornat
Ricorso per decreto ingiuntivo – Opposizione – Transazione – Obbligazioni tributarie – C.d. «Patto di netto»
Opposizione a decreto ingiuntivo – Utilizzo dell’autovettura aziendale per fini personali – Legittimità
Determinazione equitativa del termine esterno di un licenziamento per superamento di comporto
Un lavoratore disabile veniva licenziato per superamento del periodo di comporto a seguito di una pluralità di episodi morbosiche avevano determinato 527
giorni di assenza per malattia nel triennio precedente il licenziamento sulla base di una
norma del Ccnl in vigore al momento della risoluzione che aveva stabilito un termine interno
di tolleranza di 18 mesi per malattie intermittenti senza tuttavia indicare il termine
esterno di riferimento. Il Tribunale di Milano e la locale Corte di appello rigettavano la pretesa
del lavoratore ritenendo che nel caso di assenze verificatesi a cavallo di due successivi
contratti collettivi, il termine esterno ben poteva ricompredere assenze maturate in vigenza
del precedente contratto collettivo. In sede di legittimità il lavoratore rilevava che
in mancanza di una norma di coordinamento fra due contratti i principi di buona fede contrattuale
escludono che la retroattività del termine esterno possa retroagire fino a comprendere
assenze maturate nel precedente contratto collettivo ormai esaurito. La Corte di
cassazione ha respinto il gravame del lavoratore affermando che nel caso in cui ad una disciplina
collettiva ne succeda un'altra di analoga natura si realizza l'immediata sostituzione
delle nuove clausole a quelle precedenti, ancorché la nuova disciplina sia meno favorevole
al lavoratore. Sulla base di tali principi i giudici della Suprema Corte hanno quindi
ritenuto che in caso di assenze per malattia verificatesi a cavallo di due successivi contratti
collettivi l'equitativa fissazione del termine esterno del periodo di comporto, con riferimento
alla durata del contratto collettivo, non costituisce ostacolo a calcolare il comporto
con riferimento alle assenze complessive del lavoratore, ancorché iniziate prima
dell'entrata in vigore del secondo contratto.
Il licenziamento per mancato superamento del periodo di prova
Un lavoratore assunto alle dipendenze di una azienda alberghiera con contratto assoggettato ad una clausola di provaveniva licenziato nel corso del periodo
di prova a causa delle numerose assenze effettuate a causa di malattia. Il Tribunale
di Roma con sentenza confermata in sede di appello accoglieva la domanda del
ricorrente. La Suprema Corte nel respingere il ricorso di legittimità formulato dall'azienda
soccombente ha affermato che il mancato superamento del periodo di prova
costituisce un giustificato motivo di recesso che deve essere espressamente indicato
e qualificato come tale. Un recesso intimato nel corso del periodo di prova per altri motivi
non può poi essere ricondotto nell'ambito della libera recedibilità stabilita nel patto
di prova.
La nullità di un licenziamento in maternità sussiste dallo stato oggettivo, mentre il danno matura quando il datore è informa
Una lavoratrice nel corso del suo periodo di gravidanza non comunicato all'azienda veniva licenziata dall'azienda datrice di lavoro nel corso di una ristrutturazione.Dopo alcuni mesi la dipendente impugnava il licenziamento e richiedeva il ripristino
del rapporto lavoratorivo oltre il pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate.
Il Tribunale di Roma e la locale Corte di appello accoglievano parzialmente la domanda
escludendo la sussistenza di un danno risarcibile. La Suprema Corte ha, viceversa,
accolto il ricorso della lavoratrice ricordando il suo consolidato orientamento secondo
cui il divieto di licenziamento di cui all'art. 2 della legge 1204/71 opera in connessione con
lo stato obiettivo della gravidanza e pertanto il licenziamento intimato nonostante il divieto
comporta anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto e ancorché
il datore di lavoro sia inconsapevole dello stato di gravidanza. Con riferimento alla
maturazione del danno la Corte di cassazione ha comunque ritenuto che almeno dalla
notifica del ricorso il datore di lavoro era stato reso consapevole dello stato della propria
lavoratrice non potendo oltre tale data ritenersi esente da responsabilità per mancata
informazione.
Dopo la riforma del giudizio di Cassazione il contratto collettivo deve essere prodotto nel testo integrale e non in estratto
Un dipendente da ente lirico conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Palermo per ottenere la riliquidazione dell'indennità di anzianità e del Tfrcon il computo
dei compensi percepiti per le attività promozionali. Il giudice accoglieva la domanda interpretando
l'art. 43, comma 4, del Ccnl 17 gennaio 1989 con una decisione emessa ai sensi
dell'art. 420-bis cod. proc. civ. La Cassazione ha dichiarato improcedibile il ricorso ai
sensi dell'art. 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. affermando che la norma sopra citata «impone
a carico del ricorrente un onere di produzione che ha per oggetto il contratto nel suo
testo integrale e non già nella sola parte su cui si è svoltoil contraddittorio o che viene invocata
nel ricorso per cassazione. La chiarezza della disposizione sopra citata, nella parte
in cui siriferisce ai contratti o accordi collettivi, non lascia spazio, in applicazione dei criteri
ermeneutici fissati dall'art. 12, comma 1, delle Disposizioni sulla legge in generale, ad
una interpretazione diversa, che consideri cioè sufficiente una produzione limitata ad un
«estratto» del contratto collettivo ancorché contenente tutte le norme della cui interpretazione
si controverte. L'interpretazione accolta appare, del resto, la più coerente con le
finalità che la riforma introdotta col d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha inteso perseguire con
l'introduzione del meccanismo di accertamento pregiudiziale dell'efficacia, validità ed interpretazione
dei contratti ed accordi collettivi disciplinato dall'art. 420-bis cod. proc. civ.,
tenuto conto del fatto che l'adempimento previsto dall'art. 369 cod. proc. civ., comma 2,
n. 4, ha carattere strumentale rispetto al giudizio di cassazione previsto dal citato art.
420-bis cod. proc. civ.».
La Cassazione torna nuovamente sul riparto probatorio in materia di infortuni sul lavoro
Un lavoratore addetto a funzioni di capo squadra nel corso della prestazione lavorativa subiva un grave infortunioa seguito dello sganciamento di una paratia
che lo stesso era tenuto a controllare prima di iniziare la propria attività lavorativa nel
cantiere. Il Tribunale di Milano con sentenza confermata in sede di appello, respingeva
la domanda di risarcimento sul rilievo che non risultava provata la responsabilità dell'azienda
anche tenuto conto dell'esperienza del lavoratore, del suo ruolo di caposquadra
che gli imponeva di effettuare il controllo dell'aggancio del pannello che, omesso,
era stato poi la ragione dell'infortunio da parte dello stesso dipendente. La Corte nell'accogliere
il ricorso del lavoratore, ha ritenuto, viceversa, l'erroneità della decisione
della Corte di appello che ha attuato un inesatto riparto dell'onere probatorio. La Corte
di cassazione, infatti, in manifesto contrasto con alcuni precedenti ha affermato che la
formulazione che si rinviene in alcune pronunzie secondo cui il lavoratore infortunato
ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo
di sicurezza non appare conforme al principio di riparto dell'onere della prova in materia
di inadempienza di obbligazioni contrattuali. Diversamente dalla responsabilità aquiliana
la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. ' conclude la Suprema
Corte ' è di carattere contrattuale perché il contenuto del contratto individuale
di lavoro risulta integrato per legge dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza
e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori
nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che
nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni. Da ciò discende che il lavoratore
che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro
deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, il danno ed il nesso
causale con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso
da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza,
apprestando tutte le misure per evitare il danno. In tale prospettiva le qualità professionali
di un lavoratore tenuto ad una particolare diligenza e sorveglianza sull'operato
di altri lavoratori della squadra possono indurre il giudice del merito ad una particolare
valutazione del suo concorso causale ad un infortunio a proprio danno ma non ad escludere
l'incidenza causale su tale infortunio. Il datore di lavoro ' conclude, infatti, la
Cassazione ' assume una obbligazione di sicurezza in termini assai severi in quanto le
norme a prevenzione degli infortuni sono dirette ad impedire l'insorgenza di situazioni
pericolose per il lavoratore certamente se derivanti da disattenzione, ma anche se ascrivibili
a sua imperizia o negligenza. Sulla base di tale gravoso impegno il datore di lavoro
è responsabile dell'infortunio sia quando ometta di adottare le misure idonee protettive,
sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente
uso da parte del dipendente.
Il rifiuto ad essere regolarizzati non costituisce un valido indizio per escludere la subordinazione del rapporto di lavoro
Nel respingere il gravame di legittimità promosso da una azienda che aveva visto accertata dal Tribunale di Cremala sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato
con un collaboratore che in più occasioni aveva rifiutato la regolarizzazione del
rapporto, la Corte di cassazione ha ritenuto ininfluente tale circostanza nel giudizio di
qualificazione del rapporto lavorativo. Afferma, infatti, la Corte di cassazione che il rifiuto
della regolarizzazione semmai è indice della consapevolezza del datore di lavoro
circa la natura subordinata del rapporto. D'atra parte ' prosegue la Corte ' anche a voler
trarne la conclusione dell'esistenza di una comune volontà contrattuale di mantenere
il rapporto nell'alveo della libera collaborazione, deve comunque rilevarsi che ai fini
della qualificazione del rapporto di lavoro poiché il contratto dà vita ad un rapporto che
si protrae nel tempo la volontà che esso esprime cosà come il nomen iuris non costituiscono
fattori assorbenti divenendo, viceversa, il comportamento delle parti posteriore
alla conclusione del contratto elemento necessario anche per l'accertamento di una diversa
volontà intervenuta nel corso di attuazione del rapporto e diretta a modificare l'originario
assetto.
Prima decisione della Cassazione sulla normativa di attuazione della direttiva dei contratti a termine
Nel corso di un giudizio promosso da alcuni lavoratori assunti la società concessionaria del servizio postale,soccombente nei giudizi di merito, ricorreva innanzi
alla Corte di cassazione rilevando l'illegittimità della sentenza che aveva fatto discendere
dal sistema la regola per la quale in caso di apposizione del termine non consentita il contratto
si trasforma a tempo indeterminato nonostante la mancanza di una espressa previsione.
Poste italiane Spa in particolare rilevava che dalla mancanza di una regola di conversione
espressa non può desumersi la sussistenza di un principio di trasformazione del
contratto a tempo indeterminato. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso ha affermato
che il decreto legislativo 368/2001 anche prima della integrazione della legge
247/2007 ha senz'altro confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro
subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l'apposizione di una
clausola di durata una ipotesi derogatoria rispetto al principio generale. Nell'affermare tale
principio la Corte di cassazione ha ritenuto che la regola trova il proprio fondamento sia
su una lettura attenta della direttiva comunitaria che dei lavoratori preparatori della legge
di attuazione. A seguito di una attenta disamina del contenuto della direttiva la Corte
di cassazione ha affermato che la stessa introduce a livello comunitario il principio della
eccezionalità del contratto a termine, espressamente dissentendo dalla tesi che ritiene
oggetto della direttiva i rinnovi e non il primo ed unico contratto a tempo determinato in
quanto di per sé sia estraneo all'oggetto della direttiva. Sulla base di tali principi la Corte
ha escluso che possa, quindi, trovare applicazione l'istituto della nullità totale del contratto
ai sensi dell'art. 1419 cod. civ. che costituisce, peraltro, un principio di carattere eccezionale.
La Suprema Corte, richiamando un autorevole precedente della Corte costituzionale
in materia di part-time, ha altresà affermato che alla nullità totale del contratto osta
l'inderogabilità tipica delle norme poste a tutela dei lavoratori dal momento che la
clausola invalida viene sostituita da una regola posta a tutela di interessi collettivi di preminente
interesse pubblico. Nel richiamare i principi stabiliti dalla consulta con riferimento
al rapporto di part-time, il Supremo Collegio ha quindi ritenuto che le considerazioni
svolte dal giudice delle leggi per la loro portata generale nel quadro della eteroregolazione
del contratto di lavoro subordinato si attagliano perfettamente al nuovo regime stabilito
dall'art. 1 del decreto legislativo 368/2001, senza che rilevi in alcun modo la mancanza
di una norma sanzionatoria espressa.
La mobilità ben può essere limitata alla situazione occupazionale di una singola unità produttiva
Un lavoratore addetto presso uno stabilimento nella provincia di Salerno di una multinazionale della ceramica veniva licenziatoall'esito di una procedura di mobilità
che prevedeva la chiusura dello stabilimento. Nel corso del giudizio innanzi al Tribunale
di Salerno il lavoratore eccepiva l'insufficienza della comunicazione fornita dall'azienda
alle Oo.Ss. che non prevedeva le misure alternative ai licenziamenti e comunque
la mancata disamina delle analoghe professionalità e situazioni aziendali esistenti negli
altri stabilimenti italiani dell'azienda. La domanda del lavoratore veniva respinta nei due
giudizi di merito. La Suprema Corte respingeva il ricorso di legittimità del lavoratore confermando
la legittimità della locale Corte di appello. In particolare la Corte di cassazione
ha affermato che sulla base della nuova disciplina contenuta nella legge 223/91 che ha attribuito
un ruolo rilevante in capo alle Oo.Ss. destinatarie di dettagliate informazioni in ordine
alle ragione del ricorso alla mobilità , i residui spazi di controllo devoluti al giudice in
sede contenziosa non riguardano più gli specifici motivi della risoluzione del personale a
differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
Ne deriva che, a differenza di quanto accadeva prima dell'entrata in vigore della legge
223/91, condotte datoriali ' quali la richiesta di svolgimento di lavoro straordinario, l'assunzione
di nuovi lavoratori o la devoluzione all'esterno dell'impresa di parte della produzione
' successive al licenziamento collettivo non sono suscettibili di incidere sulla validità
del licenziamento stesso una volta che la procedura per mobilità si sia svolta nel rispetto
dei vari adempimenti previsti. Nel respingere il gravame, la Cassazione ha quindi
affermato che la lettera della legge non consente di dubitare che la riduzione o trasformazione
di attività o di lavoro, ovvero la cessazione di attività ed il connesso numero minimo
di licenziamento può riguardare una singola unità produttiva. Ciò posto ' conclude
la Corte ' nel caso in cui sia disposta la chiusura di un settore o ramo di azienda, tenuto
conto che ai fini dell'applicazione dei criteri di scelta dettati dall'art. 5 della legge 223/91
la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità può essere effettuata avendo riguardo
soltanto ai lavoratori addetti al settore o al ramo interessato dalla chiusura o dalla
ristrutturazione e non rilevano analoghe professionalità presenti all'intero complesso
organizzativo e produttivo presso altre unità produttive.
Invalidi civili
La Corte costituzionale, pur dichiarando manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionaledella norma impugnata nella parte in cui
non prevede, ai fini della pensione di inabilità civile, l'esclusione dal computo dei redditi
del nucleo familiare del richiedente (come invece accade per l'assegno di invalidità
civile), tra le righe ha evidenziato di ritenere «non implausibile» una lettura della norma
che, costituzionalmente orientata, possa prevedere una giusta parificazione tra le
due prestazioni in ordine al computo del reddito. Nel senso, ovviamente, di escludere
il reddito familiare-coniugale dalle condizioni reddituali per ottenere la pensione di inabilità
civile. In effetti siamo di fronte ad una netta spaccatura interpretativa tra chi
sostiene (come lo stesso Inps a livello amministrativo e, ovviamente, i patronati) l'interpretazione
a favore degli inabili civili e chi, invece, sostiene il contrario (alcune sentenze
di Cassazione e la consulenza legale Inps).
Il trattamento pensionistico non riduce il danno subito dal lavoratore reintegrato al suo posto dopo un licenziamento inefficace
Lamentando di essere stato verbalmente licenziato, Un lavoratore adiva, al fine di vedere disposto il ripristino del proprio rapporto lavorativo,il Tribunale di
Teramo che, accertata l'inefficacia del recesso, condannava l'azienda al risarcimento del
danno pari alle retribuzioni maturate. La sentenza veniva riformata relativamente al capo
della quantificazione del risarcimento danni dalla Corte di appello di L'Aquila che limitava
il danno detraendo il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore. La Corte di cassazione
nell'accogliere il gravame del lavoratore ha affermato, richiamando un precedente
specifico delle Sezioni Unite, che in caso di licenziamento illegittimo il danno non può
essere decurtato degli importi percepiti eventualmente a titolo di pensione, atteso che i
diritto di pensione discende da presupposti (limiti età e requisiti di contribuzione) stabiliti
dalla legge e prescinde del tutto dalla disponibilità e dall'impiego di energie lavorative
e non si pone di per sé come causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Sulla base di tali
principi la Corte di cassazione, ha quindi ritenuto che le utilità economiche che il lavoratore
ritrae dalla collocazione in quiescenza, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei
al potere di recesso esercitato dal datore di lavoro, si sottraggono alla operatività
della regola della compensatio lucri cum damno.
Contributi svizzeri
È legittima l'interpretazione autentica fornita dalla legge Finanziaria 2007 con riguardo alla riparametrazione del trattamento pensionisticoin relazione
a periodi di lavoro svolti in Svizzera. La Corte di cassazione aveva sostenuto l'incostituzionalità
della norma impugnata in riferimento all'art. 3, comma 1, art. 38, comma
2, e art. 35, comma 4, della Costituzione qualificando la norma come innovativa e non
interpretativa. Il carattere innovativo sarebbe derivato dall'incontrastato orientamento
giurisprudenziale, secondo il quale il lavoratore italiano, richiedente il trasferimento
dei contributi, avrebbe avuto diritto alla determinazione della pensione sulla base
della retribuzione effettivamente percepita in Svizzera, non rilevando la minore aliquota
contributiva elvetica. L'introduzione di un nuovo criterio di calcolo, non ricavabile
dalla disposizione interpretata, avrebbe violato l'art. 3, comma 1, Cost. e con esso
l'affidamento riposto dai titolari di pensione nella certezza dei rapporti giuridici. La
Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione affermando che la norma
ha reso esplicito un precetto già contenuto nella normativa previdenziale, secondo il
quale, nei casi in cui occorre calcolare la retribuzione pensionabile di chi abbia versato
i contributi secondo sistemi diversi da quello italiano, si procede ad una riparametrazione
della retribuzione percepita all'estero che consenta di rendere il rapporto (tra
retribuzione pensionabile e contributi versati) omogeneo a quello vigente in Italia. La
norma censurata, quindi, non determina alcuna lesione dell'affidamento del cittadino
nella certezza dell'ordinamento giuridico nella parte in cui dà della disposizione interpretata
un significato rientrante nelle possibili letture del testo originario.
Spoil system e incarichi dirigenziali esterni
È incostituzionale la norma del d.l. Bersani-Visco nella parte in cui dispone che gli incarichi dirigenziali «esterni» (dipendenti da altre amministrazioni),conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore del decreto legge. La Corte costituzionale ha quindi accolto
la questione sollevata dal Tribunale di Roma. Riprendendo quanto già enunciato
nella sentenza n. 103/2007 (sullo spoil system per gli incarichi dirigenziali «interni»),
la Corte ha sottolineato come sia necessario assicurare la continuità dell'azione amministrativa
e una chiara distinzione tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e
quelli di gestione, in armonia con l'art. 97 Cost. D'altra parte, sostiene il giudice costituzionale,
non vi sono ragioni per distinguere tra dirigenti esterni ed interni, considerando
che la natura esterna dell'incarico non costituisce un elemento in grado di diversificare
in senso fiduciario il rapporto di lavoro dirigenziale.