3 / 2009
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Descrizione
La Cassazione valorizza la funzione del principio dell’immediatezza nella contestazione disciplinare Interessante sentenza della Corte di Appello di Bologna sulla identificazione dei requisiti del mobbing La Corte di Giustizia puntualizza i contenuti dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato
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Il fatto che il lavoratore attenda quindici mesi per impugnare il termine del contratto non comporta una risoluzione consensuale
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F. D. ha lavorato alle dipendenze della Spa Poste italiane dall'ottobre 2000 al gennaio 2001 in base a un contratto a tempo determinato.Nell'aprile del 2002 ella ha chiesto al Tribunale di Massa di dichiarare illegittimo il termine apposto al contratto, in quanto non consentito dagli accordi sindacali in materia e di condannare l'azienda a riammetterla in servizio e a risarcirle il danno da mancata occupazione. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che il contratto doveva ritenersi risolto per mutuo consenso in considerazione del lungo tempo decorso tra la scadenza del termine e l'inizio dell'azione giudiziaria. Il Tribunale ha ritenuto sussistente «una valida causa risolutiva del rapporto, rappresentata dal mutuo consenso delle parti». In appello la Corte di Genova, con sentenza del dicembre 2004, ha integralmente riformato la decisione di primo grado, condannando l'azienda a riammettere la lavoratrice in servizio e a corrisponderle le retribuzioni maturate con effetto dal 9 settembre 2002; la Corte ha escluso la configurabilità  di una risoluzione per mutuo consenso osservando che l'inerzia della lavoratrice per circa quindici mesi non era sufficiente a dimostrare la sua libera e consapevole volontà  di recedere dal rapporto di lavoro, essendo tale comportamento riconducibile ad altre ragioni; «a fronte dell'incertezza dell'esito di un'impugnativa ' ha osservato la Corte ' la ricorrente rischiava di mettere a repentaglio, con l'azione giudiziaria, una possibile nuova assunzione; è pertanto presumibile che la lavoratrice si sia decisa a impugnare l'illegittimità  del termine solo quando il tempo trascorso dall'ultimo contratto le ha dato una ragionevole certezza che non l'avrebbero richiamata». L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Genova avesse adeguatamente motivato la sua decisione. La Cassazione ha richiamato la sua costante giurisprudenza secondo cui per la configurabilità  di una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso è necessario accertare ' sulla base del lasso di tempo lasciato trascorrere dopo la conclusione dell'ultimo contatto a termine, nonché alla stregua delle modalità  di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali significative circostanze ' che sia presente una chiara e certa comune volontà  delle parti medesime di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice del merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità  se non sussistono vizi logici o errori di diritto.
Il licenziamento collettivo può essere annullato per carenza delle prescritte informazioni nella comunicazione di apertura
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La Spa Selex'Sistemi integrati ha attuato, nel 2000, una riduzione di personale, richiamandosi alla legge n. 223 del 1991.Nel corso della procedura, l'azienda ha raggiunto, con le organizzazioni sindacali, un accordo sul numero degli esuberi e sul criterio di scelta del personale da licenziare: prossimità  alla pensione ed esigenze tecnico-produttive dei singoli reparti. Al termine della procedura l'azienda ha comunicato all'ufficio del lavoro e alle organizzazioni sindacali l'elenco dei dipendenti da licenziare. Uno degli «esuberi», L. D., ha chiesto al Tribunale di Napoli di annullare i licenziamenti, sostenendo che l'azienda non aveva correttamente assolto all'obbligo di comunicare le informazioni previste dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991 sia nella fase iniziale di apertura della procedura, sia nella comunicazione dell'elenco dei licenziati. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che la conclusione di un accordo con le organizzazioni sindacali doveva ritenersi sufficiente a dimostrare la regolarità  della procedura. Il Tribunale ha rigettato le domande. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Napoli, che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha ritenuto che la datrice di lavoro non abbia adempiuto all'obbligo, previsto dall'art. 4, 3° comma della legge n. 223/91, di indicare, nella comunicazione di apertura della procedura, diretta alle organizzazioni sindacali, tra l'altro, «il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale eccedenti». In proposito la Corte ha rilevato che nella comunicazione aziendale difettavano «l'indicazione dei singoli profili professionali in esubero, dei reparti di provenienza o delle mansioni concretamente interessate dalla procedura di ridimensionamento in collegamento con le ragioni della crisi». La Corte ha ritenuto altresà che l'azienda non abbia adempiuto all'obbligo previsto dal comma 9 dell'art. 4, secondo cui, al termine della procedura, l'elenco dei licenziati deve contenere «l'indicazione puntuale delle modalità  con cui erano stati applicati i criteri di scelta» osservando che la comunicazione finale non consentiva «una concreta comparazione fra i lavoratori licenziati, non essendo stata formata una graduatoria con indicazione dell'età , dell'anzianità  aziendale e lavorativa, delle mansioni, dei reparti etc.». La società  ha proposto ricorso per cassazione rilevando, tra l'altro, che la Corte di Napoli non aveva tenuto conto del raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali e della mancanza di prove che dimostrassero che esse non avessero avuto piena consapevolezza dei fatti trattati e fossero state fuorviate, nella conclusione dell'accordo, dalle informazioni aziendali. Incombeva ai lavoratori ' ha affermato l'azienda ' provare il fuorviamento dei sindacati, nel momento che nessuna presunzione di errore poteva ritenersi insita nei fatto che nella comunicazione aziendale mancassero alcune indicazioni previste dalla legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La Corte ha affermato di voler dare continuità  giuridica al principio secondo il quale, in tema di procedure di mobilità  e di licenziamento collettivo, la comunicazione alle Rsa di inizio della procedura ha sia la finalità  di far partecipare le organizzazioni sindacali alla successiva trattativa per la riduzione del personale, sia di rendere trasparente il processo decisionale datoriale nei confronti dei lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall'azienda; la mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi previsti dall'art. 4 comma 3 della legge n. 223 del 1991 ' ha affermato la Corte ' invalida la procedura e determina l'inefficacia dei licenziamenti; tale vizio non è ex se sanato dalla successiva stipulazione di accordo sindacale di riduzione del personale e dall'indicazione in esso di un criterio di scelta dei dipendenti da licenziare in quanto il giudice dell'impugnazione del licenziamento collettivo o del collocamento in mobilità  deve comunque verificare ' con valutazione di merito a lui devoluta e non censurabile nel giudizio di legittimità  ove assistita da valutazione sufficiente e non contraddittoria ' l'adeguatezza della originaria comunicazione di avvio della procedura. La sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all'art. 4, comma 3 ' ha osservato la Corte ' deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, sottratti al controllo giurisdizionale. Le eventuali insufficienze della comunicazione di avvio della procedura di mobilità  non perdono rilievo per il solo fatto che sia stato poi stipulato un accordo di mobilità , giacché gli adempimenti imposti dal citato art. 4 sono intesi a garantire la trasparenza delle scelte aziendali e l'effettività  del ruolo svolto dal sindacato attraverso una corretta e completa informazione preventiva. La previsione, di cui al nono comma dell'art. 4 della legge n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro deve dare una «puntuale indicazione» dei criteri di scelta e delle modalità  applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare le sue modalità  applicative, in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui ' e non altri dipendenti ' sia stato destinatario del collocamento in mobilità  o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l'illegittimità  della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di selezione, altri lavoratori ' e non lui ' avrebbero dovuto essere collocati in mobilità  o licenziati. Risulta, inoltre, superato ' ha affermato la Corte ' l'indirizzo secondo il quale, poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all'esame della situazione di crisi e a proporre soluzioni della stessa, non può far poi valere in giudizio, a propria tutela, in ogni caso, l'inadeguatezza della comunicazione dovendo, invece, a tal fine provare non solo l'incompletezza o insufficienza delle informazioni rese con la comunicazione, ma anche la rilevanza di esse, ossia la loro idoneità , in concreto, a fuorviare o eludere l'esercizio dei poteri di controllo preventivo attribuiti all'organizzazione sindacale; infatti, nella sentenza n. 13196/03 è stato affermato che il lavoratore è legittimato a far valere la incompletezza della informazione perché la comunicazione rituale, completa della mancanza di alternative ai licenziamenti, rappresenta, nell'ambito della procedura, una cadenza legale che se mancante è ontologicamente impeditiva di una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato.
La conflittualità tra superiore gerarchico e dipendente non è sufficiente a configurare il mobbing
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M. G. dipendente della Spa Poste italiane addetto all'ufficio di Beinasco Centro ha chiesto al Tribunale di Torino di accertare,tra l'altro, che nel periodo dal 1997 al 2001 era stato sottoposto da parte della direttrice dell'ufficio a maltrattamenti talida causargli un profondo stato depressivo e di condannare l'azienda al risarcimento del danno biologico che gliene era derivato. Egli ha sostenuto che la direttrice lo obbligava ad effettuare lavoro straordinario, gli imponeva di sollevare pesanti pacchi di corrispondenza, lo poneva in cattiva luce nei confronti dei colleghi redarguendolo in loro presenza e lo minacciava di licenziamento. Dopo avere sentito alcuni testimoni il Tribunale ha rigettato la domanda. In grado di appello, la Corte di Torino ha confermato la decisione di primo grado osservando che dalle testimonianze raccolte era emersa una situazione di continua conflittualità  tra la direttrice dell'ufficio, che esigeva prestazioni di lavoro straordinario, e M. G. che non intendeva farle, mentre non era risultato che la direttrice avesse chiesto al lavoratore di sollevare pacchi pesanti e comunque avesse tenuto nei confronti del medesimo una condotta prevaricatrice e vessatoria, tale da configurare «mobbing». Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Per «mobbing» (nozione elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza giuslavorativa) ' ha osservato la Corte ' si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità . Ai fini della configurabilità  della condotta lesiva del datore di lavoro sono pertanto rilevanti i seguenti elementi: a) la molteplicità  dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità  del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità  psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. La Corte di Appello ' ha rilevato la Cassazione ' ha ritenuto che le testimonianze raccolte, pur evidenziando l'esistenza di contrasti tra la dirigente dell'ufficio e M. G. in ordine alle modalità  di svolgimento delle prestazioni di lavoro da parte del dipendente, non sono tuttavia tali da provare la sussistenza di un intento vessatorio del dirigente dell'ufficio postale di Beinasco nei confronti del lavoratore. Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal giudice di appello ' ha concluso la Corte ' sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità  o insanabile contraddizione. Per contro, le censure mosse dal ricorrente si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già  valutate dal giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità .
L’amministratore di una società può validamente rinunciare ai suoi compensi
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Le ore di mancata applicazione alla guida non costituiscono riposo per il secondo autista a bordo dell'automezzo
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G. C. e P. I. hanno lavorato come autisti per la ditta N., con formale contratto di lavoro autonomo, conducendo un furgone sul percorso di 1200 Km tra Patti e Carpi.La durata di ogni viaggio era di 15-18 ore. Essi si alternavano nella conduzione dell'automezzo: chi non guidava dormiva, pur non essendovi una cabina separata per il riposo. Essi hanno chiesto al Tribunale di Messina di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e di condannare l'azienda al pagamento di differenze di retribuzione, commisurate alla durata dei viaggi nonché del Tfr. Il Tribunale ha accertato la subordinazione ed ha condannato l'azienda al pagamento del Tfr ma ha rigettato la domanda diretta al pagamento delle differenze di retribuzione in quanto ha ritenuto che il tempo di non applicazione alla guida, durante i viaggi, costituiva riposo e quindi non comportava il pagamento della retribuzione. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Messina. I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza d'appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso nella parte concernente la durata della prestazione lavorativa; sebbene anche nel lavoro discontinuo si possano avere periodi di riposo intermedio non computabili nella durata del lavoro effettivo ' ha affermato la Corte ' tali non sono quelli durante i quali, nel corso del viaggio, l'autista di un autotreno lascia la guida al compagno e, se vuole, può distendersi ed anche dormire nell'apposita cabina, trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensà di semplice temporanea inattività ; il criterio distintivo, infatti, fra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività , computabile ad altri fini, consiste nella differente condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza lavoro per ogni richiesta o necessità . Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' non risulta, del resto, che l'automezzo fosse dotato di un'apposita cabina separata per il riposo del secondo autista; questa carenza comportava inevitabilmente uno stato di costrizione sofferto in uno spazio limitato anche dall'autista momentaneamente non impegnato nella guida. Si trattava perciò appunto di un periodo di semplice inattività  temporanea, non di un periodo di riposo effettivo, idoneo alla reintegrazione delle energie psicofisiche, e computabile come tale ai fini della determinazione dell'orario di lavoro.
La procedura per i licenziamenti collettivi va osservata dal curatore del fallimento anche in caso di cessazione di attività
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Il curatore del fallimento San Giuseppe Spa ha dato in affitto alla Life Hospital Spa, con contratto del dicembre 2001,l'azienda della società  fallita, con obbligo per l'affittuario di riassorbirne tutti i dipendenti. Successivamente, nel marzo 2002, il curatore ha licenziato i lavoratori non passati alle dipendenze della Life Hospital Spa, tra i quali A. M. Questi ha chiesto al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di dichiarare inefficace il licenziamento, in quanto pur avendo portata collettiva era stato attuato senza il rispetto della procedura prevista dagli artt. 4 e 24 delle legge n. 223 del 1991 che prevede la preventiva informazione delle organizzazioni sindacali ed altri adempimenti. Il fallimento si è difeso sostenendo, tra l'altro, che la procedura prevista dalla legge n. 223 del 91 non doveva essere applicata, sia perché il licenziamento non era stato preceduto dal collocamento del personale in cassa integrazione straordinaria, sia in quanto al momento del licenziamento l'attività  aziendale era già  cessata. Il Tribunale ha accolto la domanda, dichiarando l'inefficacia del licenziamento. La Corte d'Appello di Napoli ha confermato questa decisione, osservando che la procedura di c.d. mobilità  è obbligatoria anche nell'ipotesi in cui, nell'ambito del fallimento, l'impresa intenda continuare l'attività , a nulla rilevando che l'attività  aziendale possa essere cessata sin da epoca anteriore al fallimento, non trattandosi di evento che pregiudica la persistenza del rapporto ed essendovi ancora potenzialità  produttive, come confermato, nel caso in esame, dal contratto di affitto di azienda concluso nel dicembre 2001 con obbligo per l'affittuario di riassorbire tutti i dipendenti della società  fallita. Il curatore del fallimento ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la procedura prevista dagli articoli 4 e 24 della legge n. 223 del 1991 doveva ritenersi inapplicabile sia perché il licenziamento non era stato preceduto dal collocamento del personale in cassa integrazione straordinaria, sia perché esso era avvenuto in un momento successivo alla cessazione dell'attività  aziendale. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La procedura prevista dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991 ' ha affermato la Corte ' deve essere applicata anche quando il licenziamento non sia stato preceduto dal ricorso alla Cigs. Inoltre ' ha rilevato la Corte ' la procedura prevista da tale legge per la riduzione del personale, avendo portata generale, è obbligatoria anche nella ipotesi in cui, nell'ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell'attività  aziendale. La legge in esame è poi diretta ad una finalità  (tutela del lavoro) che, per il suo specifico contenuto e per il suo rilievo costituzionale (artt. 1 e 4 Cost.), prevale sulle pur importanti finalità  alle quali è diretta la disciplina del fallimento. La disciplina del fallimento, pertanto, non è norma speciale, nei confronti della legge 23 luglio 1991 n. 223, bensà è questa che, nei confronti della prima, costituisce norma speciale. L'obbligo del curatore di tutelare gli interessi del fallimento ' ha affermato la Corte ' non esclude il suo obbligo di osservare, pur nell'ottica del fallimento, le procedure previste dalla legge e, fra queste, anche (per la sua prevalente finalità ) la normativa speciale recata dalla legge n. 223 del 1991.
Il requisito dell’assoggettamento, che caratterizza il lavoro subordinato, deve essere adattato ai vari tipi di attività
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Il diniego di ferie richiesto dal lavoratore malato per non superare il periodo di comporto può essere ritenuto illegittimo
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C. R. dipendente della Spa Radici Tessuti, durante un'assenza per malattia ha chiesto di poter fruire di sei giorni di ferie al fine di evitare il superamento del periodo di comporto.L'azienda non ha accolto la richiesta e lo ha licenziato per superamento del periodo di comporto. Egli ha chiesto al Tribunale di Bergamo di annullare il licenziamento sostenendo che il diniego delle ferie doveva ritenersi contrastante con i principi di correttezza e buona fede, dal momento che non esistevano ragioni organizzative che lo giustificassero. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione di C. R. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. In appello, la Corte di Brescia ha confermato la decisione di primo grado osservando che la concessione delle ferie non avrebbe comportato alcun inconveniente organizzativo, in quanto, tra l'altro, in quel periodo presso la Radici Tessuti ai lavoratori veniva imposto di godere a turno di una settimana di ferie per evitare la cassa integrazione. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Il datore di lavoro ' ha affermato la Corte ' nell'esercizio del suo diritto alla determinazione del tempo delle ferie, dovendo attenersi alla direttiva dell'armonizzazione delle esigenze aziendali e degli interessi del datore di lavoro (art. 2109 cod. civ.), è tenuto, se sussiste una richiesta del lavoratore ad imputare a ferie un'assenza per malattia, a prendere in debita considerazione il fondamentale interesse del richiedente ad evitare la perdita del posto di lavoro a seguito della scadenza del periodo di comporto.
La giurisdizione sul mobbing verso dei pubblici dipendenti è dell'autorità giudiziaria ordinaria
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E. M. responsabile della direzione didattica di Pineto, essendo stata privata di tali mansioni,ha ottenuto dalla Corte d'Appello di L'Aquila la condanna del Ministero della Pubblica istruzione a reintegrarla nell'incarico. L'ufficio scolastico regionale per l'Abruzzo ha emesso un provvedimento con il quale ha dato esecuzione alla sentenza. G. M. ed altri docenti addetti alla direzione didattica di Pineto hanno promosso davanti al Tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo, Sezione di L'Aquila, un giudizio nei confronti del Ministero e di E. M., diretto ad ottenere l'annullamento del provvedimento di reintegrazione, sostenendo che esso aveva determinato una situazione di incompatibilità  ambientale pregiudizievole per la loro salute psico-fisica in quanto la direttrice teneva nei loro confronti un comportamento vessatorio. E. M. ha proposto davanti alla Suprema Corte un regolamento preventivo di giurisdizione, sostenendo che la competenza a decidere la causa apparteneva al giudice ordinario ovvero al Tribunale del lavoro, anziché al Tar. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dall'art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 ' ha affermato la Corte ' risulta che solo le controversie concernenti gli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' emerge chiaramente che G. M. e gli altri suoi colleghi hanno inteso agire a tutela di una loro posizione di diritto soggettivo, lamentando una condotta della dirigente concretizzante un asserito comportamento vessatorio (mobbing) in loro danno. In tema di lavoro pubblico contrattualizzato ' ha precisato la Corte ' qualora la domanda, individuata sulla base dell'oggetto della controversia in funzione della causa petendi, del dipendente pubblico miri alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti il rapporto di lavoro, asseritamente violate da atti illegittimi, vessatori e discriminatori (mobbing), la giurisdizione appartiene al giudice ordinario, cui spetta pure la domanda di risarcimento del danno da mobbing. Anche nella specie ' ha osservato la Corte ' i ricorrenti innanzi al Tar mirano alla tutela di posizioni giuridiche soggettive afferenti il rapporto di lavoro, pretesamente violate da un atto (la reintegrazione della d.ssa E. M. nella sede originaria) che crea una situazione di disagio ed incompatibilità  ambientale, lamentando comportamenti, vessatori e discriminatori della dirigente reintegrata; si ricade pertanto nella giurisdizione del giudice ordinario in materia di lavoro pubblico privatizzato.
L’affidamento sulla tolleranza da parte del datore di lavoro di un comportamento irregolare attenua la gravità dell’infrazi
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Il licenziamento può validamente comunicarsi mediante la riconsegna del libretto di lavoro con la data del recesso aziendale
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La titolare della ditta A.I., esercente una sartoria in Sanpaolo Civitate, il 31 gennaio 1996 ha comunicato verbalmente il licenziamento alle dipendenti B. S., A. D. ed altreconsegnando loro nel contempo il libretto di lavoro con l'indicazione della data del recesso. Le lavoratrice hanno impugnato i licenziamenti con ricorsi depositati davanti al Tribunale di Lucera il 31 maggio 1996 e notificati nel giugno 1996, sostenendo, tra l'altro, che essi dovevano ritenersi inefficaci perché comunicati verbalmente. L'azienda si è difesa sostenendo che con la riconsegna dei libretti di lavoro contenenti l'indicazione della data di cessazione del rapporto essa aveva comunicato in forma scritta il licenziamento e che pertanto doveva ritenersi decorso il termine di decadenza di 60 giorni, stabilito dalla legge n. 604/66 per l'impugnazione di tale provvedimento. Il Tribunale di Lucera ha accolto i ricorsi dichiarando l'inefficacia dei licenziamenti perché intimati verbalmente. In grado di appello la Corte di Bari ha confermato questa decisione osservando che la riconsegna del libretto di lavoro con l'indicazione della data del licenziamento non poteva ritenersi forma equipollente della comunicazione scritta del recesso richiesta dall'art. 2 della legge n. 604/66 e che il licenziamento adottato verbalmente è inidoneo a determinare l'onere di impugnativa nel termine di 60 giorni previsto dalla legge. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Bari per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Essa ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui, non sussistendo per il datore di lavoro alcun onere di adoperare formule sacramentali e potendo la volontà  di licenziare essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta, purché chiara, la consegna al lavoratore del libretto di lavoro con l'indicazione della data di cessazione del rapporto contiene in sé la inequivoca manifestazione della volontà  di far cessare il rapporto stesso, con la conseguenza che dalla data di tale consegna decorre il termine per impugnare il licenziamento. La Corte in proposito ha precisato: a) che il licenziamento è da qualificare «atto unilaterale recettizio »; b) che le annotazioni contenute nel libretto di lavoro hanno natura di scrittura privata e costituiscono attestazioni unilaterali di determinati fatti; c) che quindi la dichiarazione di cessazione del rapporto di lavoro contenuta nel libretto di lavoro vale come atto scritto di licenziamento dalla data della relativa riconsegna. La Cassazione ha rinviato la causa per nuovo esame alla Corte d'Appello di Lecce.
Nel procedimento disciplinare la comunicazione delle giustificazioni via telefax può essere ritenuta valida
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P. M. dipendente della Srl Costruzioni Motori Diesel è stato sottoposto a procedimento disciplinare per assenza ingiustificata durata oltre quattro giorni.La lettera di contestazione dell'addebito gli è pervenuta il 21 dicembre 2002. Egli ha risposto fornendo le sue giustificazioni con raccomandata anticipata via telefax il 23 dicembre 2002, pervenuta per posta all'azienda il 7 gennaio 2003. L'azienda lo ha licenziato con lettera spedita per posta il 10 gennaio e pervenuta il 14 gennaio 2003. Egli ha chiesto al Tribunale di Melfi di annullare il licenziamento sia perché ingiustificato, sia in base all'art. 23 del contratto collettivo dei lavoratori metalmeccanici, secondo cui, in caso di procedimento disciplinare, se il provvedimento non viene emesso entro i sei giorni successivi alla ricezione delle giustificazioni del lavoratore, queste si riterranno accolte. Il Tribunale ha rigettato la domanda motivando le sua decisione con riferimento alla ritenuta fondatezza dell'addebito. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Potenza che ha annullato il licenziamento per tardività , in quanto ha ritenuto che l'azienda, avendo ricevuto le giustificazioni del lavoratore, per telefax, il 23 dicembre 2002, avrebbe dovuto emettere il licenziamento nel termine di sei giorni previsti dal contratto collettivo e pertanto entro il 29 dicembre 2002, mentre lo aveva comunicato il 10 gennaio 2003. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro, che il giudice avrebbe dovuto calcolare il termine di sei giorni previsti dal Ccnl con effetto dal 7 gennaio 2002 data in cui la lettera anticipata via telefax le era pervenuta per posta. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui le riproduzioni meccaniche indicate con elencazione non tassativa dall'art. 2712 cod. civ. formano piena prova dei fatti o delle cose rappresentati, ove la parte contro cui (le riproduzioni) sono prodotte non ne disconosca la conformità  ai fatti o alle cose medesimi, costituendo detta modalità  di trasmissione un sistema di posta elettronica volto ad accelerare il trasferimento della corrispondenza mediante la riproduzione a distanza ' con l'utilizzazione di reti telefoniche e terminali facsimile ' del contenuto di documenti. Nella specie ' ha affermato la Corte ' deve ritenersi che il giudice di merito abbia ottemperato al suo compito, avendo egli ritenuto adempiuto l'onere probatorio gravante sul dipendente sulla base di due argomenti: a) la produzione della attestazione della trasmissione del messaggio all'indirizzo telefonico del datore; b) la circostanza che l'utilizzo del telefax fosse abituale strumento di comunicazione tra le parti, atteso che il numero telefonico cui era stato inoltrato il messaggio era lo stesso indicato nella lettera di assunzione del dipendente; tale accertamento di merito è incensurabile, essendo fondato su argomentazione congrua e logicamente articolata.
Le sanzioni disciplinari possono essere dichiarate nulle se risultano applicate con intento di mobbing
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D. A. dipendente della Srl I.V.M. dal 1987, con mansioni impiegatizie(addetta alla reception, al centralino, alla gestione dei cartellini di presenza, alla tenuta delle agende) nel gennaio del 1999 è stata consigliata dal capo ufficio di dimettersi in quanto l'azienda non era più soddisfatta delle sue prestazioni. Ella non ha seguito il consiglio. I suoi carichi di lavoro sono stati notevolmente aumentati e i suoi superiori hanno preso a rivolgerle rimproveri alla presenza dei colleghi. Inoltre, nel periodo dall'aprile all'agosto 1999, le sono stati inflitti sette provvedimenti disciplinari (una multa pari a tre ore della retribuzione e 6 sospensioni per un giorno) con addebiti in genere di scarsa diligenza. Infine, nel settembre del 1999 ella è stata licenziata con l'addebito di errori nella compilazione del prospetto trimestrale delle presenze di un collega, nell'aggiornamento dell'agenda aziendale e nella distribuzione della posta. Ella si è rivolta al Tribunale sostenendo di essere stata sottoposta a mobbing per avere rifiutato di dimettersi e chiedendo l'annullamento delle sanzioni disciplinari, ivi compresa quella del licenziamento, per infondatezza o eccessività  e per illiceità  determinata dalla loro finalità  ingiustamente persecutoria. Ella ha anche chiesto la condanna dell'azienda al risarcimento del danno alla salute prodottole dal trattamento cui era stata sottoposta. Il Tribunale ha accolto la domanda. La Corte d'Appello di Milano ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda contro la decisione del primo grado, rilevando, tra l'altro: che due delle sanzioni disciplinari, impugnate dinanzi al collegio arbitrale, fossero già  state derubricate in semplici multe con accettazione delle parti, e che anche la loro rilevanza ai fini della recidiva andasse ridotta in relazione alla minor entità  della sanzione; che un'altra sanzione fosse tardiva; che le altre sanzioni fossero illegittime, per irrilevanza e/o insussistenza degli addebiti contestati, o per la sproporzione di essi; che effettivamente il clima aziendale nei confronti della signora D. A. era risultato disagevole, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potessero essere uditi dagli altri colleghi di lavoro; che la lavoratrice era stata caricata di una mole eccessiva di incombenze; che sussisteva una sproporzione evidente tra il provvedimento di licenziamento ed i tre lievi addebiti riportati nella relativa contestazione, e che non si poteva tener conto, ai fini della recidiva, delle sanzioni disciplinari irrogate in precedenza proprio perché nulle e/o illegittime; che, tenuto conto anche dei richiami e dei rimproveri continui della sua dirigente nei confronti della lavoratrice, si fosse verificato effettivamente un comportamento di mobbing; che, come era risultato dalla consulenza medica, effettivamente questo mobbing aveva avuto ripercussioni nelle condizioni della impiegata e comportato un danno biologico, sia pure modesto, da quantificare nella misura percentuale del 6%. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la sentenza impugnata sia stata correttamente motivata e che le censure mosse dall'azienda all'accertamento dei fatti erano inammissibili. Essa ha inoltre rilevato che i provvedimenti applicati alla lavoratrice dovevano ritenersi illegittimi anche per il motivo che li aveva dettati. Anche ammettendo, in via di ipotesi non concessa ' ha osservato la Corte ' che in quelle circostanze sussistesse, sotto il profilo strettamente formale, la possibilità  di irrogare dei provvedimenti disciplinari, quelle specifiche sanzioni adottate in concreto sono state annullate in giudizio (cosà come lo è stato il licenziamento che ne era stato il completamento) perché ' secondo la tesi accolta dai giudici di primo e di secondo grado ' erano state irrogate all'interno di un comportamento complessivo di mobbing, anche quando altrimenti non lo sarebbero state se non fosse sussistita una specifica volontà  di colpire D. A., per indurla alle dimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento (come poi effettivamente è avvenuto). La sentenza impugnata, in realtà  ' ha rilevato la Corte ' non si basa tanto sulla motivazione che le sanzioni fossero illegittime (o che lo fossero una parte di esse), quanto su quella che fossero eccessive e che, in realtà , fossero state irrogate per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa, amplificando l'importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza; in sostanza i giudici del merito hanno ritenuto che i provvedimenti non sarebbero stati adottati, o non sarebbero stati adottati tutti ed in un cosà breve periodo di tempo, se non fosse sussistita una precisa volontà  di colpire la lavoratrice. Le stesse considerazioni ' ha concluso la Corte ' valgono, del resto, per il licenziamento che si è basato anche sulle precedenti sanzioni, e che ' sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito ' ha concluso l'operazione di mobbing.
La mancata percezione dell’indennità di cassa non giustifica le mancanze intenzionali nella registrazione delle riscossioni
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La firma di un contratto di associazione in partecipazione non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato
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La Sentenza che qui si approfondisce è già  stata trattata in Q. Riv. n. 2/2009 p. 6.In seguito ad un'ispezione svolta nel ristorante Sas L.F. in L'Aquila, l'Inps ha ritenuto che tre addetti all'esercizio, nonostante avessero sottoscritto contratti di associazione in partecipazione, lavorassero in condizioni di subordinazione con orario giornaliero, retribuzione fissa e assoggettamento alle disposizioni dell'amministratore della società . Pertanto l'Istituto ha agito nei confronti dell'azienda per ottenere il pagamento dei contributi previdenziali relativi ai compensi percepiti dai lavoratori. L'azienda si è opposta sostenendo che il rapporto intercorso con i tre addetti al suo ristorante era quello risultante dai contratti di associazione in partecipazione da loro sottoscritti. Il Tribunale di L'Aquila ha ritenuto infondata la pretesa dell'Inps, escludendo l'esistenza di rapporti di lavoro subordinato. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di L'Aquila, che ha condannato l'azienda al pagamento dei contributi previdenziali. La Corte d'Appello ha fondato la sua decisone sulle dichiarazioni rese originariamente dai tre lavoratori in sede di ispezione (se pur successivamente in parte modificate) attestanti che essi avevano svolto la loro attività  eseguendo le disposizioni dell'amministratore, con le stesse modalità  seguite in precedenza, quando erano inquadrati come dipendenti. La Corte ha inoltre ritenuto rilevante la percezione, da parte dei lavoratori, di un compenso fisso mensile, sia pur successivamente definito come «acconto», in mancanza di qualsiasi rendiconto e conguaglio; pertanto ha escluso che all'assetto contrattuale indicato dalle parti corrispondesse la concreta attuazione di un rapporto di associazione in partecipazione ed ha affermato l'esistenza di rapporti di lavoro subordinato. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro, che la Corte d'Appello aveva erroneamente disatteso gli accordi contrattuali intercorsi tra le parti. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte d'Appello abbia adeguatamente motivato la sua decisione. Ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato ' ha ricordato la Corte ' è necessario avere riguardo al contenuto effettivo del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen juris usato dalle parti. Ciò non comporta che la dichiarazione di volontà  di queste in ordine alla fissazione del contenuto del detto rapporto debba essere stralciata nell'interpretazione del precetto contrattuale e che non debba tenersi conto della disciplina giuridica del rapporto prevista dalle parti nell'esercizio della loro autonomia contrattuale; tuttavia il nomen juris utilizzato non ha rilievo assorbente, poiché nell'interpretazione della volontà  delle parti deve tenersi altresà conto del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, comma 2, cod. civ.) e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità  delle prestazioni, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela relativa al lavoro subordinato non può essere elusa per mezzo di una configurazione pattizia non rispondente alle concrete modalità  di esecuzione del rapporto. Nel caso di specie ' ha osservato la Cassazione ' le parti hanno qualificato il rapporto, tra loro stesse instaurato, come di associazione in partecipazione, caratterizzato nella specie dall'apporto di una prestazione lavorativa da parte degli associati. L'art. 2549 cod. civ. prevede che con il contratto di associazione in partecipazione l'associante attribuisce all'associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto; il sinallagma è costituito dalla partecipazione agli utili (e quindi al rischio d'impresa, di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite) a fronte di un «determinato apporto» dell'associato, che può consistere anche nella prestazione lavorativa del medesimo. L'associato lavoratore ' ha rilevato la Corte ' deve partecipare sia agli utili che alle perdite, ai sensi dell'art. 2554 cod. civ., non essendo ammissibile un contratto di mera cointeressenza agli utili di un'impresa senza partecipazione alle perdite. C'è poi anche da considerare, come principio di diritto ' ha affermato la Corte ' che, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell'organizzazione aziendale senza partecipazione al rischio d'impresa e senza ingerenza nella gestione dell'impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale «favor» accordato dall'art. 35 Cost. che tutela il lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni».
L’imprenditore non può pretendere che il dipendente rinunci a sporgere querela per ingiurie nei confronti di un terzo
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Vanno assoggettate all’Irpef le indennità date al lavoratore trasferito per coprire il maggior costo di locazione abitativa
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Sussistenza del requisito numerico del licenziamento collettivo
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N. C. ed altri quattro operai, assunti nel 1989 dalla Srl Someta, operante nel settore delle costruzioni navali con meno di 16 dipendenti,sono stati licenziati nel dicembre del 1993 per ragioni organizzative. Essi hanno promosso, davanti al giudice del lavoro di Taranto, un'azione giudiziaria nei confronti della Someta e di altre quattro società  collegate (Azienda consortile graniglia Srl, Oleotronica graniglia Srl, Cimec Srl e Revisione grandi motori graniglia Srl) chiedendo l'annullamento dei licenziamenti, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. Essi hanno fatto presente di avere lavorato non solo per la Srl Someta, ma anche per le altre quattro società  convenute prestando la loro opera all'interno dell'Arsenale della Marina militare in esecuzione di contratti d'appalto aggiudicati all'Azienda consortile graniglia Srl ed eseguiti da un unico complesso organizzativo comprendente i dipendenti delle cinque società , in numero superiore a 15, coordinati da un solo capo cantiere; poiché l'intero complesso aveva oltre 15 dipendenti essi hanno sostenuto che per il loro licenziamento avrebbe dovuto essere applicata la procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991 in materia di riduzione del personale (informazione delle organizzazioni sindacali, etc.), il che non era avvenuto, onde i recessi dovevano ritenersi inefficaci con applicazione dell'art. 18 Stat. lav. Le convenute si sono difese sostenendo, tra l'altro, di essere titolari di distinte organizzazioni onde il numero dei dipendenti della Someta non poteva essere cumulato con quello dei dipendenti delle altre società . Il Tribunale di Taranto, dopo avere sentito alcuni testimoni, ha rigettato le domande. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Lecce, che ha ritenuto provata l'esistenza di un'organizzazione unitaria e pertanto ha annullato i licenziamenti, ordinando alle convenute di reintegrare i lavoratori e condannandole al risarcimento del danno. Le aziende hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Lecce per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui il collegamento economico ' funzionale tra le imprese gestite del medesimo gruppo non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere all'altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare ' anche all'eventuale fine della valutazione della sussistenza del requisito dimensionale per l'applicabilità  della tutela reale del lavoratore licenziato ' un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione è ravvisabile ogni qual volta vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di una unica attività  fra vari soggetti del collegamento economico ' funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l'esame delle attività  di ciascuna delle imprese gestite formalmente da quei soggetti, che deve rivelare l'esistenza di alcuni requisiti essenziali, quali: a) l'unicità  della struttura amministrativa; b) la stretta connessione funzionale tra le imprese e il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico- amministrativo- finanziario, tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività  delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l'utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società  titolari di distinte imprese. Pertanto, in presenza di determinate circostanze, è giuridicamente possibile concepire una impresa unitaria che alimenta varie attività  formalmente affidate a soggetti diversi, il che non comporta sempre la necessità  di superare lo schermo della persona giuridica né di negare la pluralità  di quei soggetti, ben potendo esistere un rapporto di lavoro che vede nella posizione dei lavoratori una unica persona e nella posizione di datore di lavoro più persone, rendendo cosà solidale l'obbligazione del datore di lavoro. Nel caso in esame ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di Appello, come già  detto, ha riscontrato, alla luce degli elementi di fatto accertati (in particolare attraverso le dichiarazioni testimoniali e le visure catastali, dalle quali si evinceva che la proprietà  e l'amministrazione delle società  facevano capo alla famiglia Graniglia), la ricorrenza, contrariamente a quanto affermato dal primo giudice, di tutti i requisiti necessari a configurare una impresa unitaria, il che consentiva di estendere anche alle altre società  del gruppo gli obblighi derivanti da un rapporto di lavoro subordinato. In particolare la Corte territoriale ha ritenuto sussistenti nel caso di specie: a) l'unicità  della struttura amministrativa, non avendo le società  autonomia decisionale ed operativa, tanto che le loro attrezzature erano a disposizione del gruppo e i loro dipendenti non erano direttamente assoggettati al potere gerarchico- piramidale facendo capo alla società  di appartenenza; b) la stretta connessione funzionale tra le imprese, essendo l'operato di ciascuna di esse orientato al perseguimento di un obiettivo comune, il che giustificava la commistione tra i beni e i dipendenti, utilizzati promiscuamente in funzione di uno scopo operativo unitario; c) il coordinamento tecnico-amministrativo-finanziario, non avendo le singole società  una propria ed autonoma cassa; d) l'utilizzazione contemporanea delle prestazioni lavorative da parte delle varie società  titolari di distinte imprese.
Nel processo del lavoro la simulazione può essere provata per testimoni – Oltre i limiti previsti dall’art. 1417 cod. civ.
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Ai dirigenti che non hanno il potere di decidere le loro ferie spetta, nel caso non ne fruiscano, l’indennità sostitutiva
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Offerta ingannevole di lavoro
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È stato diffuso su alcuni giornali un messaggio del seguente tenore:«Lavoro domiciliare Ricerchiamo personale per lavoro a domicilio di assemblaggio penne a sfera anche part-time, per informazioni Numero Verdeâ?¦ chiamata gratuita». Questo messaggio lascia intendere che l'operatore pubblicitario offra delle concrete opportunità  di lavoro a domicilio relativamente al montaggio di penne a sfera. Dalle indagini operate dall'Autorità  dopo la segnalazione di alcuni cittadini è invece emerso un quadro del rapporto che si instaura tra l'operatore e coloro che rispondono all'inserzione ben diverso da quanto prospettato nel messaggio. Infatti, lungi dall'avere ad oggetto una prestazione inquadrata organicamente in un'attività  d'impresa, con la previsione di un corrispettivo per la manodopera prestata, l'accordo fra le parti si concretizza nella fornitura di materiale da cartoleria da montare e assemblare nell'ambito di un rapporto di collaborazione, meramente verbale, senza alcun inquadramento organico. Infatti, l'incaricato è tenuto a versare all'impresa in anticipo una somma surrettiziamente a titolo di cauzione per la materia prima ricevuta, oltre che a pagare in anticipo il valore dei kit di assemblaggio volta in volta ricevuti dall'operatore. L'Autorità  ha ritenuto che la circostanza che le inserzioni omettessero di indicare l'effettivo contenuto della proposta e, in via connessa, il suo carattere oneroso avvicinando persone con un annunci che ' sotto l'apparente veste di un'offerta di lavoro ' propongono un rapporto di collaborazione, comporta inevitabilmente una induzione in errore nei soggetti raggiunti dai messaggi in questione ai sensi dell'art. 21, comma 1, lettera a), del Codice del consumo. Secondo questa norma, infatti, una pratica commerciale è ingannevole «se contiene informazioni non rispondenti al vero»; inoltre ai sensi dell'art. 22, comma 2, del citato Codice «Una pratica commerciale è altresà considerata un'omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1, tenendo conto degli aspetti di cui al detto comma, o non indica l'intento commerciale della pratica stessa qualora questi non risultino già  evidenti dal contesto nonché quando, nell'uno o nell'altro caso, ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che altrimenti non avrebbe preso». Nel caso di specie il messaggio in esame, celando sotto l'apparente veste di proposte di lavoro domiciliare una fornitura a pagamento di materiale da cartoleria da assemblare, omette di indicare l'effettivo contenuto della proposta e, in via connessa, il suo carattere oneroso. Infine l'Autorità  ha qualificato la condotta dell'impresa anche come una pratica commerciale scorretta ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del Codice del consumo, in quanto «è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge od al quale è diretta». L'Autorità  ha pertanto condannato l'impresa che ha diffuso il messaggio pubblicitario ad una sanzione economica di 75.000 euro.
Restrizioni deontologiche sulla determinazione dei compensi dettate dal Consiglio nazionale dei geologi e degli psicologi
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L'Autorità  si è determinata ad aprire due procedimenti nei confronti del Consiglio nazionale dei geologi e di quello degli psicologiciper condotte restrittive della concorrenza tra i professionisti iscritti ai rispettivi ordini in violazione dell'art. 2 del decreto legge n. 233/2006. Tale norma ha abrogato le disposizioni che prevedono l'obbligatorietà  di tariffe fisse o minime e quelle che vietano di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Il d.l. n. 223/06 aveva sancito che l'adeguamento delle disposizioni deontologiche non conformi al nuovo dettato legislativo sarebbe dovuto avvenire entro il 1° gennaio 2007 e che il mancato adeguamento avrebbe determinato la nullità  delle disposizioni deontologiche che risultano in contrasto con le previsioni del citato art. 2, comma 1, del d.l. n. 223/06. L'indagine svolta dall'Autorità  ha evidenziato una forte resistenza ad accogliere i principi antitrust da parte dei suddetti organismi di controllo deontologico coinvolti. Con riferimento alla determinazione del compenso professionale, il codice deontologico sia dei geologi sia degli psicologi continua a prevedere dei minimi compensativi dell'attività  professionale inderogabili in quanto costituirebbero il parametro di riferimento ai fini della tutela della dignità  professionale del singolo professionista e della categoria. Ad avviso dell'Autorità  questi professionisti, poiché prestano stabilmente, a titolo oneroso e in forma indipendente, i propri servizi professionali, svolgono attività  economica ai sensi dei principi antitrust e pertanto, ai fini dell'applicazione delle disposizioni in materia di concorrenza, essi debbono essere qualificati come imprese. Ne consegue che i rispettivi Consigli nazionali, in quanto enti rappresentativo di imprese che offrono sul mercato in modo indipendente e stabile i propri servizi professionali, sono associazioni di imprese. Ne consegue ulteriormente che il codice deontologico costituisce deliberazione di un'associazione di imprese, pertanto suscettibile di essere qualificata come intesa, ai sensi del diritto antitrust. Le previsioni deontologiche che tendono ad uniformare il prezzo delle prestazioni professionali sono suscettibili di determinare una restrizione della concorrenza in violazione dell'art. 81 del Trattato Ce. Per questi motivi l'Autorità  ha quindi deciso di avviare un'istruttoria nei confronti sia del Consiglio nazionale dei geologi sia di quello degli psicologi per accertare l'esistenza di violazioni dell'articolo 81, paragrafo 1, del Trattato Ce.
Obbligatorietà della convocazione per la procedura di raffreddamento anche delle oo.ss. non firmatarie del Ccnl
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La Commissione ha espresso il parere secondo cui, in base alla disciplina legislativa e contrattuale vigente nel settore dei Trasporti ferroviari,la prima fase del tentativo di conciliazione è obbligatoria, con la conseguenza che l'Azienda, anche se l'Organizzazione sindacale richiedente non è firmataria del Ccnl, deve comunque procedere alla convocazione, salvo non raggiungere l'accordo. La seconda fase della procedura è, invece, subordinata alla concorde richiesta della parte sindacale e datoriale. Con una successiva delibera la Commissione ha specificamente chiarito che l'accordo nazionale del settore ferroviario del 18 aprile 2001 in materia di procedure di raffreddamento e conciliazione ove prevede che «la fase della procedura di raffreddamento e conciliazione si ritiene espletata laddove l'Azienda non ottemperi alla convocazione entro il termine fissato », deve essere intesa come norma che consente all'Organizzazione sindacale di proclamare lo sciopero ma non anche come riconoscimento della facoltà  del datore di lavoro di non procedere alla convocazione. Quest'ultima interpretazione contrasterebbe con la legge, che, nel disporre l'obbligo per entrambe le parti di esperire le procedure di raffreddamento e di conciliazione prima della proclamazione dello sciopero, mira a prevenire il conflitto.
Direttiva 1999/70 - Clausole 5 e 8 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato
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Art. 18 Ce - Imposta sul reddito e contributi di assicurazione malattia
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L'art. 18, n. 1, Ce osta alla normativa di uno Stato membro che subordina la concessione del diritto ad una riduzione dell'imposta sul redditoin funzione dei contributi di assicurazione malattia assolti alla condizione che tali contributi siano stati versati in tale Stato membro, sulla base delle disposizioni del diritto nazionale, ed implica il diniego della concessione di un siffatto vantaggio fiscale qualora i contributi deducibili dall'ammontare dell'imposta sul reddito dovuto in tale Stato membro siano versati nell'ambito di un regime di assicurazione obbligatoria di malattia di un altro Stato membro.
Cittadinanza dell’Unione europea – Libera circolazione delle persone – Artt. 12 Ce e 39 Ce – Direttiva 2004/38/Ce
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Procedimento cautelare - Rapporto di lavoro a tempo determinato – Mancanza di contratto scritto
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Licenziamento collettivo – Violazione criteri scelta – Illegittimità
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Licenziamento per riduzione del personale – Giustificato motivo oggettivo – Insussistenza
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Lavoro subordinato e autonomo – Presupposti
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Copie fotografiche di scritture - Disconoscimento conformità con l’originale - Non è sufficiente una contestazione generica
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Mobbing – Componente oggettiva e componente soggettivo/finalistica – Onere della prova
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Sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado – Gravissimo danno
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Fallimento – Mancato pagamento dei contributi sindacali – Natura privilegiata del credito – Sussistenza
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Contratto di collaborazione coordinata e continuativa
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Una lavoratrice stipula un contratto di collaborazione coordinata e continuativa con una Società che gestisce in appalto da Gest Line (ora Equitalia Polis Spa) la consegna delle cartelle esattoriali. Dopo la risoluzione del rapporto la lavoratrice impugna il contratto di lavoro deducendo tra l'altro: aver svolto attività  di consegna di cartelle esattoriali sulla scorta di nomina a messo effettuata da Equitalia; â?¢ aver effettuato la notifica di dette cartelle su disposizione dell'appaltatrice; â?¢ aver curato congiuntamente ogni fase della notifica; â?¢ aver prestato servizio ogni giorno con orario prefissato; â?¢ la nullità  del contratto de quo, la qualificazione del rapporto come subordinato; â?¢ la titolarità  del rapporto in capo a Equitalia Polis, non essendo quest'ultima autorizzata al conferimento in appalto del servizio di riscossione nell'interesse della stessa; â?¢ la solidarietà  tra Equitalia Polis e la Società  datrice per i crediti maturati ex art. 29 d.lgs n. 276/03. Il giudice non condivide la tesi della ricorrente secondo la quale l'attuale sistema normativo non consentirebbe al concessionario del servizio di riscossione di appaltare a terzi l'attività  di notifica con la conseguenza che l'appalto affidato da Equitalia alla Società  datrice sarebbe illecito e che il rapporto di lavoro dovrebbe ritenersi intercorso direttamente con Equitalia. Come evidenziato nella circolare del Ministero delle Finanze n. 105/E del 22 maggio 2000, i decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46 e 13 aprile 1999, n. 112 individuano due distinte figure professionali nell'ambito della struttura dei concessionari della riscossione: â?¢ l'ufficiale di riscossione; â?¢ il messo notificatore. Il d.lgs. n. 112/99, dopo aver definito all'art. 2 la figura dell'ufficiale di riscossione, all'art. 43 prevede espressamente, in ragione dell'attività  di particolare delicatezza affidata all'ufficiale della riscossione, che egli eserciti le sue funzioni «in rapporto di lavoro subordinato con il concessionario [â?¦] e sotto la sua sorveglianza». Manca, invece, significativamente una previsione in tal senso con riferimento ai messi notificatori, per i quali nessuna norma disciplina il rapporto che lega tali soggetti al concessionario. L'art. 12 d.lgs. n. 46/99 individua i soggetti che possono essere preposti all'attività  di notifica delle cartelle negli ufficiali della riscossione ovvero in «altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge» ovvero ancora nei messi comunali o negli agenti della polizia municipale, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, mentre l'art. 45 del decreto legislativo n. 112/99, dispone che l'«abilitazione» avvenga tramite una nomina espressa da parte del concessionario a svolgere tali funzioni. Ne consegue che «l'attività  del messo notificatore può essere svolta sia in regime di autonomia che di subordinazione lavorativa, la quale ultima va concretamente dimostrata, non sussistendo alcuna presunzione per cui il rapporto che lega il messo notificatore all'esattore debba considerarsi di lavooro subordinato. Spetta pertanto al lavoratore che agisca in giudizio l'onere di provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, attraverso la dimostrazione degli indici rivelatori della subordinazione, i quali, per la peculiarità  dell'attività  svolta ' espletamento del lavoro al di fuori dell'azienda, non obbligatorietà  di un preciso orario di lavoro, retribuzione correlata al numero di notifiche ' debbono essere riguardati con particolare attenzione» (Cass. 15 luglio 2002, n. 10262; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4171; Cons. St., Sez. VI, 3 settembre 2003 n. 4906). Tali conclusioni sono confermate dall'art. 159 legge 27 dicembre 2006, n. 296, che, con riferimento alla notifica degli atti di accertamento dei tributi locali e di quelli afferenti alle procedure esecutive di cui al r.d. n. 639/10, prevede che «i messi notificatori possono essere nominati tra i dipendenti dell'amministrazione comunale o provinciale, tra i dipendenti dei soggetti ai quali l'ente locale ha affidato, anche disgiuntamente, la liquidazione, l'accertamento e la riscossione dei tributi e delle altre entrate ai sensi dell'articolo 52, comma 5, lettera b), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, nonché tra soggetti che, per qualifica professionale, esperienza, capacità  ed affidabilità , forniscono idonea garanzia del corretto svolgimento delle funzioni assegnate, previa, in ogni caso, la partecipazione ad apposito corso di formazione e qualificazione, organizzato a cura dell'ente locale, ed il superamento di un esame di idoneità ». Il tenore testuale della norma è chiaro nel ribadire che l'incarico di messo notificatore può essere affidato anche a soggetti non legati da un rapporto di lavoro subordinato con l'ente locale o con l'agente unico per la riscossione. Il magistrato ritiene che le modalità  di svolgimento del rapporto di lavoro, interamente svolto sotto il vigore del d.lgs. n. 276/2003, siano univoche nel senso dell'autonomia del rapporto di lavoro stesso. Ai sensi dell'art. 61 d.lgs. n. 276/2003, «i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personali e senza vincolo di subordinazione, di cui all'art. 409 n. 3 del codice di procedura civile devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione della attività  lavorativa». Il legislatore non chiarisce che cosa debba intendersi per progetto, programma o fasi di lavoro. Secondo un'interpretazione, si potrebbe distinguere tra l'esposizione di un'idea da realizzare («progetto») ed il piano di attuazione di tale idea («programma»): il progetto sarebbe proprio di prestazioni dotate di alta qualificazione, ben determinate, non standardizzate, caratterizzate da un contenuto ideativo particolareggiato, mentre nel programma prevarrebbe una fase meramente esecutiva, rappresentando il programma l'enunciazione di ciò che si è concordato di fare. Secondo una diversa opinione, la nozione di progetto andrebbe invece riferita all'ipotesi di uno schema di collaborazione totalmente estraneo rispetto all'attività  aziendale e/o dotato di originalità  assolutamente più marcata ed evidente rispetto agli altri due termini, mentre il riferimento al programma consentirebbe di inserire quale oggetto del contratto a progetto anche un'attività  costituente una fase o un segmento dell'attività  aziendale, purchè potenzialmente isolabile e di fatto distinta. Infine, il concetto di fase potrebbe essere utilmente interpretato per permettere alle aziende di realizzare progetti di grandi dimensioni tramite l'adibizione agli setssi di un numero rilevante di collaboratori, ognuno dei quali incaricato di svolgere singole e determinate fasi dell'unico progetto. Secondo la circolare ministeriale n. 1/2004 per progetto dovrebbe intendersi un'attività  produttiva ben identificabile, funzionalmente collegata alla realizzazione di un determinato risultato finale, cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione, e connessa all'attività  principale o accessoria dell'impresa committente. Il programma di lavoro consisterebbe, invece, in un tipo di attività  cui non è direttamente riconducibile un risultato finale ma piuttosto un risultato intermedio o parziale, destinato ad essere integrato, in vista di un risultato finale, da altre lavorazioni e risultati parziali. Infine secondo parte della dottrina, i due termini sarebbero, invece, sinonimi o, comunque, complementari e il riferimento contenuto nella norma ad un progetto o ad un programma (termini che secondo il vocabolario della lingua italiana possono essere utilizzati anche come sinonimi) costituirebbe un'endiadi, da interpretarsi nel senso di necessaria esposizione o enunciazione di ciò che il committente intende realizzare, a prescindere da qualsiasi altro attributo. Ai fini della decisione il giudice evidenzia che la dottrina e le prime pronunce di merito intervenute in materia concordano nell'individuare quantomeno due requisiti minimi richiesti perché si possa parlare di progetto o programma o fase di lavoro e cioè che l'attività  affidata al consulente sia in primo luogo specifica ed in secondo luogo temporanea. Per quanto riguarda il primo requisito l'art. 61 d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, debbano essere riconducibili a uno o più «specifici» progetti o programmi di lavoro o fasi di esso e il successivo art. 69 prevede poi che i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l'individuazzione di uno «specifico» progetto, programma di lavoro o fase di esso siano da considerarsi rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Inoltre l'art. 62, nell'introdurre un requisito di forma scritta, sia pure soltanto ad probationem, impone alle parti, e in specie al committente, un onere descrittivo rigoroso, richiedendo «L'indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante» (lettera b) e la specificazione delle «forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicare l'autonomia nella esecuzione dell'obblgazione lavorativa» (lettera d). La previsione della specificità  del progetto e/o programma di lavoro è del tutto coerente con l'autonomia che deve caratterizzare la prestazione lavorativa del collaboratore. Quest'ultimo, infatti, non mette a disposizione la proprie energie lavorative, come nel lavoro subordinato, ma un'opera o un servizio, che devono essere predeterminati dalle parti e che, essendo per definizione continuativi nel tempo, ipotizzano una pianificazione dell'attività  che sarà  poi prestata dal lavoratore in autonomia. Il progetto o programma di lavoro di cui all'art. 61, comma 1, devono poi essere anche intrinsecamente limitati nel tempo, come si evince dall'intera disciplina dell'istituto (art. 4 della legge delega 14 febbraio 2003 n. 30; art. 62, comma 1, d.lgs. n. 376/2003; e del medesimo decreto legislativo, art. 67, comma 1, secondo il quale «i contratti di lavoro di cui al presente capo si risolvono al momento della realizzazione del progetto o del programma o della fase di esso che ne costituisce l'oggetto»). Tali dati normativi risultano decisivi al fine di configurare il lavoro a progetto come un rapporto necessariamente a tempo determinato. La collaborazione deve essere dunque finalizzata alla realizzazione di una specifica opera o servizio, il cui raggiungimento esaurisce il rapporto, oppure deve essere funzionale ad una attività  del committente temporalmente definita o definibile. In altre parole il contratto di lavoro a progetto deve avere ad oggetto o prestazioni che per loro natura sono destinate a terminare con l'esecuzione dell'opera o del servizio oppure prestazioni suscettibili di esecuzione continuativa, per le quali il termine finale del rapporto a progetto deriva dal carattere temporaneo dell'esigenza del committente. Secondo il giudice nel caso de quo il contratto di collaborazione sottoscritto dalle parti non risulta conforme allo schema legale sia per difetto del requisito della specificità  sia per difetto del requisito della temporaneità . Per quanto concerne gli effetti dell'accertata «irregolarità  del contratto» il giudice, con articolata e attenta analisi ritiene che la presunzione prevista dall'art. 69 d.lgs 276/2003 deve dunque essere qualificata come soltanto relativa. Non avendo la lavoratrice provato in causa la sussistenza degli elementi tipici della subordinazione, la domanda viene respinta.
Impugnazione sanzione disciplinare
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Due dipendenti convenivano in giudizio la società  per la richiesta di annullamento della sanzione disciplinaredella multa irrogata ad entrambi, per avere gli stessi, secondo la versione aziendale, abbandonato immotivatamente il luogo di lavoro senza giustificato motivo e senza preavvertire i diretti superiori. I ricorrenti deducevano che nella fattispecie loro contestata gli stessi, in qualità  di delegati sindacali, si erano provvisoriamente allontanati dai rispettivi posti di lavoro per prestare soccorso ad una collega che, da una prima ricostruzione dei fatti, era stata verbalmente e fisicamente aggredita da un capo reparto all'interno dell'azienda. Tale fatto aveva determinato altresà l'intervento del segretario provinciale della organizzazione sindacale di appartenenza dei suddetti, unitamente ad una pattuglia della polizia immediatamente avvertita di quanto accaduto. Nell'occasione, i due interessati avevano altresà fatto presente che il loro allontanamento dai rispettivi posti di lavoro era stato segnalato al responsabile della sicurezza presente nel reparto; e pertanto ribadivano che la improvvisa sospensione della loro prestazione lavorativa era stata determinata sia da motivi prima di tutto umanitari (posto che la collega vittima dell'evento fu poi costretta a ricorrere alle cure del servizio di Pronto soccorso) che di carattere sindacale, visto il ruolo da entrambi rivestito all'interno dell'azienda. L'istruttoria testimoniale evidenziava il fatto che i ricorrenti erano intervenuti per prestare soccorso alla collega, vittima di un acceso diverbio con una caporeparto, che in conseguenza delle proprie precarie condizioni fisiche era stata costretta a lasciare l'azienda e a recarsi al più vicino Pronto soccorso; la condizione di salute in cui si trovava la lavoratrice era pertanto tale da giustificare l'intervento in suo soccorso da parte dei ricorrenti. Per tale motivo il giudice ha ritenuto che nella fattispecie in esame non fosse configurabile un'ipotesi di assenza dettata prevalentemente da motivi sindacali, essendosi viceversa trattato sostanzialmente di sospensione momentanea della prestazione di lavoro per fondati ed urgenti motivi di solidarietà  umana, come tale quindi giustificabile in ogni situazione. Pertanto il comportamento tenuto dai due ricorrenti avrebbe potuto configurare al più una semplice ipotesi di allontanamento dal lavoro per ragioni estranee al servizio, comportamento in relazione al quale il datore di lavoro avrebbe potuto eventualmente richiedere il recupero delle ore di assenza. Il ricorso veniva quindi accolto con la dichiarazione di illegittimità  delle sanzioni disciplinari irrogate e con la condanna conseguente alla restituzione in favore di ciascun ricorrente delle somme trattenute a tale titolo.
La mancanza di un conteggio allegato al ricorso non costituisce causa di nullità dell’atto introduttivo del giudizio
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Il lavoratore malato ha un obbligo specifico ad agevolare la propria guarigione
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Un lavoratore assunto con contratto di part time alle dipendenze di una struttura sanitaria con funzioni di medico specialista in geriatriasvolgeva legittimamente la propria attività  alle dipendenze anche di un altro centro medico dove era adibito a funzioni di direttore sanitario. Durante un lungo periodo di malattia dovuto ad una certificata coaxtrosi post necrotica all'anca il medico veniva, tuttavia, sorpreso alla guida di una motocicletta di grossa cilindrata, a recarsi al mare e a svolgere attività  lavorativa nel centro dove era assunto come direttore sanitario. A fronte di tali accertamenti scaturiva un procedimento disciplinare ed il lavoratore veniva licenziato per giusta causa. Il Tribunale di Napoli adito dal lavoratore al fine di ottenere la reintegra nel posto di lavoro rigettava il ricorso mentre la locale Corte di Appello riformava la decisione annullando il licenziamento intimato sul rilievo che non risultava alcuna prova che la guida del motoveicolo era incompatibile con lo stato di malattia mentre era emerso che una terapia balneare era consigliata con la prognosi del lavoratore. Nessun rilievo poteva essere attribuito alla circostanza che il medico svolgesse attività  di direttore sanitario dal momento che tale attività  era nota e tollerata all'azienda che aveva intimato il licenziamento. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore richiamando una serie di precedenti in forza dei quali lo svolgimento di altra attività  lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà , oltre che nell'ipotesi in cui tale attività  esterna sia per se sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia dimostrando quindi una fraudolenza simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività , valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa ritardare o pregiudicare la guarigione e il rientro in servizio con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. Nel richiamare i principi elaborati dalla Suprema Corte i giudici di legittimità  hanno ritenuto che la decisione della Corte di Appello partenopea si era discostata da quanto affermato dalla cassazione. Lo svolgimento di attività  lavorativa ed extralavorativa da parte del medico era stato quindi erroneamente valutato dai giudici di merito con riferimento ai doveri di correttezza e buona fede. La guida di una moto di grossa cilindrata, il recarsi in spiaggia e lo svolgere altra attività  lavorativa ' ritengono i giudici della cassazione ' sono indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativi del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l'espletamento di un'attività  ludica o lavorativa.
Contributi sindacali e fallimento
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Da oltre trent'anni dottrina e giurisprudenza discutono una questione di diritto che potrebbe apparire un mero dibattito accademico,se esso non avesse un riflesso pratico importantissimo, riguardando la fonte primaria di sostentamento delle organizzazioni sindacali: i contributi sindacali e la natura della «delega» con la quale i lavoratori ne autorizzano il versamento. L'importanza della definizione emerge ogni volta che il datore di lavoro che abbia effettuato le trattenute ' senza però versarle alle Oo.Ss. ' si trovi in stato di insolvenza e fallisca. Come è noto i lavoratori possono insinuarsi nel fallimento ed ai loro crediti viene riconosciuta natura privilegiata ai sensi dell'art. 2751-bis cod. civ. Ma rispetto ai contributi non versati, l'insinuazione al passivo del credito trasferito alle Oo.Ss. trova ' talvolta ' ostacoli, restando controverso se esse possano rivendicare il proprio credito in via privilegiata o chirografaria. La risposta, affermativa o negativa, dipende ' come detto ' da un quesito di diritto: se la cosiddetta «delega» rientri nella figura giuridica della cessione del credito (art. 1260 cod. civ.) ovvero in quella della delegazione di pagamento (art. 1268 cod. civ.). Solo nella prima ipotesi, infatti il credito insinuato dal sindacato godrebbe della stessa natura privilegiata del credito retributivo parzialmente oggetto di cessione dal lavoratore (cedente) all'organizzazione sindacale (cessionaria). Dopo un alternarsi di pronunce di segno opposto era intervenuta, nel 2005, una sentenza delle Sezioni Unite che «sposava» la tesi della cessione del credito, evidenziando però che la pronuncia interveniva con riferimento alla normativa precedente la Legge Finanziaria 2005, che, estendendo ai lavoratori del settore privato la disciplina del d.P.R. 180/50, lasciava aperto un problema: se, dopo la riforma degli artt. 1 e 5 del citato d.P.R. 180/50 sia sopravvenuto un divieto assoluto di cessione dei crediti derivanti da stipendi e salari e se siano o meno ricomprese nell'ambito di tale divieto anche le cessioni a titolo di contributi sindacali. Con una recente decisione, della Sezione fallimentare del Tribunale di Bologna (della quale, in questa rubrica sotto «Emilia Romagna»), dopo aver richiamato precedenti favorevoli all'incedibilità  (Trib. Torino 4.12.2006; Trib. Novara 19.4.2006; Trib. Milano 6.6.2006; Trib. Ascoli Piceno 17.3.2007) ed altri di segno opposto (Corte Appello Torino 14.2.2007; Corte Appello Torino 9.2.2009; Trib. Firenze 6.6.2006; Trib. Roma ' decr. ' 16.11.2007; Trib. Velletri ' decr. ' 4.12.2007) approda alla conclusione che esistano «robusti argomenti per la riconducibilità  delle trattenute sindacali nel novero delle eccezioni previste dalla legge», vale a dire per interpretare l'art. 52 nel senso che esso è destinato a regolare cessioni di credito finalizzate a estinguere debiti diversi dal prestito in denaro. Scrive il Tribunale: «In particolare un'approfondita analisi ermeneutica dell'impianto sistematico del d.P.R. n. 180, confortata anche dal dato letterale offre argomenti di spessore per affermare che secondo quanto previsto dall'art. 52 del d.P.R. citato non vi sarebbero ostacoli alla libera cedibilità  di quote dello stipendio a prescindere dalla finalità  perseguita con la cessione ed alle condizioni ivi previste (limite del quinto dello stipendio, durata massima, natura dei rapporti di lavoro)». Conclusivamente, in quel caso, l'opposizione allo stato passivo proposta dalla Fiom-Cgil viene accolta, essendo ritenuti convincenti gli argomenti a favore della tesi «in ordine alla cedibilità  di parte cosà esigua della retribuzione dei lavoratori per un interesse pienamente meritevole di tutela e di rango costituzionale». Ciò detto, preme osservare che la funzione interpretativa, da parte della magistratura, a favore dell'istituto della cessione del credito (favorevole agli interessi delle organizzazioni sindacali senza minimamente nuocere quelli dei dipendenti, che comunque si sono visti operare le trattenute da parte del datore di lavoro insolvente) potrebbe essere certamente favorita da una più chiara formulazione delle deleghe sindacali. La «delega» oggetto di causa era infatti cosà formulata: «Il/la sottoscritta â?¦ dipendente dell'azienda â?¦ Cartellino n. â?¦ in relazione a quanto previsto dal Ccnl autorizza, con la presente delega, la Direzione Aziendale a trattenere da tutte le competenze mensili, compresa la 13ma mensilità , a favore dell'organizzazione sindacale da me scelta, l'importo pari all'1% della retribuzione mensile di fatto, al netto delle trattenute previdenziali, fiscali e assegni familiari. Tale importo dovrà  essere versato mensilmente sul c/c bancario che l'Organizzazione da me prescelta, con l'apposizione della mia firma a fianco della sigla, vi comunicherà  secondo le modalità  previste dal Ccnl. In caso di risoluzione del rapporto o revoca della presente delega, l'Azienda dovrà  darne specifica comunicazione all'organizzazione da me sottoindicata. La presente delega annulla e sostituisce ogni altra delega in precedenza rilasciata dal sottoscritto». Una dicitura più esplicita contenuta nel Ccnl e/o nelle singole deleghe, che dica in modo chiara trattarsi di una «cessione del credito», potrebbe evitare, in altri casi, quelle pronunce di segno opposto pure citate nel decreto in commento, che rendono ancora incerta la materia.
La Cassazione precisa i connotati del cd rischio elettivo
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Un lavoratore addetto a mansioni di autista all'interno di un cantiere al fine di effettuare un trasporto utilizzava una scorciatoia scoscesanonostante in passato fosse stato inibito dall'utilizzarla. Durante il percorso il mezzo condotto dal lavoratore si ribaltava causando un grave infortunio al lavoratore. Il lavoratore richiedeva quindi all'ente assicurativo il riconoscimento del proprio diritto ad ottenere l'indennizzabilità  dell'infortunio che veniva, tuttavia, negato dall'Inail. Sia il Tribunale di Firenze che la locale Corte di Appello rigettavano la domanda del lavoratore. La Corte di Cassazione ha tuttavia riformato la decisione del Collegio fiorentino affermando che nel caso esaminato dai giudici di merito non era riscontrabile un rischio elettivo che escludeva l'indennizzabilità  dell'infortunio. La Corte ha infatti precisato che il rischio elettivo è ravvisabile solo in presenza di un comportamento abnorme, volontario ed arbitrario del lavoratore tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività  lavorativa, pur latamente intesa, e tale da determinare una causa interruttiva di ogni nesso con il lavoro. Il ribaltamento del mezzo dovuto ad un tratto scosceso di una scorciatoia scelta negligentemente dal lavoratore per compiere la sua prestazione non rientra in tale categoria. Affermano, infatti, i giudici di legittimità  che per configurare il rischio elettivo viene richiesto a) che il lavoratore ponga in essere un atto non solo volontario, ma anche abnorme nel senso di arbitrario ed estraneo alle finalità  produttive; b) che il comportamento del lavoratore sia motivo motivato da impulsi meramente personali, quali non possono qualificarsi le iniziative, pur incongrue ed anche contrarie alle direttive del datore di lavoro, ma motivate da finalità  produttive; c) che l'evento conseguente all'azione del lavoratore non abbia alcun nesso di derivazione con l'attività  lavorativa. Solo le azioni caratterizzate dalla compresenza dei tre requisiti richiamati dalla Suprema Corte configurano un rischio elettivo dovendosi altrimenti ' concludono i giudici di legittimità  ' ravvisarsi un atto colpevole del lavoratore caratterizzato da imprudenza, negligenza o imperizia ma motivato comunque, da finalità  produttive, che non vale ad interrompere il nesso fra l'infortunio e l'attività  lavorativa.
La minaccia di un licenziamento può giustificare l’annullamento delle dimissioni solo se ingiusta
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L’impossibilità sopravvenuta dovuta a una detenzione per fatti estranei al rapporto non giustifica ex se il licenziamento
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La complessità dell’organizzazione aziendale non giustifica un ritardo di tre mesi nella contestazione disciplinare
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Indennità una tantum per forze armate
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Non è illegittimo negare agli appartenenti alle forze armate la corresponsione dell'indennità  speciale una tantum in favore del personale di polizia invalido per causa di servizio.La Corte Costituzionale ha quindi rigettato la questione prospettata dal Tar della Puglia con le seguenti argomentazioni: l'indennità  in parola sostituisce l'equo indennizzo previsto dalle leggi vigenti per l'invalidità  per causa di servizio dei dipendenti pubblici. Il suo importo è pari a quello dell'equo indennizzo, maggiorato del venti per cento. Si tratta di una disciplina derogatoria rispetto a quella dell'invalidità  per causa di servizio dettata per la generalità  dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché di ambito limitato, in quanto circoscritta al caso in cui l'invalidità  derivi da specifici eventi connessi all'espletamento dei compiti d'istituto. È quindi un'ipotesi peculiare, la cui specialità  è giustificabile in virtù delle particolari funzioni delle forze di polizia e dei rischi a esse connessi. La disposizione determina indubbiamente una diversità  tra il trattamento del personale di polizia e quello del personale militare, ma questa diversità  non produce una violazione del principio di eguaglianza. In effetti la Corte Costituzionale ha sempre affermato l'autonomia dell'ordinamento delle forze di polizia e di quello delle forze armate, escludendo che la Costituzione richieda un'identità  di trattamento (sentenze n. 442 del 2005 e n. 451 del 2000) e ha stabilito che la diversità  dei rispettivi regimi retributivi e normativi impedisce una comparazione alla stregua del principio di eguaglianza (sentenze n. 91 del 1993 e n. 583 del 1988).
La valutazione dell’adeguatezza delle nuove mansioni deve essere effettuata considerando le precedenti attività svolte
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