
Descrizione
Compensazione dei crediti e pignorabilità delle pensioni Inpgi in sede di costituzionalità Rimessa alle Sezioni Unite la questione della regolarizzazione previdenziale successiva a sentenza di reintegra La Cassazione afferma la capacità a testimoniare dei lavoratori in cause identiche non riuniteNel licenziamento per riduzione personale il datore deve provare di aver applicato i criteri di scelta comparando i lavoratori
Nell'estate del 1994 la società Adivar ha effettuato una riduzione del personale,applicando la procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991. Essa ha concordato
con le organizzazioni sindacali, quali criteri di scelta per l'individuazione dei lavoratori
da licenziare, il possesso dei requisiti per il pensionamento ovvero la minore permanenza
in mobilità ai fini dell'accesso al trattamento pensionistico. Uno dei licenziati,
A.M., ha impugnato il licenziamento davanti al pretore di Roma sostenendo che l'azienda
non aveva correttamente applicato i criteri di scelta, in quanto aveva mantenuto
in servizio lavoratori più vicini di lui al pensionamento e indicando in particolare i
nomi di due di costoro. L'azienda si è difesa sostenendo di avere correttamente applicato
i criteri di scelta e dimostrando che i due lavoratori indicati da A.M. erano stati
mantenuti in servizio perché più lontani di lui dal pensionamento. Il pretore ha rigettato
la domanda. La Corte di Appello di Roma ha accolto l'impugnazione proposta dal
lavoratore e ha dichiarato illegittimo il licenziamento, osservando che l'azienda non avrebbe
dovuto limitarsi a comprovare l'esatta applicazione dei criteri di scelta con riferimento
alle due persone mantenute in servizio indicate da A.M., ma avrebbe dovuto
dimostrare ' e non l'aveva fatto ' che tutti i lavoratori mantenuti in servizio erano
stati correttamente esclusi, in base a tali criteri, dal licenziamento. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la Corte di Appello di Roma, tra l'altro, per
avere pronunciato «ultra petita», in quanto avrebbe dovuto limitarsi a esaminare la
posizione delle due persone rimaste in servizio indicate dal lavoratore licenziato e non
avrebbe dovuto addossarle l'onere di provare la correttezza delle scelte con riferimento
a tutto il personale.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8307 del 10 aprile 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri)
ha rigettato il ricorso. Il vizio di ultra ed extra petizione ' ha affermato la Corte ' ricorre
soltanto allorquando il giudice pronunzia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni
fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non
rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato,
mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell'esercizio della
sua potestas decidendi, resta libero non solo di individuare l'esatta natura dell'azione
e di porre a base della pronunzia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all'uopo
prospettate, ma di rilevare altresà, indipendentemente dall'iniziativa della controparte,
la mancanza degli elementi che caratterizzano l'efficacia costitutiva o estintiva
di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all'obbligo inerente all'esatta
applicazione della legge. Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' il giudice d'appello
' a seguito di una corretta valutazione delle risultanze istruttorie e sulla base dei
fatti ritualmente accertati ' facendo una puntuale applicazione della normativa giuridica
riguardante la legge n. 223 del 1991 e dei principi codicistici sull'onere della prova,
ha nel rispetto della causa petendi e del petitum deciso la controversia sottoposta
al suo esame, con una motivazione, che per presentarsi congrua, priva di salti logici e
rispettosa della normativa in materia, si sottrae a ogni censura in sede di legittimità .
In caso di riduzione di personale deve ritenersi nullo un accordo sindacale che individui direttamente i lavoratori licenziabili
Nel 1991 la Srl S.T. Microelectronics ha collocato in cassa integrazione 52 dipendenti per crisi aziendale.Dopo alcune proroghe di tale trattamento, l'azienda
ha avviato, nel 1996 una procedura in base alla legge n. 223/91, per il licenziamento
collettivo di 52 lavoratori. Nell'ambito di questa procedura essa ha raggiunto con le
organizzazioni sindacali un accordo che, con riferimento alle esigenze tecnico-produttive
dell'azienda, stabiliva, come criterio di scelta del personale da licenziare, la precedente
collocazione in cassa integrazione. L'azienda ha quindi licenziato i 52 già collocati
in Cigs. G.M., licenziato il 20 dicembre 1996, ha impugnato il licenziamento davanti
al giudice del lavoro di Catania, chiedendo di essere reintegrato nel posto di lavoro.
L'azienda si è difesa sostenendo la legittimità del criterio di scelta concordato
con il sindacato e facendo presente che il lavoratore non era in possesso della qualificazione
professionale necessaria per le nuove mansioni richieste dalle trasformazioni
verificatesi nella struttura aziendale. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda
del lavoratore, annullando il licenziamento e ordinando la sua reintegrazione. Questa
decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Catania con sentenza pronunciata
nel novembre 1992. I criteri di scelta stabiliti con l'accordo tra l'azienda e le
organizzazioni sindacali ' ha osservato la Corte ' nel fare riferimento alle esigenze tecniche
e produttive, solo apparentemente avevano carattere di generalità e astrattezza,
necessario per garantire un equo procedimento di selezione dei lavoratori da collocare
in mobilità , atteso che in realtà portavano a una identificazione immediata dei
lavoratori in questione, individuati in quelli già posti in cassa integrazione guadagni
straordinaria. Si trattava quindi di un criterio illegittimo in quanto non identificava una
regola astratta di selezione ma individuava aprioristicamente i soggetti interessati.
Ciò costituiva anche violazione dell'art. 4, comma 9, e dell'art. 5, comma 1, della legge
n. 223 del 1991 a norma dei quali attraverso l'accordo collettivo le parti devono individuare
un criterio di selezione dei lavoratori da licenziare e non operare direttamente
una scelta degli stessi. Sotto altro profilo la Corte di Catania riteneva che l'esigenza
tenico-produttiva allegata a sostegno del licenziamento ' e cioè quella secondo
cui le mansioni alle quali il lavoratore era stato precedentemente addetto erano
state soppresse mentre le nuove mansioni imposte dalle trasformazioni subite dalla
struttura aziendale richiedevano professionalità e competenze diverse da quelle in
possesso del suddetto lavoratore ' fosse inidonea a legittimare il licenziamento, atteso
che era stato lo stesso datore di lavoro a impedire, con l'estromissione del dipendente
dal ciclo produttivo, la possibilità per lo stesso di riqualificarsi in relazione all'evoluzione
imposta dal progresso tecnologico. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la sentenza della Corte di Catania per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11101 del 15 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Di
Cerbo) ha rigettato il ricorso. La procedura di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del
1991 ' ha affermato la Corte ' è finalizzata alla tutela non solo di interessi delle organizzazioni
sindacali, ma anche dell'interesse pubblico, correlata all'occupazione in generale
e ai costi della mobilità e dell'interesse dei lavoratori alla conservazione del posto
di lavoro e, in particolare, alla verifica dei criteri di scelta sotto il profilo del loro carattere
di generalità , obiettività e coerenza con il fine dell'istituto della mobilità , sicché
è da escludere che l'accordo tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali faccia
perdere rilevanza al radicale stravolgimento della procedura medesima. In secondo
luogo ' ha aggiunto la Corte ' deve essere considerato nullo, per contrasto con norma
imperativa (art. 5 della legge n. 223 del 1991) un accordo, come quello di cui si discute,
che (di fatto) individui direttamente lavoratori da licenziare anziché dettare effettivi
criteri di scelta.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno per il contenuto di comunicazioni aziendali lesive della sua personalità
M. M., dipendente della Srl Euganea Vasi è stato richiesto dall'azienda di lavorare anche nelle giornate di sabato.Egli ha rifiutato facendo presente che si trattava
di una prestazione supplementare, in aggiunta al normale orario di lavoro di 40 ore
settimanali e che pertanto egli non era tenuto a svolgerla in assenza di un accordo
in tal senso tra l'azienda e le rappresentanze dei lavoratori. Egli ha anche invitato l'azienda
a rispettare la normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. L'azienda
gli ha applicato per tre volte consecutive la sanzione disciplinare della sospensione e
successivamente, poiché il lavoratore non ha desistito dal suo rifiuto, lo ha licenziato.
Nel periodo precedente al licenziamento la datrice di lavoro ha affisso nella bacheca aziendale
comunicati nei quali si ridicolizzavano le richieste avanzate da M.M. e dal suo
collega M.S. in materia di orario di lavoro e di igiene e sicurezza, qualificandole come
«minatorie» e invitandoli «ad andare al mare o in montagna in quanto il lavoro non faceva
per loro». Successivamente l'azienda ha dato notizia ai dipendenti del licenziamento
di M.M., evidenziando che egli «ormai da troppo tempo non si adeguava all'orario
aziendale, 48 ore settimanali ogni tre settimane» e prospettando anche l'ipotesi
che egli avesse un altro lavoro. M.M. ha chiesto al Tribunale di Venezia di annullare il
licenziamento, di ordinare all'azienda la sua reintegrazione nel posto di lavoro, nonché
il pagamento delle retribuzioni maturate dalla risoluzione del rapporto sino all'effettiva
riassunzione e di condannarla inoltre al risarcimento del danno per il comportamento
ingiurioso tenuto nei suoi confronti. Il Tribunale ha annullato il licenziamento
ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro con il pagamento della retribuzione
maturata, rilevando che il contratto collettivo di categoria prevedeva la possibilità di
lavoro supplementare solo in via eccezionale e previo accordo tra la direzione aziendale
e la rappresentanza sindacale. Il Tribunale ha inoltre condannato la datrice di lavoro
al risarcimento del danno per comportamento ingiurioso. Questa decisione è stata
confermata dalla Corte di Appello di Venezia. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Venezia per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11432 del 16 maggio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli)
ha rigettato il ricorso perché ha ritenuto che la Corte di Venezia abbia correttamente
motivato la sua decisione. Per quanto concerne la ritenuta portata ingiuriosa
del licenziamento la Suprema Corte ha affermato che il giudice d'appello aveva esattamente
ritenuto che nelle comunicazioni aziendali si dipingeva sostanzialmente Mario
M. come persona contraria all'azienda e scorretta, con conseguente lesione della
reputazione del lavoratore.
La sostituzione di lavoratori assenti per sciopero non può essere attuata con strumenti contrattuali impropri
In occasione di uno sciopero svoltosi nell'aprile del 2001 la Spa Supermercati PAM di Grossetoha fatto fronte all'assenza dei dipendenti astenutisi dal lavoro
ricorrendo a prestazioni supplementari di lavoratori studenti in regime di contratto
a tempo determinato e parziale. La Fisascat Cisl ha promosso davanti al Tribunale
di Grosseto un procedimento in base all'art. 28 Stat. lav. chiedendo l'accertamento
del comportamento antisindacale dell'azienda e i conseguenti provvedimenti. Il Tribunale
ha accolto la domanda nella fase cautelare e ha confermato la sua decisione
nel giudizio di merito. L'azienda ha proposto appello sostenendo che essa aveva diritto
di limitare le conseguenze negative dello sciopero. La Corte di Appello di Firenze
ha rigettato l'impugnazione osservando che il diritto di limitare le conseguenze relative
a uno sciopero deve essere esercitato dal datore di lavoro nel rispetto delle
norme di comportamento che regolano il conflitto fra le parti sociali e pertanto avvalendosi
solo delle possibilità consentite dalla legge. In proposito la Corte ha rilevato
che in base a un accordo aziendale l'assunzione di studenti con contratti a tempo determinato
era consentita in caso di apertura domenicale dell'esercizio e che l'art. 3
del decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61 consentiva la prestazione di lavoro supplementare
solo da parte di lavoratori assunti a tempo indeterminato. L'azienda ha
proposto ricorso per cassazione censurando la motivazione della Corte di Appello di
Firenze per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10624 del 9 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Cuoco)
ha rigettato il ricorso. La legittima antitesi fra lavoratori e datori di lavoro in caso
di sciopero ' ha affermato la Corte ' esige che le parti si avvalgano degli strumenti e
delle possibilità offerte dall'ordinamento. Per quanto attiene al datore di lavoro l'illegittimità
dello strumento utilizzato per contrastare lo sciopero pone l'attività aziendale
in uno spazio estraneo all'art. 41 Cost. che tutela l'iniziativa privata. Il contingente
affidamento delle mansioni svolte da lavoratori in sciopero a dipendenti non in sciopero,
da ritenersi consentito in base all'art. 2103 cod. civ. ' ha osservato la Corte ' diventa
tuttavia illegittimo ove sia in violazione di legge o di norme collettive. Questa
violazione non si esaurisce in se stessa: non è un fatto neutro nei confronti dello sciopero;
essendo effettuata al fine di continuare l'attività aziendale nel corso dello sciopero,
diventa oggettivamente un'illegittima antitesi allo sciopero. Limiti normativi, che
il datore incontra nell'esercizio del diritto di continuare a svolgere la propria attività aziendale
' ha affermato la Corte ' sono, oltre alle disposizioni di legge, anche le prescrizioni
fissate dalle norme collettive; e in particolare quelle che egli stesso ha stipulato.
Tale è l'accordo aziendale con cui si è convenuta la possibilità di stipulare contratti
a termine con lavoratori a tempo indeterminato dipendenti da altro datore, per lo
svolgimento di prestazioni part-time nei giorni di sabato e domenica (c.d. contratti
week-end). L'Accordo costituisce fra le parti una regola: l'assunzione è prevista per un
particolare oggetto (prestazione nei giorni di domenica e di sabato) e per una specifica
finalità (estendere in questi giorni l'apertura dell'esercizio, precedentemente non
consentita). In questa ipotesi, poiché la possibilità (prevista dalla norma collettiva) è
limitata a un contratto per prestazioni lavorative nei giorni di sabato e domenica, con
l'estensione della prestazione ad altro giorno e per altra causa il contratto (individuale)
assume non solo un oggetto diverso (prestazione in altro giorno della settimana),
bensà uno scopo diverso da quello normativamente pattuito (non il consentire l'attività
aziendale a fine settimana, bensà il sostituire lavoratori in sciopero). E in tal modo ' ha
affermato la Corte ' diventa, con la violazione della regola costituita dalle parti, illegittimo
contrasto dello sciopero; è limite dell'attività aziendale anche la norma (art. 3
comma 13 del decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61: «attuazione della Direttiva
97/81 CE relativa all'Accordo ' quadro sul lavoro a tempo parziale»), per cui «l'effettuazione
di prestazioni lavorative supplementari o straordinarie è ammessa esclusivamente
quando il contratto di lavoro a tempo parziale sia stipulato a tempo indeterminato
» (ad eccezione di lavoratori a tempo determinato chiamati in specifiche situazioni,
pacificamente estranee a quanto dedotto in controversia). Anche in questa ipotesi,
lo svolgimento di lavoro supplementare da parte di lavoratori part-time a tempo determinato,
disposto al fine di sostituire lavoratori in sciopero, diventa illegittimo contrasto
dello sciopero.
Il licenziamento per soppressione di posto di lavoro è illegittimo se l'azienda assume lavoratori con mansioni equivalenti
G. M. dipendente della Spa Energizer Italia, con qualifica di impiegato di primo livello,addetto al settore commerciale come «Assistant area manager», essendo stato
licenziato per riduzione di personale, ha ottenuto dal Tribunale di Milano la dichiarazione
di illegittimità del licenziamento con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro,
per mancato rispetto, da parte dell'azienda, della procedura prevista dalla legge
n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi. Richiamato in servizio, egli è stato nuovamente
licenziato con motivazione riferita alla soppressione, nell'ambito di una riorganizzazione
aziendale, delle mansioni di «assistant area manager». Il lavoratore ha impugnato
davanti al Tribunale di Milano, anche il secondo licenziamento, chiedendone
l'annullamento e rilevando, tra l'altro, che l'azienda aveva assunto nuovi dipendenti
con qualifica di primo livello. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la sua decisione
è stata riformata dalla Corte di Appello di Milano che ha dichiarato illegittimo il licenziamento,
condannando la società a reintegrare il lavoratore in mansioni equivalenti a
quelle già svolte, nonché al risarcimento del danno. La Corte di Milano ha rilevato che
l'azienda aveva ammesso di avere operato nuove assunzioni di personale con mansioni
di primo livello senza indicare i motivi specifici con i quali non aveva ritenuto di
assegnarle a G.M. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza
della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11029 del 12 maggio 2006, Pres. Mattone, Rel. Di
Cerbo) ha rigettato il ricorso richiamando la sua giurisprudenza secondo cui, il datore
di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro
cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare che al momento del
licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa
alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento
di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta
dal lavoratore medesimo, e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo
periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga
a quella del lavoratore licenziato. Nella specie ' ha osservato la Cassazione '
deve ritenersi che la Corte di merito abbia correttamente applicato questi principi atteso
che, da un lato, ha correttamente osservato che l'impossibilità di reimpiegare il
lavoratore in mansioni equivalenti doveva essere valutata con riferimento alla situazione
esistente al momento dell'intimazione del secondo licenziamento e, dall'altro,
ha logicamente argomentato sottolineando che, avendo la società ammesso di aver
assunto nuovi dipendenti inquadrati nello stesso livello del lavoratore licenziato (primo
livello) e inseriti nello stesso settore commerciale, incombeva sulla stessa l'onere
di provare le ragioni per cui non era possibile adibire G.M. alle mansioni assegnate a
uno di questi due nuovi assunti, e cioè la non equivalenza di queste nuove mansioni
rispetto a quelle in precedenza svolte da G.M.
Nella scuola pubblica i docenti non hanno l'obbligo di marcare il cartellino, basta il registro
Il Preside dell'Istituto tecnico commerciale e per geometri «Enrico Fermi» di Isernia ha ordinato ai docenti di marcare l'orario di entrata e di uscita con il cartellino magnetico.Il docente di ruolo D.P. non si è attenuto alla disposizione, sostenendone
l'illegittimità . Il Provveditore agli Studi di Isernia gli ha inflitto, nel dicembre
del 1998, la sanzione disciplinare della censura per non aver eseguito l'ordine del
Preside. D.P. ha chiesto al pretore di Isernia di annullare la sanzione sostenendo che
al preside non era consentito imporre al personale docente l'obbligo di marcare la presenza
mediante il cartellino magnetico, in quanto gli strumenti da applicare per il controllo
delle presenze erano il registro di classe e il giornale del professore. Sia il pretore
di Isernia che la Corte d'Appello di Campobasso hanno ritenuto infondata la domanda.
D.P. ha proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d'Appello,
censurandola per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11025 del 12 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. De
Matteis) ha accolto il ricorso. Per i dipendenti pubblici ' ha affermato la Corte ' l'obbligo
di adempiere alle formalità prescritte per il controllo dell'orario di lavoro deve discendere
da apposita fonte normativa legale o contrattuale; la giurisprudenza amministrativa
è univoca nell'affermare l'esigenza di una fonte normativa specifica per la facoltà
di sottoporre il personale dipendente al controllo delle presenze mediante orologi
marcatempo o altri sistemi di registrazione. Nel settore scolastico ' ha precisato
la Corte ' l'art. 396 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297 (Testo unico sulla scuola) affida al
preside compiti di promozione e coordinamento, nell'ambito delle norme dello stesso
t.u. e del contratto collettivo; quest'ultimo prevede (ad es. art. 6 c.c.n.l. 24 luglio 2003)
come materia di informazione preventiva i criteri e le modalità relativi alla organizzazione
del lavoro e all'articolazione dell'orario del personale docente, educativo e Ata;
l'art. 89 del medesimo contratto prevede l'obbligo per il personale Ata di adempiere
alle formalità previste per la rilevazione delle presenze, mentre analogo obbligo non è
previsto per il personale docente.
Per la tempestività dell'impugnativa non basta la richiesta di conciliazione serve la comunicazione all'azienda
Alfredo A. dipendente del Banco di Napoli, è stato licenziato per ragioni disciplinaricon lettera pervenutagli il 19 novembre 2001. L'11 gennaio 2002 egli ha depositato
presso la Commissione di conciliazione di Salerno la richiesta di esperimento del
tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall'art. 410 cod. proc. civ, senza inviarne
copia all'azienda. La Commissione, con comunicazione pervenuta il 1 febbraio
2002, ha convocato le parti per il 14 febbraio 2002 per l'esperimento del tentativo. L'azienda
non si è presentata. Nel marzo del 2002 il lavoratore ha impugnato il licenziamento
davanti al Tribunale di Salerno, chiedendone l'annullamento. Il Tribunale ha dichiarato
la domanda inammissibile, rilevando che l'impugnazione in forma scritta del
licenziamento non era stata comunicata al datore di lavoro nel termine di 60 giorni previsto
dall'art. 6 della legge n. 604 del 1966. La decisione è stata confermata dalla Corte
di Appello di Salerno. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo il
licenziamento era stato tempestivamente impugnato mediante il deposito presso la
Commissione di conciliazione della richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione
previsto dall'art. 410 cod. proc. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11116 del 15 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. D'Agostino)
ha rigettato il ricorso. L'atto di impugnazione del licenziamento ' ha osservato
la Cassazione ' ha natura di negozio giuridico unilaterale recettizio, ex art. 1335 cod.
civ., che deve giungere a conoscenza del datore di lavoro per produrre i suoi effetti; la
comunicazione all'azienda, da parte dell'Ufficio provinciale del lavoro, della richiesta
di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa
scritta del licenziamento, impedisce la decadenza di cui all'art. 6 delle legge n.
604/1966 soltanto se avvenuta nel termine di 60 giorni previsto da questa norma. Nella
specie ' ha rilevato la Corte ' la comunicazione della convocazione delle parti è pervenuta
al Banco di Napoli ben oltre il termine di decadenza del 18 gennaio 2002; non
può neppure applicarsi il disposto del secondo comma dell'art. 410 cod. proc. civ., il
quale dispone che «la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di
conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione
e per venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine
di decadenza». La mera presentazione della richiesta, in assenza della sua comunicazione
' ha affermato la Corte ' non può avere gli effetti interruttivi della prescrizione e
sospensivi della decadenza, indicati nella norma, poiché quest'ultima riconnette esplicitamente
tali effetti alla «comunicazione» dell'atto alla controparte e non già alla
sua «presentazione» alla Commissione di conciliazione. Questa interpretazione trova
conferma nella formulazione del successivo art. 410-bis cod. proc. civ., il quale al primo
comma dispone che «il tentativo di conciliazione [â?¦] deve essere espletato entro
sessanta giorni dalla presentazione della richiesta». L'espressione «presentare la richiesta
» fa riferimento all'attività di sottoposizione della domanda all'organo investito
del dovere di provvedere in merito; essa non può essere estesa fino a coprire anche
un'attività rivolta alla controparte del rapporto, alla quale la domanda conciliativa va
«comunicata» e non «presentata». Il legislatore, dunque, ha tenuto ben presente la distinzione
tra «comunicazione» e «presentazione» dell'atto, ricollegando a ciascun adempimento
ben precisi effetti sul piano processuale e sostanziale; in particolare gli
effetti interruttivi della prescrizione e sospensivi della decadenza sono stati ricondotti
alla comunicazione della richiesta alla controparte, anziché alla mera presentazione.
Da quanto sopra ' ha precisato la Corte ' consegue che il lavoratore che abbia interesse
a ottenere una pronta efficacia sospensiva dei termini di decadenza dalla sua richiesta
del tentativo di conciliazione, ha l'onere di provvedere a notificare tale richiesta
al datore di lavoro, senza attendere la comunicazione dell'ufficio; ciò non significa
gravare il lavoratore di un'attività non prescritta dalla legge, trattandosi di attività che
il lavoratore ha l'onere di porre in essere al fine di conseguire tempestivamente gli effetti
favorevoli previsti dalla norma e che è libero di non effettuare se non interessato
a tanto.
Nella valutare la legittimità del mutamento di mansioni si deve applicare una nozione dinamica dell'equivalenza professionale
E. C., dipendente della Spa Banca Regionale Europea, dopo avere svolto, presso la sede centrale, vari incarichi,tra cui quello di capo dell'Ufficio segreteria Fidi e
dell'Ufficio Rischi, ha esercitato, presso una filiale della sede di Cuneo, le funzioni di direttore,
in sostituzione del titolare. Egli è stato poi trasferito, nel dicembre del 1998, a
Torino in qualità di terzo funzionario assegnato all'area Piemonte, con l'incarico di occuparsi
delle operazioni di fido eccedenti l'importo unitario di quattro miliardi di lire. Egli
si è rivolto al giudice del lavoro di Cuneo, sostenendo di avere subito una dequalificazione
con l'assegnazione di mansioni inferiori a quelle di direttore di filiale, e chiedendo
il riconoscimento del diritto all'inquadramento di funzionario di I livello, a titolo
di risarcimento del danno specifico (mediante «ricostruzione della carriera»). Sia il Tribunale
di Cuneo che la Corte d'Appello di Torino hanno ritenuto la domanda priva di
fondamento. In particolare, la Corte di Torino, ha rilevato che le mansioni affidate nel dicembre
del 1998 al lavoratore erano aderenti alla sua professionalità , essendosi egli già
in precedenza occupato di fidi e che esse comportavano una responsabilità certamente
maggiore rispetto al passato, trattandosi di affidamenti eccedenti i quattro miliardi
di lire. E.C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di
Torino per vizi di motivazione e violazione dell'art. 2103 cod. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Stile)
ha rigettato il ricorso. Le regole elaborate dalla giurisprudenza di cassazione in tema
di legittimo esercizio dello ius variandi del datore di lavoro ' ha osservato la Corte
' sono intese a configurare una nozione «dinamica» di equivalenza professionale, basata
sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore
prima e dopo il mutamento di mansioni; costituisce, invero, principio ormai acquisito
che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità d'inquadramento,
mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista
del contenuto professionale. L'esistenza, per cosà dire, di un «minimo comune denominatore
» di conoscenze teoriche e capacità pratiche ' ha aggiunto la Corte ' è condizione
necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere
le nuove mansioni con la preparazione posseduta; anzi, il fatto di mutare ramo di attività ,
operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche
al lavoratore d'incrementare e arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase
pregressa del rapporto. In quest'ottica, senz'alcun dubbio quella che meglio risponde
alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro ' ha osservato la Cassazione
' la professionalità non rileva, dunque, come un'entità statica e assoluta, sganciata
dalla realtà aziendale, bensà come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente,
capacità di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l'esperienza e le cognizioni
sino a quel momento acquisite.
Nel pubblico impiego le controversie sui concorsi interni per stessa area rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario
Nel marzo del 2001 il Ministero dell'Interno ha indetto un bando di concorso per la partecipazione a un corso di riqualificazioneper l'attribuzione di 241 posti nella posizione economica C/3 (direttore amministrativo contabile);
il concorso era riservato ai dipendenti con inquadramento in C/1 e C/2 della stessa area. Alcuni impiegati
inquadrati in C/1 e C/2, essendo stati esclusi dal concorso, si sono rivolti al Tribunale
di Roma chiedendo il riconoscimento del loro diritto alla partecipazione. Nella
controversia che ne è seguita, dopo l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli
altri partecipanti al concorso, alcuni di questi hanno proposto regolamento preventivo
di giurisdizione innanzi alle Sezioni Unite della Cassazione, sostenendo che la controversia
doveva essere attribuita al giudice amministrativo.
Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (ordinanza n. 10419 dell'8 maggio 2006,
Pres. Ianniruberto, Rel. Picone) hanno ritenuto priva di fondamento la tesi sostenuta
dai ricorrenti e hanno dichiarato la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria sulla
controversia. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui l'art. 63, comma
4, d.lgs. 165/2001, si interpreta nel senso che, per «procedure concorsuali di assunzione
», ascritte al diritto pubblico e all'attività autoritativa dell'amministrazione, si
intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro
(essendo tali tutte le procedure aperte a candidati esterni, ancorché vi partecipino
soggetti già dipendenti pubblici), ma anche i procedimenti concorsuali «interni»,
destinati, cioè, a consentire l'inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie
più elevate, profilandosi in tal caso una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro.
Le progressioni, invece, all'interno di ciascuna area professionale o categoria, sia
con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento
di qualifiche (livello funzionale di inquadramento connotato da un complesso di
mansioni e di responsabilità ) superiori (art. 52 comma 1, d.lgs. 165/2001) ' ha ricordato
la Corte ' sono affidate a procedure, poste in essere dall'amministrazione con la
capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001); tale
differente disciplina tra i passaggi interni alle aree professionali rispetto a quelli esterni
appare confermata dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria per
il 2006), nel suo riferimento «agli importi relativi alle spese per le progressioni all'interno
di ciascuna area professionale o categoria» e alla diversa nozione di «passaggio
di area o di categoria» (art. 1, comma 193). È evidente che, alla stregua dell'interpretazione
enunciata ' ha affermato la Corte ' assume rilevanza determinante ai fini dell'indicato
criterio di ripartizione della giurisdizione ' e, correlativamente, dell'ambito
di applicazione del termine «assunzione» ' il contenuto della contrattazione collettiva,
ma è, questo, un effetto derivante dal sistema legislativo di regolamentazione delle
fonti di disciplina del lavoro pubblico «contrattuale».
Nella fattispecie ' ha osservato la Corte ' viene in rilievo il contratto collettivo nazionale
di lavoro per il personale del comparto ministeri per il quadriennio 1998/2001 e
biennio economico 1998/1999, stipulato in data 16 febbraio 1999 (le cui clausole sono
conosciute direttamente dalla Cassazione, ai sensi dell'art. 63, comma 5, d.lgs.
165/2001). Con questo contratto è stato introdotto un nuovo sistema di classificazione
del personale, accorpando le nove qualifiche funzionali di cui alla legge 312/1980
in tre aree di inquadramento, secondo la corrispondenza prevista dall'art. 13 (e, per il
personale già in servizio, secondo la tabella di cui all'allegato B: art. 16). Lo stesso articolo
13, poi, al comma 3, stabilisce che, all'interno della stessa area, i profili caratterizzati
da mansioni e funzioni contraddistinte da «differenti gradi di complessità e di
contenuto» possono essere collocati su posizioni economiche diverse. E infatti, ciascuna
area comprende posizioni economiche differenziate (C/1, C/2 e C/3) che, in
realtà , costituiscono altrettante qualifiche, come conferma il comma 4 dello stesso articolo:
ogni dipendente è inquadrato, in base alla ex qualifica e profilo professionale di
appartenenza, nell'area e nella posizione economica ove questa è confluita e è tenuto
a svolgere, come previsto dall'art. 56 del d.lgs. 29/1993, tutte le mansioni considerate
equivalenti nel livello economico di appartenenza, nonché le attività strumentali e
complementari a quelle inerenti lo specifico profilo attribuito. Il concorso, oggetto della
controversia promossa dinanzi al Tribunale di Roma ' ha osservato la Corte ' è stato
bandito con determinazione 30 marzo 2001, pubblicata il 18 aprile 2001, per l'accesso
alla posizione economica C/3 del personale appartenente alle posizioni economiche
C/1 e C/2; trattandosi di progressione, sia pure per l'accesso a una qualifica superiore,
interna all'area professionale C, il procedimento concorsuale va qualificato
senz'altro di diritto privato ed estraneo alle procedure di assunzione di cui all'art. 63,
comma 4, d.lgs. 165/2001 (in termini, Cass. Ss. Uu. 14259/2005 e 9164/2006) mentre,
in considerazione dell'epoca degli accadimenti che hanno originato la controversia, la
giurisdizione ordinaria va affermata ai sensi della norma transitoria dettata dall'art.
69, settimo comma, dello stesso decreto.
Il demansionamento del lavoratore può giustificare la sua decisione di astenersi dalla presenza nel luogo di lavoro
Anche questa sentenza è già stata segnalata sinteticamente(in q. Riv., n. 3/2006,
p. 8, nella rubrica «Corte di Cassazione»). La fattispecie è però di particolare interesse.
A.L., dopo aver lavorato come impiegato di V livello in alcune società del gruppo Ilva,
con mansioni attinenti alla contabilità , ha subito, nel 1996, mentre era dipendente della
Spa Sidecar servizi accessori, un totale demansionamento rimanendo privo di qualsiasi
incarico. Dopo aver ottenuto dal pretore di Genova l'accertamento della dequalificazione
subita, il lavoratore ha accettato di passare, nel dicembre 1998, alle dipendenze
della società capogruppo Ilva Spa, con la stessa qualifica, essendogli stata assicurata
l'assegnazione di un adeguato incarico. Egli invece dapprima è stato collocato in cassa
integrazione, sino al 23 aprile 1999, e successivamente, quando è tornato in azienda
è stato tenuto a disposizione, senza alcun incarico, in una situazione di totale inattività .
Con lettera del 13 maggio 1999 A.L. ha invitato l'Ilva Spa ad attribuirgli un lavoro «confacente
alla sua professionalità e alle sue mansioni», precisando che, in difetto, a partire
del 24 maggio 1999 non si sarebbe più presentato sul posto di lavoro. Poiché l'azienda
non ha aderito all'invito rivoltole, A.L., a far tempo dal 24 maggio si è assentato,
confermando peraltro di essere disponibile a svolgere i compiti che gli spettavano. L'Ilva
Spa, dopo avergli applicato per due volte la sanzione disciplinare della sospensione,
nel giugno del 1999 lo ha licenziato con l'addebito di assenza ingiustificata. Il lavoratore
ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Genova sostenendo che l'azienda
si era resa inadempiente all'obbligo, derivante dall'art. 2103 cod. civ., di farlo lavorare
e che pertanto la sua reazione doveva ritenersi giustificata. L'azienda si è difesa
affermando, tra l'altro, che se il lavoratore non si fosse assentato egli avrebbe potuto
essere impiegato nel neo-costituito reparto marketing e statistiche. Il Tribunale ha rigettato
la domanda perché ha ritenuto che la durata del demansionamento (circa un
mese) non fosse sufficiente a giustificare la reazione del lavoratore. Questa decisione è
stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Genova che, dopo aver svolto un
supplemento di istruttoria, sentendo alcuni testimoni, ha annullato il licenziamento in
quanto ha ritenuto applicabile l'art. 1460 cod. civ., secondo cui, nei contratti con prestazioni
corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione,
se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria.
La Corte ha anche affermato che in ogni caso l'assenza del dipendente doveva considerarsi
di «scarsa importanza», perché egli non era stato chiamato a svolgere alcuna
attività ; il licenziamento doveva quindi considerarsi illegittimo anche per la mancanza
di una grave inadempienza. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando
la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11430 del 16 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Amoroso)
ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui
il comportamento del datore di lavoro, che lascia in condizioni di inattività il dipendente
non solo viola la norma di cui all'art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo
del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione
della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del
dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche
della qualifica di appartenenza; tale comportamento ' ha affermato la Corte ' comporta
una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale
del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le
proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un
danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza
agli interessi personali del lavoratore).
La Corte d'Appello ' ha affermato la Cassazione ' ha fatto applicazione dell'art. 1460
cod. civ. ritenendo quindi legittimo il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione
in ragione dell'inadempimento della datrice di lavoro che continuava a non
assegnargli mansioni corrispondenti alla qualifica e professionalità raggiunte; in proposito
deve rilevarsi che il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti
non est adimplendum, deve procedere a una valutazione comparativa degli opposti
inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione
economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico,
sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora
rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è apposta l'eccezione non è
grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma
dell'art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria
obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell'art.
1460, 2° comma, cod. civ. La Corte d'Appello ' ha rilevato la Cassazione ' ha fatto questa
valutazione e, con un tipico giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità
perché assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria, ha escluso che il rifiuto
della prestazione lavorativa potesse considerarsi contrario alla buona fede; anzi
la Corte d'Appello, svolgendo un supplemento di istruttoria probatoria, ha anche valutato
il periodo successivo al maggio-giugno del 1999 pervenendo al convincimento
che neppure in prospettiva vi era un'apprezzabile possibilità che a Andrea L. sarebbero
state assegnate mansioni confacenti alla sua qualifica. Inoltre ' ha osservato la Suprema
Corte ' la sentenza della Corte d'Appello non si è limitata a ritenere applicabile
l'eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.) con la conseguenza che, essendo
giustificato il rifiuto del lavoratore di presentarsi al lavoro, il licenziamento intimato a
seguito della (preannunciata) assenza del dipendente dal posto di lavoro è ex se illegittimo
per difetto di giusta causa; essa ha infatti ritenuto illegittimo il licenziamento
sotto un ulteriore e diverso profilo, quello dell'art. 1455 cod. civ. La Corte d'Appello ha
infatti ritenuto che l'assenza del dipendente, inquadrata nella situazione descritta,
fosse da considerarsi di «scarsa importanza» perché comunque nessuna attività era
chiamato a svolgere A.L. né dalla società è stata prospettata alcuna mansione che in
concreto A.L. potesse essere chiamato a svolgere. Per ritenere la sussistenza della giusta
causa o del giustificato motivo di licenziamento ' ha affermato la Cassazione ' è
necessario che l'inadempienza contestata al lavoratore sia grave; pertanto, avendo la
Corte territoriale valutato quest'ultima, in concreto, come «di scarsa importanza», conseguiva
la mancanza della giusta causa e del giustificato motivo. Si tratta ' ha concluso
la Suprema Corte ' di una motivazione alternativa, posta parimenti a sostegno della
conclusione di ritenere illegittimo il licenziamento, e che esprime anch'essa una valutazione
di merito sufficientemente e non contraddittoriamente motivata e pertanto
non censurabile in cassazione.
Il rifiuto della prestazione lavorativa per pericolosità dell'ambiente di lavoro deve ritenersi legittimo
F. A. e J. B., dipendenti della Spa Laterizi Arbia come operai addetti alla cromatura,nel settembre del 1997 hanno rifiutato di continuare a lavorare nel locale «galvanica
», per la pericolosità dell'ambiente ove erano presenti gas e vapori tossici. L'azienda,
previo procedimento disciplinare, li ha licenziati, ma, dopo aver ricevuto le lettere
di impugnazione dei licenziamenti, li ha richiamati in servizio. I lavoratori non
hanno aderito all'invito e si sono rivolti al Tribunale di Siena, chiedendo l'annullamento
del licenziamento. Il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica, ha
accolto la domanda, ordinando la reintegrazione dei lavoratori e condannando l'azienda
al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Firenze ha confermato la decisione
di primo grado, rilevando che il rifiuto dei lavoratori di continuare a prestare la
loro attività era giustificato, in quanto nel locale «galvanica» si sviluppavano gas e vapori
tossici, contenenti agenti notoriamente cancerogeni quali il cromo, senza idonea
aspirazione, con diffusione di polveri in ambiente di altezza inferiore a tre metri. La
Corte ha escluso pertanto la configurabilità dell'insubordinazione e ha anche affermato
che il licenziamento non poteva ritenersi revocato, mancando l'accordo degli interessati,
necessario per la ricostituzione del rapporto di lavoro. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11664 del 18 maggio 2006 Pres. Mileo, Rel. D'Agostino)
ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Firenze abbia adeguatamente
motivato la sua decisione con riferimento alle risultanze istruttorie, da cui emergeva
la pericolosità dell'ambiente di lavoro. Essa inoltre ha richiamato la sua giurisprudenza
secondo cui, affinché il licenziamento disciplinare possa ritenersi revocato e
il rapporto di lavoro ricostituito, non è sufficiente in mero invito a riprendere servizio rivolto
dal datore di lavoro al licenziato, ma è necessario un accordo che presuppone corrispondenza
fra proposta e accettazione.
Il mancato rispetto della forma scritta nel comunicare il licenziamento lo rende inefficace anche se il lavoratore lo sapeva
Nel febbraio del 1998 la snc 012 Benetton di M. & C. ha cessato la sua attività ponendo termine al rapporto di lavoro con la dipendente R. P.,senza peraltro
comunicarle per iscritto il licenziamento. La lavoratrice, che negli ultimi giorni di attività
è stata impegnata nell'imballaggio degli arredi aziendali, ha sottoscritto, il 4 marzo
1998 una quietanza attestante di avere percepito quanto a lei spettante anche per
«liquidazione». Il sindacato di categoria ha contestato il licenziamento invitando l'azienda
a una composizione transattiva; in risposta la società ha precisato, nel maggio
1998, di non potere più utilizzare la lavoratrice per cessazione dell'attività . R.P. ha
chiesto al Tribunale di Catanzaro di dichiarare inefficace il licenziamento perché comunicato
verbalmente e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. La datrice
di lavoro si è difesa sostenendo che la dipendente era pienamente a conoscenza della
cessazione dell'attività aziendale e aveva sottoscritto la quietanza per la liquidazione
e che inoltre i motivi del licenziamento erano stati comunicati per iscritto al sindacato;
pertanto doveva ritenersi che ella fosse stata adeguatamente informata del licenziamento
e che la comunicazione del provvedimento in forma scritta fosse inutile.
Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Catanzaro hanno ritenuto inefficace il licenziamento
per difetto di forma scritta e riconosciuto altresà il diritto della lavoratrice al
risarcimento del danno. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la
sentenza della Corte di Appello di Catanzaro per vizi di motivazione e violazione di legge.
Essa ha sostenuto la sostanziale ingiustizia della tesi secondo cui il licenziamento
non comunicato per iscritto doveva ritenersi inefficace anche se il destinatario era stato
pienamente informato del provvedimento.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11670 del 18 maggio 2006, Pres. Mattone, Rel.
Balletti) ha rigettato il ricorso richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui
la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, in base all'art. 2 della legge
n. 604/66, anche dopo la riformulazione di questa norma operata con la legge n.
108/90. Sia l'intimazione del licenziamento che la comunicazione dei relativi motivi (ove
il lavoratore ne abbia fatto richiesta) ' ha affermato la Corte ' devono, a pena di inefficacia,
rivestire la forma scritta, con la conseguente irrilevanza di una intimazione
e di una contestazione espressa in forma diversa e della conoscenza che il lavoratore
ne abbia altrimenti avuto. In particolare ' ha aggiunto la Corte ' l'art. 2 della legge n.
604/1966 esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo
sia espressamente diretto all'interessato, ma sia anche a lui consegnato, con la conseguenza
che è inidonea a realizzare la comunicazione scritta voluta dalla legge la conoscenza
che il lavoratore abbia avuto altrimenti del licenziamento.
Il datore di lavoro risponde del comportamento "mobizzante" tenuto da un suo dirigente per non averlo prevenuto
M. M., dipendente dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, Anmil, ha presentato le dimissioni senza preavvisoper reazione al trattamento, ritenuto vessatorio, usatole dal presidente dell'associazione, A.P. Quindi la lavoratrice ha
proposto, davanti al pretore di Potenza, un giudizio nei confronti dell'Anmil per fare accertare
la giusta causa delle dimissioni, con conseguente suo diritto all'indennità sostitutiva del preavviso
e per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali e alla salute
derivatile dal comportamento tenuto nei suoi confronti dal presidente. Il pretore ha riconosciuto
il diritto della lavoratrice all'indennità sostitutiva del preavviso, ma, pur avendo
accertato che ella aveva subito un trattamento vessatorio con rilevanti conseguenze
sul piano morale e psico-fisico, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni
in quanto proposta nei confronti dell'Anmil e non del presidente A.P. Questa decisione
è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Potenza che ha rilevato che i
fatti denunciati erano stati commessi dal presidente, onde non era ravvisabile in capo all'associazione
una diretta e immediata responsabilità . Il Tribunale ha anche rilevato che
l'Anmil, per i fatti denunciati dalla lavoratrice, aveva deferito il presidente al collegio dei
probiviri e ha ritenuto che in tal modo l'associazione avesse adempiuto all'obbligo contrattuale,
derivante dall'art. 2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità morale
della dipendente. M.M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del
Tribunale per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12445 del 25 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca)
ha accolto il ricorso. Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' essendo stato accertato
che i fatti mobbizzanti posti in essere dal presidente dell'associazione hanno danneggiato
la lavoratrice, incombeva all'associazione, contrattualmente tenuta a tutelarla,
in base all'art. 2087 cod. civ., l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie
a prevenire l'evento dannoso. Per contro ' ha osservato la Corte ' l'associazione si
è limitata a sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei probiviri, attuando un'iniziativa
diretta alla repressione, non già alla prevenzione dei fatti mobbizzanti e pertanto
non idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ.
È illegittimo il licenziamento di un dipendente che abbia reagito con parole offensive alle ingiurie rivoltegli da un dirigente
È efficace il licenziamento comunicato a ufficio del lavoro e lavoratore anche se la lettera non è indirizzata all'interessato
La nozione di causa violenta, ai fini del trattamento Inail, può comprendere qualsiasi fattore presente nell'ambiente di lavoro
Orilia B., Paolo A., Luana G., Sonia S. e Gianni B. hanno chiesto, con separati ricorsi, al giudice del lavoro di Modenadi condannare l'Inail a pagare la indennità per inabilità
temporanea assoluta per i giorni da loro impiegati per la estirpazione di verruche
contratte nella loro attività di addetti alla macellazione e lavorazioni di carni fresche presso
i vari salumifici della zona. Descrivevano le mansioni; assumevano che le verruche erano
prodotte da virus contratti sul lavoro, e pertanto costituivano infortunio professionale;
per quanto riguarda il nesso causale, producevano letteratura sull'argomento e relazione
svolta dal servizio di veterinaria della Usl n. 9 di Reggio Emilia. La consulenza tecnica
d'ufficio, disposta dal primo giudice, ha imputato gli episodi morbosi, identici per tutti
i ricorrenti, non a un passaggio del virus dall'animale all'uomo, bensà al fatto che alcune
proteine della carne, non identificate, importando la distrazione delle difese immunologiche
della cute, provocavano l'abbassamento della soglia di controllo dell'organismo,
con conseguente esplosione della virulenza del virus già di per sé presente, allo stato latente,
in molti organismi umani. A questo punto i ricorrenti hanno chiesto di essere autorizzati
a modificare le proprie conclusioni, estendendo la domanda, in via subordinata, per
l'ipotesi che il medesimo episodio che essi avevano qualificato come infortunio sul lavoro
dovesse avere la diversa qualificazione di malattia professionale. Il pretore ha rigettato
la domanda. Il Tribunale di Modena ritenuta la Ctu di primo grado esauriente, ha respinto
l'appello dei lavoratori, sulla base delle seguenti affermazioni: «a) vera, in ipotesi,
la ravvisabilità di un nesso causale tre le lavorazioni di cui trattasi e la specifica patologia,
vero sarebbe anche â?¦ che l'esclusione del passaggio diretto del virus dalla carne animale
all'uomo preclude la configurabilità del requisito della causa violenta e, dunque, dell'infortunio,
dal momento che non può ritenersi azione violenta un fenomeno qualificato
dall'abbassamento delle difese immunologiche come causa di affermazione di un virus
presente, e latente, nell'organismo; b) è un fatto peraltro che allo stato della conoscenza
scientifica è proprio il nesso di causalità che si connota per una assoluta incertezza non risultando
chiaro (cosà la consulenza) per quale mai ragione si constati una più diffusa presenza
del morbo fra gli addetti alla macellazione della carne che nel resto della popolazione;
c) proprio tale incertezza induce a concludere da un lato per l'inidoneità del metro
probabilistico a fondere un serio convincimento». Avverso tale sentenza, depositata il 23
gennaio 2002, hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori sostenendo che la sentenza
del Tribunale di Modena era affetta da due errori di diritto, uno relativo alla nozione
di causa violenta, l'altro a quella di nesso causale.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12559 del 26 maggio 2006, Pres. Senese, Rel. De
Matteis) ha accolto il ricorso. Si deve premettere ' ha osservato la Corte ' che l'assicurato
ha l'onere di allegare e provare le tre circostanze: lavorazione svolta, malattia e nesso
causale, le quali costituiscono tutti e tre dei fatti, la cui mancata prova (anche se con
diverse modalità ) ricade a danno del lavoratore ricorrente; per quanto riguardo in particolare
la patologia professionale, egli ha l'onere di riferire in modo particolareggiato solo
la sintomatologia accusata e quella rilevata dal medico certificatore; spetta poi al giudice
qualificare l'evento protetto come infortunio sul lavoro o malattia professionale, e
in tale ultimo ambito, come malattia tabellata, individuandone la voce nella tabella, o
malattia non tabellata; pertanto la qualificazione nel ricorso introduttivo del giudizio della
malattia (verruche) come causate da infortunio sul lavoro (penetrazione di virus dall'ambiente
lavorativo) non impediva al giudice del merito di qualificare, sulla base della
Ctu, l'evento come malattia professionale (azione lenta dell'ambiente di lavoro che produce
la slatentizzazione di virus interni). Ciò posto ' ha affermato la Corte ' l'affermazione
della sentenza impugnata, secondo cui non può ritenersi azione violenta un fenomeno
caratterizzato dall'abbassamento delle difese immunologiche, provocato da fattori
esterni, è errata in quanto l'espressione causa violenta risale alla legge 17 marzo 1898
n. 80 (art. 7), istitutiva dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nel
nostro paese, ma il suo significato giuridico si è profondamente evoluto durante il secolare
processo di sviluppo del sistema di tutela infortunistica.
Un agente lesivo, presente nell'ambiente di lavoro in modo esclusivo o in misura significativamente
superiore che nell'ambiente esterno, il quale produca un abbassamento
delle difese immunitarie ' ha affermato la Corte ' rientra nella nozione attuale di causa
violenta; del suo meccanismo d'azione, se rapido e concentrato, oppure lento, deriva
poi la collocazione dell'evento tra gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali; nel
caso in esame il fattore causale è stato individuato dal Ctu, e fatto proprio dal giudice
d'appello, nell'azione di alcune proteine della carne, non identificate, le quali importano
la distrazione delle difese immunologiche della cute, provocano l'abbassamento della
soglia di controllo dell'organismo, con conseguente esplosione della virulenza del virus
già di per sé presente, allo stato latente, in molti organismi umani. Tale fattore ' ha
osservato la Corte ' detiene quel carattere di alterità ed esteriorità richiesto dalla nozione
originaria di causa violenta; l'unica particolarità , che il giudice di merito ha ritenuto
ostativa, è che non importa penetrazione del virus dall'esterno nell'organismo umano,
ma ciò non esclude che il fattore causale possa appartenere all'ambiente di lavoro,
il che è sufficiente a integrare quella che, con fedeltà lessicale, continua a essere
denominata causa violenta. Anche il nesso causale ' ha aggiunto la Cassazione ' è un
fatto, che deve essere provato dal lavoratore ricorrente, ma esso è un fatto sui generis,
da qualificare come tale ai fini del principio decisorio dell'onere della prova, ma non
quanto a disponibilità e qualità dei mezzi istruttori per il suo accertamento. Il suo accertamento
non può essere affidato alle opinioni soggettive, e perciò inammissibili, dei
testi, né a un certificato di parte; esso ha una preminente componente valutativa che richiede
necessariamente l'intervento di un ausiliare del giudice, munito di professionalità
medico legale. Nella valutazione della pregnanza della prova la giurisprudenza di legittimità
è passata da un giudizio di certezza, a uno di probabilità , desunta anche dalla
compatibilità . La Suprema Corte ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Bologna,
prescrivendo che essa decida la causa attenendosi ai due seguenti principi di diritto:
«La nozione attuale di causa violenta comprende qualsiasi fattore presente nell'ambiente
di lavoro, in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell'ambiente
esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo
caso) un infortunio sul lavoro, o (nel secondo caso) una malattia professionale»;
«la prova del nesso causale deve avere un grado di ragionevole certezza, nel senso
che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell'eziopatogenesi professionale, questa
può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità , per
accertare il quale il giudice deve valutare le conclusioni probabilistiche del consulente,
desunte anche da dati epidemiologici».
La cessione di credito può essere utilizzata dal sindacato per la riscossione dei contributi dovuti dai lavoratori iscritti
I dipendenti della Spa Comau hanno ceduto al loro sindacato, il Sincobas, nel 2001,una piccola quota del loro credito per retribuzione verso l'azienda, a titolo di contributo
sindacale. Il Sincobas ha notificato all'azienda le cessioni di credito, chiedendole
di provvedere al versamento mensile delle quote cedutegli. La Comau ha respinto questa
richiesta sostenendo di non essere tenuta al versamento dei contributi. Il sindacato
ha promosso nei confronti dell'azienda, davanti al Tribunale di Torino, un procedimento
per repressione di comportamento antisindacale in base all'art. 28 Stat. lav. Nella fase
cautelare il Tribunale ha dichiarato l'antisindacalità del comportamento della Comau Spa
consistente nel rifiuto di corrispondere al Sincobas quanto lo stesso dovuto in forza delle
cessioni di credito operate dai suoi dipendenti; ha ordinato all'azienda di effettuare
tutti i pagamenti mensili delle quote retributive cedute al sindacato e ha ordinato l'affissione
del dispositivo nelle bacheche aziendali per la durata di trenta giorni consecutivi.
La Comau ha proposto opposizione avverso questo provvedimento. Il Tribunale l'ha rigettata.
La Corte di Appello di Torino ha confermato la decisione del Tribunale, rilevando
che la tutela di cui all'art. 28 Stat. lav. non è limitata ai diritti sindacali specificamente riconosciuti,
ma copre qualunque comportamento del datore di lavoro «diretto a impedire
o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale, nonché del diritto di sciopero
». L'attività posta in essere dall'organizzazione sindacale facendo ricorso all'istituto
della cessione di credito ' ha osservato la Corte di Torino ' era finalizzata allo scopo tipico
del sindacato e necessaria alla sua stessa esistenza e cioè al suo finanziamento, per
cui il rifiuto di dare attuazione a un legittimo negozio si concretizzava a un ostacolo alla
libertà sindacale. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione
della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13250 del 6 giugno 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri)
ha rigettato il ricorso. Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell'art.
26, comma 2 Stat. lav., e il susseguente d.p.r. n. 313 del 1995 ' ha affermato la Corte '
non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo
di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo;
pertanto, ben possono i lavoratori, nell'esercizio della propria autonomia privata
e attraverso lo strumento della cessione del credito a favore del sindacato (cessione che
non richiede, in via generale, il consenso del debitore), richiedere al datore di lavoro di
trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso.
Qualora il datore di lavoro affermi che la cessione importi in concreto, a suo carico, un
nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e
perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ. ' ha osservato la Corte ' deve provarne
l'esistenza; l'eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità
ed efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l'inadempimento
del debitore ceduto, finché il creditore non collabori a modificare le modalità della
prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto
del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato ' ha affermato
la Corte ' configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce
una condotta antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori
di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso
di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della
propria attività .
Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale
Il decreto contiene disposizioni urgenti «anche il rilancio dell'economia e dell'occupazione».Tra queste si pone l'attenzione sull'articolo 2 il quale abroga i minimi
tariffari, il divieto di pubblicità e il divieto di costituire società interprofessionali
nell'esercizio della libera professione. I codici deontologici che disciplinano tali divieti
dovranno essere adeguati entro il 1° gennaio 2007. L'articolo 34, comma 2, aggiunge
al decreto legislativo n. 165/2001 l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di rendere
noti «per via telematica, gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la
durata e il compenso dell'incarico». L'articolo 32, aggiungendo due commi all'articolo
7 del decreto legislativo n. 165/2001, introduce alcuni presupposti al conferimento di
incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata
e continuativa da parte delle amministrazioni pubbliche: 1) individuazione e pubblicizzazione
delle procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione;
2) determinazione dell'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane
disponibili al proprio interno; 3) determinazione preventiva della durata, luogo, oggetto
e compenso della collaborazione. L'articolo 35 ai commi 28 e 29 determina la responsabilità
solidale tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle ritenute
fiscali sui redditi di lavoro dipendente, dei contributi previdenziali e assicurativi dovuti
dal subappaltatore per i dipendenti. L'articolo 36, comma 23, sopprime le agevolazioni
fiscali alle somme erogate per l'incentivo all'esodo delle lavoratrici con più di cinquanta
anni d'età e dei lavoratori con più di cinquantacinque anni d'età . L'articolo 36,
comma 25, sopprime l'agevolazione fiscale per l'assegnazione di azioni ai dipendenti.
(Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4 luglio 2006)
Diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali
Il decreto delega la funzione e i poteri attribuiti dalla legge n. 146 del 12 giugno 1990al Presidente del Consiglio dei ministri ai ministri la cui competenza, anche
per i casi di vigilanza, si estende ai settori interessati dalle astensioni dal lavoro per
sciopero.
(Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4 luglio 2006)
Invito ad aderire allo sciopero indetto da altra organizzazione sindacale
Concretizza una violazione dell'obbligo di preavviso l'invito rivolto da una organizzazione sindacale ai propri iscritti ad aderire a uno scioperoproclamato da una diversa organizzazione sindacale non osservando il termine minimo di
preavviso di 10 giorni, sebbene la prima si astenga formalmente dall'aderire alla proclamazione
di sciopero. La Commissione ha ritenuto che non possa essere operata alcuna
distinzione tra adesione allo sciopero e invito ad aderire allo sciopero. Inoltre in più occasioni
e, da ultimo, con «delibera di carattere generale in tema di adesione allo sciopero
» n. 05/127 del 9 marzo 2005, la Commissione ha espresso l'avviso che «anche nel caso
di adesione di un'organizzazione sindacale a uno sciopero proclamato da altro soggetto
sindacale deve essere rispettato il termine di preavviso».
Collegamenti telematici in materia di immigrazione
Il Garante ha espresso parere favorevole sullo schema di decreto del Ministero dell'Interno contenente le regole tecniche per i collegamenti telematicifra i
sistemi informativi e gli archivi automatizzati delle amministrazioni pubbliche titolari del
trattamento dati in materia di immigrazione. Considerati, però, i soggetti coinvolti e la
natura delle informazioni scambiate che, essendo relative a procedimenti in materia di
immigrazione, possono contenere anche dati sensibili o biometrici, il Garante ha richiesto
l'adozione di misure che garantiscano un elevato livello di sicurezza e di riservatezza
delle informazioni trasmesse. Lo schema contiene disposizioni relative alle modalità dei
collegamenti, all'accesso ai dati e allo scambio delle informazioni. Su questo aspetto, il
Garante ha richiesto che l'accesso informatico debba essere consentito ai soli soggetti
legittimati e in riferimento ai dati strettamente necessari per le finalità perseguite in materia
di immigrazione. Lo schema prevede che i collegamenti fra i sistemi informativi avvengano
attraverso il Sistema pubblico di connettività (Spc) che è basato su una rete di
trasporto sicura, dotata di protocolli crittografici in grado di evitare l'intercettazione di
flussi di comunicazione da parte di terzi estranei. Finché non saranno pienamente disponibili
i servizi del Spc, per realizzare lo scambio di informazioni potrà essere utilizzata
la Posta elettronica certificata (Pec). Perché la Pec possa assicurare la riservatezza dei
messaggi il Garante ha ritenuto che lo schema di decreto debba contenere una disposizione
in base alla quale le pubbliche amministrazioni interessate definiscano, tramite
convenzioni, le condizioni e le modalità di protezione dei messaggi scambiati.
È illegittimo il licenziamento di un dipendente con l'addebito di aver lavorato per altri, se il datore ne era a conoscenza
Collocamento della gente di mare
Il regolamento disciplina il collocamento e l'arruolamento dei lavoratori marittimi appartenentialla gente di mare disponibili a prestare servizio a bordo di
navi italiane per conto di un armatore o società di armamento. Il decreto istituisce: 1)
l'anagrafe nazionale della gente di mare nella quale sono registrati i lavoratori marittimi
in possesso dei requisiti previsti dalla legge per prestare servizio di navigazione; 2)
la Borsa nazionale del lavoro marittimo; 3) il principio di assunzione diretta con obbligo
di comunicazione contestuale al servizio di collocamento marittimo, con contestuale
abolizione del regime di collocamento obbligatorio. Il collocamento della gente
di mare è esercitato, oltre che dagli uffici di collocamento della gente di mare, dagli enti
bilaterali autorizzati del lavoro marittimo che prestano attività senza finalità di lucro,
nonché le agenzie per il lavoro. I lavoratori iscritti nelle matricole della gente di mare
che alla data di entrata in vigore del regolamento non risultano in servizio di navigazione
sono tenuti, entro 180 giorni da tale data, a presentarsi presso l'ufficio di collocamento
competente per territorio per rendere la dichiarazione di immediata disponibilità
all'imbarco per non perdere il diritto alla registrazione nell'elenco anagrafico
senza riacquisire i certificati di formazione.
(Gazzetta Ufficiale n. 161 del 13 luglio 2006)
Oneri sanitari e assistenziali
La regione Valle d'Aosta può, in attuazione dell'art. 3 dello Statuto speciale e dell'art. 117 della Costituzione,«disciplinare con legge l'istituzione di contributi,
anche obbligatori, a carico dei cittadini residenti nel territorio regionale, destinati alla
costituzione di fondi assicurativi volti a garantire ai cittadini l'erogazione delle prestazioni
sanitarie e socio-assistenziali previste dalla legge medesima».
(Gazzetta Ufficiale n. 132 del 9 giugno 2006)
Disciplina per l'ammissione all'esercizio della professione di odontoiatra
L'Autorità ha espresso delle critiche in merito alla bozza di Regolamento adottata nell'ottobre 2005dalla «Commissione per la riforma degli esami di abilitazione alla
professione di odontoiatra». Quanto ai requisiti di accesso, la bozza di regolamento prescrive
che per partecipare all'esame di abilitazione è necessario aver svolto un tirocinio della
durata di 9 mesi, stabilendo, peraltro, che, laddove la prova scritta non sia superata entro
due sessioni, l'aspirante odontoiatra, al fine di accedere a un'ulteriore prova scritta, è
tenuto a svolgere nuovamente il tirocinio. Inoltre la bozza di regolamento, benché preveda
che «le università assicurano ai laureati l'accesso al tirocinio», non individua alcun meccanismo
atto a garantire che ai soggetti neolaureati in odontoiatria siano riconosciute pari opportunità
di accesso alle attività di tirocinio, cosà da non rimettere ai singoli soggetti neolaureati
l'onere di individuare la struttura disponibile ad accettare tirocinanti. Né l'articolato
in esame contempla il diritto dei tirocinanti a ricevere compensi o rimborsi spese. Al riguardo
l'Autorità ha osservato che l'accesso alla facoltà di odontoiatria è già a numero
chiuso e che, a oggi, la partecipazione agli esami per accedere alla professione di odontoiatra
non prevede l'obbligo del previo svolgimento di un tirocinio; inoltre l'accesso all'attività
di medico-chirurgo richiede lo svolgimento di un tirocinio di soli tre mesi. L'Autorità
ha, in più occasioni, evidenziato che i requisiti di accesso alle professioni non dovrebbero
essere tali da introdurre surrettizie restrizioni di tipo quantitativo; che, in particolare, non è
giustificabile l'introduzione del tirocinio obbligatorio per lo svolgimento di attività l'accesso
alle quali non era, fino a quel momento, subordinato al soddisfacimento di tale requisito;
che, comunque, ove si ritenga imprescindibile la frequenza del tirocinio, tutti gli aspiranti
professionisti dovrebbero essere messi in condizione di accedervi facilmente; che, in
ogni caso, le attività di tirocinio non dovrebbero avere una durata eccessiva. Sulla scorta di
tali considerazioni, l'Autorità ha espresso il parere che queste previsioni della bozza di regolamento
si prestino a procrastinare ingiustificatamente l'ingresso dei neolaureati in odontoiatria
nel mondo del lavoro e, quindi, a restringere l'offerta dei servizi odontoiatrici.
In merito alle previsioni volte a riformare l'esame di abilitazione, l'Autorità ha rilevato che
la bozza di Regolamento, oltre a rendere più oneroso tale esame ' introducendo una prova orale
a oggi non prevista ', attribuisce un ruolo determinante ai rappresentanti degli Ordini
professionali nelle attività di valutazione dei candidati. In particolare, è prevista l'istituzione
di una «Commissione nazionale per la prova scritta» incaricata di redigere i quesiti
a risposta multipla per la prova scritta; la bozza stabilisce che tale Commissione sia composta
da otto membri che esercitino l'attività di odontoiatria e siano iscritti da almeno dieci
anni al relativo Albo. Alla stregua della bozza in questione, inoltre, presso ogni ateneo indicato
come sede d'esame, deve essere nominata una Commissione giudicatrice composta
da non meno di quattro membri designati dalle Commissioni per gli iscritti all'Albo degli
odontoiatri della Regione in cui ha sede l'ateneo (nonché da un presidente docente universitario
nominato dal rettore dell'ateneo medesimo). In proposito l'Autorità ha ribadito
il suo orientamento circa la necessità di garantire la terzietà di chi contribuisce a stabilire il
numero di coloro che sono ammessi a entrare nel mercato e, quindi, sull'opportunità di limitare
la presenza di rappresentanti degli Ordini nelle commissioni esaminatrici. Al riguardo
l'Autorità ha affermato che, al fine di salvaguardare il principio di imparzialità nelle procedure
di accesso all'esercizio dell'attività di odontoiatra, occorrerebbe evitare che le attività
di valutazione dei candidati siano svolte da professionisti concorrenti. L'Autorità ha
concluso auspicando che non venga dato seguito alla bozza di regolamento esaminata o,
qualora si ritenga comunque opportuno procedere a una riforma della materia finalizzata a
migliorare la formazione dei giovani odontoiatri, che sia consentito lo svolgimento del tirocinio
professionale nell'ambito dei corsi di studio universitari in modo che vengano garantite
paritarie condizioni di accesso alle attività di tirocinio e, nel contempo, sia scongiurata
l'eventualità che, una volta terminati gli studi universitari, gli aspiranti odontoiatri siano esposti
al rischio di prestare la propria attività a titolo gratuito.
Rilevanza delle cause di insorgenza del conflitto
La Commissione ha ritenuto che il ritardo di circa tre mesi nel pagamento delle retribuzioni,pur essendo una causa di insorgenza del conflitto indubbiamente
meritevole di considerazione, non può tuttavia rappresentare un'esimente dall'obbligo
di rispetto del termine di preavviso, ma può solo indurre a irrogare la sanzione nella
misura minima prevista dall'art. 4 della legge 146/1990.
Subordinazione e parasubordinazione - Distinzione - Vincolo di subordinazione - Indici sintomatici - Insufficienza
Non può essere riconosciuta la natura subordinata del rapporto di lavoro ove il lavoratore non riesca a provare elementi sufficienti in tal senso.Il giudicante,
uniformandosi all'orientamento giurisprudenziale prevalente, ha osservato che,
in tema di distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato,
l'elemento caratterizzante fondamentale è costituito dal requisito della subordinazione
che va inteso come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo
e disciplinare del datore di lavoro, il quale deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini
specifici, oltre che nell'esercizio, di un'assidua attività di vigilanza e controllo nell'esecuzione
delle prestazioni lavorative, tenuto conto della specificità dell'incarico assegnato
al lavoratore (cfr. fra le altre Cass. n. 5989/2001; Cass. n. 224/2001). Nella fattispecie,
un lavoratore, che aveva stipulato un contratto di agenzia con una ditta individuale,
ha chiesto al giudice di accertare la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro
subordinato di fatto, in considerazione delle effettive modalità di esecuzione della
prestazione. Il lavoratore, in particolare, ha chiesto alla ditta la corresponsione delle differenze
retributive e del trattamento di fine rapporto corrispondenti alle mansioni di impiegato
di concetto (secondo livello retributivo). Il giudice si è soffermato sui requisiti necessari
al fine di accertare la presenza degli elementi caratterizzanti la natura subordinata
del rapporto. Nella sentenza, infatti, si evidenzia che le attività che svolgeva l'agente
(mostrare i campionari, prendere gli ordini, visitare i clienti con altri colleghi o con il titolare
della ditta resistente, programmare con lo stesso il lavoro da fare, ecc.) non sono
da sole sufficienti a provare la natura subordinata della prestazione, atteso che anche
l'attività lavorativa parasubordinata deve essere coordinata mediante direttive per il perseguimento
degli obiettivi aziendali. Il giudice ha, peraltro, precisato che nemmeno l'osservanza
di un preciso orario di lavoro è di per sé prova della natura subordinata del rapporto
se il rispetto dell'orario non è accompagnato da altri inequivocabili elementi, quali,
ad esempio, la sottoposizione del lavoratore al potere disciplinare e di controllo da
parte del datore.
Licenziamento giustificato motivo oggettivo - Presupposti
Un dipendente di un'azienda metalmeccanica conveniva in giudizio la società al fine di far dichiarare l'illegittimità del licenziamentointimatogli per mancanza di commesse. Nell'accogliere la domanda, il Tribunale di Chieti ha
ribadito il principio secondo cui il controllo giudiziale sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta
la verifica dell'assolvimento, da parte del datore di lavoro, dell'onere di provare la
sussistenza del motivo dedotto, l'incidenza sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore
e l'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti. Il Tribunale
di Chieti ha ritenuto pertanto insufficiente la prova della sussistenza di una situazione
di difficoltà aziendale nonchè violate da parte del datore di lavoro le regole di correttezza
nella scelta del lavoratore da licenziare.
Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale
L'art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/Cee,relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in
materia di sicurezza sociale, osta a una normativa che nega il beneficio di una pensione
di vecchiaia a una persona che, in conformità alle condizioni stabilite dal diritto nazionale,
sia passata dal sesso maschile al sesso femminile per il motivo che essa non
ha raggiunto l'età di 65 anni, quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto
a detta pensione all'età di 60 anni se fosse stata considerata una donna in base
al diritto nazionale.
Previdenza sociale - Sistema sanitario nazionale finanziato dallo Stato - Spese mediche assunte in un altro Stato membro
1. L'art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza socialeai lavoratori
subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della
Comunità , nella versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) del Consiglio 2
dicembre 1996, n. 118/97, deve essere interpretato nel senso che l'istituzione competente,
per essere legittimata a rifiutare a un lavoratore che ha diritto alle prestazioni l'autorizzazione
a recarsi in uno Stato membro per ricevere le cure appropriate al suo stato,
per un motivo relativo all'esistenza di un tempo di attesa per un trattamento ospedaliero,
è tenuta a stabilire che tale tempo non superi il periodo accettabile in base a una valutazione
medica oggettiva dei bisogni clinici dell'interessato, alla luce del complesso
dei parametri che caratterizzano la sua situazione clinica al momento in cui la domanda
di autorizzazione è proposta o, eventualmente, rinnovata.
2. L'art. 49 CE si applica a una situazione in cui una persona, il cui stato di salute necessita
cure ospedaliere, si reca in un altro Stato membro e ivi riceve tali cure dietro corrispettivo,
senza che ci sia bisogno di esaminare se le prestazioni di cure ospedaliere fornite
nell'ambito del sistema nazionale cui appartiene tale persona costituiscano esse
stesse servizi ai sensi delle disposizioni sulla libera prestazione di servizi. L'art. 49 CE deve
essere interpretato nel senso che non osta a che l'assunzione degli oneri di cure ospedaliere
previste in un istituto situato in un altro Stato membro dipenda dal conseguimento
di una previa autorizzazione dell'istituzione competente. Un rifiuto di autorizzazione
preliminare non può essere fondato sulla sola esistenza di liste d'attesa destinate
a programmare e a gestire l'offerta ospedaliera in funzione di priorità cliniche prestabilite
in termini generali, senza che si abbia proceduto a una valutazione medica oggettiva
della situazione clinica del paziente, della sua anamnesi, dell'eventuale decorso della
sua malattia, dell'intensità del suo dolore e/o della natura della sua infermità al momento
della presentazione o del rinnovo della domanda di autorizzazione. Quando il lasso
il tempo che deriva da tali liste d'attesa risulta eccedere il tempo accettabile tenuto
conto di una valutazione medica oggettiva degli elementi citati, l'istituzione competente
non può rifiutare l'autorizzazione sollecitata fondandosi su motivi relativi all'esistenza di
tali liste d'attesa, a un preteso pregiudizio nei confronti del normale ordine delle priorità
collegate al rispettivo grado d'urgenza dei casi da trattare, alla gratuità delle cure ospedaliere
dispensate nell'ambito del sistema nazionale in questione, all'obbligo di prevedere
modalità finanziarie specifiche ai fini dell'assunzione degli oneri del trattamento
previsto in un altro Stato membro e/o a un confronto dei costi di tale trattamento e di
quelli di un trattamento equivalente nello Stato membro competente.
3. L'art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che, nell'ipotesi in cui la normativa dello
Stato membro competente preveda la gratuità dei trattamenti ospedalieri erogati nell'ambito
di un servizio sanitario nazionale, e in cui la normativa dello Stato membro, nel
quale un paziente appartenente al detto servizio è stato o avrebbe dovuto essere autorizzato
a ricevere un trattamento ospedaliero a spese di tale servizio, non preveda un'assunzione
integrale del costo del detto trattamento, deve essere concesso a tale paziente,
da parte dell'istituzione competente, un rimborso corrispondente alla differenza eventuale
tra, da una parte, l'importo del costo, oggettivamente quantificato, di un trattamento equivalente
in un istituto del servizio di cui trattasi, non eccedente eventualmente, la misura
dell'importo globale fatturato per il trattamento offerto nello Stato membro di soggiorno,
e, dall'altra, l'importo per cui l'istituzione di tale ultimo Stato è tenuta a intervenire,
ai sensi dell'art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata
e aggiornata dal regolamento n. 118/97, per conto dell'istituzione competente, in
applicazione delle disposizioni della normativa di tale Stato membro. L'art. 22, n. 1, lett.
c), sub i), del regolamento n. 1408/71 deve essere interpretato nel senso che il diritto che
esso conferisce al paziente di cui trattasi verte esclusivamente sulle spese collegate alle
cure sanitarie ottenute da tale paziente nello Stato membro di soggiorno, vale a dire, per
quanto riguarda cure di natura ospedaliera, i costi delle prestazioni mediche propriamente
dette nonché le spese, indissociabilmente collegate, relative al soggiorno dell'interessato
nell'istituto ospedaliero. L'art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che un paziente
che è stato autorizzato a recarsi in un altro Stato membro per ivi ricevere trattamenti
ospedalieri o che ha subito un rifiuto di autorizzazione che successivamente è giudicato
infondato è legittimato a reclamare all'istituzione competente l'assunzione delle
spese supplementari collegate a tale trasferimento transfrontaliero per scopi medici solo
se la normativa dello Stato membro competente impone al sistema nazionale un obbligo
di assunzione degli oneri corrispondente nell'ambito di un trattamento offerto in un
istituto locale del detto sistema.
4. Non viola l'art. 152, n. 5, CE l'obbligo per l'istituzione competente, a tenore sia dell'art.
22 del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata e aggiornata dal regolamento n.
118/97, sia dell'art. 49 CE, di autorizzare un paziente che appartiene al servizio sanitario
nazionale di ottenere, a carico della detta istituzione, un trattamento ospedaliero in un altro
Stato membro quando il tempo di attesa eccede il tempo accettabile in base a una valutazione
medica oggettiva dello stato e dei bisogni clinici del paziente interessato.
Rarefazione oggettiva e assenza di integrazione tra servizi di trasporto in un medesimo bacino territoriale
L'art. 10 lett. A) della Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili nel settore del trasporto locale(deliberazione 02/13 del 31 gennaio 2002, pubblicata in G.U. il 23 marzo 2002, n. 70) quanto al divieto
di rarefazione oggettiva prevede che «l'area del bacino di utenza coinciderà con l'area territoriale
di operatività dell'azienda interessata dallo sciopero». Al riguardo la Commissione ha chiarito che
la successione in date ravvicinate di due scioperi proclamati da diverse organizzazioni
sindacali in diverse aree territoriali limitrofe non comporta una violazione del divieto di
rarefazione oggettiva quando i servizi di collegamento tra le diverse aree non sono integrati
tra loro bensà assolutamente indipendenti l'uno dall'altro, giacché lo sciopero per
una tratta non determina la compromissione della continuità del servizio di trasporto
pubblico sulle altre tratte separate.
Politica sociale - Ferie annuali retribuite
L'art. 7 della direttiva del Consiglio 23 novembre 1993, 93/104/Ce,concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, come modificata dalla direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 2000, 2000/34/CE, deve essere interpretato
nel senso che osta a che una disposizione nazionale consenta, in costanza
del contratto di lavoro, che i giorni di ferie annuali ai sensi dell'art. 7, n. 1, non goduti
nel corso di un dato anno siano sostituiti da un'indennità finanziaria nel corso di un anno
successivo.
Mobbing - Inquadramento della fattispecie - Risarcimento dei danni - Danno esistenziale - Sussistenza
Ai fini della configurazione della fattispecie giuridica del mobbing,la Corte costituzionale
ha ritenuto rilevanti le «condotte commissive o, in ipotesi, omissive ' che
possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali
aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati
singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico e, tuttavia,
acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata
nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione
e di emarginazione» (Corte Cost. n. 359/2003). Com'è noto, il mobbing in origine trae il
suo significato semantico dall'etologia, alla quale il linguaggio giuridico si rifà per costruire
una fattispecie cui ricondurre quel comportamento consistente in una serie ripetuta
di condotte a finalità persecutoria. In quanto, però, del tutto disancorato da previsioni
legislative a esso direttamente ricollegabili, questo fenomeno è stato, nel corso del
tempo, oggetto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che ne hanno delineato la fisionomia.
Al di là degli sforzi compiuti per elaborare una fattispecie unitaria, però, il
mobbing «finisce per essere una cornice all'interno della quale di volta in volta racchiudere
ipotesi in concreto quanto mai diverse e tali da avere dignità di autonoma e distinta
tutela, già nell'ambito delle ipotesi normativizzate e disciplinate all'interno dell'ordinamento
positivo». La non linearità delle decisioni giurisprudenziali che si sono occupate
dell'argomento hanno mostrato come tale fattispecie sia difficilmente inquadrabile
entro una precisa disposizione legislativa, nonostante l'orientamento oramai prevalente
tenda a considerare il mobbing come il risultato della violazione degli obblighi contrattuali
imposti dall'art. 2087 cod. civ. Nel caso di specie la ricorrente lavorava formalmente
presso la Compagnia lavoratori del porto (Clp), ma nei fatti svolgeva la propria attività
anche in favore della Compagnia servizi portuali (Csp), in assenza di regolarizzazione di
tale rapporto di lavoro. La composizione delle predette società era pressoché coincidente,
poiché medesimi erano i soci; solo le figure dei Presidenti risultavano distinte. La ricorrente
aveva un ottimo rapporto di collaborazione con il Presidente della Clp, ma, a seguito
dell'incrinarsi delle relazioni tra i dirigenti e i soci della Clp e della Csp, si era vista
costretta a lavorare in un ambiente ostile, continuamente sottoposta a minacce e intimidazioni.
Ricostruiti i fatti grazie alle prove testimoniali e documentali, il giudice ha ritenuto
che le vessazioni lamentate dalla ricorrente integrassero la fattispecie di mobbing,
risultante da atteggiamenti persecutori posti in essere, nei confronti della vittima, da una
pluralità di autori (cfr. Trib. Como 22 maggio 2001, in Or. giur. lav., 2001, I, 277), diretti
all'isolamento e all'estromissione della ricorrente. Ha inoltre ritenuto di ravvisare in
capo al datore di lavoro una responsabilità contrattuale discendente dalla violazione dell'art.
2087 cod. civ., non avendo egli impedito il verificarsi di conseguenze pregiudizievoli
a carico di una propria dipendente pur se riconducibili a fatti posti in essere da terzi.
Il decidente poi, escluso il verificarsi nella specie di un vero e proprio danno biologico,
ha però riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale, innegabilmente determinato
dallo stress causato alla ricorrente dagli eventi subiti. In proposito, la giurisprudenza
che si è occupata nel tempo di definire il mobbing e gli effetti giuridici da esso discendenti,
animata dalla volontà di ristorare la vittima per tutte le sofferenze subite, ha
dato vita a una moltiplicazione e sovrapposizione di diverse tipologie di danno. Ma, a
parte le forme «ordinarie» di danno (patrimoniale e biologico), il pregiudizio tipico da
mobbing viene identificato con il danno esistenziale «in quanto prescinde dal verificarsi
di concrete lesioni alla salute e al patrimonio ' e dunque dalla prova delle stesse ' e sussiste
ogni qual volta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità e integrità personale
» (Cass. n. 7713/2003; Cass. n. 10482/2004). Esso rivela la sua utilità rispetto a
quelle fattispecie ' quale quella oggetto del caso in esame ' per le quali, esclusa la risarcibilità
del danno patrimoniale (in quanto mancante o non provato), del danno biologico
(inteso come compromissione di natura areddituale dell'integrità psicofisica della
persona che si concretizzi in una perdita o riduzione delle funzioni vitali), residui appunto
solo il danno esistenziale, «inteso come danno alla persona in sé considerata, nell'esplicarsi
della personalità morale», consistente nella modifica delle proprie abitudini di
vita e relazionali, come conseguenza della lesione del bene della dignità della persona,
tutelato dall'art. 2 Cost.
Obbligo dell'azienda a partecipare alle procedure di raffreddamento e conciliazione
La Commissione si è espressa nel senso che le procedure di raffreddamento e conciliazione da esperirsi prima della proclamazione di uno scioperoa norma
dell'art. 2, comma 2 della legge n. 146/90 debbono ritenersi «obbligatorie per entrambe
le parti». Tanto più nel settore del trasporto pubblico locale per il quale l'art.
2, lettera C), punto 3 della Regolamentazione provvisoria del 31 gennaio 2002 prevede
che «l'omessa convocazione da parte dell'ente o dell'azienda o il rifiuto di partecipare
all'incontro da parte del soggetto sindacale che lo abbia richiesto, nonché il comportamento
delle parti durante l'esperimento delle procedure, potranno essere oggetto
di valutazione da parte della Commissione ai sensi dell'art. 13, lettere c), d), h), i) e
m,) della legge n. 146/90, come modificata dalla legge n.83/2000». Il tenore letterale
delle norme primaria e secondaria lascia intendere che l'azienda ha l'obbligo di aderire
alla richiesta di convocazione avanzata da un'organizzazione sindacale per l'esperimento
delle procedure di raffreddamento e conciliazione, e ancor più alla convocazione
disposta con detto fine dalle Autorità istituzionali indicate dal citato art. 2, comma
2, della legge n.146/90. Detto obbligo è naturalmente sotteso alla logica ispiratrice
delle norme in oggetto, considerato che l'esperimento delle procedure di raffreddamento
e conciliazione è finalizzato a verificare la possibilità di evitare un'azione di
sciopero, e dunque un danno per gli utenti di un servizio pubblico essenziale, e che il
mancato esperimento di dette procedure non può non determinare l'aggravamento del
conflitto in corso. La Commissione di Garanzia, d'altronde, già con la delibera di indirizzo
del 1° febbraio 2001, aveva statuito che «la violazione delle procedure da parte
del datore di lavoro (ivi compresa la mancata convocazione delle rappresentanze sindacali
che lo abbiano richiesto ai fini dell'esperimento delle procedure previste dall'art.
2, comma 2), diviene [â?¦] valutabile dalla Commissione ai fini dell'applicazione
della sanzione di cui all'art. 4, comma 4, come violazione di obblighi imposti dalla legge
». Dunque non v'è dubbio, ad avviso della Commissione, che il datore di lavoro sia
tenuto a non vanificare la lettera e lo spirito delle disposizioni di legge e regolamentari
in tema di procedure di raffreddamento e conciliazione, e dunque abbia l'obbligo '
salvo giustificati motivi ' sia di convocare le organizzazioni sindacali richiedenti l'esperimento
delle procedure di raffreddamento e conciliazione, sia di aderire alla convocazione
dell'Autorità di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 146/90 a seguito di richiesta
di organizzazioni sindacali. Tale obbligo aziendale comporta che la mancata
convocazione delle organizzazioni sindacali, ovvero la mancata comparizione a un incontro
promosso dal prefetto, al fine dell'esperimento delle procedure di raffreddamento
e conciliazione, debbano essere quanto meno congruamente motivate, rispondendo
diversamente il datore di lavoro di eventuali inadempienze ai sensi dell'art. 4,
comma 4, della legge n. 146/90.
Pari opportunità - Selezione pubblica - Composizione commissione giudicatrice - Riserva di posti
A mezzo di azione esercitata dalla Consigliera Regionale di Parità viene denunciato il comportamento discriminatoriotenuto in relazione a una «selezione pubblica
» per il conferimento dell'incarico dirigente sanitario di 2° livello di struttura complessa,
per essere la Commissione di esperti della selezione pubblica composta di soli uomini; si
denuncia cioè la violazione della norma che impone alle pubbliche amministrazioni, al fine
di garantire pari opportunità tra uomini e donne per l'accesso al lavoro, di «riserva(re)»
a queste ultime, «salva motivata impossibilità », «almeno un terzo dei posti di componente
delle commissioni di concorso», eccetto le ipotesi in cui la Commissione risulti composta
esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso. Ad avviso
del giudice senese, il procedimento per il conferimento di tale incarico non ha natura
di procedura concorsuale, atteso che nella relativa disciplina non è presente alcun elemento
idoneo che l'assimili a un concorso pubblico, ancorché atipico. Allo stesso tempo
si osserva però che non applicare, se si vuole estensivamente, la riserva in materia di composizione
delle «commissioni di concorso», significa non voler cogliere, formalisticamente,
la portata sostanziale di un intervento, una misura di «azione positiva», rivolta a rimuovere
gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità ; non si
tratta di introdurre per via giudiziale un'azione positiva, ma di offrire una interpretazione
sostanziale e sistematica di una norma di azione positiva. Per una peculiarità temporale
della fattispecie, tuttavia, la cessazione del comportamento pregiudizievole e l'adozione
di ogni altro provvedimento idoneo alla rimozione degli effetti della discriminazione accertata,
è stata proiettata dal Tribunale di Siena essenzialmente in futuro (senza declaratoria
di nullità della nomina della Commissione e della successiva delibera attributiva dell'incarico,
mediante stipula di contratto individuale di lavoro), ordinando esclusivamente
la definizione e attuazione di un piano di rimozione di simili discriminazioni.
Mobbing - Presupposti - Insussistenza
Il caso in esame riguarda una impiegata del locale Liceo Ginnasio Statale addetta alle mansioni di bibliotecariala quale, a seguito della chiusura della biblioteca
per ristrutturazione, veniva ritenuta non più utilizzabile in maniera proficua da parte
del dirigente scolastico il quale, con provvedimento, ne chiedeva lo spostamento presso
altro Istituto. La ricorrente adiva pertanto il Tribunale di Lanciano per chiedere l'accertamento
dell'illegittimità dell'attività posta in essere dal dirigente scolastico in quanto integrante,
tra l'altro, gli estremi del mobbing. In particolare la sig.ra D.M. lamentava di essere
stata oggetto di consistenti e ripetuti atteggiamenti persecutori da parte del dirigente
scolastico consistenti nell'impedimento sistematico dello svolgimento del lavoro,
nell'isolamento e nella formulazione di continue critiche alle prestazioni e alle capacità
professionali della dipendente. Nel rigettare la domanda, il giudice di Lanciano, analizza
la fattispecie del mobbing definendolo una durevole serie di reiterati comportamenti
vessatori e persecutori tali da creare una situazione di sofferenza nel dipendente, che si
concreta in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in particolare,
nella sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica. Sostiene pertanto che per aversi
mobbing ci si deve trovare di fronte a una serie prolungata di atti volti ad accerchiare la
vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente
perseguito. Nel pronunciarsi sulla questione, il Tribunale di Lanciano ha ritenuto
quindi di escludere un comportamento mobbizzante da parte del dirigente scolastico
stante l'assenza di prova circa la sussistenza di una serie di azioni ostili posti in essere
dal datore di lavoro, di carattere persecutorio e discriminatoro, con lo specifico intento
vessatorio in danno della lavoratrice.
Co.co.co. - Contratto a progetto - Modello normativo - Forma scritta - Ad substantiam - Ad probationem
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un lavoratore, assunto con due successivi contratti a progetto,conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di vedere
accertata la natura subordinata del rapporto intercorso fra le parti. Il lavoratore, in particolare,
lamentava che la propria attività lavorativa non era chiaramente individuata nel
contratto stipulato e che, comunque, la stessa si risolveva nell'espletamento dell'ordinario
lavoro di assistenza nel servizio appaltato dalla pubblica amministrazione alla società
convenuta. Il Tribunale di Roma, nel rigettare le domande avanzate dal ricorrente, ha affermato
che la necessità della forma scritta deve ritenersi richiesta a substantiam solo per
l'accordo costitutivo del rapporto con la conseguenza che, in assenza della medesima, solo
in tale ipotesi, sarà aprioristicamente da escludere la sussistenza di una fattispecie lavorativa
«a progetto». Nel caso in cui il contratto, invece, non preveda le modalità esplicative
della collaborazione sarà onere del committente fornire la prova, nel rispetto dei limiti
codicistici, della prefigurazione delle anzidette modalità . Il giudice, inoltre, ha stabilito
che la finalizzazione dell'operato del collaboratore alla realizzazione, temporalmente
definita o definibile, di risultati collegati a uno specifico progetto che, pur rappresentando
un segmento della linea imprenditoriale, è destinato a una durata non coincidente con
quella di quest'ultima, rispetta la figura del contratto a progetto.
Pubblico impiego - Diritto alle differenze retributive - Sussistenza - Demansionamento - Sussistenza
Un dipendente della comunità montana dell'Esino Frasassi, immesso in ruolo nel 1984 con inquadramento nella V qualifica funzionale lamentava il pagamento delle differenze retributive per aver svolto mansioni di IV qualifica appartenenti al profilo
di geometra e successivamente, una volta vinto il concorso per accedere alla qualifica
superiore, di essere stato demansionato. Il giudice adito accoglieva il ricorso depositato
nel 2005. Con riferimento alle differenze retributive accertava con prove documentali
e deposizioni testimoniali le effettive mansioni svolte dal ricorrente e gli riconosceva
il diritto alle differenze retributive tra la VI e la V categoria, ma solo a decorrere dal 1999,
essendo l'unico atto interruttivo della prescrizione il tentativo di conciliazione (art. 2948
cod. civ.). Anche il secondo motivo del ricorso, ovvero il lamentato demansionamento, è
stato provato e riconosciuto dal giudice. Infatti il ricorrente nel giugno 2000 aveva vinto
il concorso per ricoprire la qualifica superiore, ma proprio dal quel momento non aveva
più svolto le mansioni da geometra. A nulla rileva che la Comunità abbia erogato la retribuzione
propria della qualifica di appartenenza al ricorrente, in quanto l'assegnazione
di mansioni inferiori lede i diritti non meramente patrimoniali, primo fra tutti quello di essere
adibito a mansioni proprie della categoria di appartenenza sancito dall'art. 56 d.lgs.
165/2001.
Ordinanza dichiarativa di estinzione - Reclamabilità - Esclusione - Inammisibilità
All'udienza di prima comparizione fissata per un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo,il giudice, rilevato il mancato rispetto del termine di trenta giorni per
la notifica del ricorso, dichiarava l'estinzione del giudizio. L'ordinanza veniva impugnata
dall'opponente con atto di reclamo ex art. 308 cod. proc. civ. Il Collegio, chiamato a deciderne
l'ammissibilità , ha affermato che la norma citata, sistematicamente collocata
nell'ambito della Sezione III del codice di rito dedicata all'estinzione del giudizio e posta
in immediata successione rispetto alla disposizione (art. 307 cod. proc. civ.) dedicata all'estinzione
del processo per inattività delle parti, si riferisce in realtà alle sole estinzioni
per inattività delle parti e non al caso dell'estinzione del giudizio per mancata notifica del
ricorso. Ha aggiunto, inoltre, il Collegio che tale norma trova applicazione solo nel caso
in cui l'estinzione sia stata dichiarata nell'ambito di giudizi destinati a tenersi innanzi a
organi giudiziari collegiali o quanto meno prevedenti riserve di collegialità per alcune tipologie
di decisioni. Nel rito del lavoro, affidato integralmente a giudici monocratici e in
cui non sussiste alcuna riserva di rimessione al Collegio per specifiche decisioni, l'ordinanza
di estinzione del giudizio può soltanto essere eventualmente impugnata, al pari
della sentenza, mediante ricorso in appello.
Buste paga - Modelli 101 - Efficacia delle prove documentali - Trasferimento d'azienda - Responsabilità solidale
Un lavoratore conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la società per la quale aveva svolto la propria attività lavorativarivendicando il pagamento delle differenze retributive maturate nel corso di tutto il rapporto di lavoro,
anche con riferimento a un periodo antecedente l'instaurazione del rapporto con la convenuta
durante il quale l'attività commerciale era stata gestita da un altro soggetto giudico. Nel
costituirsi in giudizio la convenuta, assumendo essere intervenuto con il precedente gestore
un trasferimento d'azienda, negava ogni responsabilità per il periodo pregresso
stante la mancata indicazione nelle scritture contabili delle somme rivendicate dal lavoratore.
In ordine alle ulteriori differenze retributive, la società evidenziava che gli importi
richiesti dal lavoratore risultavano percepiti alla luce delle buste paga ' alcune delle
quali tuttavia non erano state sottoscritte ' e dei modelli 101. Il giudice di prime cure rigettava
il ricorso negando la sussistenza di una responsabilità ex art. 2112 cod. civ., stante
la mancata indicazione del debito nei libri contabili, e dando rilievo per le ulteriori differenze
retributive alle buste paga e ai modelli 101 prodotti. Avverso tale sentenza promuoveva
appello il lavoratore contestando la violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. in ordine
all'efficacia probatoria dei documenti allegati da controparte e sostenendo, inoltre,
che fosse ravvisabile, nel caso di specie, una sostanziale modifica della figura imprenditoriale
da ditta individuale a società in nome collettivo piuttosto che un trasferimento
d'azienda. Nel rigettare l'appello il giudice ha ritenuto che, in mancanza di elementi probatori
di segno diverso, il giudice legittimamente può fondare il proprio convincimento
esclusivamente sulle certificazioni rilasciate dal datore di lavoro in materia di accertamento
delle imposte sui redditi, specie laddove le somme indicate nelle buste paga siano
state riportate fedelmente nei libri paga e certificate ogni anno nei modelli 101 utilizzati
dal lavoratore per la propria denuncia dei redditi. In ordine alla responsabilità solidale
ex art. 2112 cod. civ., la Corte, pur rilevando che solo in grado di appello era stata
contestata la sussistenza di un trasferimento d'azienda, ha precisato che anche la modifica
della figura imprenditoriale da ditta individuale a società rappresenta un trasferimento
di azienda, poiché, qualunque sia la forma giudica con cui si attui il mutamento,
restano inalterati struttura e fini dell'azienda.
Distacco - Insussistenza - Accertamento di rapporto di lavoro subordinato - Licenziamento per cessione di ramo d'azienda
Una lavoratrice conveniva in giudizio la società che l'aveva assunta(Precision Tooling), e la società presso cui era stata distaccata (Tecomec) in concomitanza con una
dichiarata cessione di un ramo di azienda, chiedendo, previo accertamento di rapporto
di lavoro subordinato nei confronti della seconda, la loro condanna solidale al risarcimento
da illegittimo licenziamento intimatole dalla società distaccante per cessione
del ramo di azienda e per la quale non svolgeva più alcuna prestazione di lavoro.
Il Tribunale di Reggio Emilia rigettava la domanda di parte attrice, ritenendo sussistente
e legittima la cessione di ramo di azienda e rilevando come in ogni caso la ricorrente
non fosse riuscita a dimostrare l'illegittimità del suo distacco con conseguente
novazione del rapporto per violazione dell'art. 1 della legge n. 1369/60. La Corte
di Appello di Bologna riforma integralmente la sentenza di primo grado, inquadrando
la fattispecie nell'istituto del distacco (o comando) nel lavoro subordinato privato,
a seguito della dissociazione del soggetto che aveva proceduto all'assunzione e dell'effettivo
beneficiario delle prestazione; al riguardo richiama quel consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui «la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto
all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione, in forza
del principio generale che si desume dall'art. 2127 cod. civ. e dalla legge n. 1369 del
1960 ' principio che esclude che un imprenditore possa inserire a tutti gli effetti un
proprio dipendente nell'organizzazione di altro imprenditore senza che il secondo assuma
la veste di datore di lavoro ' è consentita soltanto a condizione che continui a operare,
sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante.
Si desume da questo principio generale la necessità che sia accertata la sussistenza
di un preciso interesse del datore di lavoro derivante dai suoi rapporti con il terzo»
(Cass. n. 11363/04 e in motivazione Cass. n. 16165/04). La Corte di Appello ritiene
quindi illegittimo il distacco attuato nel caso in esame, per assenza delle condizioni
sintetizzate nella sentenza della Corte di Cassazione n. 17748/04, la quale ha puntualizzato
che «il comando o distacco che, di recente, ha trovato specifica regolamentazione
nell'art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 (la cui normativa non può, ratione temporis,
trovare applicazione nella specie), disposto dal datore di lavoro presso un altro soggetto
destinatario dell'attività lavorativa, è configurabile quando ricorrono le seguenti
tre condizioni: 1) deve esistere l'interesse del datore di lavoro distaccante a che il
lavoratore presti la propria opera presso un altro soggetto, purché tale interesse persista
per tutto il tempo del distacco; 2) il comando deve avere il carattere della temporaneità ,
intesa come non definitività ; 3) in capo al datore di lavoro deve perdurare il
potere direttivo ' eventualmente delegato al destinatario ' unitamente a quello di determinare
la cessazione del distacco (cfr. Cass. n. 5/1995, Cass n. 502/1998, Cass n.
14558/2000)». In particolare, per quanto concerne la «temporaneità del distacco», la
destinazione non deve necessariamente avere una durata predeterminata fin dall'inizio,
né che sia contestuale all'assunzione del lavoratore, ovvero persista per tutta la
durata del rapporto: tale durata deve solo coincida con quella dell'interesse del datore
di lavoro a che il proprio dipendente presti la sua opera in favore di un terzo (Cass.
n. 6657/1995). La Corte di Appello ritiene dunque che la ricorrente, formalmente distaccata
presso la Tecomec, fosse in realtà alle effettive dipendenze di quest'ultima
che ne utilizzava le prestazioni, non essendo qualificabile il distacco della lavoratrice
come atto organizzativo dell'impresa che lo aveva disposto, per assenza di uno specifico
interesse imprenditoriale della Precision Tooling e non essendo risultato che il potere
direttivo e quello di disporre la cessazione del distacco fosse rimasto in capo alla
Precision Tooling. Pertanto una volta accertato che si era instaurato un rapporto di lavoro
subordinato fra l'appellante e la Tecomec, effettiva e unica beneficiara della prestazione
di lavoro, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 1369/60, la Corte dichiara illegittimo
il licenziamento, ricondotto in realtà a una decisione della Tecomec, per infondatezza
delle ragioni poste a base del recesso, non rispondendo alla realtà che si fosse
ceduto un ramo di azienda.
Accertamento diretto a erogazione gratuita di farmaci (multitrattamento Di Bella) - Insussistenza
Una malata affetta da neoplasia diffusa, dopo essersi sottoposta a diversi interventi chirurgicipurtroppo non risolutivi della propria patologia, intraprendeva nel
settembre 1999 la cura farmacologica del prof. Di Bella, a seguito della quale si verificava
un recupero delle condizioni generali, e chiedeva conseguentemente la condanna della
Ausl di Modena alla dispensazione gratuita per tutta la durata della terapia dei farmaci
contemplati da detta terapia multitrattamentale, previo accertamento mediante Ctu
medica dell'efficacia terapeutica della cura Di Bella in relazione alla propria patologia. Il
Tribunale di Modena, in base all'art. 1 del d.l. n. 23/88 convertito in legge n. 94/88, rigettava
la domanda in quanto la ricorrente aveva iniziato la terapia Di Bella in epoca successiva
alla chiusura della sperimentazione in ordine alla efficacia terapeutica del multi
trattamento (25.11.1998), e non ammetteva la richiesta Ctu medico legale, avendo la sperimentazione
scientifica accertato l'inefficacia terapeutica del Mdb e avendo la Corte Costituzionale
(sent. n. 121/99) escluso che il giudice potesse ridiscutere i risultati della
sperimentazione. La sig.ra Ines quindi appellava la sentenza, sostenendo che il primo
giudice aveva omesso di considerare che l'art. 1, comma 4, del d.l. 536/96 convertito in
legge n. 648/96, individua le ipotesi di derogabilità gratuita dei farmaci nei casi di mancanza
di valida alternativa terapeutica. La Corte di Appello di Bologna conferma integralmente
la sentenza di primo grado, richiamando due proprie precedenti decisioni (la
n. 372 del 13.6.2002 e la n. 504 del 17.10.2002) con le quali, anche alla luce delle pronunce
della Corte costituzionale (n. 121/99, n. 188/00 e n. 279/03) aveva ritenuto che
l'assistito che abbia iniziato la terapia Di Bella in epoca successiva alla chiusura della fase
di sperimentazione in ordine alla efficacia terapeutica del multi trattamento, non ha
diritto alla somministrazione gratuita dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale.
Nel contempo la Corte ritiene che non compete alla Autorità giudiziaria accertare, mediante
l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio, l'efficacia terapeutica del trattamento
del prof. Di Bella in relazione alla patologia tumorale dalla quale l'assistito è affetto,
in coerenza con il principio dell'ordinamento secondo cui la legge ha attribuito ad
appositi organi tecnici il potere di effettuare la sperimentazione in ordine all'efficacia terapeutica
dei farmaci, nonché di stabilire, in caso di esito negativo, che essi non possano
essere erogati gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale. La Corte conclude poi
richiamando l'insegnamento della Suprema Corte (Cass. Ss. Uu. n. 12218/00) secondo il
quale l'ordinamento appresta una tutela non illimitata in relazione a tutte le possibili esigenze
preventive e terapeutiche dell'individuo, ma circoscritta a quelle che la normativa
vigente prevede, stabilendo quali prestazioni le strutture sanitarie sono tenute a erogare.
Sussistono quindi dei «limiti esterni» oltre i quali l'interesse individuale del cittadino
cessa di essere direttamente garantito.
Applicabilità obbligo previsto dal ccnl di assunzione dei lavoratori prima occupati in quel servizio anche in caso di subappalt
Un'azienda assumeva un appalto c.d. «multiservizi» comprendente vari attività tra cui quello della pulizia dei locali del committente e, non avendo competenze
specifiche per svolgere detto servizio, provvedeva a subappaltarlo a un'altra società .
Si apriva la consultazione sindacale previsto dall'art. 4 del c.c.n.l. Multiservizi, per il passaggio
dei lavoratori dall'impresa uscente a quella subappaltante, ma in detta sede quest'ultima
società affermava di non essere obbligata ad assumere i lavoratori, sostenendo
che, in assenza di una successione diretta con l'impresa subentrante, l'art. 4 non troverebbe
applicazione in caso di subappalto. Sulla base di detta argomentazione la società
subentrante assumeva solo una parte delle lavoratrici e con contratti a termine di
pochi mesi, scaduti i quali le licenziava.
Con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., venivano impugnati i contratti a termine e veniva
richiesta la costituzione del rapporto di lavoro anche ai sensi dell'art. 4 del c.c.n.l. Multiservizi,
motivando la richiesta di provvedimento d'urgenza con il fatto che, siccome il
contratto di appalto aveva una durata di due anni, il tempo necessario per un giudizio di
merito avrebbe pregiudicato la possibilità per le lavoratrici di poter essere assunte dalla
futura e nuova impresa subentrante. Il ricorso viene accolto dal Tribunale sulla base delle
seguenti motivazioni. Osserva il giudice che l'art. 4 del contratto Multiservizi «ha la finalità
di garantire la continuità dei rapporti di lavoro in caso di continuità del servizio,
nella fattispecie in cui un'azienda subentri a un'altra nella erogazione di un determinato
servizio appaltato da un soggetto committente». Pertanto il c.c.n.l. «è direttamente applicabile
alla società subentrante nel servizio, a prescindere dalla qualificazione del titolo
di subentro, come appalto o subappalto»: sono quindi da considerarsi nulli i contratti
a termine fatti sottoscrivere dal subappaltatore alle ricorrenti sia per contrasto con l'art.
4 del c.c.n.l. Multiservizi sia per contrasto con l'art. 1 del dlgs 268/2001 in quanto non ne
sono esplicitate le ragioni. Il Tribunale pertanto ordina all'azienda subappaltatrice di assumere
le lavoratrici alle proprie dipendenze con contratto a tempo indeterminato e con
lo stesso orario di lavoro svolto durante la gestione uscente, con inquadramento al 2° livello
del c.c.n.l. Multiservizi e conseguente retribuzione.
Licenziamenti collettivi - Requisiti procedurali posti a garanzia sia del sindacato sia dei singoli lavoratori
Una lavoratrice che, a seguito di un periodo di demansionamento veniva licenziatanell'ambito di una procedura di mobilità , impugnava il suo licenziamento ritenendolo
inefficace, richiedeva il risarcimento dei danni da dequalificazione. Il Tribunale
di Bologna respingeva la prima domanda e accoglieva la seconda, quantificando il danno
in Euro 10.000 e conseguentemente la lavoratrice proponeva appello, mentre la società
a sua volta proponeva appello incidentale tardivo chiedendo la riforma sul punto
della condanna al risarcimento dei danni da demansionamento o quantomeno la riduzione
del suo ammontare. La Corte d'Appello di Bologna conferma punto per punto la
sentenza di primo grado. Per quanto riguarda le censure sui vizi della procedura: a) non
ravvisa vizi sulla comunicazione iniziale di cui al comma terzo dell'art. 4 della legge n.
223/1991, pur riconoscendo che essa deve essere «idonea a contribuire alla conoscenza
che il sindacato deve avere per esercitare efficacemente il ruolo di cogestione che la legge
gli assegna» (Cass. n. 13196/03) e che, sebbene i destinatari della comunicazione siano
le O.S., «tutti gli obblighi di informazione e di trasparenza sono posti non solo a garanzia
del sindacato, quanto anche dei singoli lavoratori i quali, in caso di violazione,
possono domandare l'accertamento dell'inefficacia del licenziamento» (Cass. n.
302/00); b) parimenti non ritiene violate né la forma né la sostanza e lo spirito delle disposizioni
contenute nel nono comma dell'art. 4, che si dichiara finalizzato «a consentire
ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di
controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti» e «se
tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da
scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai
previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa
per la individuazione dei dipendenti da licenziare» (Cass. n. 16805/03), essendo
essenziale che risultino «le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori,
indicazione che presuppone l'evidenziazione di tutti gli elementi (criteri generali e dati
specifici) che hanno portato all'identificazione dei dipendenti prescelti per la mobilità
(con specificazione, quindi, in caso di applicazione in concorso dei tre criteri di legge, anche
dei criteri con cui gli stessi sono stati fatti interagire» (Cass. n. 880/05) allo scopo di
porre in grado «il lavoratore di percepire perché lui ' e non altri dipendenti ' sia stato destinatario
del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo» (Cass. n.
15377/04).
In merito al demansionamento la Corte dichiara di condividere la tesi secondo la quale
«deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una
automatica dequalificazione professionale» e quella per cui «grava sul lavoratore l'onere
di fornire la prova, anche attraverso presunzioni, dell'ulteriore danno risarcibile, mentre
resta affidato al giudice di merito il compito di verificare di volta in volta se, in concreto,
il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare,
eventualmente con liquidazione in via equitativa» (Cass. n. 16792/03). Argomentano
i giudici bolognesi che il nostro ordinamento, a differenza di quelli di stampo anglosassone,
non prevede, anzi esclude i cd. «danni punitivi» (che altri ha recentemente ribattezzato
«danni normativi» al fine di sottolinearne la discendenza dalla sola violazione
di un precetto): «È invero una conquista di civiltà il fatto che il risarcimento del danno
non debba essere fonte di arricchimento del danneggiato [â?¦] Un sistema siffatto, riecheggerebbe
quello incentrato sulle pene private che la nostra tradizione non accetta
(Cass. n. 6992/02) in nome della parità delle parti nei rapporti iure privatorum, con la sola
eccezione, costituzionalmente non ineccepibile, del potere sanzionatorio del datore di
lavoro». Nel caso concreto, peraltro, la Corte d'Appello condivide l'opinione del primo
giudice secondo cui «l'immotivato demansionamento della dipendente, la sua assoluta
(o quasi) inerzia sono sicuramente fatti dimostrativi della progressiva obsolescenza delle
competenze professionali acquisite, specie in un'organizzazione del lavoro quale quella
attuale, che prevede l'introduzione di strumenti telematici in continua evoluzione,
quindi in perenne adattamento». Rispetto alla quantificazione del danno, cosà statuisce
la sentenza in commento: «a parere di questa Corte la somma liquidata dal Tribunale sostanzialmente
pari a circa il doppio della retribuzione per il periodo di privazione delle
mansioni, pare rispondente a equità per ristorare il relativo danno».
Fringe Benefit - Incidenza
Con ricorso avanti il Giudice del Lavoro un lavoratore esponeva di aver prestato la propria attività alle dipendenze della Società convenutae di aver ricevuto
dalla stessa, quale fringe benefit, un furgone che utilizzava per gli spostamenti giornalieri
dalla propria abitazione alla officina della ditta; l'azienda, al momento della cessazione
del rapporto, non aveva calcolato l'incidenza sul trattamento di fine rapporto del
fringe benefit, con la maturazione del rispettivo credito da parte del lavoratore. La convenuta
si costituiva eccependo preliminarmente l'incompetenza per territorio del giudice
adito nonché la parziale prescrizione del credito rivendicato; nel merito, veniva svolta
domanda riconvenzionale per la rifusione delle somme derivanti dall'utilizzo personale
del mezzo assegnato dall'azienda al dipendente. Il giudice del lavoro disattendeva in via
preliminare le eccezioni esposte, in quanto era pacifico che la competenza territoriale
fosse del giudice adito attesa la coincidenza tra sede legale e sede effettiva dell'azienda
nel territorio; d'altra parte, veniva respinta anche l'eccezione di prescrizione svolta, atteso
che la pretesa azionata in ricorso concerneva l'incidenza sul Tfr del fringe benefit e
il diritto al Tfr matura dal momento della cessazione del rapporto e non in costanza del
medesimo. Nel merito la domanda veniva accolta, sul presupposto, ampiamente accolto
dalla giurisprudenza, che la natura retributiva dell'utilizzo gratuito di autovettura aziendale
deve essere affermata qualora il suddetto utilizzo serva per raggiungere da casa il
luogo di lavoro e non per svolgere la prestazione lavorativa (Cass., 12155/03).
Infatti, se il datore di lavoro si fa carico di riconoscere al lavoratore un beneficio non necessario
per l'esecuzione del lavoro o in occasione del medesimo, quale è per l'appunto
la concessione in uso gratuito del mezzo di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro,
ciò rappresenta un'integrazione della retribuzione rappresentata dal relativo risparmio
per il dipendente, in quanto la medesima si configura come un'erogazione finalizzata a
remunerare un'esigenza di quest'ultimo. Nella fattispecie è risultato in maniera incontestata
che l'utilizzo del mezzo nettamente prevalente e abituale fosse quello finalizzato a
consentire al dipendente di raggiungere da casa il luogo di lavoro e viceversa. In proposito
era irrilevante la circostanza che durante la giornata lavorativa il medesimo mezzo
fosse utilizzato da altri dipendenti, non essendo necessario l'uso personale esclusivo del
benefit quale presupposto per il riconoscimento del medesimo. Disattesa pertanto nel
merito la domanda riconvenzionale della società , il ricorso è stato accolto con il riconoscimento
del credito, nella sua quantificazione non contestata da parte convenuta.
Licenziamento collettivo - Requisiti e finalità della comunicazione ai sensi del nono comma dell'art. 4
Un dipendente di Poste Italiane collocato in mobilità a seguito di una procedura di cui alla legge 223/1991
chiedeva al Tribunale del lavoro di Bologna la declaratoria
di illegittimità del suo licenziamento a lui intimato in data 19 novembre 2001, e/o
previa declaratoria di nullità degli accordi sindacali intervenuti con le Oo.Ss. Il Tribunale,
con sentenza n. 829/2004, accoglieva la domanda evidenziando, tra l'altro, la mancanza
di contestualità tra la comunicazione di recesso e la comunicazione dell'elenco dei lavoratori
in violazione del disposto di cui al nono comma dell'art. 4 della legge n.
223/1991. Avverso la sentenza proponeva appello Poste italiane, che viene respinto dalla
Corte sul presupposto della rilevanza ' e assorbenza, rispetto agli altri motivi di censura
del licenziamento ' del vizio sopra richiamato. La decisione merita attenzione anche
perché relativa alla medesima procedura di mobilità per la quale la stessa Corte d'Appello
di Bologna, con sentenza del 10 novembre 2005 n. 826/05, aveva respinto le istanze
del lavoratore licenziato (v. RglNews, n. 1/2006, pp. 13 ss.).
La Corte d'Appello evidenzia in primo luogo che lo scopo delle contestualità delle comunicazioni
«deve essere individuato nella possibilità per il lavoratore e per gli altri destinatari
di controllare la regolarità della procedura, il rispetto dell'accordo alla base della
stessa, il rispetto dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare sulla base del concreto
confronto con gli altri nominativi e con le qualità e caratteristiche dei singoli lavoratori
coinvolti». Richiamando Cass. n. 5578/2004, Cass. n. 5770/2003, Cass. n. 15898/2005 i
giudici bolognesi evidenziano che la contestualità deve essere intesa in senso rigoroso
sia in relazione ai tempi delle comunicazioni e dell'inoltro della lettera di licenziamento
al lavoratore, che in relazione ai contenuti delle comunicazioni stesse «che devono consentire
al lavoratore e alle organizzazioni sindacali un vaglio effettivo e oggettivo dei criteri
applicati» circostanze, queste, non ravvisate nel caso in esame, non solo per la «distanza
di tempo considerevole tra la comunicazione del licenziamento e la comunicazione
agli uffici e alle associazioni di cui all'art. 4 comma 9 della legge n. 223/1991» ma anche
perché la comunicazione risultava «incompleta nel suo contenuto avendo a oggetto
solo l'elenco dei lavoratori che sarebbero stati licenziati sempre nell'ambito della stessa
procedura ma con diversa decorrenza (31 marzo 2002)». Il riconoscimento di un diritto di
controllo proprio del lavoratore (e non semplicemente tramite le organizzazioni sindacali)
è importante, specie se si considera che la stessa Corte, nella citata sentenza n.
926/05 ' con riferimento alla comunicazione di avvio della procedura e sul presupposto
della non invocabilità da parte dal singolo dipendente licenziato di eventuali insufficienze
della stessa ' aveva affermato: «poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione
di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all'esame della situazione
di crisi e a proporre soluzioni di crisi della stessa, non può far valere in giudizio a propria
tutela, in ogni caso, l'inadeguatezza della comunicazione». Sulla base di tali principi
la Corte d'Appello di Bologna ha ritenuta corretta la decisione del giudice di primo grado
circa la decisiva mancanza della contestualità delle comunicazioni nel caso in esame,
essendo le stesse state effettuate dal datore di lavoro a distanza di oltre quindici giorni
dalla comunicazione del licenziamento al lavoratore, in assenza di qualsiasi giustificato
motivo a carattere oggettivo in ordine alla tardiva comunicazione agli uffici regionali.
Subordinazione - Co.co.co a termine invalido - Trasformazione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
F. C. ha stipulato il 1 aprile 2003 un contratto di co.co.co con Parma A.C. Spaquale
«responsabile delle relazioni interne» per il periodo fino al 30 giugno 2005. Dopo il
crack Parmalat, Parma A.C. è stata posta in amministrazione straordinaria. Il 16 giugno
2004 il contratto è stato risolto dall'Amministrazione straordinaria, ex art. 50 d.lgs.
270/99, che consente tale risoluzione per i contratti che non siano di lavoro subordinato.
In seguito si è avuto un trasferimento d'azienda da Parma A.C. Spa in a.s. a Parma
F.C. Spa. F.C. ha agito in giudizio, sostenendo che il rapporto era divenuto di lavoro subordinato,
con conseguente applicabilità dell'art. 18 Stat. lav. Nei confronti della cessionaria
Parma F.C. Spa. Questa si è difesa, sostenendo che, in ogni caso, il contratto di
lavoro subordinato in ipotesi esistente andava considerato a termine. Il Tribunale di
Parma ha in primo luogo affrontato il tema della subordinazione, richiamando la più recente
giurisprudenza di legittimità in materia, e in particolare quella secondo la quale
la questione della identificazione del reale tipo di rapporto deve essere affrontata in relazione
alle effettive caratteristiche dello stesso quali desumibili dalle modalità della
sua attuazione in quanto nei rapporti di durata il comportamento delle parti è idoneo a
esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale sia una nuova diversa volontà
(Cass. n. 14294/2004; Cass. n. 161444/2004; Cass. 20669/2004) e quella secondo cui
il potere direttivo «deve manifestarsi in ordini specifici, reiterati e intrinsecamente inerenti
alla prestazione lavorativa», mentre «il potere organizzativo non può esplicarsi in
un semplice coordinamento ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore
nella organizzazione aziendale» (Cass. n. 20002/2004; Cass. n. 15275/2004;
Cass. 9151/2004; Cass. n. 4889/2002). Il Tribunale ha inoltre respinto la tesi per cui il
contratto di lavoro subordinato andava considerato pur sempre a termine, in quanto «il
termine apposto al contratto co.co.co. era strettamente correlato e funzionale a tale
contratto»; ha aggiunto che, d'altra parte, «non vi (era) alcuna prova di una volontà
delle parti di attribuire a tale clausola anche la funzione di limitare la durata del contratto
di lavoro subordinato poi istauratosi tra di esse» e che, anzi, «la volontà iniziale
delle parti di dare vita a un contratto di co.co.co. (era) stata [â?¦] 'superata dalla
loro condotta concreta, sulla base della quale si è instaurato tra le stesse un rapporto
di lavoro subordinato», da ritenersi «a tempo indeterminato, rappresentando tale
tipo di contratto la regola a fronte della quale l'eccezione deve essere debitamente
allegata e provata».
I lavoratori che promuovono cause di analogo contenuto non versato in una situazione di incapacità a testimoniare
A seguito di una procedura di mobilità alcuni lavoratori impugnavano separatamente i licenziamenti adendo il locale Tribunale di Trani.I lavoratori deducevano
lo svolgimento di mansioni analoghe a quelle di altri lavoratori non coinvolti nella
procedura e la conseguente illegittimità della loro collocazione in mobilità . Il Tribunale,
respinta la richiesta di riunione delle cause formulate dall'azienda e sentiti i testi ancorché
ricorrenti in analogo giudizio, accoglieva le domande dei lavoratori. L'azienda,
soccombente anche in grado di appello, adiva la Corte di Cassazione deducendo la mancata
riunione delle controversie e l'incapacità a testimoniare dei lavoratori ricorrenti nei
giudizi non riuniti. La Suprema Corte nel ricordare che la riunione rappresenta l'esercizio
di una facoltà del magistrato non suscettibile di censura in sede di legittimità , ha respinto
il ricorso negando che la promozione di cause di contenuto analogo possa rappresentare
una valida causa di incompatibilità a testimoniare.
La Corte investe le Sezioni Unite sulle conseguenze sul profilo previdenziale di una sentenza di reintegra
Un lavoratore a seguito di una sentenza di reintegra otteneva in sede giudiziaria e a titolo risarcitorio una somma inferiore alle retribuzioni spettatiglidalla
data del licenziamento alla reintegra. L'azienda nell'ottemperare alla sentenza di reintegra
liquidava la somma al dipendente e versava gli oneri previdenziali esclusivamente
sull'ammontare risarcitorio riconosciuto al lavoratore dalla sentenza. Il lavoratore adiva,
quindi, nuovamente il Tribunale di Forlà allo scopo di vedere riconosciuti i contributi su tutte
le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla reintegra. Il Tribunale, con sentenza
confermata in sede di appello, accoglieva la domanda affermando che ai sensi dell'art.
18 legge 300/70 il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto alla regolarizzazione
previdenziale della posizione contributiva in relazione a quella che sarebbe stata la normale
retribuzione nel periodo stesso. La Corte di Cassazione rilevato l'esistenza di un contrasto
all'interno della sezione e considerata la rilevanza della questione, in accoglimento
della richiesta del P.M., ha rimesso la decisione della questione alle Sezioni Unite.
Efficacia del licenziamento intimato da una azienda cedente e pervenuto al lavoratore dopo il subentro della nuova azienda
Un'azienda intimava un licenziamento a un lavoratore che riceveva la comunicazione di recesso dal rapporto di lavoro dopo che l'azienda era stata ceduta.Il lavoratore che aveva contestato tempestivamente e in via stragiudiziale nei confronti
dell'azienda intimante, impugnava il recesso anche nei confronti dell'azienda subentrante
asserendo che il licenziamento era stato intimato a non domino. Nel promuovere
il ricorso il lavoratore asseriva, infatti, che il licenziamento si era perfezionato
al momento in cui l'atto era pervenuto nella sua sfera di conoscibilità e che, pertanto,
in tale data il licenziamento doveva ritenersi intimato da un soggetto non più titolare
del rapporto lavorativo. Conclusa la fase del giudizio di merito, il lavoratore proponeva
ricorso in sede di legittimità avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino,
che aveva riformato la decisione del locale pretore ritenendo che l'azienda subentrante
era succeduta in tutti i rapporti compresi quelli in itinere.
La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del collegio asserendo che l'art. 1334
cod. civ. nel disporre che gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono
a conoscenza della persona alla quale sono destinati considera la ricezione dell'atto
da parte del destinatario come requisito di efficacia o quale elemento costitutivo
dell'effetto. La dichiarazione di volontà espressa con l'atto unilaterale ' prosegue la cassazione
' si è tuttavia già perfezionata con la sola emissione e a tale momento che occorre risalire
per valutare la capacità e la volontà del dichiarante. Ne consegue che essendo
il cessionario subentrato in tutti i rapporti dell'azienda ceduta nello stato in cui sui
trovano e quindi anche nel rapporto caratterizzato da un licenziamento in itinere. In applicazione
di tali principi la Suprema Corte ha quindi efficace il recesso stabilendo, altresà,
che il lavoratore aveva l'onere di impugnare il recesso nei confronti del cessionario per
evitare di incorrere nella decadenza di cui alla art. 6 della legge 604/66. La Corte, inoltre,
ha, infatti, precisato che la mancata conoscenza dell'intervenuta cessione non rende legittima
l'impugnativa stragiudiziale del licenziamento comunicata alla sola azienda cedente.
L'impugnazione ' ha osservato la Corte di Cassazione ' deve essere proposta nei
confronti del (e deve pervenire al) datore di lavoro attuale indubbiamente e ciò comporta
un onere di informazione da parte del lavoratore che intenda contestare prima stragiudizialmente
e poi davanti al giudice il licenziamento. Non può invece essere ritenuta
valida una impugnazione indirizzata al precedente datore di lavoro esulando la fattispecie
dall'applicazione del principio della tutela dell'affidamento.
Il lavoratore di azienda con tutela obbligatoria licenziato illegittimamente ha diritto all’indennità sostitutiva del preavvi
Tempo determinato e clausola di non regresso
Con l'ordinanza n.252/2006 la Corte costituzionale ha sostanzialmente evitato di decidere la questionedella prospettata violazione della clausola di «non regresso
» di cui all'art. 8, n. 3, direttiva 1999/70 da parte del decreto n. 368/2001 sui contratti a
termine. La decisione della Corte merita un giudizio severo per l'incapacità di affrontare una
delle questioni cruciali nel retaggio normativo del governo Berlusconi. È utile rammentare
l'origine della vicenda: con ordinanza del Tribunale di Rossano Calabro (17 maggio
2004, N.U. c. Olearia Guinnicelli Srl), è stata rinviata alla Corte la questione di costituzionalità
degli artt. 10, commi 9 e 10 e 11, commi 1 e 2, del d.lgs. 368/01 per violazione dell'art.
76 Cost. (eccesso di delega) nella parte in cui non riconoscono direttamente il diritto
di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda, e con la medesima qualifica,
a favore dei lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa con contratto a termine, per
le ipotesi già previste dall'art. 23 della legge 56/87. E invero il combinato disposto degli
artt. 10 e 11 del d.lgs. 368 subordina il suddetto diritto alla condizione che sussista nel settore
un c.c.n.l. che rechi una esplicita clausola in tal senso. In precedenza, al contrario, il
diritto alla riassunzione era garantito in ogni caso per legge, ove il datore di lavoro, nell'anno
successivo, avesse effettuato un aumento di organico. In definitiva la nuova disciplina
del 2001 è peggiorativa rispetto alla vecchia, violando la clausola di «non regresso»
inserita nella direttiva 1999/70 (di cui il d.lgs. 368 costituisce normativa di recepimento)
secondo la quale l'attuazione della direttiva medesima non può costituire l'occasione per
peggiorare la disciplina nazionale sul lavoro a termine. Trasporre la direttiva 1999/70 implica
quindi la salvaguardia di tutte le maggiori tutele che ogni Stato membro aveva previsto
prima della direttiva medesima. Lo stesso legislatore italiano, del resto, nella legge
422/00 (art. 1, commi 1 e 3) aveva dato delega a trasporre la direttiva sul lavoro a termine
rispettandone integralmente il contenuto, ivi compreso dunque il rispetto della clausola
di «non regresso». Il giudice di Rossano Calabro, quindi, aveva sollevato un problema
di costituzionalità per eccesso di delega, sul presupposto che il legislatore delegato
non avesse rispettato i principi e i criteri direttivi posti dal legislatore delegante. L'ordinanza
di rimessione aveva quindi posto una questione delicatissima riguardante la portata
della clausola di «non regresso», rapportata alla nuova disciplina sul lavoro a termine.
In questo nitido quadro normativo la Corte costituzionale, con l'ordinanza 252/06, invece
di affrontare la questione sottopostale dal Tribunale di Rossano, ha restituito gli atti
al giudice calabrese «al precipuo fine di consentirgli la soluzione del problema interpretativo
alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte di giustizia» 22 novembre 2005,
causa C-144/04 (Mangold). A giudizio della Corte costituzionale la sentenza Mangold costituisce
una interpretazione del diritto comunitario alla luce della quale leggere le norme
del decreto 368/01 sul diritto di precedenza. Il passaggio fondamentale della testé citata
sentenza della Corte di giustizia (punto 52 della motivazione) riguarda la legittimità di interventi
normativi peggiorativi rispetto alla disciplina interna precedente, tali da non incidere
sul principio di «non regresso» stabilito dalla direttiva sui contratti a termine. Il giudice
comunitario, nel passaggio considerato, ha stabilito che la clausola di «non regresso
» di cui all'art. 8, n. 3, della direttiva 1999/70, consente agli Stati membri una diminuzione
della protezione offerta dalla legislazione nazionale (nella specie l'abbassamento
dell'età oltre la quale possono essere stipulati senza ragioni giustificative contratti di lavoro
a termine), a condizione però che tale revisione venga fatta al di fuori della trasposizione
della direttiva stessa e sia giustificata da un disegno riformatore motivato da nuove
e reali esigenze di interesse generale. Il d.lgs. 368/01, come più volte rilevato, è stato adottato
esclusivamente in via di recezione della direttiva 1999/70, sicché, seguendo il ragionamento
della Corte di Lussemburgo, appare evidente l'illegittimità delle modifiche
peggiorative attuate attraverso il decreto del 2001. A questo punto, visto che la Corte costituzionale
ha deciso di restituire gli atti al giudice di Rossano Calabro, quest'ultimo dovrà
riesaminare la questione scegliendo tra due alternative, di cui la seconda è una variante
della prima: interpretare il d.lgs. 368 alla luce della sentenza Mangold e, come tale,
considerarlo in contrasto con la direttiva 1999/70, rinviandolo, quindi, alla Corte costituzionale
per far dichiarare finalmente l'illegittimità delle norme impugnate per violazione
dell'art. 76 Cost. (eccesso di delega in relazione al mancato rispetto della clausola di
«non regresso»); formulare una domanda pregiudiziale alla Corte di giustizia per far dichiarare
la non conformità delle norme del decreto 368/01, con specifico riguardo al diritto
di riassunzione, rispetto alla direttiva 1999/70. Vista la «sensibilità » della Corte costituzionale
nell'affrontare la questione, sarebbe forse il caso di seguire la via di Lussemburgo:
una pronuncia della Corte di giustizia avrebbe l'effetto di imporre allo Stato italiano
il dovere di modificare il decreto 368/01 in armonia con la direttiva 1999/70. Tuttavia
il passaggio alla Corte costituzionale appare in ogni caso obbligato, se non altro per il fatto
che solo il giudice delle leggi può eliminare dal nostro ordinamento le norme del decreto
368/01 attraverso una pronuncia di incostituzionalità : il giudice di Rossano Calabro,
con tutta probabilità , interpreterà la sentenza Mangold nel modo più corretto (nel senso
cioè che il d.lgs. 368 è attuazione della direttiva 1999/70, e quindi non vi è alcuno spazio
per interpretarlo come fuori dalla portata della clausola di «non regresso», come interpretata
dalla Corte di Lussemburgo nell'autunno scorso). A quel punto, di fronte a una
precisa opzione interpretativa del giudice calabrese, la Corte costituzionale non dovrebbe
avere alcuna ragione sufficiente per non affrontare la questione e, si spera, potrà dichiarare
l'illegittimità del decreto 368/01 per violazione dell'art. 76 Cost.
Mobbing e legislazione regionale
Sono legittime le leggi delle Regioni Umbria e Friuli-Venezia Giulia aventi a oggetto la disciplina di alcuni aspetti del mobbing.Le Regioni, infatti, possono intervenire
per prevenire il fenomeno del «mobbing» e per sostenere coloro che sono stati
sottoposti alle vessazioni. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato non fondata le
questioni di legittimità promosse a seguito delle impugnazioni del Presidente del Consiglio
dei ministri nella parte in cui le leggi avrebbero leso la competenza legislativa esclusiva
dello Stato in materia di ordinamento civile e di organizzazione amministrativa
degli enti pubblici. Quanto alla legge del Lazio (n. 16 del 2002), già dichiarata incostituzionale
con sentenza n. 359/2003, la Corte ha spiegato come quella sia stata dichiarata
incostituzionale perché basata su un'autonoma definizione di mobbing. In quella normativa
venivano anche elencati i comportamenti in cui il fenomeno poteva concretizzarsi,
elementi che non spettava alla Regione formulare e che, inoltre, non erano in armonia
con atti comunitari. Al contrario, i contenuti delle leggi della Regione Umbria e della Regione
Friuli Venezia Giulia, rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing
con valenza generale, fanno riferimento alla normativa statale e pertanto non violano la
Costituzione (art. 117). Ciò non toglie che, se l'inesistenza di una definizione dovesse
condurre il legislatore territoriale a emanare atti amministrativi che esulano dalla propria
competenza o comunque contrastanti con i parametri costituzionali, l'ordinamento nazionale
dovrebbe azionare gli opportuni rimedi per reprimere tali ingerenze.
Pignorabilità delle pensioni dei giornalisti
Anche le pensioni dei giornalisti, erogate dall'Inpgi, possono essere pignorate,a condizione però che sia mantenuta quella parte del reddito necessaria a garantire
la sopravvivenza al pensionato. La Corte ha quindi accolto la questione sottoposta dal
Tribunale di Roma nella parte in cui la norma esclude la pignorabilità per ogni credito dell'intero
ammontare della pensione erogata dall'Inpgi «Giovanni Amendola». A giudizio
della Corte, come per altri trattamenti pensionistici la cui totale impignorabilità era già
stata dichiarata incostituzionale, la norma impugnata avrebbe dovuto prevedere l'impignorabilità ,
con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola quota
della pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di
vita e la pignorabilità nei limiti del quinto della residua parte.
Il licenziamento collettivo ben può essere limitato all'interno di un reparto aziendale ove sussistano obiettive esigenze
A seguito di un licenziamento collettivo intimato da una azienda ospedaliera un lavoratore adiva il Pretore di Romaallo scopo di vedere dichiarare l'illegittimità
del licenziamento sul rilievo che l'ambito del licenziamento non era stato effettuato considerando
i lavoratori addetti al complesso aziendale ma solo tra quelli addetti a un reparto
costituito un anno prima dell'intimazione dei licenziamenti. La domanda veniva respinta
sia in primo grado che in sede di appello. La Corte di Cassazione nel respingere il
ricorso del lavoratore ha affermato che le esigenze tecnico produttive e organizzative
possono oggettivamente investire solo una parte dell'azienda (unità , settore, reparto) e
giustificare l'applicazione dei criteri in tale più ristretto ambito qualora il progetto di ristrutturazione
aziendale si riferisca in un modo esclusivo a una unità produttiva o a uno
specifico settore dell'azienda. In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha precisato
che la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare ala mobilità
non deve interessare necessariamente l'intera azienda ma può essere effettuata
secondo una legittima scelta dell'imprenditore nell'ambito di una singola unità produttiva
ovvero del settore interessato alla ristrutturazione in quanto ciò non è il frutto di una
determinazione unilaterale del datore di lavoro ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze
organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale.
Compensazione e pignorabilità dei debiti del lavoratore
Sono legittime le norme del codice di procedura civile nella parte in cui non prevedono che la compensazione dei crediti del lavoratoreper stipendio, salario
o altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute
a causa di licenziamento, debba avvenire nei limiti della misura di un quinto anche nel
caso in cui il credito opposto in compensazione abbia origine dal medesimo rapporto di
lavoro o d'impiego. La Corte costituzionale ha cosà respinto la questione, che era stata
sollevata dal Tribunale di Palermo in relazione agli articoli 36 e 3 della Costituzione, sottolineando
che «l'istituto della compensazione presuppone l'autonomia dei rapporti cui
si riferiscono i contrapposti crediti delle parti». Autonomia che non sussiste qualora «i rispettivi
crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, nel qual caso la valutazione
delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare
e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza».
Indennità giudiziaria
Legittime le norme che escludono la corresponsione dell'indennità giudiziaria nei confronti dei magistrati in congedo straordinario per malattia.A sollevare
la questione era stato il Tar Puglia nella parte in cui la norma esclude la corresponsione
dell'indennità giudiziaria nei confronti dei magistrati durante il periodo di congedo
straordinario per malattia. La norma, infatti, almeno secondo il remittente, «contrasterebbe
con l'articolo 3 della Costituzione, perché determina un'ingiustificata disparità di trattamento
rispetto al personale delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie che invece gode
dell'indennità contemplata dalla disposizione impugnata anche nel periodo di assenza
per malattia di durata superiore a quindici giorni, perché irrazionalmente la norma stabilisce
l'integrale soppressione dell'indennità per il primo giorno di malattia (laddove le
altre componenti retributive, per quel giorno, vengono solamente decurtate parzialmente)
e perché la sospensione dell'erogazione dell'indennità è collegata a causa non imputabile
al magistrato». La Corte costituzionale ha ribadito l'impossibilità di istituire un utile
raffronto a causa della mancanza di omogeneità tra le due categorie di dipendenti e del
diverso meccanismo di determinazione dei rispettivi trattamenti retributivi (sentenza 15
del 1995; ordinanze 167 e 33 del 1996, 451 e 98 del 1995). Inoltre, hanno aggiunto i giudici
delle leggi, «le differenze di regime giuridico tra le due categorie di dipendenti statali si
sono accentuate a seguito della riforma del pubblico impiego, stante la diversità ormai riscontrabile
sul piano delle fonti della disciplina dei rispettivi rapporti di impiego».
Trattamento economico dipendenti Enti locali
La legge della Regione Sicilia che concorre a disciplinare il trattamento economico del personale degli enti localinon può violare il principio dell'utilizzazione
della contrattazione collettiva quale strumento per la disciplina dei rapporti d'impiego.
La Corte costituzionale ha quindi accolto la questione sollevata dal Tribunale di
Marsala nella parte in cui la normativa, intervenendo sul trattamento economico dei
dipendenti delle amministrazioni pubbliche, finiva per violare la «norma fondamentale
di riforma economico-sociale della Repubblica secondo la quale la contrattazione
collettiva costituisce metodo di disciplina del rapporto di pubblico impiego». La Corte,
nel dichiarare illegittima la norma impugnata, ha affermato che l'articolo 2, comma 1,
della legge 421/92, ha imposto al legislatore di prevedere, «salvi i limiti collegati al
perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche
amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti
delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, comma 1, e 26,
comma 1, della legge 93/1983, siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e siano
regolati mediante contratti individuali e collettivi». Ma non solo, ha anche imposto
al legislatore di «procedere all'abrogazione delle disposizioni che prevedono automatismi
che influenzano il trattamento economico fondamentale e accessorio, e di quelle
che prevedono trattamenti economici accessori, settoriali, comunque denominati, a
favore di pubblici dipendenti sostituendole contemporaneamente con corrispondenti
disposizioni di accordi contrattuali». Per cui, hanno concluso i giudici costituzionali,
dalla legge 421/92 «può trarsi il principio della regolazione mediante contratti collettivi
del trattamento economico dei dipendenti pubblici e, non a caso, anche il legislatore
delegato ha ribadito che quel trattamento è materia di contrattazione collettiva».
Insegnanti di religione cattolica
È legittima la norma che stabilisce che, tra gli insegnanti di religione cattolica, possono partecipare al concorsosolo quelli che, nell'ultimo decennio, hanno
prestato continuativamente servizio per quattro anni. Cosà la Corte costituzionale
ha dichiarato non fondata la questione di legittimità sollevata dal Tar Puglia nella parte
in cui la norma stabilisce che il primo concorso per l'accesso in ruolo degli insegnanti
di religione cattolica è riservato esclusivamente a coloro che hanno «prestato
continuativamente servizio per almeno quattro anni nel corso degli ultimi dieci anni».
Il giudice amministrativo dubitava, in particolare, della legittimità della disposizione
poiché richiedeva che il servizio di insegnamento fosse prestato in maniera continuativa
per un quadriennio negli ultimi dieci anni, piuttosto che ipotizzare un servizio di
durata quadriennale, comunque svolto nello stesso periodo. Un criterio irragionevole,
secondo il Tar, volto a restringere il numero di soggetti legittimati a partecipare al primo
concorso per l'accesso in ruolo. La Corte costituzionale ha affermato che, nel valutare
la legittimità della norma, occorre considerare il suo carattere eccezionale rispetto
al contesto normativo in cui è inserita. Quest'ultima, infatti, disciplina il primo inquadramento
in ruolo di una categoria di insegnanti che ha operato tradizionalmente
attraverso un incarico annuale e non in base a un concorso. Per cui, «solo in virtù di tale
carattere eccezionale, la norma in questione sfugge al dubbio di costituzionalità ,
che deriva dalla riserva di tutti i posti ai soli incaricati annuali che la stessa norma ammette
al concorso». Ad avviso della Corte, quindi, «i tre criteri prescelti nel caso in esame
(il quadriennio, l'ambito dell'ultimo decennio e la continuità ) sono tra di loro
congruenti e, nell'insieme, non palesemente irragionevoli».