4 / 2006
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Descrizione
Compensazione dei crediti e pignorabilità delle pensioni Inpgi in sede di costituzionalità Rimessa alle Sezioni Unite la questione della regolarizzazione previdenziale successiva a sentenza di reintegra La Cassazione afferma la capacità a testimoniare dei lavoratori in cause identiche non riunite
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Nel licenziamento per riduzione personale il datore deve provare di aver applicato i criteri di scelta comparando i lavoratori
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Nell'estate del 1994 la società  Adivar ha effettuato una riduzione del personale,applicando la procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991. Essa ha concordato con le organizzazioni sindacali, quali criteri di scelta per l'individuazione dei lavoratori da licenziare, il possesso dei requisiti per il pensionamento ovvero la minore permanenza in mobilità  ai fini dell'accesso al trattamento pensionistico. Uno dei licenziati, A.M., ha impugnato il licenziamento davanti al pretore di Roma sostenendo che l'azienda non aveva correttamente applicato i criteri di scelta, in quanto aveva mantenuto in servizio lavoratori più vicini di lui al pensionamento e indicando in particolare i nomi di due di costoro. L'azienda si è difesa sostenendo di avere correttamente applicato i criteri di scelta e dimostrando che i due lavoratori indicati da A.M. erano stati mantenuti in servizio perché più lontani di lui dal pensionamento. Il pretore ha rigettato la domanda. La Corte di Appello di Roma ha accolto l'impugnazione proposta dal lavoratore e ha dichiarato illegittimo il licenziamento, osservando che l'azienda non avrebbe dovuto limitarsi a comprovare l'esatta applicazione dei criteri di scelta con riferimento alle due persone mantenute in servizio indicate da A.M., ma avrebbe dovuto dimostrare ' e non l'aveva fatto ' che tutti i lavoratori mantenuti in servizio erano stati correttamente esclusi, in base a tali criteri, dal licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la Corte di Appello di Roma, tra l'altro, per avere pronunciato «ultra petita», in quanto avrebbe dovuto limitarsi a esaminare la posizione delle due persone rimaste in servizio indicate dal lavoratore licenziato e non avrebbe dovuto addossarle l'onere di provare la correttezza delle scelte con riferimento a tutto il personale. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 8307 del 10 aprile 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. Il vizio di ultra ed extra petizione ' ha affermato la Corte ' ricorre soltanto allorquando il giudice pronunzia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti ovvero su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell'esercizio della sua potestas decidendi, resta libero non solo di individuare l'esatta natura dell'azione e di porre a base della pronunzia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all'uopo prospettate, ma di rilevare altresà, indipendentemente dall'iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l'efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge. Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' il giudice d'appello ' a seguito di una corretta valutazione delle risultanze istruttorie e sulla base dei fatti ritualmente accertati ' facendo una puntuale applicazione della normativa giuridica riguardante la legge n. 223 del 1991 e dei principi codicistici sull'onere della prova, ha nel rispetto della causa petendi e del petitum deciso la controversia sottoposta al suo esame, con una motivazione, che per presentarsi congrua, priva di salti logici e rispettosa della normativa in materia, si sottrae a ogni censura in sede di legittimità .
Nel pubblico impiego le controversie sui concorsi interni per stessa area rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario
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Nel marzo del 2001 il Ministero dell'Interno ha indetto un bando di concorso per la partecipazione a un corso di riqualificazioneper l'attribuzione di 241 posti nella posizione economica C/3 (direttore amministrativo contabile); il concorso era riservato ai dipendenti con inquadramento in C/1 e C/2 della stessa area. Alcuni impiegati inquadrati in C/1 e C/2, essendo stati esclusi dal concorso, si sono rivolti al Tribunale di Roma chiedendo il riconoscimento del loro diritto alla partecipazione. Nella controversia che ne è seguita, dopo l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti al concorso, alcuni di questi hanno proposto regolamento preventivo di giurisdizione innanzi alle Sezioni Unite della Cassazione, sostenendo che la controversia doveva essere attribuita al giudice amministrativo. Le Sezioni Unite Civili della Suprema Corte (ordinanza n. 10419 dell'8 maggio 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Picone) hanno ritenuto priva di fondamento la tesi sostenuta dai ricorrenti e hanno dichiarato la giurisdizione dell'autorità  giudiziaria ordinaria sulla controversia. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui l'art. 63, comma 4, d.lgs. 165/2001, si interpreta nel senso che, per «procedure concorsuali di assunzione », ascritte al diritto pubblico e all'attività  autoritativa dell'amministrazione, si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione ex novo dei rapporti di lavoro (essendo tali tutte le procedure aperte a candidati esterni, ancorché vi partecipino soggetti già  dipendenti pubblici), ma anche i procedimenti concorsuali «interni», destinati, cioè, a consentire l'inquadramento dei dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, profilandosi in tal caso una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro. Le progressioni, invece, all'interno di ciascuna area professionale o categoria, sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive, sia con il conferimento di qualifiche (livello funzionale di inquadramento connotato da un complesso di mansioni e di responsabilità ) superiori (art. 52 comma 1, d.lgs. 165/2001) ' ha ricordato la Corte ' sono affidate a procedure, poste in essere dall'amministrazione con la capacità  e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2, d.lgs. 165/2001); tale differente disciplina tra i passaggi interni alle aree professionali rispetto a quelli esterni appare confermata dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria per il 2006), nel suo riferimento «agli importi relativi alle spese per le progressioni all'interno di ciascuna area professionale o categoria» e alla diversa nozione di «passaggio di area o di categoria» (art. 1, comma 193). È evidente che, alla stregua dell'interpretazione enunciata ' ha affermato la Corte ' assume rilevanza determinante ai fini dell'indicato criterio di ripartizione della giurisdizione ' e, correlativamente, dell'ambito di applicazione del termine «assunzione» ' il contenuto della contrattazione collettiva, ma è, questo, un effetto derivante dal sistema legislativo di regolamentazione delle fonti di disciplina del lavoro pubblico «contrattuale». Nella fattispecie ' ha osservato la Corte ' viene in rilievo il contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto ministeri per il quadriennio 1998/2001 e biennio economico 1998/1999, stipulato in data 16 febbraio 1999 (le cui clausole sono conosciute direttamente dalla Cassazione, ai sensi dell'art. 63, comma 5, d.lgs. 165/2001). Con questo contratto è stato introdotto un nuovo sistema di classificazione del personale, accorpando le nove qualifiche funzionali di cui alla legge 312/1980 in tre aree di inquadramento, secondo la corrispondenza prevista dall'art. 13 (e, per il personale già  in servizio, secondo la tabella di cui all'allegato B: art. 16). Lo stesso articolo 13, poi, al comma 3, stabilisce che, all'interno della stessa area, i profili caratterizzati da mansioni e funzioni contraddistinte da «differenti gradi di complessità  e di contenuto» possono essere collocati su posizioni economiche diverse. E infatti, ciascuna area comprende posizioni economiche differenziate (C/1, C/2 e C/3) che, in realtà , costituiscono altrettante qualifiche, come conferma il comma 4 dello stesso articolo: ogni dipendente è inquadrato, in base alla ex qualifica e profilo professionale di appartenenza, nell'area e nella posizione economica ove questa è confluita e è tenuto a svolgere, come previsto dall'art. 56 del d.lgs. 29/1993, tutte le mansioni considerate equivalenti nel livello economico di appartenenza, nonché le attività  strumentali e complementari a quelle inerenti lo specifico profilo attribuito. Il concorso, oggetto della controversia promossa dinanzi al Tribunale di Roma ' ha osservato la Corte ' è stato bandito con determinazione 30 marzo 2001, pubblicata il 18 aprile 2001, per l'accesso alla posizione economica C/3 del personale appartenente alle posizioni economiche C/1 e C/2; trattandosi di progressione, sia pure per l'accesso a una qualifica superiore, interna all'area professionale C, il procedimento concorsuale va qualificato senz'altro di diritto privato ed estraneo alle procedure di assunzione di cui all'art. 63, comma 4, d.lgs. 165/2001 (in termini, Cass. Ss. Uu. 14259/2005 e 9164/2006) mentre, in considerazione dell'epoca degli accadimenti che hanno originato la controversia, la giurisdizione ordinaria va affermata ai sensi della norma transitoria dettata dall'art. 69, settimo comma, dello stesso decreto.
Nella valutare la legittimità del mutamento di mansioni si deve applicare una nozione dinamica dell'equivalenza professionale
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E. C., dipendente della Spa Banca Regionale Europea, dopo avere svolto, presso la sede centrale, vari incarichi,tra cui quello di capo dell'Ufficio segreteria Fidi e dell'Ufficio Rischi, ha esercitato, presso una filiale della sede di Cuneo, le funzioni di direttore, in sostituzione del titolare. Egli è stato poi trasferito, nel dicembre del 1998, a Torino in qualità  di terzo funzionario assegnato all'area Piemonte, con l'incarico di occuparsi delle operazioni di fido eccedenti l'importo unitario di quattro miliardi di lire. Egli si è rivolto al giudice del lavoro di Cuneo, sostenendo di avere subito una dequalificazione con l'assegnazione di mansioni inferiori a quelle di direttore di filiale, e chiedendo il riconoscimento del diritto all'inquadramento di funzionario di I livello, a titolo di risarcimento del danno specifico (mediante «ricostruzione della carriera»). Sia il Tribunale di Cuneo che la Corte d'Appello di Torino hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. In particolare, la Corte di Torino, ha rilevato che le mansioni affidate nel dicembre del 1998 al lavoratore erano aderenti alla sua professionalità , essendosi egli già  in precedenza occupato di fidi e che esse comportavano una responsabilità  certamente maggiore rispetto al passato, trattandosi di affidamenti eccedenti i quattro miliardi di lire. E.C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione dell'art. 2103 cod. civ. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10091 del 2 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso. Le regole elaborate dalla giurisprudenza di cassazione in tema di legittimo esercizio dello ius variandi del datore di lavoro ' ha osservato la Corte ' sono intese a configurare una nozione «dinamica» di equivalenza professionale, basata sulla conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima e dopo il mutamento di mansioni; costituisce, invero, principio ormai acquisito che possano legittimamente assegnarsi al dipendente, a parità  d'inquadramento, mansioni anche del tutto nuove e diverse, purché affini alle precedenti dal punto di vista del contenuto professionale. L'esistenza, per cosà dire, di un «minimo comune denominatore » di conoscenze teoriche e capacità  pratiche ' ha aggiunto la Corte ' è condizione necessaria e sufficiente a consentire che il dipendente sia in grado di svolgere le nuove mansioni con la preparazione posseduta; anzi, il fatto di mutare ramo di attività , operando in settori diversi della medesima area professionale, permette finanche al lavoratore d'incrementare e arricchire il bagaglio di nozioni sviluppato nella fase pregressa del rapporto. In quest'ottica, senz'alcun dubbio quella che meglio risponde alle attuali caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro ' ha osservato la Cassazione ' la professionalità  non rileva, dunque, come un'entità  statica e assoluta, sganciata dalla realtà  aziendale, bensà come patrimonio di conoscenze potenzialmente polivalente, capacità  di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l'esperienza e le cognizioni sino a quel momento acquisite.
Per la tempestività dell'impugnativa non basta la richiesta di conciliazione serve la comunicazione all'azienda
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Alfredo A. dipendente del Banco di Napoli, è stato licenziato per ragioni disciplinaricon lettera pervenutagli il 19 novembre 2001. L'11 gennaio 2002 egli ha depositato presso la Commissione di conciliazione di Salerno la richiesta di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall'art. 410 cod. proc. civ, senza inviarne copia all'azienda. La Commissione, con comunicazione pervenuta il 1 febbraio 2002, ha convocato le parti per il 14 febbraio 2002 per l'esperimento del tentativo. L'azienda non si è presentata. Nel marzo del 2002 il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Salerno, chiedendone l'annullamento. Il Tribunale ha dichiarato la domanda inammissibile, rilevando che l'impugnazione in forma scritta del licenziamento non era stata comunicata al datore di lavoro nel termine di 60 giorni previsto dall'art. 6 della legge n. 604 del 1966. La decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Salerno. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione sostenendo il licenziamento era stato tempestivamente impugnato mediante il deposito presso la Commissione di conciliazione della richiesta di esperimento del tentativo di conciliazione previsto dall'art. 410 cod. proc. civ. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11116 del 15 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. D'Agostino) ha rigettato il ricorso. L'atto di impugnazione del licenziamento ' ha osservato la Cassazione ' ha natura di negozio giuridico unilaterale recettizio, ex art. 1335 cod. civ., che deve giungere a conoscenza del datore di lavoro per produrre i suoi effetti; la comunicazione all'azienda, da parte dell'Ufficio provinciale del lavoro, della richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, impedisce la decadenza di cui all'art. 6 delle legge n. 604/1966 soltanto se avvenuta nel termine di 60 giorni previsto da questa norma. Nella specie ' ha rilevato la Corte ' la comunicazione della convocazione delle parti è pervenuta al Banco di Napoli ben oltre il termine di decadenza del 18 gennaio 2002; non può neppure applicarsi il disposto del secondo comma dell'art. 410 cod. proc. civ., il quale dispone che «la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza». La mera presentazione della richiesta, in assenza della sua comunicazione ' ha affermato la Corte ' non può avere gli effetti interruttivi della prescrizione e sospensivi della decadenza, indicati nella norma, poiché quest'ultima riconnette esplicitamente tali effetti alla «comunicazione» dell'atto alla controparte e non già  alla sua «presentazione» alla Commissione di conciliazione. Questa interpretazione trova conferma nella formulazione del successivo art. 410-bis cod. proc. civ., il quale al primo comma dispone che «il tentativo di conciliazione [â?¦] deve essere espletato entro sessanta giorni dalla presentazione della richiesta». L'espressione «presentare la richiesta » fa riferimento all'attività  di sottoposizione della domanda all'organo investito del dovere di provvedere in merito; essa non può essere estesa fino a coprire anche un'attività  rivolta alla controparte del rapporto, alla quale la domanda conciliativa va «comunicata» e non «presentata». Il legislatore, dunque, ha tenuto ben presente la distinzione tra «comunicazione» e «presentazione» dell'atto, ricollegando a ciascun adempimento ben precisi effetti sul piano processuale e sostanziale; in particolare gli effetti interruttivi della prescrizione e sospensivi della decadenza sono stati ricondotti alla comunicazione della richiesta alla controparte, anziché alla mera presentazione. Da quanto sopra ' ha precisato la Corte ' consegue che il lavoratore che abbia interesse a ottenere una pronta efficacia sospensiva dei termini di decadenza dalla sua richiesta del tentativo di conciliazione, ha l'onere di provvedere a notificare tale richiesta al datore di lavoro, senza attendere la comunicazione dell'ufficio; ciò non significa gravare il lavoratore di un'attività  non prescritta dalla legge, trattandosi di attività  che il lavoratore ha l'onere di porre in essere al fine di conseguire tempestivamente gli effetti favorevoli previsti dalla norma e che è libero di non effettuare se non interessato a tanto.
Nella scuola pubblica i docenti non hanno l'obbligo di marcare il cartellino, basta il registro
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Il Preside dell'Istituto tecnico commerciale e per geometri «Enrico Fermi» di Isernia ha ordinato ai docenti di marcare l'orario di entrata e di uscita con il cartellino magnetico.Il docente di ruolo D.P. non si è attenuto alla disposizione, sostenendone l'illegittimità . Il Provveditore agli Studi di Isernia gli ha inflitto, nel dicembre del 1998, la sanzione disciplinare della censura per non aver eseguito l'ordine del Preside. D.P. ha chiesto al pretore di Isernia di annullare la sanzione sostenendo che al preside non era consentito imporre al personale docente l'obbligo di marcare la presenza mediante il cartellino magnetico, in quanto gli strumenti da applicare per il controllo delle presenze erano il registro di classe e il giornale del professore. Sia il pretore di Isernia che la Corte d'Appello di Campobasso hanno ritenuto infondata la domanda. D.P. ha proposto ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d'Appello, censurandola per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11025 del 12 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso. Per i dipendenti pubblici ' ha affermato la Corte ' l'obbligo di adempiere alle formalità  prescritte per il controllo dell'orario di lavoro deve discendere da apposita fonte normativa legale o contrattuale; la giurisprudenza amministrativa è univoca nell'affermare l'esigenza di una fonte normativa specifica per la facoltà  di sottoporre il personale dipendente al controllo delle presenze mediante orologi marcatempo o altri sistemi di registrazione. Nel settore scolastico ' ha precisato la Corte ' l'art. 396 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297 (Testo unico sulla scuola) affida al preside compiti di promozione e coordinamento, nell'ambito delle norme dello stesso t.u. e del contratto collettivo; quest'ultimo prevede (ad es. art. 6 c.c.n.l. 24 luglio 2003) come materia di informazione preventiva i criteri e le modalità  relativi alla organizzazione del lavoro e all'articolazione dell'orario del personale docente, educativo e Ata; l'art. 89 del medesimo contratto prevede l'obbligo per il personale Ata di adempiere alle formalità  previste per la rilevazione delle presenze, mentre analogo obbligo non è previsto per il personale docente.
Il licenziamento per soppressione di posto di lavoro è illegittimo se l'azienda assume lavoratori con mansioni equivalenti
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G. M. dipendente della Spa Energizer Italia, con qualifica di impiegato di primo livello,addetto al settore commerciale come «Assistant area manager», essendo stato licenziato per riduzione di personale, ha ottenuto dal Tribunale di Milano la dichiarazione di illegittimità  del licenziamento con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, per mancato rispetto, da parte dell'azienda, della procedura prevista dalla legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi. Richiamato in servizio, egli è stato nuovamente licenziato con motivazione riferita alla soppressione, nell'ambito di una riorganizzazione aziendale, delle mansioni di «assistant area manager». Il lavoratore ha impugnato davanti al Tribunale di Milano, anche il secondo licenziamento, chiedendone l'annullamento e rilevando, tra l'altro, che l'azienda aveva assunto nuovi dipendenti con qualifica di primo livello. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la sua decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Milano che ha dichiarato illegittimo il licenziamento, condannando la società  a reintegrare il lavoratore in mansioni equivalenti a quelle già  svolte, nonché al risarcimento del danno. La Corte di Milano ha rilevato che l'azienda aveva ammesso di avere operato nuove assunzioni di personale con mansioni di primo livello senza indicare i motivi specifici con i quali non aveva ritenuto di assegnarle a G.M. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11029 del 12 maggio 2006, Pres. Mattone, Rel. Di Cerbo) ha rigettato il ricorso richiamando la sua giurisprudenza secondo cui, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l'onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità  raggiunta dal lavoratore medesimo, e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato. Nella specie ' ha osservato la Cassazione ' deve ritenersi che la Corte di merito abbia correttamente applicato questi principi atteso che, da un lato, ha correttamente osservato che l'impossibilità  di reimpiegare il lavoratore in mansioni equivalenti doveva essere valutata con riferimento alla situazione esistente al momento dell'intimazione del secondo licenziamento e, dall'altro, ha logicamente argomentato sottolineando che, avendo la società  ammesso di aver assunto nuovi dipendenti inquadrati nello stesso livello del lavoratore licenziato (primo livello) e inseriti nello stesso settore commerciale, incombeva sulla stessa l'onere di provare le ragioni per cui non era possibile adibire G.M. alle mansioni assegnate a uno di questi due nuovi assunti, e cioè la non equivalenza di queste nuove mansioni rispetto a quelle in precedenza svolte da G.M.
La sostituzione di lavoratori assenti per sciopero non può essere attuata con strumenti contrattuali impropri
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In occasione di uno sciopero svoltosi nell'aprile del 2001 la Spa Supermercati PAM di Grossetoha fatto fronte all'assenza dei dipendenti astenutisi dal lavoro ricorrendo a prestazioni supplementari di lavoratori studenti in regime di contratto a tempo determinato e parziale. La Fisascat Cisl ha promosso davanti al Tribunale di Grosseto un procedimento in base all'art. 28 Stat. lav. chiedendo l'accertamento del comportamento antisindacale dell'azienda e i conseguenti provvedimenti. Il Tribunale ha accolto la domanda nella fase cautelare e ha confermato la sua decisione nel giudizio di merito. L'azienda ha proposto appello sostenendo che essa aveva diritto di limitare le conseguenze negative dello sciopero. La Corte di Appello di Firenze ha rigettato l'impugnazione osservando che il diritto di limitare le conseguenze relative a uno sciopero deve essere esercitato dal datore di lavoro nel rispetto delle norme di comportamento che regolano il conflitto fra le parti sociali e pertanto avvalendosi solo delle possibilità  consentite dalla legge. In proposito la Corte ha rilevato che in base a un accordo aziendale l'assunzione di studenti con contratti a tempo determinato era consentita in caso di apertura domenicale dell'esercizio e che l'art. 3 del decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61 consentiva la prestazione di lavoro supplementare solo da parte di lavoratori assunti a tempo indeterminato. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la motivazione della Corte di Appello di Firenze per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 10624 del 9 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Cuoco) ha rigettato il ricorso. La legittima antitesi fra lavoratori e datori di lavoro in caso di sciopero ' ha affermato la Corte ' esige che le parti si avvalgano degli strumenti e delle possibilità  offerte dall'ordinamento. Per quanto attiene al datore di lavoro l'illegittimità  dello strumento utilizzato per contrastare lo sciopero pone l'attività  aziendale in uno spazio estraneo all'art. 41 Cost. che tutela l'iniziativa privata. Il contingente affidamento delle mansioni svolte da lavoratori in sciopero a dipendenti non in sciopero, da ritenersi consentito in base all'art. 2103 cod. civ. ' ha osservato la Corte ' diventa tuttavia illegittimo ove sia in violazione di legge o di norme collettive. Questa violazione non si esaurisce in se stessa: non è un fatto neutro nei confronti dello sciopero; essendo effettuata al fine di continuare l'attività  aziendale nel corso dello sciopero, diventa oggettivamente un'illegittima antitesi allo sciopero. Limiti normativi, che il datore incontra nell'esercizio del diritto di continuare a svolgere la propria attività  aziendale ' ha affermato la Corte ' sono, oltre alle disposizioni di legge, anche le prescrizioni fissate dalle norme collettive; e in particolare quelle che egli stesso ha stipulato. Tale è l'accordo aziendale con cui si è convenuta la possibilità  di stipulare contratti a termine con lavoratori a tempo indeterminato dipendenti da altro datore, per lo svolgimento di prestazioni part-time nei giorni di sabato e domenica (c.d. contratti week-end). L'Accordo costituisce fra le parti una regola: l'assunzione è prevista per un particolare oggetto (prestazione nei giorni di domenica e di sabato) e per una specifica finalità  (estendere in questi giorni l'apertura dell'esercizio, precedentemente non consentita). In questa ipotesi, poiché la possibilità  (prevista dalla norma collettiva) è limitata a un contratto per prestazioni lavorative nei giorni di sabato e domenica, con l'estensione della prestazione ad altro giorno e per altra causa il contratto (individuale) assume non solo un oggetto diverso (prestazione in altro giorno della settimana), bensà uno scopo diverso da quello normativamente pattuito (non il consentire l'attività  aziendale a fine settimana, bensà il sostituire lavoratori in sciopero). E in tal modo ' ha affermato la Corte ' diventa, con la violazione della regola costituita dalle parti, illegittimo contrasto dello sciopero; è limite dell'attività  aziendale anche la norma (art. 3 comma 13 del decreto legislativo 25 febbraio 2000 n. 61: «attuazione della Direttiva 97/81 CE relativa all'Accordo ' quadro sul lavoro a tempo parziale»), per cui «l'effettuazione di prestazioni lavorative supplementari o straordinarie è ammessa esclusivamente quando il contratto di lavoro a tempo parziale sia stipulato a tempo indeterminato » (ad eccezione di lavoratori a tempo determinato chiamati in specifiche situazioni, pacificamente estranee a quanto dedotto in controversia). Anche in questa ipotesi, lo svolgimento di lavoro supplementare da parte di lavoratori part-time a tempo determinato, disposto al fine di sostituire lavoratori in sciopero, diventa illegittimo contrasto dello sciopero.
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno per il contenuto di comunicazioni aziendali lesive della sua personalità
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M. M., dipendente della Srl Euganea Vasi è stato richiesto dall'azienda di lavorare anche nelle giornate di sabato.Egli ha rifiutato facendo presente che si trattava di una prestazione supplementare, in aggiunta al normale orario di lavoro di 40 ore settimanali e che pertanto egli non era tenuto a svolgerla in assenza di un accordo in tal senso tra l'azienda e le rappresentanze dei lavoratori. Egli ha anche invitato l'azienda a rispettare la normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro. L'azienda gli ha applicato per tre volte consecutive la sanzione disciplinare della sospensione e successivamente, poiché il lavoratore non ha desistito dal suo rifiuto, lo ha licenziato. Nel periodo precedente al licenziamento la datrice di lavoro ha affisso nella bacheca aziendale comunicati nei quali si ridicolizzavano le richieste avanzate da M.M. e dal suo collega M.S. in materia di orario di lavoro e di igiene e sicurezza, qualificandole come «minatorie» e invitandoli «ad andare al mare o in montagna in quanto il lavoro non faceva per loro». Successivamente l'azienda ha dato notizia ai dipendenti del licenziamento di M.M., evidenziando che egli «ormai da troppo tempo non si adeguava all'orario aziendale, 48 ore settimanali ogni tre settimane» e prospettando anche l'ipotesi che egli avesse un altro lavoro. M.M. ha chiesto al Tribunale di Venezia di annullare il licenziamento, di ordinare all'azienda la sua reintegrazione nel posto di lavoro, nonché il pagamento delle retribuzioni maturate dalla risoluzione del rapporto sino all'effettiva riassunzione e di condannarla inoltre al risarcimento del danno per il comportamento ingiurioso tenuto nei suoi confronti. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro con il pagamento della retribuzione maturata, rilevando che il contratto collettivo di categoria prevedeva la possibilità  di lavoro supplementare solo in via eccezionale e previo accordo tra la direzione aziendale e la rappresentanza sindacale. Il Tribunale ha inoltre condannato la datrice di lavoro al risarcimento del danno per comportamento ingiurioso. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Venezia. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Venezia per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11432 del 16 maggio 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli) ha rigettato il ricorso perché ha ritenuto che la Corte di Venezia abbia correttamente motivato la sua decisione. Per quanto concerne la ritenuta portata ingiuriosa del licenziamento la Suprema Corte ha affermato che il giudice d'appello aveva esattamente ritenuto che nelle comunicazioni aziendali si dipingeva sostanzialmente Mario M. come persona contraria all'azienda e scorretta, con conseguente lesione della reputazione del lavoratore.
In caso di riduzione di personale deve ritenersi nullo un accordo sindacale che individui direttamente i lavoratori licenziabili
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Nel 1991 la Srl S.T. Microelectronics ha collocato in cassa integrazione 52 dipendenti per crisi aziendale.Dopo alcune proroghe di tale trattamento, l'azienda ha avviato, nel 1996 una procedura in base alla legge n. 223/91, per il licenziamento collettivo di 52 lavoratori. Nell'ambito di questa procedura essa ha raggiunto con le organizzazioni sindacali un accordo che, con riferimento alle esigenze tecnico-produttive dell'azienda, stabiliva, come criterio di scelta del personale da licenziare, la precedente collocazione in cassa integrazione. L'azienda ha quindi licenziato i 52 già  collocati in Cigs. G.M., licenziato il 20 dicembre 1996, ha impugnato il licenziamento davanti al giudice del lavoro di Catania, chiedendo di essere reintegrato nel posto di lavoro. L'azienda si è difesa sostenendo la legittimità  del criterio di scelta concordato con il sindacato e facendo presente che il lavoratore non era in possesso della qualificazione professionale necessaria per le nuove mansioni richieste dalle trasformazioni verificatesi nella struttura aziendale. Il giudice di primo grado ha accolto la domanda del lavoratore, annullando il licenziamento e ordinando la sua reintegrazione. Questa decisione è stata confermata dalla Corte di Appello di Catania con sentenza pronunciata nel novembre 1992. I criteri di scelta stabiliti con l'accordo tra l'azienda e le organizzazioni sindacali ' ha osservato la Corte ' nel fare riferimento alle esigenze tecniche e produttive, solo apparentemente avevano carattere di generalità  e astrattezza, necessario per garantire un equo procedimento di selezione dei lavoratori da collocare in mobilità , atteso che in realtà  portavano a una identificazione immediata dei lavoratori in questione, individuati in quelli già  posti in cassa integrazione guadagni straordinaria. Si trattava quindi di un criterio illegittimo in quanto non identificava una regola astratta di selezione ma individuava aprioristicamente i soggetti interessati. Ciò costituiva anche violazione dell'art. 4, comma 9, e dell'art. 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991 a norma dei quali attraverso l'accordo collettivo le parti devono individuare un criterio di selezione dei lavoratori da licenziare e non operare direttamente una scelta degli stessi. Sotto altro profilo la Corte di Catania riteneva che l'esigenza tenico-produttiva allegata a sostegno del licenziamento ' e cioè quella secondo cui le mansioni alle quali il lavoratore era stato precedentemente addetto erano state soppresse mentre le nuove mansioni imposte dalle trasformazioni subite dalla struttura aziendale richiedevano professionalità  e competenze diverse da quelle in possesso del suddetto lavoratore ' fosse inidonea a legittimare il licenziamento, atteso che era stato lo stesso datore di lavoro a impedire, con l'estromissione del dipendente dal ciclo produttivo, la possibilità  per lo stesso di riqualificarsi in relazione all'evoluzione imposta dal progresso tecnologico. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Catania per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11101 del 15 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Di Cerbo) ha rigettato il ricorso. La procedura di cui agli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991 ' ha affermato la Corte ' è finalizzata alla tutela non solo di interessi delle organizzazioni sindacali, ma anche dell'interesse pubblico, correlata all'occupazione in generale e ai costi della mobilità  e dell'interesse dei lavoratori alla conservazione del posto di lavoro e, in particolare, alla verifica dei criteri di scelta sotto il profilo del loro carattere di generalità , obiettività  e coerenza con il fine dell'istituto della mobilità , sicché è da escludere che l'accordo tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali faccia perdere rilevanza al radicale stravolgimento della procedura medesima. In secondo luogo ' ha aggiunto la Corte ' deve essere considerato nullo, per contrasto con norma imperativa (art. 5 della legge n. 223 del 1991) un accordo, come quello di cui si discute, che (di fatto) individui direttamente lavoratori da licenziare anziché dettare effettivi criteri di scelta.
Il demansionamento del lavoratore può giustificare la sua decisione di astenersi dalla presenza nel luogo di lavoro
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Anche questa sentenza è già  stata segnalata sinteticamente(in q. Riv., n. 3/2006, p. 8, nella rubrica «Corte di Cassazione»). La fattispecie è però di particolare interesse. A.L., dopo aver lavorato come impiegato di V livello in alcune società  del gruppo Ilva, con mansioni attinenti alla contabilità , ha subito, nel 1996, mentre era dipendente della Spa Sidecar servizi accessori, un totale demansionamento rimanendo privo di qualsiasi incarico. Dopo aver ottenuto dal pretore di Genova l'accertamento della dequalificazione subita, il lavoratore ha accettato di passare, nel dicembre 1998, alle dipendenze della società  capogruppo Ilva Spa, con la stessa qualifica, essendogli stata assicurata l'assegnazione di un adeguato incarico. Egli invece dapprima è stato collocato in cassa integrazione, sino al 23 aprile 1999, e successivamente, quando è tornato in azienda è stato tenuto a disposizione, senza alcun incarico, in una situazione di totale inattività . Con lettera del 13 maggio 1999 A.L. ha invitato l'Ilva Spa ad attribuirgli un lavoro «confacente alla sua professionalità  e alle sue mansioni», precisando che, in difetto, a partire del 24 maggio 1999 non si sarebbe più presentato sul posto di lavoro. Poiché l'azienda non ha aderito all'invito rivoltole, A.L., a far tempo dal 24 maggio si è assentato, confermando peraltro di essere disponibile a svolgere i compiti che gli spettavano. L'Ilva Spa, dopo avergli applicato per due volte la sanzione disciplinare della sospensione, nel giugno del 1999 lo ha licenziato con l'addebito di assenza ingiustificata. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Genova sostenendo che l'azienda si era resa inadempiente all'obbligo, derivante dall'art. 2103 cod. civ., di farlo lavorare e che pertanto la sua reazione doveva ritenersi giustificata. L'azienda si è difesa affermando, tra l'altro, che se il lavoratore non si fosse assentato egli avrebbe potuto essere impiegato nel neo-costituito reparto marketing e statistiche. Il Tribunale ha rigettato la domanda perché ha ritenuto che la durata del demansionamento (circa un mese) non fosse sufficiente a giustificare la reazione del lavoratore. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Genova che, dopo aver svolto un supplemento di istruttoria, sentendo alcuni testimoni, ha annullato il licenziamento in quanto ha ritenuto applicabile l'art. 1460 cod. civ., secondo cui, nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria. La Corte ha anche affermato che in ogni caso l'assenza del dipendente doveva considerarsi di «scarsa importanza», perché egli non era stato chiamato a svolgere alcuna attività ; il licenziamento doveva quindi considerarsi illegittimo anche per la mancanza di una grave inadempienza. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11430 del 16 maggio 2006, Pres. Mileo, Rel. Amoroso) ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui il comportamento del datore di lavoro, che lascia in condizioni di inattività  il dipendente non solo viola la norma di cui all'art. 2103 cod. civ., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità  di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità  del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento ' ha affermato la Corte ' comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità  professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità  e le proprie capacità  nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore). La Corte d'Appello ' ha affermato la Cassazione ' ha fatto applicazione dell'art. 1460 cod. civ. ritenendo quindi legittimo il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione in ragione dell'inadempimento della datrice di lavoro che continuava a non assegnargli mansioni corrispondenti alla qualifica e professionalità  raggiunte; in proposito deve rilevarsi che il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere a una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità  rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è apposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, 2° comma, cod. civ. La Corte d'Appello ' ha rilevato la Cassazione ' ha fatto questa valutazione e, con un tipico giudizio di merito non censurabile in sede di legittimità  perché assistito da motivazione sufficiente e non contraddittoria, ha escluso che il rifiuto della prestazione lavorativa potesse considerarsi contrario alla buona fede; anzi la Corte d'Appello, svolgendo un supplemento di istruttoria probatoria, ha anche valutato il periodo successivo al maggio-giugno del 1999 pervenendo al convincimento che neppure in prospettiva vi era un'apprezzabile possibilità  che a Andrea L. sarebbero state assegnate mansioni confacenti alla sua qualifica. Inoltre ' ha osservato la Suprema Corte ' la sentenza della Corte d'Appello non si è limitata a ritenere applicabile l'eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.) con la conseguenza che, essendo giustificato il rifiuto del lavoratore di presentarsi al lavoro, il licenziamento intimato a seguito della (preannunciata) assenza del dipendente dal posto di lavoro è ex se illegittimo per difetto di giusta causa; essa ha infatti ritenuto illegittimo il licenziamento sotto un ulteriore e diverso profilo, quello dell'art. 1455 cod. civ. La Corte d'Appello ha infatti ritenuto che l'assenza del dipendente, inquadrata nella situazione descritta, fosse da considerarsi di «scarsa importanza» perché comunque nessuna attività  era chiamato a svolgere A.L. né dalla società  è stata prospettata alcuna mansione che in concreto A.L. potesse essere chiamato a svolgere. Per ritenere la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento ' ha affermato la Cassazione ' è necessario che l'inadempienza contestata al lavoratore sia grave; pertanto, avendo la Corte territoriale valutato quest'ultima, in concreto, come «di scarsa importanza», conseguiva la mancanza della giusta causa e del giustificato motivo. Si tratta ' ha concluso la Suprema Corte ' di una motivazione alternativa, posta parimenti a sostegno della conclusione di ritenere illegittimo il licenziamento, e che esprime anch'essa una valutazione di merito sufficientemente e non contraddittoriamente motivata e pertanto non censurabile in cassazione.
Il rifiuto della prestazione lavorativa per pericolosità dell'ambiente di lavoro deve ritenersi legittimo
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F. A. e J. B., dipendenti della Spa Laterizi Arbia come operai addetti alla cromatura,nel settembre del 1997 hanno rifiutato di continuare a lavorare nel locale «galvanica », per la pericolosità  dell'ambiente ove erano presenti gas e vapori tossici. L'azienda, previo procedimento disciplinare, li ha licenziati, ma, dopo aver ricevuto le lettere di impugnazione dei licenziamenti, li ha richiamati in servizio. I lavoratori non hanno aderito all'invito e si sono rivolti al Tribunale di Siena, chiedendo l'annullamento del licenziamento. Il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica, ha accolto la domanda, ordinando la reintegrazione dei lavoratori e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte d'Appello di Firenze ha confermato la decisione di primo grado, rilevando che il rifiuto dei lavoratori di continuare a prestare la loro attività  era giustificato, in quanto nel locale «galvanica» si sviluppavano gas e vapori tossici, contenenti agenti notoriamente cancerogeni quali il cromo, senza idonea aspirazione, con diffusione di polveri in ambiente di altezza inferiore a tre metri. La Corte ha escluso pertanto la configurabilità  dell'insubordinazione e ha anche affermato che il licenziamento non poteva ritenersi revocato, mancando l'accordo degli interessati, necessario per la ricostituzione del rapporto di lavoro. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11664 del 18 maggio 2006 Pres. Mileo, Rel. D'Agostino) ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la Corte di Firenze abbia adeguatamente motivato la sua decisione con riferimento alle risultanze istruttorie, da cui emergeva la pericolosità  dell'ambiente di lavoro. Essa inoltre ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui, affinché il licenziamento disciplinare possa ritenersi revocato e il rapporto di lavoro ricostituito, non è sufficiente in mero invito a riprendere servizio rivolto dal datore di lavoro al licenziato, ma è necessario un accordo che presuppone corrispondenza fra proposta e accettazione.
Il mancato rispetto della forma scritta nel comunicare il licenziamento lo rende inefficace anche se il lavoratore lo sapeva
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Nel febbraio del 1998 la snc 012 Benetton di M. & C. ha cessato la sua attività  ponendo termine al rapporto di lavoro con la dipendente R. P.,senza peraltro comunicarle per iscritto il licenziamento. La lavoratrice, che negli ultimi giorni di attività  è stata impegnata nell'imballaggio degli arredi aziendali, ha sottoscritto, il 4 marzo 1998 una quietanza attestante di avere percepito quanto a lei spettante anche per «liquidazione». Il sindacato di categoria ha contestato il licenziamento invitando l'azienda a una composizione transattiva; in risposta la società  ha precisato, nel maggio 1998, di non potere più utilizzare la lavoratrice per cessazione dell'attività . R.P. ha chiesto al Tribunale di Catanzaro di dichiarare inefficace il licenziamento perché comunicato verbalmente e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. La datrice di lavoro si è difesa sostenendo che la dipendente era pienamente a conoscenza della cessazione dell'attività  aziendale e aveva sottoscritto la quietanza per la liquidazione e che inoltre i motivi del licenziamento erano stati comunicati per iscritto al sindacato; pertanto doveva ritenersi che ella fosse stata adeguatamente informata del licenziamento e che la comunicazione del provvedimento in forma scritta fosse inutile. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Catanzaro hanno ritenuto inefficace il licenziamento per difetto di forma scritta e riconosciuto altresà il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro per vizi di motivazione e violazione di legge. Essa ha sostenuto la sostanziale ingiustizia della tesi secondo cui il licenziamento non comunicato per iscritto doveva ritenersi inefficace anche se il destinatario era stato pienamente informato del provvedimento. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11670 del 18 maggio 2006, Pres. Mattone, Rel. Balletti) ha rigettato il ricorso richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, in base all'art. 2 della legge n. 604/66, anche dopo la riformulazione di questa norma operata con la legge n. 108/90. Sia l'intimazione del licenziamento che la comunicazione dei relativi motivi (ove il lavoratore ne abbia fatto richiesta) ' ha affermato la Corte ' devono, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta, con la conseguente irrilevanza di una intimazione e di una contestazione espressa in forma diversa e della conoscenza che il lavoratore ne abbia altrimenti avuto. In particolare ' ha aggiunto la Corte ' l'art. 2 della legge n. 604/1966 esige che lo scritto, da utilizzare come strumento di comunicazione, non solo sia espressamente diretto all'interessato, ma sia anche a lui consegnato, con la conseguenza che è inidonea a realizzare la comunicazione scritta voluta dalla legge la conoscenza che il lavoratore abbia avuto altrimenti del licenziamento.
Il datore di lavoro risponde del comportamento "mobizzante" tenuto da un suo dirigente per non averlo prevenuto
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M. M., dipendente dell'Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro, Anmil, ha presentato le dimissioni senza preavvisoper reazione al trattamento, ritenuto vessatorio, usatole dal presidente dell'associazione, A.P. Quindi la lavoratrice ha proposto, davanti al pretore di Potenza, un giudizio nei confronti dell'Anmil per fare accertare la giusta causa delle dimissioni, con conseguente suo diritto all'indennità  sostitutiva del preavviso e per ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali e alla salute derivatile dal comportamento tenuto nei suoi confronti dal presidente. Il pretore ha riconosciuto il diritto della lavoratrice all'indennità  sostitutiva del preavviso, ma, pur avendo accertato che ella aveva subito un trattamento vessatorio con rilevanti conseguenze sul piano morale e psico-fisico, ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni in quanto proposta nei confronti dell'Anmil e non del presidente A.P. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Potenza che ha rilevato che i fatti denunciati erano stati commessi dal presidente, onde non era ravvisabile in capo all'associazione una diretta e immediata responsabilità . Il Tribunale ha anche rilevato che l'Anmil, per i fatti denunciati dalla lavoratrice, aveva deferito il presidente al collegio dei probiviri e ha ritenuto che in tal modo l'associazione avesse adempiuto all'obbligo contrattuale, derivante dall'art. 2087 cod. civ., di tutelare la salute e la personalità  morale della dipendente. M.M. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12445 del 25 maggio 2006, Pres. Ciciretti, Rel. De Luca) ha accolto il ricorso. Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' essendo stato accertato che i fatti mobbizzanti posti in essere dal presidente dell'associazione hanno danneggiato la lavoratrice, incombeva all'associazione, contrattualmente tenuta a tutelarla, in base all'art. 2087 cod. civ., l'onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie a prevenire l'evento dannoso. Per contro ' ha osservato la Corte ' l'associazione si è limitata a sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei probiviri, attuando un'iniziativa diretta alla repressione, non già  alla prevenzione dei fatti mobbizzanti e pertanto non idonea a costituire adempimento agli obblighi previsti dall'art. 2087 cod. civ.
È illegittimo il licenziamento di un dipendente che abbia reagito con parole offensive alle ingiurie rivoltegli da un dirigente
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È efficace il licenziamento comunicato a ufficio del lavoro e lavoratore anche se la lettera non è indirizzata all'interessato
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La nozione di causa violenta, ai fini del trattamento Inail, può comprendere qualsiasi fattore presente nell'ambiente di lavoro
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Orilia B., Paolo A., Luana G., Sonia S. e Gianni B. hanno chiesto, con separati ricorsi, al giudice del lavoro di Modenadi condannare l'Inail a pagare la indennità  per inabilità  temporanea assoluta per i giorni da loro impiegati per la estirpazione di verruche contratte nella loro attività  di addetti alla macellazione e lavorazioni di carni fresche presso i vari salumifici della zona. Descrivevano le mansioni; assumevano che le verruche erano prodotte da virus contratti sul lavoro, e pertanto costituivano infortunio professionale; per quanto riguarda il nesso causale, producevano letteratura sull'argomento e relazione svolta dal servizio di veterinaria della Usl n. 9 di Reggio Emilia. La consulenza tecnica d'ufficio, disposta dal primo giudice, ha imputato gli episodi morbosi, identici per tutti i ricorrenti, non a un passaggio del virus dall'animale all'uomo, bensà al fatto che alcune proteine della carne, non identificate, importando la distrazione delle difese immunologiche della cute, provocavano l'abbassamento della soglia di controllo dell'organismo, con conseguente esplosione della virulenza del virus già  di per sé presente, allo stato latente, in molti organismi umani. A questo punto i ricorrenti hanno chiesto di essere autorizzati a modificare le proprie conclusioni, estendendo la domanda, in via subordinata, per l'ipotesi che il medesimo episodio che essi avevano qualificato come infortunio sul lavoro dovesse avere la diversa qualificazione di malattia professionale. Il pretore ha rigettato la domanda. Il Tribunale di Modena ritenuta la Ctu di primo grado esauriente, ha respinto l'appello dei lavoratori, sulla base delle seguenti affermazioni: «a) vera, in ipotesi, la ravvisabilità  di un nesso causale tre le lavorazioni di cui trattasi e la specifica patologia, vero sarebbe anche â?¦ che l'esclusione del passaggio diretto del virus dalla carne animale all'uomo preclude la configurabilità  del requisito della causa violenta e, dunque, dell'infortunio, dal momento che non può ritenersi azione violenta un fenomeno qualificato dall'abbassamento delle difese immunologiche come causa di affermazione di un virus presente, e latente, nell'organismo; b) è un fatto peraltro che allo stato della conoscenza scientifica è proprio il nesso di causalità  che si connota per una assoluta incertezza non risultando chiaro (cosà la consulenza) per quale mai ragione si constati una più diffusa presenza del morbo fra gli addetti alla macellazione della carne che nel resto della popolazione; c) proprio tale incertezza induce a concludere da un lato per l'inidoneità  del metro probabilistico a fondere un serio convincimento». Avverso tale sentenza, depositata il 23 gennaio 2002, hanno proposto ricorso per cassazione i lavoratori sostenendo che la sentenza del Tribunale di Modena era affetta da due errori di diritto, uno relativo alla nozione di causa violenta, l'altro a quella di nesso causale. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12559 del 26 maggio 2006, Pres. Senese, Rel. De Matteis) ha accolto il ricorso. Si deve premettere ' ha osservato la Corte ' che l'assicurato ha l'onere di allegare e provare le tre circostanze: lavorazione svolta, malattia e nesso causale, le quali costituiscono tutti e tre dei fatti, la cui mancata prova (anche se con diverse modalità ) ricade a danno del lavoratore ricorrente; per quanto riguardo in particolare la patologia professionale, egli ha l'onere di riferire in modo particolareggiato solo la sintomatologia accusata e quella rilevata dal medico certificatore; spetta poi al giudice qualificare l'evento protetto come infortunio sul lavoro o malattia professionale, e in tale ultimo ambito, come malattia tabellata, individuandone la voce nella tabella, o malattia non tabellata; pertanto la qualificazione nel ricorso introduttivo del giudizio della malattia (verruche) come causate da infortunio sul lavoro (penetrazione di virus dall'ambiente lavorativo) non impediva al giudice del merito di qualificare, sulla base della Ctu, l'evento come malattia professionale (azione lenta dell'ambiente di lavoro che produce la slatentizzazione di virus interni). Ciò posto ' ha affermato la Corte ' l'affermazione della sentenza impugnata, secondo cui non può ritenersi azione violenta un fenomeno caratterizzato dall'abbassamento delle difese immunologiche, provocato da fattori esterni, è errata in quanto l'espressione causa violenta risale alla legge 17 marzo 1898 n. 80 (art. 7), istitutiva dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro nel nostro paese, ma il suo significato giuridico si è profondamente evoluto durante il secolare processo di sviluppo del sistema di tutela infortunistica. Un agente lesivo, presente nell'ambiente di lavoro in modo esclusivo o in misura significativamente superiore che nell'ambiente esterno, il quale produca un abbassamento delle difese immunitarie ' ha affermato la Corte ' rientra nella nozione attuale di causa violenta; del suo meccanismo d'azione, se rapido e concentrato, oppure lento, deriva poi la collocazione dell'evento tra gli infortuni sul lavoro o le malattie professionali; nel caso in esame il fattore causale è stato individuato dal Ctu, e fatto proprio dal giudice d'appello, nell'azione di alcune proteine della carne, non identificate, le quali importano la distrazione delle difese immunologiche della cute, provocano l'abbassamento della soglia di controllo dell'organismo, con conseguente esplosione della virulenza del virus già  di per sé presente, allo stato latente, in molti organismi umani. Tale fattore ' ha osservato la Corte ' detiene quel carattere di alterità  ed esteriorità  richiesto dalla nozione originaria di causa violenta; l'unica particolarità , che il giudice di merito ha ritenuto ostativa, è che non importa penetrazione del virus dall'esterno nell'organismo umano, ma ciò non esclude che il fattore causale possa appartenere all'ambiente di lavoro, il che è sufficiente a integrare quella che, con fedeltà  lessicale, continua a essere denominata causa violenta. Anche il nesso causale ' ha aggiunto la Cassazione ' è un fatto, che deve essere provato dal lavoratore ricorrente, ma esso è un fatto sui generis, da qualificare come tale ai fini del principio decisorio dell'onere della prova, ma non quanto a disponibilità  e qualità  dei mezzi istruttori per il suo accertamento. Il suo accertamento non può essere affidato alle opinioni soggettive, e perciò inammissibili, dei testi, né a un certificato di parte; esso ha una preminente componente valutativa che richiede necessariamente l'intervento di un ausiliare del giudice, munito di professionalità  medico legale. Nella valutazione della pregnanza della prova la giurisprudenza di legittimità  è passata da un giudizio di certezza, a uno di probabilità , desunta anche dalla compatibilità . La Suprema Corte ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Bologna, prescrivendo che essa decida la causa attenendosi ai due seguenti principi di diritto: «La nozione attuale di causa violenta comprende qualsiasi fattore presente nell'ambiente di lavoro, in maniera esclusiva o in misura significativamente diversa che nell'ambiente esterno, il quale, agendo in maniera concentrata o lenta, provochi (nel primo caso) un infortunio sul lavoro, o (nel secondo caso) una malattia professionale»; «la prova del nesso causale deve avere un grado di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità  dell'eziopatogenesi professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità , per accertare il quale il giudice deve valutare le conclusioni probabilistiche del consulente, desunte anche da dati epidemiologici».
La cessione di credito può essere utilizzata dal sindacato per la riscossione dei contributi dovuti dai lavoratori iscritti
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I dipendenti della Spa Comau hanno ceduto al loro sindacato, il Sincobas, nel 2001,una piccola quota del loro credito per retribuzione verso l'azienda, a titolo di contributo sindacale. Il Sincobas ha notificato all'azienda le cessioni di credito, chiedendole di provvedere al versamento mensile delle quote cedutegli. La Comau ha respinto questa richiesta sostenendo di non essere tenuta al versamento dei contributi. Il sindacato ha promosso nei confronti dell'azienda, davanti al Tribunale di Torino, un procedimento per repressione di comportamento antisindacale in base all'art. 28 Stat. lav. Nella fase cautelare il Tribunale ha dichiarato l'antisindacalità  del comportamento della Comau Spa consistente nel rifiuto di corrispondere al Sincobas quanto lo stesso dovuto in forza delle cessioni di credito operate dai suoi dipendenti; ha ordinato all'azienda di effettuare tutti i pagamenti mensili delle quote retributive cedute al sindacato e ha ordinato l'affissione del dispositivo nelle bacheche aziendali per la durata di trenta giorni consecutivi. La Comau ha proposto opposizione avverso questo provvedimento. Il Tribunale l'ha rigettata. La Corte di Appello di Torino ha confermato la decisione del Tribunale, rilevando che la tutela di cui all'art. 28 Stat. lav. non è limitata ai diritti sindacali specificamente riconosciuti, ma copre qualunque comportamento del datore di lavoro «diretto a impedire o limitare l'esercizio della libertà  e dell'attività  sindacale, nonché del diritto di sciopero ». L'attività  posta in essere dall'organizzazione sindacale facendo ricorso all'istituto della cessione di credito ' ha osservato la Corte di Torino ' era finalizzata allo scopo tipico del sindacato e necessaria alla sua stessa esistenza e cioè al suo finanziamento, per cui il rifiuto di dare attuazione a un legittimo negozio si concretizzava a un ostacolo alla libertà  sindacale. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13250 del 6 giugno 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso. Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell'art. 26, comma 2 Stat. lav., e il susseguente d.p.r. n. 313 del 1995 ' ha affermato la Corte ' non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo; pertanto, ben possono i lavoratori, nell'esercizio della propria autonomia privata e attraverso lo strumento della cessione del credito a favore del sindacato (cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore), richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso. Qualora il datore di lavoro affermi che la cessione importi in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ. ' ha osservato la Corte ' deve provarne l'esistenza; l'eccessiva gravosità  della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità  ed efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l'inadempimento del debitore ceduto, finché il creditore non collabori a modificare le modalità  della prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato ' ha affermato la Corte ' configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce una condotta antisindacale in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività .
Oneri sanitari e assistenziali
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La regione Valle d'Aosta può, in attuazione dell'art. 3 dello Statuto speciale e dell'art. 117 della Costituzione,«disciplinare con legge l'istituzione di contributi, anche obbligatori, a carico dei cittadini residenti nel territorio regionale, destinati alla costituzione di fondi assicurativi volti a garantire ai cittadini l'erogazione delle prestazioni sanitarie e socio-assistenziali previste dalla legge medesima». (Gazzetta Ufficiale n. 132 del 9 giugno 2006)
Collocamento della gente di mare
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Il regolamento disciplina il collocamento e l'arruolamento dei lavoratori marittimi appartenentialla gente di mare disponibili a prestare servizio a bordo di navi italiane per conto di un armatore o società  di armamento. Il decreto istituisce: 1) l'anagrafe nazionale della gente di mare nella quale sono registrati i lavoratori marittimi in possesso dei requisiti previsti dalla legge per prestare servizio di navigazione; 2) la Borsa nazionale del lavoro marittimo; 3) il principio di assunzione diretta con obbligo di comunicazione contestuale al servizio di collocamento marittimo, con contestuale abolizione del regime di collocamento obbligatorio. Il collocamento della gente di mare è esercitato, oltre che dagli uffici di collocamento della gente di mare, dagli enti bilaterali autorizzati del lavoro marittimo che prestano attività  senza finalità  di lucro, nonché le agenzie per il lavoro. I lavoratori iscritti nelle matricole della gente di mare che alla data di entrata in vigore del regolamento non risultano in servizio di navigazione sono tenuti, entro 180 giorni da tale data, a presentarsi presso l'ufficio di collocamento competente per territorio per rendere la dichiarazione di immediata disponibilità  all'imbarco per non perdere il diritto alla registrazione nell'elenco anagrafico senza riacquisire i certificati di formazione. (Gazzetta Ufficiale n. 161 del 13 luglio 2006)
È illegittimo il licenziamento di un dipendente con l'addebito di aver lavorato per altri, se il datore ne era a conoscenza
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Collegamenti telematici in materia di immigrazione
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Il Garante ha espresso parere favorevole sullo schema di decreto del Ministero dell'Interno contenente le regole tecniche per i collegamenti telematicifra i sistemi informativi e gli archivi automatizzati delle amministrazioni pubbliche titolari del trattamento dati in materia di immigrazione. Considerati, però, i soggetti coinvolti e la natura delle informazioni scambiate che, essendo relative a procedimenti in materia di immigrazione, possono contenere anche dati sensibili o biometrici, il Garante ha richiesto l'adozione di misure che garantiscano un elevato livello di sicurezza e di riservatezza delle informazioni trasmesse. Lo schema contiene disposizioni relative alle modalità  dei collegamenti, all'accesso ai dati e allo scambio delle informazioni. Su questo aspetto, il Garante ha richiesto che l'accesso informatico debba essere consentito ai soli soggetti legittimati e in riferimento ai dati strettamente necessari per le finalità  perseguite in materia di immigrazione. Lo schema prevede che i collegamenti fra i sistemi informativi avvengano attraverso il Sistema pubblico di connettività  (Spc) che è basato su una rete di trasporto sicura, dotata di protocolli crittografici in grado di evitare l'intercettazione di flussi di comunicazione da parte di terzi estranei. Finché non saranno pienamente disponibili i servizi del Spc, per realizzare lo scambio di informazioni potrà  essere utilizzata la Posta elettronica certificata (Pec). Perché la Pec possa assicurare la riservatezza dei messaggi il Garante ha ritenuto che lo schema di decreto debba contenere una disposizione in base alla quale le pubbliche amministrazioni interessate definiscano, tramite convenzioni, le condizioni e le modalità  di protezione dei messaggi scambiati.
Invito ad aderire allo sciopero indetto da altra organizzazione sindacale
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Concretizza una violazione dell'obbligo di preavviso l'invito rivolto da una organizzazione sindacale ai propri iscritti ad aderire a uno scioperoproclamato da una diversa organizzazione sindacale non osservando il termine minimo di preavviso di 10 giorni, sebbene la prima si astenga formalmente dall'aderire alla proclamazione di sciopero. La Commissione ha ritenuto che non possa essere operata alcuna distinzione tra adesione allo sciopero e invito ad aderire allo sciopero. Inoltre in più occasioni e, da ultimo, con «delibera di carattere generale in tema di adesione allo sciopero » n. 05/127 del 9 marzo 2005, la Commissione ha espresso l'avviso che «anche nel caso di adesione di un'organizzazione sindacale a uno sciopero proclamato da altro soggetto sindacale deve essere rispettato il termine di preavviso».
Diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali
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Il decreto delega la funzione e i poteri attribuiti dalla legge n. 146 del 12 giugno 1990al Presidente del Consiglio dei ministri ai ministri la cui competenza, anche per i casi di vigilanza, si estende ai settori interessati dalle astensioni dal lavoro per sciopero. (Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4 luglio 2006)
Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale
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Il decreto contiene disposizioni urgenti «anche il rilancio dell'economia e dell'occupazione».Tra queste si pone l'attenzione sull'articolo 2 il quale abroga i minimi tariffari, il divieto di pubblicità  e il divieto di costituire società  interprofessionali nell'esercizio della libera professione. I codici deontologici che disciplinano tali divieti dovranno essere adeguati entro il 1° gennaio 2007. L'articolo 34, comma 2, aggiunge al decreto legislativo n. 165/2001 l'obbligo per le amministrazioni pubbliche di rendere noti «per via telematica, gli elenchi dei propri consulenti indicando l'oggetto, la durata e il compenso dell'incarico». L'articolo 32, aggiungendo due commi all'articolo 7 del decreto legislativo n. 165/2001, introduce alcuni presupposti al conferimento di incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa da parte delle amministrazioni pubbliche: 1) individuazione e pubblicizzazione delle procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione; 2) determinazione dell'impossibilità  oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al proprio interno; 3) determinazione preventiva della durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione. L'articolo 35 ai commi 28 e 29 determina la responsabilità  solidale tra appaltatore e subappaltatore per il versamento delle ritenute fiscali sui redditi di lavoro dipendente, dei contributi previdenziali e assicurativi dovuti dal subappaltatore per i dipendenti. L'articolo 36, comma 23, sopprime le agevolazioni fiscali alle somme erogate per l'incentivo all'esodo delle lavoratrici con più di cinquanta anni d'età  e dei lavoratori con più di cinquantacinque anni d'età . L'articolo 36, comma 25, sopprime l'agevolazione fiscale per l'assegnazione di azioni ai dipendenti. (Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4 luglio 2006)
Disciplina per l'ammissione all'esercizio della professione di odontoiatra
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L'Autorità  ha espresso delle critiche in merito alla bozza di Regolamento adottata nell'ottobre 2005dalla «Commissione per la riforma degli esami di abilitazione alla professione di odontoiatra». Quanto ai requisiti di accesso, la bozza di regolamento prescrive che per partecipare all'esame di abilitazione è necessario aver svolto un tirocinio della durata di 9 mesi, stabilendo, peraltro, che, laddove la prova scritta non sia superata entro due sessioni, l'aspirante odontoiatra, al fine di accedere a un'ulteriore prova scritta, è tenuto a svolgere nuovamente il tirocinio. Inoltre la bozza di regolamento, benché preveda che «le università  assicurano ai laureati l'accesso al tirocinio», non individua alcun meccanismo atto a garantire che ai soggetti neolaureati in odontoiatria siano riconosciute pari opportunità  di accesso alle attività  di tirocinio, cosà da non rimettere ai singoli soggetti neolaureati l'onere di individuare la struttura disponibile ad accettare tirocinanti. Né l'articolato in esame contempla il diritto dei tirocinanti a ricevere compensi o rimborsi spese. Al riguardo l'Autorità  ha osservato che l'accesso alla facoltà  di odontoiatria è già  a numero chiuso e che, a oggi, la partecipazione agli esami per accedere alla professione di odontoiatra non prevede l'obbligo del previo svolgimento di un tirocinio; inoltre l'accesso all'attività  di medico-chirurgo richiede lo svolgimento di un tirocinio di soli tre mesi. L'Autorità  ha, in più occasioni, evidenziato che i requisiti di accesso alle professioni non dovrebbero essere tali da introdurre surrettizie restrizioni di tipo quantitativo; che, in particolare, non è giustificabile l'introduzione del tirocinio obbligatorio per lo svolgimento di attività  l'accesso alle quali non era, fino a quel momento, subordinato al soddisfacimento di tale requisito; che, comunque, ove si ritenga imprescindibile la frequenza del tirocinio, tutti gli aspiranti professionisti dovrebbero essere messi in condizione di accedervi facilmente; che, in ogni caso, le attività  di tirocinio non dovrebbero avere una durata eccessiva. Sulla scorta di tali considerazioni, l'Autorità  ha espresso il parere che queste previsioni della bozza di regolamento si prestino a procrastinare ingiustificatamente l'ingresso dei neolaureati in odontoiatria nel mondo del lavoro e, quindi, a restringere l'offerta dei servizi odontoiatrici. In merito alle previsioni volte a riformare l'esame di abilitazione, l'Autorità  ha rilevato che la bozza di Regolamento, oltre a rendere più oneroso tale esame ' introducendo una prova orale a oggi non prevista ', attribuisce un ruolo determinante ai rappresentanti degli Ordini professionali nelle attività  di valutazione dei candidati. In particolare, è prevista l'istituzione di una «Commissione nazionale per la prova scritta» incaricata di redigere i quesiti a risposta multipla per la prova scritta; la bozza stabilisce che tale Commissione sia composta da otto membri che esercitino l'attività  di odontoiatria e siano iscritti da almeno dieci anni al relativo Albo. Alla stregua della bozza in questione, inoltre, presso ogni ateneo indicato come sede d'esame, deve essere nominata una Commissione giudicatrice composta da non meno di quattro membri designati dalle Commissioni per gli iscritti all'Albo degli odontoiatri della Regione in cui ha sede l'ateneo (nonché da un presidente docente universitario nominato dal rettore dell'ateneo medesimo). In proposito l'Autorità  ha ribadito il suo orientamento circa la necessità  di garantire la terzietà  di chi contribuisce a stabilire il numero di coloro che sono ammessi a entrare nel mercato e, quindi, sull'opportunità  di limitare la presenza di rappresentanti degli Ordini nelle commissioni esaminatrici. Al riguardo l'Autorità  ha affermato che, al fine di salvaguardare il principio di imparzialità  nelle procedure di accesso all'esercizio dell'attività  di odontoiatra, occorrerebbe evitare che le attività  di valutazione dei candidati siano svolte da professionisti concorrenti. L'Autorità  ha concluso auspicando che non venga dato seguito alla bozza di regolamento esaminata o, qualora si ritenga comunque opportuno procedere a una riforma della materia finalizzata a migliorare la formazione dei giovani odontoiatri, che sia consentito lo svolgimento del tirocinio professionale nell'ambito dei corsi di studio universitari in modo che vengano garantite paritarie condizioni di accesso alle attività  di tirocinio e, nel contempo, sia scongiurata l'eventualità  che, una volta terminati gli studi universitari, gli aspiranti odontoiatri siano esposti al rischio di prestare la propria attività  a titolo gratuito.
Mobbing - Inquadramento della fattispecie - Risarcimento dei danni - Danno esistenziale - Sussistenza
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Ai fini della configurazione della fattispecie giuridica del mobbing,la Corte costituzionale ha ritenuto rilevanti le «condotte commissive o, in ipotesi, omissive ' che possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri, sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità  di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico e, tuttavia, acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione» (Corte Cost. n. 359/2003). Com'è noto, il mobbing in origine trae il suo significato semantico dall'etologia, alla quale il linguaggio giuridico si rifà  per costruire una fattispecie cui ricondurre quel comportamento consistente in una serie ripetuta di condotte a finalità  persecutoria. In quanto, però, del tutto disancorato da previsioni legislative a esso direttamente ricollegabili, questo fenomeno è stato, nel corso del tempo, oggetto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che ne hanno delineato la fisionomia. Al di là  degli sforzi compiuti per elaborare una fattispecie unitaria, però, il mobbing «finisce per essere una cornice all'interno della quale di volta in volta racchiudere ipotesi in concreto quanto mai diverse e tali da avere dignità  di autonoma e distinta tutela, già  nell'ambito delle ipotesi normativizzate e disciplinate all'interno dell'ordinamento positivo». La non linearità  delle decisioni giurisprudenziali che si sono occupate dell'argomento hanno mostrato come tale fattispecie sia difficilmente inquadrabile entro una precisa disposizione legislativa, nonostante l'orientamento oramai prevalente tenda a considerare il mobbing come il risultato della violazione degli obblighi contrattuali imposti dall'art. 2087 cod. civ. Nel caso di specie la ricorrente lavorava formalmente presso la Compagnia lavoratori del porto (Clp), ma nei fatti svolgeva la propria attività  anche in favore della Compagnia servizi portuali (Csp), in assenza di regolarizzazione di tale rapporto di lavoro. La composizione delle predette società  era pressoché coincidente, poiché medesimi erano i soci; solo le figure dei Presidenti risultavano distinte. La ricorrente aveva un ottimo rapporto di collaborazione con il Presidente della Clp, ma, a seguito dell'incrinarsi delle relazioni tra i dirigenti e i soci della Clp e della Csp, si era vista costretta a lavorare in un ambiente ostile, continuamente sottoposta a minacce e intimidazioni. Ricostruiti i fatti grazie alle prove testimoniali e documentali, il giudice ha ritenuto che le vessazioni lamentate dalla ricorrente integrassero la fattispecie di mobbing, risultante da atteggiamenti persecutori posti in essere, nei confronti della vittima, da una pluralità  di autori (cfr. Trib. Como 22 maggio 2001, in Or. giur. lav., 2001, I, 277), diretti all'isolamento e all'estromissione della ricorrente. Ha inoltre ritenuto di ravvisare in capo al datore di lavoro una responsabilità  contrattuale discendente dalla violazione dell'art. 2087 cod. civ., non avendo egli impedito il verificarsi di conseguenze pregiudizievoli a carico di una propria dipendente pur se riconducibili a fatti posti in essere da terzi. Il decidente poi, escluso il verificarsi nella specie di un vero e proprio danno biologico, ha però riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale, innegabilmente determinato dallo stress causato alla ricorrente dagli eventi subiti. In proposito, la giurisprudenza che si è occupata nel tempo di definire il mobbing e gli effetti giuridici da esso discendenti, animata dalla volontà  di ristorare la vittima per tutte le sofferenze subite, ha dato vita a una moltiplicazione e sovrapposizione di diverse tipologie di danno. Ma, a parte le forme «ordinarie» di danno (patrimoniale e biologico), il pregiudizio tipico da mobbing viene identificato con il danno esistenziale «in quanto prescinde dal verificarsi di concrete lesioni alla salute e al patrimonio ' e dunque dalla prova delle stesse ' e sussiste ogni qual volta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità  e integrità  personale » (Cass. n. 7713/2003; Cass. n. 10482/2004). Esso rivela la sua utilità  rispetto a quelle fattispecie ' quale quella oggetto del caso in esame ' per le quali, esclusa la risarcibilità  del danno patrimoniale (in quanto mancante o non provato), del danno biologico (inteso come compromissione di natura areddituale dell'integrità  psicofisica della persona che si concretizzi in una perdita o riduzione delle funzioni vitali), residui appunto solo il danno esistenziale, «inteso come danno alla persona in sé considerata, nell'esplicarsi della personalità  morale», consistente nella modifica delle proprie abitudini di vita e relazionali, come conseguenza della lesione del bene della dignità  della persona, tutelato dall'art. 2 Cost.
Politica sociale - Ferie annuali retribuite
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L'art. 7 della direttiva del Consiglio 23 novembre 1993, 93/104/Ce,concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 22 giugno 2000, 2000/34/CE, deve essere interpretato nel senso che osta a che una disposizione nazionale consenta, in costanza del contratto di lavoro, che i giorni di ferie annuali ai sensi dell'art. 7, n. 1, non goduti nel corso di un dato anno siano sostituiti da un'indennità  finanziaria nel corso di un anno successivo.
Rilevanza delle cause di insorgenza del conflitto
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La Commissione ha ritenuto che il ritardo di circa tre mesi nel pagamento delle retribuzioni,pur essendo una causa di insorgenza del conflitto indubbiamente meritevole di considerazione, non può tuttavia rappresentare un'esimente dall'obbligo di rispetto del termine di preavviso, ma può solo indurre a irrogare la sanzione nella misura minima prevista dall'art. 4 della legge 146/1990.
Obbligo dell'azienda a partecipare alle procedure di raffreddamento e conciliazione
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La Commissione si è espressa nel senso che le procedure di raffreddamento e conciliazione da esperirsi prima della proclamazione di uno scioperoa norma dell'art. 2, comma 2 della legge n. 146/90 debbono ritenersi «obbligatorie per entrambe le parti». Tanto più nel settore del trasporto pubblico locale per il quale l'art. 2, lettera C), punto 3 della Regolamentazione provvisoria del 31 gennaio 2002 prevede che «l'omessa convocazione da parte dell'ente o dell'azienda o il rifiuto di partecipare all'incontro da parte del soggetto sindacale che lo abbia richiesto, nonché il comportamento delle parti durante l'esperimento delle procedure, potranno essere oggetto di valutazione da parte della Commissione ai sensi dell'art. 13, lettere c), d), h), i) e m,) della legge n. 146/90, come modificata dalla legge n.83/2000». Il tenore letterale delle norme primaria e secondaria lascia intendere che l'azienda ha l'obbligo di aderire alla richiesta di convocazione avanzata da un'organizzazione sindacale per l'esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione, e ancor più alla convocazione disposta con detto fine dalle Autorità  istituzionali indicate dal citato art. 2, comma 2, della legge n.146/90. Detto obbligo è naturalmente sotteso alla logica ispiratrice delle norme in oggetto, considerato che l'esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione è finalizzato a verificare la possibilità  di evitare un'azione di sciopero, e dunque un danno per gli utenti di un servizio pubblico essenziale, e che il mancato esperimento di dette procedure non può non determinare l'aggravamento del conflitto in corso. La Commissione di Garanzia, d'altronde, già  con la delibera di indirizzo del 1° febbraio 2001, aveva statuito che «la violazione delle procedure da parte del datore di lavoro (ivi compresa la mancata convocazione delle rappresentanze sindacali che lo abbiano richiesto ai fini dell'esperimento delle procedure previste dall'art. 2, comma 2), diviene [â?¦] valutabile dalla Commissione ai fini dell'applicazione della sanzione di cui all'art. 4, comma 4, come violazione di obblighi imposti dalla legge ». Dunque non v'è dubbio, ad avviso della Commissione, che il datore di lavoro sia tenuto a non vanificare la lettera e lo spirito delle disposizioni di legge e regolamentari in tema di procedure di raffreddamento e conciliazione, e dunque abbia l'obbligo ' salvo giustificati motivi ' sia di convocare le organizzazioni sindacali richiedenti l'esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione, sia di aderire alla convocazione dell'Autorità  di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 146/90 a seguito di richiesta di organizzazioni sindacali. Tale obbligo aziendale comporta che la mancata convocazione delle organizzazioni sindacali, ovvero la mancata comparizione a un incontro promosso dal prefetto, al fine dell'esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione, debbano essere quanto meno congruamente motivate, rispondendo diversamente il datore di lavoro di eventuali inadempienze ai sensi dell'art. 4, comma 4, della legge n. 146/90.
Rarefazione oggettiva e assenza di integrazione tra servizi di trasporto in un medesimo bacino territoriale
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L'art. 10 lett. A) della Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili nel settore del trasporto locale(deliberazione 02/13 del 31 gennaio 2002, pubblicata in G.U. il 23 marzo 2002, n. 70) quanto al divieto di rarefazione oggettiva prevede che «l'area del bacino di utenza coinciderà  con l'area territoriale di operatività  dell'azienda interessata dallo sciopero». Al riguardo la Commissione ha chiarito che la successione in date ravvicinate di due scioperi proclamati da diverse organizzazioni sindacali in diverse aree territoriali limitrofe non comporta una violazione del divieto di rarefazione oggettiva quando i servizi di collegamento tra le diverse aree non sono integrati tra loro bensà assolutamente indipendenti l'uno dall'altro, giacché lo sciopero per una tratta non determina la compromissione della continuità  del servizio di trasporto pubblico sulle altre tratte separate.
Previdenza sociale - Sistema sanitario nazionale finanziato dallo Stato - Spese mediche assunte in un altro Stato membro
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1. L'art. 22, n. 2, secondo comma, del regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza socialeai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , nella versione modificata e aggiornata dal regolamento (CE) del Consiglio 2 dicembre 1996, n. 118/97, deve essere interpretato nel senso che l'istituzione competente, per essere legittimata a rifiutare a un lavoratore che ha diritto alle prestazioni l'autorizzazione a recarsi in uno Stato membro per ricevere le cure appropriate al suo stato, per un motivo relativo all'esistenza di un tempo di attesa per un trattamento ospedaliero, è tenuta a stabilire che tale tempo non superi il periodo accettabile in base a una valutazione medica oggettiva dei bisogni clinici dell'interessato, alla luce del complesso dei parametri che caratterizzano la sua situazione clinica al momento in cui la domanda di autorizzazione è proposta o, eventualmente, rinnovata. 2. L'art. 49 CE si applica a una situazione in cui una persona, il cui stato di salute necessita cure ospedaliere, si reca in un altro Stato membro e ivi riceve tali cure dietro corrispettivo, senza che ci sia bisogno di esaminare se le prestazioni di cure ospedaliere fornite nell'ambito del sistema nazionale cui appartiene tale persona costituiscano esse stesse servizi ai sensi delle disposizioni sulla libera prestazione di servizi. L'art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che non osta a che l'assunzione degli oneri di cure ospedaliere previste in un istituto situato in un altro Stato membro dipenda dal conseguimento di una previa autorizzazione dell'istituzione competente. Un rifiuto di autorizzazione preliminare non può essere fondato sulla sola esistenza di liste d'attesa destinate a programmare e a gestire l'offerta ospedaliera in funzione di priorità  cliniche prestabilite in termini generali, senza che si abbia proceduto a una valutazione medica oggettiva della situazione clinica del paziente, della sua anamnesi, dell'eventuale decorso della sua malattia, dell'intensità  del suo dolore e/o della natura della sua infermità  al momento della presentazione o del rinnovo della domanda di autorizzazione. Quando il lasso il tempo che deriva da tali liste d'attesa risulta eccedere il tempo accettabile tenuto conto di una valutazione medica oggettiva degli elementi citati, l'istituzione competente non può rifiutare l'autorizzazione sollecitata fondandosi su motivi relativi all'esistenza di tali liste d'attesa, a un preteso pregiudizio nei confronti del normale ordine delle priorità  collegate al rispettivo grado d'urgenza dei casi da trattare, alla gratuità  delle cure ospedaliere dispensate nell'ambito del sistema nazionale in questione, all'obbligo di prevedere modalità  finanziarie specifiche ai fini dell'assunzione degli oneri del trattamento previsto in un altro Stato membro e/o a un confronto dei costi di tale trattamento e di quelli di un trattamento equivalente nello Stato membro competente. 3. L'art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che, nell'ipotesi in cui la normativa dello Stato membro competente preveda la gratuità  dei trattamenti ospedalieri erogati nell'ambito di un servizio sanitario nazionale, e in cui la normativa dello Stato membro, nel quale un paziente appartenente al detto servizio è stato o avrebbe dovuto essere autorizzato a ricevere un trattamento ospedaliero a spese di tale servizio, non preveda un'assunzione integrale del costo del detto trattamento, deve essere concesso a tale paziente, da parte dell'istituzione competente, un rimborso corrispondente alla differenza eventuale tra, da una parte, l'importo del costo, oggettivamente quantificato, di un trattamento equivalente in un istituto del servizio di cui trattasi, non eccedente eventualmente, la misura dell'importo globale fatturato per il trattamento offerto nello Stato membro di soggiorno, e, dall'altra, l'importo per cui l'istituzione di tale ultimo Stato è tenuta a intervenire, ai sensi dell'art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata e aggiornata dal regolamento n. 118/97, per conto dell'istituzione competente, in applicazione delle disposizioni della normativa di tale Stato membro. L'art. 22, n. 1, lett. c), sub i), del regolamento n. 1408/71 deve essere interpretato nel senso che il diritto che esso conferisce al paziente di cui trattasi verte esclusivamente sulle spese collegate alle cure sanitarie ottenute da tale paziente nello Stato membro di soggiorno, vale a dire, per quanto riguarda cure di natura ospedaliera, i costi delle prestazioni mediche propriamente dette nonché le spese, indissociabilmente collegate, relative al soggiorno dell'interessato nell'istituto ospedaliero. L'art. 49 CE deve essere interpretato nel senso che un paziente che è stato autorizzato a recarsi in un altro Stato membro per ivi ricevere trattamenti ospedalieri o che ha subito un rifiuto di autorizzazione che successivamente è giudicato infondato è legittimato a reclamare all'istituzione competente l'assunzione delle spese supplementari collegate a tale trasferimento transfrontaliero per scopi medici solo se la normativa dello Stato membro competente impone al sistema nazionale un obbligo di assunzione degli oneri corrispondente nell'ambito di un trattamento offerto in un istituto locale del detto sistema. 4. Non viola l'art. 152, n. 5, CE l'obbligo per l'istituzione competente, a tenore sia dell'art. 22 del regolamento n. 1408/71, nella versione modificata e aggiornata dal regolamento n. 118/97, sia dell'art. 49 CE, di autorizzare un paziente che appartiene al servizio sanitario nazionale di ottenere, a carico della detta istituzione, un trattamento ospedaliero in un altro Stato membro quando il tempo di attesa eccede il tempo accettabile in base a una valutazione medica oggettiva dello stato e dei bisogni clinici del paziente interessato.
Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale
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L'art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/Cee,relativa alla graduale attuazione del principio di parità  di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, osta a una normativa che nega il beneficio di una pensione di vecchiaia a una persona che, in conformità  alle condizioni stabilite dal diritto nazionale, sia passata dal sesso maschile al sesso femminile per il motivo che essa non ha raggiunto l'età  di 65 anni, quando invece questa stessa persona avrebbe avuto diritto a detta pensione all'età  di 60 anni se fosse stata considerata una donna in base al diritto nazionale.
Licenziamento giustificato motivo oggettivo - Presupposti
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Un dipendente di un'azienda metalmeccanica conveniva in giudizio la società  al fine di far dichiarare l'illegittimità  del licenziamentointimatogli per mancanza di commesse. Nell'accogliere la domanda, il Tribunale di Chieti ha ribadito il principio secondo cui il controllo giudiziale sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo comporta la verifica dell'assolvimento, da parte del datore di lavoro, dell'onere di provare la sussistenza del motivo dedotto, l'incidenza sulla posizione rivestita in azienda dal lavoratore e l'impossibilità  di utilizzare il lavoratore in altre mansioni equivalenti. Il Tribunale di Chieti ha ritenuto pertanto insufficiente la prova della sussistenza di una situazione di difficoltà  aziendale nonchè violate da parte del datore di lavoro le regole di correttezza nella scelta del lavoratore da licenziare.
Subordinazione e parasubordinazione - Distinzione - Vincolo di subordinazione - Indici sintomatici - Insufficienza
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Non può essere riconosciuta la natura subordinata del rapporto di lavoro ove il lavoratore non riesca a provare elementi sufficienti in tal senso.Il giudicante, uniformandosi all'orientamento giurisprudenziale prevalente, ha osservato che, in tema di distinzione fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato, l'elemento caratterizzante fondamentale è costituito dal requisito della subordinazione che va inteso come vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale deve estrinsecarsi nell'emanazione di ordini specifici, oltre che nell'esercizio, di un'assidua attività  di vigilanza e controllo nell'esecuzione delle prestazioni lavorative, tenuto conto della specificità  dell'incarico assegnato al lavoratore (cfr. fra le altre Cass. n. 5989/2001; Cass. n. 224/2001). Nella fattispecie, un lavoratore, che aveva stipulato un contratto di agenzia con una ditta individuale, ha chiesto al giudice di accertare la sussistenza, tra le parti, di un rapporto di lavoro subordinato di fatto, in considerazione delle effettive modalità  di esecuzione della prestazione. Il lavoratore, in particolare, ha chiesto alla ditta la corresponsione delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto corrispondenti alle mansioni di impiegato di concetto (secondo livello retributivo). Il giudice si è soffermato sui requisiti necessari al fine di accertare la presenza degli elementi caratterizzanti la natura subordinata del rapporto. Nella sentenza, infatti, si evidenzia che le attività  che svolgeva l'agente (mostrare i campionari, prendere gli ordini, visitare i clienti con altri colleghi o con il titolare della ditta resistente, programmare con lo stesso il lavoro da fare, ecc.) non sono da sole sufficienti a provare la natura subordinata della prestazione, atteso che anche l'attività  lavorativa parasubordinata deve essere coordinata mediante direttive per il perseguimento degli obiettivi aziendali. Il giudice ha, peraltro, precisato che nemmeno l'osservanza di un preciso orario di lavoro è di per sé prova della natura subordinata del rapporto se il rispetto dell'orario non è accompagnato da altri inequivocabili elementi, quali, ad esempio, la sottoposizione del lavoratore al potere disciplinare e di controllo da parte del datore.
Co.co.co. - Contratto a progetto - Modello normativo - Forma scritta - Ad substantiam - Ad probationem
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Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ. un lavoratore, assunto con due successivi contratti a progetto,conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro al fine di vedere accertata la natura subordinata del rapporto intercorso fra le parti. Il lavoratore, in particolare, lamentava che la propria attività  lavorativa non era chiaramente individuata nel contratto stipulato e che, comunque, la stessa si risolveva nell'espletamento dell'ordinario lavoro di assistenza nel servizio appaltato dalla pubblica amministrazione alla società  convenuta. Il Tribunale di Roma, nel rigettare le domande avanzate dal ricorrente, ha affermato che la necessità  della forma scritta deve ritenersi richiesta a substantiam solo per l'accordo costitutivo del rapporto con la conseguenza che, in assenza della medesima, solo in tale ipotesi, sarà  aprioristicamente da escludere la sussistenza di una fattispecie lavorativa «a progetto». Nel caso in cui il contratto, invece, non preveda le modalità  esplicative della collaborazione sarà  onere del committente fornire la prova, nel rispetto dei limiti codicistici, della prefigurazione delle anzidette modalità . Il giudice, inoltre, ha stabilito che la finalizzazione dell'operato del collaboratore alla realizzazione, temporalmente definita o definibile, di risultati collegati a uno specifico progetto che, pur rappresentando un segmento della linea imprenditoriale, è destinato a una durata non coincidente con quella di quest'ultima, rispetta la figura del contratto a progetto.
Pari opportunità - Selezione pubblica - Composizione commissione giudicatrice - Riserva di posti
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A mezzo di azione esercitata dalla Consigliera Regionale di Parità  viene denunciato il comportamento discriminatoriotenuto in relazione a una «selezione pubblica » per il conferimento dell'incarico dirigente sanitario di 2° livello di struttura complessa, per essere la Commissione di esperti della selezione pubblica composta di soli uomini; si denuncia cioè la violazione della norma che impone alle pubbliche amministrazioni, al fine di garantire pari opportunità  tra uomini e donne per l'accesso al lavoro, di «riserva(re)» a queste ultime, «salva motivata impossibilità », «almeno un terzo dei posti di componente delle commissioni di concorso», eccetto le ipotesi in cui la Commissione risulti composta esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso. Ad avviso del giudice senese, il procedimento per il conferimento di tale incarico non ha natura di procedura concorsuale, atteso che nella relativa disciplina non è presente alcun elemento idoneo che l'assimili a un concorso pubblico, ancorché atipico. Allo stesso tempo si osserva però che non applicare, se si vuole estensivamente, la riserva in materia di composizione delle «commissioni di concorso», significa non voler cogliere, formalisticamente, la portata sostanziale di un intervento, una misura di «azione positiva», rivolta a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità ; non si tratta di introdurre per via giudiziale un'azione positiva, ma di offrire una interpretazione sostanziale e sistematica di una norma di azione positiva. Per una peculiarità  temporale della fattispecie, tuttavia, la cessazione del comportamento pregiudizievole e l'adozione di ogni altro provvedimento idoneo alla rimozione degli effetti della discriminazione accertata, è stata proiettata dal Tribunale di Siena essenzialmente in futuro (senza declaratoria di nullità  della nomina della Commissione e della successiva delibera attributiva dell'incarico, mediante stipula di contratto individuale di lavoro), ordinando esclusivamente la definizione e attuazione di un piano di rimozione di simili discriminazioni.
Mobbing - Presupposti - Insussistenza
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Il caso in esame riguarda una impiegata del locale Liceo Ginnasio Statale addetta alle mansioni di bibliotecariala quale, a seguito della chiusura della biblioteca per ristrutturazione, veniva ritenuta non più utilizzabile in maniera proficua da parte del dirigente scolastico il quale, con provvedimento, ne chiedeva lo spostamento presso altro Istituto. La ricorrente adiva pertanto il Tribunale di Lanciano per chiedere l'accertamento dell'illegittimità  dell'attività  posta in essere dal dirigente scolastico in quanto integrante, tra l'altro, gli estremi del mobbing. In particolare la sig.ra D.M. lamentava di essere stata oggetto di consistenti e ripetuti atteggiamenti persecutori da parte del dirigente scolastico consistenti nell'impedimento sistematico dello svolgimento del lavoro, nell'isolamento e nella formulazione di continue critiche alle prestazioni e alle capacità  professionali della dipendente. Nel rigettare la domanda, il giudice di Lanciano, analizza la fattispecie del mobbing definendolo una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori tali da creare una situazione di sofferenza nel dipendente, che si concreta in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in particolare, nella sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica. Sostiene pertanto che per aversi mobbing ci si deve trovare di fronte a una serie prolungata di atti volti ad accerchiare la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito. Nel pronunciarsi sulla questione, il Tribunale di Lanciano ha ritenuto quindi di escludere un comportamento mobbizzante da parte del dirigente scolastico stante l'assenza di prova circa la sussistenza di una serie di azioni ostili posti in essere dal datore di lavoro, di carattere persecutorio e discriminatoro, con lo specifico intento vessatorio in danno della lavoratrice.
Pubblico impiego - Diritto alle differenze retributive - Sussistenza - Demansionamento - Sussistenza
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Un dipendente della comunità  montana dell'Esino Frasassi, immesso in ruolo nel 1984 con inquadramento nella V qualifica funzionale lamentava il pagamento delle differenze retributive per aver svolto mansioni di IV qualifica appartenenti al profilo di geometra e successivamente, una volta vinto il concorso per accedere alla qualifica superiore, di essere stato demansionato. Il giudice adito accoglieva il ricorso depositato nel 2005. Con riferimento alle differenze retributive accertava con prove documentali e deposizioni testimoniali le effettive mansioni svolte dal ricorrente e gli riconosceva il diritto alle differenze retributive tra la VI e la V categoria, ma solo a decorrere dal 1999, essendo l'unico atto interruttivo della prescrizione il tentativo di conciliazione (art. 2948 cod. civ.). Anche il secondo motivo del ricorso, ovvero il lamentato demansionamento, è stato provato e riconosciuto dal giudice. Infatti il ricorrente nel giugno 2000 aveva vinto il concorso per ricoprire la qualifica superiore, ma proprio dal quel momento non aveva più svolto le mansioni da geometra. A nulla rileva che la Comunità  abbia erogato la retribuzione propria della qualifica di appartenenza al ricorrente, in quanto l'assegnazione di mansioni inferiori lede i diritti non meramente patrimoniali, primo fra tutti quello di essere adibito a mansioni proprie della categoria di appartenenza sancito dall'art. 56 d.lgs. 165/2001.
Ordinanza dichiarativa di estinzione - Reclamabilità - Esclusione - Inammisibilità
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All'udienza di prima comparizione fissata per un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo,il giudice, rilevato il mancato rispetto del termine di trenta giorni per la notifica del ricorso, dichiarava l'estinzione del giudizio. L'ordinanza veniva impugnata dall'opponente con atto di reclamo ex art. 308 cod. proc. civ. Il Collegio, chiamato a deciderne l'ammissibilità , ha affermato che la norma citata, sistematicamente collocata nell'ambito della Sezione III del codice di rito dedicata all'estinzione del giudizio e posta in immediata successione rispetto alla disposizione (art. 307 cod. proc. civ.) dedicata all'estinzione del processo per inattività  delle parti, si riferisce in realtà  alle sole estinzioni per inattività  delle parti e non al caso dell'estinzione del giudizio per mancata notifica del ricorso. Ha aggiunto, inoltre, il Collegio che tale norma trova applicazione solo nel caso in cui l'estinzione sia stata dichiarata nell'ambito di giudizi destinati a tenersi innanzi a organi giudiziari collegiali o quanto meno prevedenti riserve di collegialità  per alcune tipologie di decisioni. Nel rito del lavoro, affidato integralmente a giudici monocratici e in cui non sussiste alcuna riserva di rimessione al Collegio per specifiche decisioni, l'ordinanza di estinzione del giudizio può soltanto essere eventualmente impugnata, al pari della sentenza, mediante ricorso in appello.
Buste paga - Modelli 101 - Efficacia delle prove documentali - Trasferimento d'azienda - Responsabilità solidale
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Un lavoratore conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Roma la società  per la quale aveva svolto la propria attività  lavorativarivendicando il pagamento delle differenze retributive maturate nel corso di tutto il rapporto di lavoro, anche con riferimento a un periodo antecedente l'instaurazione del rapporto con la convenuta durante il quale l'attività  commerciale era stata gestita da un altro soggetto giudico. Nel costituirsi in giudizio la convenuta, assumendo essere intervenuto con il precedente gestore un trasferimento d'azienda, negava ogni responsabilità  per il periodo pregresso stante la mancata indicazione nelle scritture contabili delle somme rivendicate dal lavoratore. In ordine alle ulteriori differenze retributive, la società  evidenziava che gli importi richiesti dal lavoratore risultavano percepiti alla luce delle buste paga ' alcune delle quali tuttavia non erano state sottoscritte ' e dei modelli 101. Il giudice di prime cure rigettava il ricorso negando la sussistenza di una responsabilità  ex art. 2112 cod. civ., stante la mancata indicazione del debito nei libri contabili, e dando rilievo per le ulteriori differenze retributive alle buste paga e ai modelli 101 prodotti. Avverso tale sentenza promuoveva appello il lavoratore contestando la violazione dell'art. 116 cod. proc. civ. in ordine all'efficacia probatoria dei documenti allegati da controparte e sostenendo, inoltre, che fosse ravvisabile, nel caso di specie, una sostanziale modifica della figura imprenditoriale da ditta individuale a società  in nome collettivo piuttosto che un trasferimento d'azienda. Nel rigettare l'appello il giudice ha ritenuto che, in mancanza di elementi probatori di segno diverso, il giudice legittimamente può fondare il proprio convincimento esclusivamente sulle certificazioni rilasciate dal datore di lavoro in materia di accertamento delle imposte sui redditi, specie laddove le somme indicate nelle buste paga siano state riportate fedelmente nei libri paga e certificate ogni anno nei modelli 101 utilizzati dal lavoratore per la propria denuncia dei redditi. In ordine alla responsabilità  solidale ex art. 2112 cod. civ., la Corte, pur rilevando che solo in grado di appello era stata contestata la sussistenza di un trasferimento d'azienda, ha precisato che anche la modifica della figura imprenditoriale da ditta individuale a società  rappresenta un trasferimento di azienda, poiché, qualunque sia la forma giudica con cui si attui il mutamento, restano inalterati struttura e fini dell'azienda.
Distacco - Insussistenza - Accertamento di rapporto di lavoro subordinato - Licenziamento per cessione di ramo d'azienda
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Una lavoratrice conveniva in giudizio la società  che l'aveva assunta(Precision Tooling), e la società  presso cui era stata distaccata (Tecomec) in concomitanza con una dichiarata cessione di un ramo di azienda, chiedendo, previo accertamento di rapporto di lavoro subordinato nei confronti della seconda, la loro condanna solidale al risarcimento da illegittimo licenziamento intimatole dalla società  distaccante per cessione del ramo di azienda e per la quale non svolgeva più alcuna prestazione di lavoro. Il Tribunale di Reggio Emilia rigettava la domanda di parte attrice, ritenendo sussistente e legittima la cessione di ramo di azienda e rilevando come in ogni caso la ricorrente non fosse riuscita a dimostrare l'illegittimità  del suo distacco con conseguente novazione del rapporto per violazione dell'art. 1 della legge n. 1369/60. La Corte di Appello di Bologna riforma integralmente la sentenza di primo grado, inquadrando la fattispecie nell'istituto del distacco (o comando) nel lavoro subordinato privato, a seguito della dissociazione del soggetto che aveva proceduto all'assunzione e dell'effettivo beneficiario delle prestazione; al riguardo richiama quel consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui «la dissociazione fra il soggetto che ha proceduto all'assunzione del lavoratore e l'effettivo beneficiario della prestazione, in forza del principio generale che si desume dall'art. 2127 cod. civ. e dalla legge n. 1369 del 1960 ' principio che esclude che un imprenditore possa inserire a tutti gli effetti un proprio dipendente nell'organizzazione di altro imprenditore senza che il secondo assuma la veste di datore di lavoro ' è consentita soltanto a condizione che continui a operare, sul piano funzionale, la causa del contratto di lavoro in corso con il distaccante. Si desume da questo principio generale la necessità  che sia accertata la sussistenza di un preciso interesse del datore di lavoro derivante dai suoi rapporti con il terzo» (Cass. n. 11363/04 e in motivazione Cass. n. 16165/04). La Corte di Appello ritiene quindi illegittimo il distacco attuato nel caso in esame, per assenza delle condizioni sintetizzate nella sentenza della Corte di Cassazione n. 17748/04, la quale ha puntualizzato che «il comando o distacco che, di recente, ha trovato specifica regolamentazione nell'art. 30 del d.lgs. n. 276/2003 (la cui normativa non può, ratione temporis, trovare applicazione nella specie), disposto dal datore di lavoro presso un altro soggetto destinatario dell'attività  lavorativa, è configurabile quando ricorrono le seguenti tre condizioni: 1) deve esistere l'interesse del datore di lavoro distaccante a che il lavoratore presti la propria opera presso un altro soggetto, purché tale interesse persista per tutto il tempo del distacco; 2) il comando deve avere il carattere della temporaneità , intesa come non definitività ; 3) in capo al datore di lavoro deve perdurare il potere direttivo ' eventualmente delegato al destinatario ' unitamente a quello di determinare la cessazione del distacco (cfr. Cass. n. 5/1995, Cass n. 502/1998, Cass n. 14558/2000)». In particolare, per quanto concerne la «temporaneità  del distacco», la destinazione non deve necessariamente avere una durata predeterminata fin dall'inizio, né che sia contestuale all'assunzione del lavoratore, ovvero persista per tutta la durata del rapporto: tale durata deve solo coincida con quella dell'interesse del datore di lavoro a che il proprio dipendente presti la sua opera in favore di un terzo (Cass. n. 6657/1995). La Corte di Appello ritiene dunque che la ricorrente, formalmente distaccata presso la Tecomec, fosse in realtà  alle effettive dipendenze di quest'ultima che ne utilizzava le prestazioni, non essendo qualificabile il distacco della lavoratrice come atto organizzativo dell'impresa che lo aveva disposto, per assenza di uno specifico interesse imprenditoriale della Precision Tooling e non essendo risultato che il potere direttivo e quello di disporre la cessazione del distacco fosse rimasto in capo alla Precision Tooling. Pertanto una volta accertato che si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato fra l'appellante e la Tecomec, effettiva e unica beneficiara della prestazione di lavoro, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 1369/60, la Corte dichiara illegittimo il licenziamento, ricondotto in realtà  a una decisione della Tecomec, per infondatezza delle ragioni poste a base del recesso, non rispondendo alla realtà  che si fosse ceduto un ramo di azienda.
Accertamento diretto a erogazione gratuita di farmaci (multitrattamento Di Bella) - Insussistenza
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Una malata affetta da neoplasia diffusa, dopo essersi sottoposta a diversi interventi chirurgicipurtroppo non risolutivi della propria patologia, intraprendeva nel settembre 1999 la cura farmacologica del prof. Di Bella, a seguito della quale si verificava un recupero delle condizioni generali, e chiedeva conseguentemente la condanna della Ausl di Modena alla dispensazione gratuita per tutta la durata della terapia dei farmaci contemplati da detta terapia multitrattamentale, previo accertamento mediante Ctu medica dell'efficacia terapeutica della cura Di Bella in relazione alla propria patologia. Il Tribunale di Modena, in base all'art. 1 del d.l. n. 23/88 convertito in legge n. 94/88, rigettava la domanda in quanto la ricorrente aveva iniziato la terapia Di Bella in epoca successiva alla chiusura della sperimentazione in ordine alla efficacia terapeutica del multi trattamento (25.11.1998), e non ammetteva la richiesta Ctu medico legale, avendo la sperimentazione scientifica accertato l'inefficacia terapeutica del Mdb e avendo la Corte Costituzionale (sent. n. 121/99) escluso che il giudice potesse ridiscutere i risultati della sperimentazione. La sig.ra Ines quindi appellava la sentenza, sostenendo che il primo giudice aveva omesso di considerare che l'art. 1, comma 4, del d.l. 536/96 convertito in legge n. 648/96, individua le ipotesi di derogabilità  gratuita dei farmaci nei casi di mancanza di valida alternativa terapeutica. La Corte di Appello di Bologna conferma integralmente la sentenza di primo grado, richiamando due proprie precedenti decisioni (la n. 372 del 13.6.2002 e la n. 504 del 17.10.2002) con le quali, anche alla luce delle pronunce della Corte costituzionale (n. 121/99, n. 188/00 e n. 279/03) aveva ritenuto che l'assistito che abbia iniziato la terapia Di Bella in epoca successiva alla chiusura della fase di sperimentazione in ordine alla efficacia terapeutica del multi trattamento, non ha diritto alla somministrazione gratuita dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale. Nel contempo la Corte ritiene che non compete alla Autorità  giudiziaria accertare, mediante l'ammissione di una consulenza tecnica d'ufficio, l'efficacia terapeutica del trattamento del prof. Di Bella in relazione alla patologia tumorale dalla quale l'assistito è affetto, in coerenza con il principio dell'ordinamento secondo cui la legge ha attribuito ad appositi organi tecnici il potere di effettuare la sperimentazione in ordine all'efficacia terapeutica dei farmaci, nonché di stabilire, in caso di esito negativo, che essi non possano essere erogati gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale. La Corte conclude poi richiamando l'insegnamento della Suprema Corte (Cass. Ss. Uu. n. 12218/00) secondo il quale l'ordinamento appresta una tutela non illimitata in relazione a tutte le possibili esigenze preventive e terapeutiche dell'individuo, ma circoscritta a quelle che la normativa vigente prevede, stabilendo quali prestazioni le strutture sanitarie sono tenute a erogare. Sussistono quindi dei «limiti esterni» oltre i quali l'interesse individuale del cittadino cessa di essere direttamente garantito.
Subordinazione - Co.co.co a termine invalido - Trasformazione in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato
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F. C. ha stipulato il 1 aprile 2003 un contratto di co.co.co con Parma A.C. Spaquale «responsabile delle relazioni interne» per il periodo fino al 30 giugno 2005. Dopo il crack Parmalat, Parma A.C. è stata posta in amministrazione straordinaria. Il 16 giugno 2004 il contratto è stato risolto dall'Amministrazione straordinaria, ex art. 50 d.lgs. 270/99, che consente tale risoluzione per i contratti che non siano di lavoro subordinato. In seguito si è avuto un trasferimento d'azienda da Parma A.C. Spa in a.s. a Parma F.C. Spa. F.C. ha agito in giudizio, sostenendo che il rapporto era divenuto di lavoro subordinato, con conseguente applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav. Nei confronti della cessionaria Parma F.C. Spa. Questa si è difesa, sostenendo che, in ogni caso, il contratto di lavoro subordinato in ipotesi esistente andava considerato a termine. Il Tribunale di Parma ha in primo luogo affrontato il tema della subordinazione, richiamando la più recente giurisprudenza di legittimità  in materia, e in particolare quella secondo la quale la questione della identificazione del reale tipo di rapporto deve essere affrontata in relazione alle effettive caratteristiche dello stesso quali desumibili dalle modalità  della sua attuazione in quanto nei rapporti di durata il comportamento delle parti è idoneo a esprimere sia una diversa effettiva volontà  contrattuale sia una nuova diversa volontà  (Cass. n. 14294/2004; Cass. n. 161444/2004; Cass. 20669/2004) e quella secondo cui il potere direttivo «deve manifestarsi in ordini specifici, reiterati e intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa», mentre «il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nella organizzazione aziendale» (Cass. n. 20002/2004; Cass. n. 15275/2004; Cass. 9151/2004; Cass. n. 4889/2002). Il Tribunale ha inoltre respinto la tesi per cui il contratto di lavoro subordinato andava considerato pur sempre a termine, in quanto «il termine apposto al contratto co.co.co. era strettamente correlato e funzionale a tale contratto»; ha aggiunto che, d'altra parte, «non vi (era) alcuna prova di una volontà  delle parti di attribuire a tale clausola anche la funzione di limitare la durata del contratto di lavoro subordinato poi istauratosi tra di esse» e che, anzi, «la volontà  iniziale delle parti di dare vita a un contratto di co.co.co. (era) stata [â?¦] 'superata dalla loro condotta concreta, sulla base della quale si è instaurato tra le stesse un rapporto di lavoro subordinato», da ritenersi «a tempo indeterminato, rappresentando tale tipo di contratto la regola a fronte della quale l'eccezione deve essere debitamente allegata e provata».
I lavoratori che promuovono cause di analogo contenuto non versato in una situazione di incapacità a testimoniare
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A seguito di una procedura di mobilità  alcuni lavoratori impugnavano separatamente i licenziamenti adendo il locale Tribunale di Trani.I lavoratori deducevano lo svolgimento di mansioni analoghe a quelle di altri lavoratori non coinvolti nella procedura e la conseguente illegittimità  della loro collocazione in mobilità . Il Tribunale, respinta la richiesta di riunione delle cause formulate dall'azienda e sentiti i testi ancorché ricorrenti in analogo giudizio, accoglieva le domande dei lavoratori. L'azienda, soccombente anche in grado di appello, adiva la Corte di Cassazione deducendo la mancata riunione delle controversie e l'incapacità  a testimoniare dei lavoratori ricorrenti nei giudizi non riuniti. La Suprema Corte nel ricordare che la riunione rappresenta l'esercizio di una facoltà  del magistrato non suscettibile di censura in sede di legittimità , ha respinto il ricorso negando che la promozione di cause di contenuto analogo possa rappresentare una valida causa di incompatibilità  a testimoniare.
Licenziamento collettivo - Requisiti e finalità della comunicazione ai sensi del nono comma dell'art. 4
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Un dipendente di Poste Italiane collocato in mobilità  a seguito di una procedura di cui alla legge 223/1991 chiedeva al Tribunale del lavoro di Bologna la declaratoria di illegittimità  del suo licenziamento a lui intimato in data 19 novembre 2001, e/o previa declaratoria di nullità  degli accordi sindacali intervenuti con le Oo.Ss. Il Tribunale, con sentenza n. 829/2004, accoglieva la domanda evidenziando, tra l'altro, la mancanza di contestualità  tra la comunicazione di recesso e la comunicazione dell'elenco dei lavoratori in violazione del disposto di cui al nono comma dell'art. 4 della legge n. 223/1991. Avverso la sentenza proponeva appello Poste italiane, che viene respinto dalla Corte sul presupposto della rilevanza ' e assorbenza, rispetto agli altri motivi di censura del licenziamento ' del vizio sopra richiamato. La decisione merita attenzione anche perché relativa alla medesima procedura di mobilità  per la quale la stessa Corte d'Appello di Bologna, con sentenza del 10 novembre 2005 n. 826/05, aveva respinto le istanze del lavoratore licenziato (v. RglNews, n. 1/2006, pp. 13 ss.). La Corte d'Appello evidenzia in primo luogo che lo scopo delle contestualità  delle comunicazioni «deve essere individuato nella possibilità  per il lavoratore e per gli altri destinatari di controllare la regolarità  della procedura, il rispetto dell'accordo alla base della stessa, il rispetto dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare sulla base del concreto confronto con gli altri nominativi e con le qualità  e caratteristiche dei singoli lavoratori coinvolti». Richiamando Cass. n. 5578/2004, Cass. n. 5770/2003, Cass. n. 15898/2005 i giudici bolognesi evidenziano che la contestualità  deve essere intesa in senso rigoroso sia in relazione ai tempi delle comunicazioni e dell'inoltro della lettera di licenziamento al lavoratore, che in relazione ai contenuti delle comunicazioni stesse «che devono consentire al lavoratore e alle organizzazioni sindacali un vaglio effettivo e oggettivo dei criteri applicati» circostanze, queste, non ravvisate nel caso in esame, non solo per la «distanza di tempo considerevole tra la comunicazione del licenziamento e la comunicazione agli uffici e alle associazioni di cui all'art. 4 comma 9 della legge n. 223/1991» ma anche perché la comunicazione risultava «incompleta nel suo contenuto avendo a oggetto solo l'elenco dei lavoratori che sarebbero stati licenziati sempre nell'ambito della stessa procedura ma con diversa decorrenza (31 marzo 2002)». Il riconoscimento di un diritto di controllo proprio del lavoratore (e non semplicemente tramite le organizzazioni sindacali) è importante, specie se si considera che la stessa Corte, nella citata sentenza n. 926/05 ' con riferimento alla comunicazione di avvio della procedura e sul presupposto della non invocabilità  da parte dal singolo dipendente licenziato di eventuali insufficienze della stessa ' aveva affermato: «poiché il lavoratore non è destinatario della comunicazione di avvio della procedura e non è abilitato a partecipare all'esame della situazione di crisi e a proporre soluzioni di crisi della stessa, non può far valere in giudizio a propria tutela, in ogni caso, l'inadeguatezza della comunicazione». Sulla base di tali principi la Corte d'Appello di Bologna ha ritenuta corretta la decisione del giudice di primo grado circa la decisiva mancanza della contestualità  delle comunicazioni nel caso in esame, essendo le stesse state effettuate dal datore di lavoro a distanza di oltre quindici giorni dalla comunicazione del licenziamento al lavoratore, in assenza di qualsiasi giustificato motivo a carattere oggettivo in ordine alla tardiva comunicazione agli uffici regionali.
Fringe Benefit - Incidenza
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Con ricorso avanti il Giudice del Lavoro un lavoratore esponeva di aver prestato la propria attività  alle dipendenze della Società  convenutae di aver ricevuto dalla stessa, quale fringe benefit, un furgone che utilizzava per gli spostamenti giornalieri dalla propria abitazione alla officina della ditta; l'azienda, al momento della cessazione del rapporto, non aveva calcolato l'incidenza sul trattamento di fine rapporto del fringe benefit, con la maturazione del rispettivo credito da parte del lavoratore. La convenuta si costituiva eccependo preliminarmente l'incompetenza per territorio del giudice adito nonché la parziale prescrizione del credito rivendicato; nel merito, veniva svolta domanda riconvenzionale per la rifusione delle somme derivanti dall'utilizzo personale del mezzo assegnato dall'azienda al dipendente. Il giudice del lavoro disattendeva in via preliminare le eccezioni esposte, in quanto era pacifico che la competenza territoriale fosse del giudice adito attesa la coincidenza tra sede legale e sede effettiva dell'azienda nel territorio; d'altra parte, veniva respinta anche l'eccezione di prescrizione svolta, atteso che la pretesa azionata in ricorso concerneva l'incidenza sul Tfr del fringe benefit e il diritto al Tfr matura dal momento della cessazione del rapporto e non in costanza del medesimo. Nel merito la domanda veniva accolta, sul presupposto, ampiamente accolto dalla giurisprudenza, che la natura retributiva dell'utilizzo gratuito di autovettura aziendale deve essere affermata qualora il suddetto utilizzo serva per raggiungere da casa il luogo di lavoro e non per svolgere la prestazione lavorativa (Cass., 12155/03). Infatti, se il datore di lavoro si fa carico di riconoscere al lavoratore un beneficio non necessario per l'esecuzione del lavoro o in occasione del medesimo, quale è per l'appunto la concessione in uso gratuito del mezzo di trasporto per raggiungere il luogo di lavoro, ciò rappresenta un'integrazione della retribuzione rappresentata dal relativo risparmio per il dipendente, in quanto la medesima si configura come un'erogazione finalizzata a remunerare un'esigenza di quest'ultimo. Nella fattispecie è risultato in maniera incontestata che l'utilizzo del mezzo nettamente prevalente e abituale fosse quello finalizzato a consentire al dipendente di raggiungere da casa il luogo di lavoro e viceversa. In proposito era irrilevante la circostanza che durante la giornata lavorativa il medesimo mezzo fosse utilizzato da altri dipendenti, non essendo necessario l'uso personale esclusivo del benefit quale presupposto per il riconoscimento del medesimo. Disattesa pertanto nel merito la domanda riconvenzionale della società , il ricorso è stato accolto con il riconoscimento del credito, nella sua quantificazione non contestata da parte convenuta.
Applicabilità obbligo previsto dal ccnl di assunzione dei lavoratori prima occupati in quel servizio anche in caso di subappalt
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Un'azienda assumeva un appalto c.d. «multiservizi» comprendente vari attività tra cui quello della pulizia dei locali del committente e, non avendo competenze specifiche per svolgere detto servizio, provvedeva a subappaltarlo a un'altra società . Si apriva la consultazione sindacale previsto dall'art. 4 del c.c.n.l. Multiservizi, per il passaggio dei lavoratori dall'impresa uscente a quella subappaltante, ma in detta sede quest'ultima società  affermava di non essere obbligata ad assumere i lavoratori, sostenendo che, in assenza di una successione diretta con l'impresa subentrante, l'art. 4 non troverebbe applicazione in caso di subappalto. Sulla base di detta argomentazione la società  subentrante assumeva solo una parte delle lavoratrici e con contratti a termine di pochi mesi, scaduti i quali le licenziava. Con ricorso ex art. 700 cod. proc. civ., venivano impugnati i contratti a termine e veniva richiesta la costituzione del rapporto di lavoro anche ai sensi dell'art. 4 del c.c.n.l. Multiservizi, motivando la richiesta di provvedimento d'urgenza con il fatto che, siccome il contratto di appalto aveva una durata di due anni, il tempo necessario per un giudizio di merito avrebbe pregiudicato la possibilità  per le lavoratrici di poter essere assunte dalla futura e nuova impresa subentrante. Il ricorso viene accolto dal Tribunale sulla base delle seguenti motivazioni. Osserva il giudice che l'art. 4 del contratto Multiservizi «ha la finalità  di garantire la continuità  dei rapporti di lavoro in caso di continuità  del servizio, nella fattispecie in cui un'azienda subentri a un'altra nella erogazione di un determinato servizio appaltato da un soggetto committente». Pertanto il c.c.n.l. «è direttamente applicabile alla società  subentrante nel servizio, a prescindere dalla qualificazione del titolo di subentro, come appalto o subappalto»: sono quindi da considerarsi nulli i contratti a termine fatti sottoscrivere dal subappaltatore alle ricorrenti sia per contrasto con l'art. 4 del c.c.n.l. Multiservizi sia per contrasto con l'art. 1 del dlgs 268/2001 in quanto non ne sono esplicitate le ragioni. Il Tribunale pertanto ordina all'azienda subappaltatrice di assumere le lavoratrici alle proprie dipendenze con contratto a tempo indeterminato e con lo stesso orario di lavoro svolto durante la gestione uscente, con inquadramento al 2° livello del c.c.n.l. Multiservizi e conseguente retribuzione.
Licenziamenti collettivi - Requisiti procedurali posti a garanzia sia del sindacato sia dei singoli lavoratori
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Una lavoratrice che, a seguito di un periodo di demansionamento veniva licenziatanell'ambito di una procedura di mobilità , impugnava il suo licenziamento ritenendolo inefficace, richiedeva il risarcimento dei danni da dequalificazione. Il Tribunale di Bologna respingeva la prima domanda e accoglieva la seconda, quantificando il danno in Euro 10.000 e conseguentemente la lavoratrice proponeva appello, mentre la società  a sua volta proponeva appello incidentale tardivo chiedendo la riforma sul punto della condanna al risarcimento dei danni da demansionamento o quantomeno la riduzione del suo ammontare. La Corte d'Appello di Bologna conferma punto per punto la sentenza di primo grado. Per quanto riguarda le censure sui vizi della procedura: a) non ravvisa vizi sulla comunicazione iniziale di cui al comma terzo dell'art. 4 della legge n. 223/1991, pur riconoscendo che essa deve essere «idonea a contribuire alla conoscenza che il sindacato deve avere per esercitare efficacemente il ruolo di cogestione che la legge gli assegna» (Cass. n. 13196/03) e che, sebbene i destinatari della comunicazione siano le O.S., «tutti gli obblighi di informazione e di trasparenza sono posti non solo a garanzia del sindacato, quanto anche dei singoli lavoratori i quali, in caso di violazione, possono domandare l'accertamento dell'inefficacia del licenziamento» (Cass. n. 302/00); b) parimenti non ritiene violate né la forma né la sostanza e lo spirito delle disposizioni contenute nel nono comma dell'art. 4, che si dichiara finalizzato «a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti» e «se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione comparativa per la individuazione dei dipendenti da licenziare» (Cass. n. 16805/03), essendo essenziale che risultino «le modalità  di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori, indicazione che presuppone l'evidenziazione di tutti gli elementi (criteri generali e dati specifici) che hanno portato all'identificazione dei dipendenti prescelti per la mobilità  (con specificazione, quindi, in caso di applicazione in concorso dei tre criteri di legge, anche dei criteri con cui gli stessi sono stati fatti interagire» (Cass. n. 880/05) allo scopo di porre in grado «il lavoratore di percepire perché lui ' e non altri dipendenti ' sia stato destinatario del collocamento in mobilità  o del licenziamento collettivo» (Cass. n. 15377/04). In merito al demansionamento la Corte dichiara di condividere la tesi secondo la quale «deve escludersi che ogni modificazione delle mansioni in senso riduttivo comporti una automatica dequalificazione professionale» e quella per cui «grava sul lavoratore l'onere di fornire la prova, anche attraverso presunzioni, dell'ulteriore danno risarcibile, mentre resta affidato al giudice di merito il compito di verificare di volta in volta se, in concreto, il suddetto danno sussista, individuandone la specie e determinandone l'ammontare, eventualmente con liquidazione in via equitativa» (Cass. n. 16792/03). Argomentano i giudici bolognesi che il nostro ordinamento, a differenza di quelli di stampo anglosassone, non prevede, anzi esclude i cd. «danni punitivi» (che altri ha recentemente ribattezzato «danni normativi» al fine di sottolinearne la discendenza dalla sola violazione di un precetto): «È invero una conquista di civiltà  il fatto che il risarcimento del danno non debba essere fonte di arricchimento del danneggiato [â?¦] Un sistema siffatto, riecheggerebbe quello incentrato sulle pene private che la nostra tradizione non accetta (Cass. n. 6992/02) in nome della parità  delle parti nei rapporti iure privatorum, con la sola eccezione, costituzionalmente non ineccepibile, del potere sanzionatorio del datore di lavoro». Nel caso concreto, peraltro, la Corte d'Appello condivide l'opinione del primo giudice secondo cui «l'immotivato demansionamento della dipendente, la sua assoluta (o quasi) inerzia sono sicuramente fatti dimostrativi della progressiva obsolescenza delle competenze professionali acquisite, specie in un'organizzazione del lavoro quale quella attuale, che prevede l'introduzione di strumenti telematici in continua evoluzione, quindi in perenne adattamento». Rispetto alla quantificazione del danno, cosà statuisce la sentenza in commento: «a parere di questa Corte la somma liquidata dal Tribunale sostanzialmente pari a circa il doppio della retribuzione per il periodo di privazione delle mansioni, pare rispondente a equità  per ristorare il relativo danno».
La Cassazione ribadisce l’efficacia reale del preavviso
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Prestazioni all’interno di un seggio durante giorni festivi o non lavorativi
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La Corte investe le Sezioni Unite sulle conseguenze sul profilo previdenziale di una sentenza di reintegra
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Un lavoratore a seguito di una sentenza di reintegra otteneva in sede giudiziaria e a titolo risarcitorio una somma inferiore alle retribuzioni spettatiglidalla data del licenziamento alla reintegra. L'azienda nell'ottemperare alla sentenza di reintegra liquidava la somma al dipendente e versava gli oneri previdenziali esclusivamente sull'ammontare risarcitorio riconosciuto al lavoratore dalla sentenza. Il lavoratore adiva, quindi, nuovamente il Tribunale di Forlà allo scopo di vedere riconosciuti i contributi su tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla reintegra. Il Tribunale, con sentenza confermata in sede di appello, accoglieva la domanda affermando che ai sensi dell'art. 18 legge 300/70 il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto alla regolarizzazione previdenziale della posizione contributiva in relazione a quella che sarebbe stata la normale retribuzione nel periodo stesso. La Corte di Cassazione rilevato l'esistenza di un contrasto all'interno della sezione e considerata la rilevanza della questione, in accoglimento della richiesta del P.M., ha rimesso la decisione della questione alle Sezioni Unite.
Efficacia del licenziamento intimato da una azienda cedente e pervenuto al lavoratore dopo il subentro della nuova azienda
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Un'azienda intimava un licenziamento a un lavoratore che riceveva la comunicazione di recesso dal rapporto di lavoro dopo che l'azienda era stata ceduta.Il lavoratore che aveva contestato tempestivamente e in via stragiudiziale nei confronti dell'azienda intimante, impugnava il recesso anche nei confronti dell'azienda subentrante asserendo che il licenziamento era stato intimato a non domino. Nel promuovere il ricorso il lavoratore asseriva, infatti, che il licenziamento si era perfezionato al momento in cui l'atto era pervenuto nella sua sfera di conoscibilità  e che, pertanto, in tale data il licenziamento doveva ritenersi intimato da un soggetto non più titolare del rapporto lavorativo. Conclusa la fase del giudizio di merito, il lavoratore proponeva ricorso in sede di legittimità  avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino, che aveva riformato la decisione del locale pretore ritenendo che l'azienda subentrante era succeduta in tutti i rapporti compresi quelli in itinere. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione del collegio asserendo che l'art. 1334 cod. civ. nel disporre che gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati considera la ricezione dell'atto da parte del destinatario come requisito di efficacia o quale elemento costitutivo dell'effetto. La dichiarazione di volontà  espressa con l'atto unilaterale ' prosegue la cassazione ' si è tuttavia già  perfezionata con la sola emissione e a tale momento che occorre risalire per valutare la capacità  e la volontà  del dichiarante. Ne consegue che essendo il cessionario subentrato in tutti i rapporti dell'azienda ceduta nello stato in cui sui trovano e quindi anche nel rapporto caratterizzato da un licenziamento in itinere. In applicazione di tali principi la Suprema Corte ha quindi efficace il recesso stabilendo, altresà, che il lavoratore aveva l'onere di impugnare il recesso nei confronti del cessionario per evitare di incorrere nella decadenza di cui alla art. 6 della legge 604/66. La Corte, inoltre, ha, infatti, precisato che la mancata conoscenza dell'intervenuta cessione non rende legittima l'impugnativa stragiudiziale del licenziamento comunicata alla sola azienda cedente. L'impugnazione ' ha osservato la Corte di Cassazione ' deve essere proposta nei confronti del (e deve pervenire al) datore di lavoro attuale indubbiamente e ciò comporta un onere di informazione da parte del lavoratore che intenda contestare prima stragiudizialmente e poi davanti al giudice il licenziamento. Non può invece essere ritenuta valida una impugnazione indirizzata al precedente datore di lavoro esulando la fattispecie dall'applicazione del principio della tutela dell'affidamento.
Il lavoratore di azienda con tutela obbligatoria licenziato illegittimamente ha diritto all’indennità sostitutiva del preavvi
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Tempo determinato e clausola di non regresso
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Con l'ordinanza n.252/2006 la Corte costituzionale ha sostanzialmente evitato di decidere la questionedella prospettata violazione della clausola di «non regresso » di cui all'art. 8, n. 3, direttiva 1999/70 da parte del decreto n. 368/2001 sui contratti a termine. La decisione della Corte merita un giudizio severo per l'incapacità  di affrontare una delle questioni cruciali nel retaggio normativo del governo Berlusconi. È utile rammentare l'origine della vicenda: con ordinanza del Tribunale di Rossano Calabro (17 maggio 2004, N.U. c. Olearia Guinnicelli Srl), è stata rinviata alla Corte la questione di costituzionalità  degli artt. 10, commi 9 e 10 e 11, commi 1 e 2, del d.lgs. 368/01 per violazione dell'art. 76 Cost. (eccesso di delega) nella parte in cui non riconoscono direttamente il diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda, e con la medesima qualifica, a favore dei lavoratori che abbiano prestato attività  lavorativa con contratto a termine, per le ipotesi già  previste dall'art. 23 della legge 56/87. E invero il combinato disposto degli artt. 10 e 11 del d.lgs. 368 subordina il suddetto diritto alla condizione che sussista nel settore un c.c.n.l. che rechi una esplicita clausola in tal senso. In precedenza, al contrario, il diritto alla riassunzione era garantito in ogni caso per legge, ove il datore di lavoro, nell'anno successivo, avesse effettuato un aumento di organico. In definitiva la nuova disciplina del 2001 è peggiorativa rispetto alla vecchia, violando la clausola di «non regresso» inserita nella direttiva 1999/70 (di cui il d.lgs. 368 costituisce normativa di recepimento) secondo la quale l'attuazione della direttiva medesima non può costituire l'occasione per peggiorare la disciplina nazionale sul lavoro a termine. Trasporre la direttiva 1999/70 implica quindi la salvaguardia di tutte le maggiori tutele che ogni Stato membro aveva previsto prima della direttiva medesima. Lo stesso legislatore italiano, del resto, nella legge 422/00 (art. 1, commi 1 e 3) aveva dato delega a trasporre la direttiva sul lavoro a termine rispettandone integralmente il contenuto, ivi compreso dunque il rispetto della clausola di «non regresso». Il giudice di Rossano Calabro, quindi, aveva sollevato un problema di costituzionalità  per eccesso di delega, sul presupposto che il legislatore delegato non avesse rispettato i principi e i criteri direttivi posti dal legislatore delegante. L'ordinanza di rimessione aveva quindi posto una questione delicatissima riguardante la portata della clausola di «non regresso», rapportata alla nuova disciplina sul lavoro a termine. In questo nitido quadro normativo la Corte costituzionale, con l'ordinanza 252/06, invece di affrontare la questione sottopostale dal Tribunale di Rossano, ha restituito gli atti al giudice calabrese «al precipuo fine di consentirgli la soluzione del problema interpretativo alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte di giustizia» 22 novembre 2005, causa C-144/04 (Mangold). A giudizio della Corte costituzionale la sentenza Mangold costituisce una interpretazione del diritto comunitario alla luce della quale leggere le norme del decreto 368/01 sul diritto di precedenza. Il passaggio fondamentale della testé citata sentenza della Corte di giustizia (punto 52 della motivazione) riguarda la legittimità  di interventi normativi peggiorativi rispetto alla disciplina interna precedente, tali da non incidere sul principio di «non regresso» stabilito dalla direttiva sui contratti a termine. Il giudice comunitario, nel passaggio considerato, ha stabilito che la clausola di «non regresso » di cui all'art. 8, n. 3, della direttiva 1999/70, consente agli Stati membri una diminuzione della protezione offerta dalla legislazione nazionale (nella specie l'abbassamento dell'età  oltre la quale possono essere stipulati senza ragioni giustificative contratti di lavoro a termine), a condizione però che tale revisione venga fatta al di fuori della trasposizione della direttiva stessa e sia giustificata da un disegno riformatore motivato da nuove e reali esigenze di interesse generale. Il d.lgs. 368/01, come più volte rilevato, è stato adottato esclusivamente in via di recezione della direttiva 1999/70, sicché, seguendo il ragionamento della Corte di Lussemburgo, appare evidente l'illegittimità  delle modifiche peggiorative attuate attraverso il decreto del 2001. A questo punto, visto che la Corte costituzionale ha deciso di restituire gli atti al giudice di Rossano Calabro, quest'ultimo dovrà  riesaminare la questione scegliendo tra due alternative, di cui la seconda è una variante della prima: interpretare il d.lgs. 368 alla luce della sentenza Mangold e, come tale, considerarlo in contrasto con la direttiva 1999/70, rinviandolo, quindi, alla Corte costituzionale per far dichiarare finalmente l'illegittimità  delle norme impugnate per violazione dell'art. 76 Cost. (eccesso di delega in relazione al mancato rispetto della clausola di «non regresso»); formulare una domanda pregiudiziale alla Corte di giustizia per far dichiarare la non conformità  delle norme del decreto 368/01, con specifico riguardo al diritto di riassunzione, rispetto alla direttiva 1999/70. Vista la «sensibilità » della Corte costituzionale nell'affrontare la questione, sarebbe forse il caso di seguire la via di Lussemburgo: una pronuncia della Corte di giustizia avrebbe l'effetto di imporre allo Stato italiano il dovere di modificare il decreto 368/01 in armonia con la direttiva 1999/70. Tuttavia il passaggio alla Corte costituzionale appare in ogni caso obbligato, se non altro per il fatto che solo il giudice delle leggi può eliminare dal nostro ordinamento le norme del decreto 368/01 attraverso una pronuncia di incostituzionalità : il giudice di Rossano Calabro, con tutta probabilità , interpreterà  la sentenza Mangold nel modo più corretto (nel senso cioè che il d.lgs. 368 è attuazione della direttiva 1999/70, e quindi non vi è alcuno spazio per interpretarlo come fuori dalla portata della clausola di «non regresso», come interpretata dalla Corte di Lussemburgo nell'autunno scorso). A quel punto, di fronte a una precisa opzione interpretativa del giudice calabrese, la Corte costituzionale non dovrebbe avere alcuna ragione sufficiente per non affrontare la questione e, si spera, potrà  dichiarare l'illegittimità  del decreto 368/01 per violazione dell'art. 76 Cost.
Mobbing e legislazione regionale
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Sono legittime le leggi delle Regioni Umbria e Friuli-Venezia Giulia aventi a oggetto la disciplina di alcuni aspetti del mobbing.Le Regioni, infatti, possono intervenire per prevenire il fenomeno del «mobbing» e per sostenere coloro che sono stati sottoposti alle vessazioni. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato non fondata le questioni di legittimità  promosse a seguito delle impugnazioni del Presidente del Consiglio dei ministri nella parte in cui le leggi avrebbero leso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile e di organizzazione amministrativa degli enti pubblici. Quanto alla legge del Lazio (n. 16 del 2002), già  dichiarata incostituzionale con sentenza n. 359/2003, la Corte ha spiegato come quella sia stata dichiarata incostituzionale perché basata su un'autonoma definizione di mobbing. In quella normativa venivano anche elencati i comportamenti in cui il fenomeno poteva concretizzarsi, elementi che non spettava alla Regione formulare e che, inoltre, non erano in armonia con atti comunitari. Al contrario, i contenuti delle leggi della Regione Umbria e della Regione Friuli Venezia Giulia, rinunciando a formulare una propria definizione del mobbing con valenza generale, fanno riferimento alla normativa statale e pertanto non violano la Costituzione (art. 117). Ciò non toglie che, se l'inesistenza di una definizione dovesse condurre il legislatore territoriale a emanare atti amministrativi che esulano dalla propria competenza o comunque contrastanti con i parametri costituzionali, l'ordinamento nazionale dovrebbe azionare gli opportuni rimedi per reprimere tali ingerenze.
Pignorabilità delle pensioni dei giornalisti
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Anche le pensioni dei giornalisti, erogate dall'Inpgi, possono essere pignorate,a condizione però che sia mantenuta quella parte del reddito necessaria a garantire la sopravvivenza al pensionato. La Corte ha quindi accolto la questione sottoposta dal Tribunale di Roma nella parte in cui la norma esclude la pignorabilità  per ogni credito dell'intero ammontare della pensione erogata dall'Inpgi «Giovanni Amendola». A giudizio della Corte, come per altri trattamenti pensionistici la cui totale impignorabilità  era già  stata dichiarata incostituzionale, la norma impugnata avrebbe dovuto prevedere l'impignorabilità , con le eccezioni previste dalla legge per crediti qualificati, della sola quota della pensione necessaria per assicurare al pensionato mezzi adeguati alle esigenze di vita e la pignorabilità  nei limiti del quinto della residua parte.
Il licenziamento collettivo ben può essere limitato all'interno di un reparto aziendale ove sussistano obiettive esigenze
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A seguito di un licenziamento collettivo intimato da una azienda ospedaliera un lavoratore adiva il Pretore di Romaallo scopo di vedere dichiarare l'illegittimità  del licenziamento sul rilievo che l'ambito del licenziamento non era stato effettuato considerando i lavoratori addetti al complesso aziendale ma solo tra quelli addetti a un reparto costituito un anno prima dell'intimazione dei licenziamenti. La domanda veniva respinta sia in primo grado che in sede di appello. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso del lavoratore ha affermato che le esigenze tecnico produttive e organizzative possono oggettivamente investire solo una parte dell'azienda (unità , settore, reparto) e giustificare l'applicazione dei criteri in tale più ristretto ambito qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in un modo esclusivo a una unità  produttiva o a uno specifico settore dell'azienda. In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha precisato che la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare ala mobilità  non deve interessare necessariamente l'intera azienda ma può essere effettuata secondo una legittima scelta dell'imprenditore nell'ambito di una singola unità  produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale.
Compensazione e pignorabilità dei debiti del lavoratore
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Sono legittime le norme del codice di procedura civile nella parte in cui non prevedono che la compensazione dei crediti del lavoratoreper stipendio, salario o altre indennità  relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, debba avvenire nei limiti della misura di un quinto anche nel caso in cui il credito opposto in compensazione abbia origine dal medesimo rapporto di lavoro o d'impiego. La Corte costituzionale ha cosà respinto la questione, che era stata sollevata dal Tribunale di Palermo in relazione agli articoli 36 e 3 della Costituzione, sottolineando che «l'istituto della compensazione presuppone l'autonomia dei rapporti cui si riferiscono i contrapposti crediti delle parti». Autonomia che non sussiste qualora «i rispettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto, nel qual caso la valutazione delle reciproche pretese importa soltanto un semplice accertamento contabile di dare e avere, con elisione automatica dei rispettivi crediti fino alla reciproca concorrenza».
Indennità giudiziaria
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Legittime le norme che escludono la corresponsione dell'indennità  giudiziaria nei confronti dei magistrati in congedo straordinario per malattia.A sollevare la questione era stato il Tar Puglia nella parte in cui la norma esclude la corresponsione dell'indennità  giudiziaria nei confronti dei magistrati durante il periodo di congedo straordinario per malattia. La norma, infatti, almeno secondo il remittente, «contrasterebbe con l'articolo 3 della Costituzione, perché determina un'ingiustificata disparità  di trattamento rispetto al personale delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie che invece gode dell'indennità  contemplata dalla disposizione impugnata anche nel periodo di assenza per malattia di durata superiore a quindici giorni, perché irrazionalmente la norma stabilisce l'integrale soppressione dell'indennità  per il primo giorno di malattia (laddove le altre componenti retributive, per quel giorno, vengono solamente decurtate parzialmente) e perché la sospensione dell'erogazione dell'indennità  è collegata a causa non imputabile al magistrato». La Corte costituzionale ha ribadito l'impossibilità  di istituire un utile raffronto a causa della mancanza di omogeneità  tra le due categorie di dipendenti e del diverso meccanismo di determinazione dei rispettivi trattamenti retributivi (sentenza 15 del 1995; ordinanze 167 e 33 del 1996, 451 e 98 del 1995). Inoltre, hanno aggiunto i giudici delle leggi, «le differenze di regime giuridico tra le due categorie di dipendenti statali si sono accentuate a seguito della riforma del pubblico impiego, stante la diversità  ormai riscontrabile sul piano delle fonti della disciplina dei rispettivi rapporti di impiego».
Trattamento economico dipendenti Enti locali
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La legge della Regione Sicilia che concorre a disciplinare il trattamento economico del personale degli enti localinon può violare il principio dell'utilizzazione della contrattazione collettiva quale strumento per la disciplina dei rapporti d'impiego. La Corte costituzionale ha quindi accolto la questione sollevata dal Tribunale di Marsala nella parte in cui la normativa, intervenendo sul trattamento economico dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, finiva per violare la «norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica secondo la quale la contrattazione collettiva costituisce metodo di disciplina del rapporto di pubblico impiego». La Corte, nel dichiarare illegittima la norma impugnata, ha affermato che l'articolo 2, comma 1, della legge 421/92, ha imposto al legislatore di prevedere, «salvi i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l'organizzazione e l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate, che i rapporti di lavoro e di impiego dei dipendenti delle amministrazioni dello Stato e degli altri enti di cui agli articoli 1, comma 1, e 26, comma 1, della legge 93/1983, siano ricondotti sotto la disciplina del diritto civile e siano regolati mediante contratti individuali e collettivi». Ma non solo, ha anche imposto al legislatore di «procedere all'abrogazione delle disposizioni che prevedono automatismi che influenzano il trattamento economico fondamentale e accessorio, e di quelle che prevedono trattamenti economici accessori, settoriali, comunque denominati, a favore di pubblici dipendenti sostituendole contemporaneamente con corrispondenti disposizioni di accordi contrattuali». Per cui, hanno concluso i giudici costituzionali, dalla legge 421/92 «può trarsi il principio della regolazione mediante contratti collettivi del trattamento economico dei dipendenti pubblici e, non a caso, anche il legislatore delegato ha ribadito che quel trattamento è materia di contrattazione collettiva».
Insegnanti di religione cattolica
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È legittima la norma che stabilisce che, tra gli insegnanti di religione cattolica, possono partecipare al concorsosolo quelli che, nell'ultimo decennio, hanno prestato continuativamente servizio per quattro anni. Cosà la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità  sollevata dal Tar Puglia nella parte in cui la norma stabilisce che il primo concorso per l'accesso in ruolo degli insegnanti di religione cattolica è riservato esclusivamente a coloro che hanno «prestato continuativamente servizio per almeno quattro anni nel corso degli ultimi dieci anni». Il giudice amministrativo dubitava, in particolare, della legittimità  della disposizione poiché richiedeva che il servizio di insegnamento fosse prestato in maniera continuativa per un quadriennio negli ultimi dieci anni, piuttosto che ipotizzare un servizio di durata quadriennale, comunque svolto nello stesso periodo. Un criterio irragionevole, secondo il Tar, volto a restringere il numero di soggetti legittimati a partecipare al primo concorso per l'accesso in ruolo. La Corte costituzionale ha affermato che, nel valutare la legittimità  della norma, occorre considerare il suo carattere eccezionale rispetto al contesto normativo in cui è inserita. Quest'ultima, infatti, disciplina il primo inquadramento in ruolo di una categoria di insegnanti che ha operato tradizionalmente attraverso un incarico annuale e non in base a un concorso. Per cui, «solo in virtù di tale carattere eccezionale, la norma in questione sfugge al dubbio di costituzionalità , che deriva dalla riserva di tutti i posti ai soli incaricati annuali che la stessa norma ammette al concorso». Ad avviso della Corte, quindi, «i tre criteri prescelti nel caso in esame (il quadriennio, l'ambito dell'ultimo decennio e la continuità ) sono tra di loro congruenti e, nell'insieme, non palesemente irragionevoli».
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