Descrizione
Requisiti di costituzionalità
del contratto a termine Stretta della Cassazione
sul dirigente «convenzionale» Madre casalinga: il Tribunale di Siena
afferma il diritto del padre ai riposi giornalieriTrasferimento del lavoratore – Ragioni organizzative – Diritto alla reintegra e al risarcimento danni da mobbing – Non sus
La procedura per la riduzione del personale prevista dalla legge è applicabile nel settore giornalistico
Nel marzo del 2009 la Spa Edisud di Bari ha licenziato sei giornalisti tra cui un
«collaboratore fisso»,senza rispettare la procedura prevista per le riduzioni di personale
dalla legge n. 223 del 1991 ed in particolare senza informare preventivamente il sindacato
dei giornalisti. L'Associazione della stampa di Puglia, organizzazione sindacale locale
aderente alla Federazione nazionale della stampa, ha promosso davanti al Tribunale
di Bari un procedimento di repressione di comportamento antisindacale in base all'art. 28
Stat. lav. sostenendo che il mancato rispetto della procedura prevista dalla legge n.
223/91 le aveva impedito di svolgere le sue funzioni e chiedendo la dichiarazione di inefficacia
dei licenziamenti nonché la reintegrazione dei giornalisti licenziati nei posti di lavoro.
L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, l'inapplicabilità della legge n. 223/91 ai
giornalisti, in particolare ai «collaboratori fissi», nonché l'inconfigurabilità di un comportamento
antisindacale reprimibile in base all'art. 28 Stat. lav. Il Tribunale di Bari ha accolto
il ricorso, dichiarando l'antisindacalità del comportamento tenuto dalla Edisud Spa
nonché l'inefficacia dei licenziamenti ed ordinando la reintegrazione dei giornalisti licenziati
nei posti di lavoro. La mancata rituale comunicazione da parte della Edisud Spa all'Assostampa
dell'intenzione di procedere a un numero consistente di licenziamenti in un
breve arco di tempo ' ha osservato il Tribunale ' ha di fatto impedito agli organi sindacali
di esercitare ' pur in assenza di uno specifico e provato intento lesivo ' i poteri partecipativi
di cui all'art. 4 della legge n. 223 del 23 luglio 1991, incidendo innegabilmente sull'attività
sindacale dell'associazione, tutelata dall'art. 28 della legge n. 300 del 20 maggio
1970. Non è fondata ' ha affermato il giudice ' l'eccezione prospettata dalla Edisud Spa,
secondo cui la normativa in esame sarebbe comunque inapplicabile ai giornalisti e men
che meno ai collaboratori fissi di cui all'art. 2 Cnlg; ed invero, come recentemente disposto
dalla Suprema Corte, la disciplina dettata dall'art. 24 della legge n. 223/91, si pone
quale disciplina a carattere generale, di cui è prevista l'eccezionale non applicazione solo
nei casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e
nei casi di attività stagionali o saltuarie. In assenza di un'espressa deroga alla disciplina
generale ' ha osservato il Tribunale ' deve ritenersi che la procedura invocata non trovi
alcuna eccezione per le ipotesi di licenziamenti collettivi disposti da imprese operanti nel
campo dell'editoria, attagliandosi ritualmente alla fattispecie in esame. Deve ritenersi
infondata ' ha affermato il giudice ' anche l'eccezione di inapplicabilità della normativa ai
giornalisti con contratto ex art. 2 Cnlg, cd. «collaboratori fissi», categoria di lavoratori che,
per quanto dotati di margini di autonomia, sono pur sempre inquadrati, in un rapporto di
lavoro connotato dalla subordinazione, con ogni conseguenza di legge. Secondo la giurisprudenza
della Cassazione ' ha ricordato il Tribunale ' per la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato nell'attività giornalistica, sono aspetti qualificanti, proprio in relazione
alla figura del collaboratore fisso di cui all'art. 2 Ccnl, «la continuità e la responsabilità
del servizio, che ricorrono quando il giornalista abbia l'incarico di trattare in via continuativa
un argomento o un settore di informazione e metta costantemente a disposizione
la sua opera, nell'ambito delle istruzioni ricevute, non rilevando in contrario né la commisurazione
della retribuzione alla singole prestazioni, né l'eventuale collaborazione del
giornalisti ad altri giornali, né la circostanza che l'attività informativa sia soltanto marginale
rispetto ad altre diverse svolte dal datore di lavoro, ed impegni il giornalisti anche
non quotidianamente e per un limitato numero di ore» (Cass. Sez. lav. n. 6727 del 16 maggio
2001).
Vincitrice di concorso in stato di gravidanza – Ritardato svolgimento di accertamenti sanitari incompatibili con la gravidanza
Rapporto di lavoro dirigenziale a termine – Conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato – Insussistenza
Licenziamento disciplinare – Tipizzazione giusta causa – Previsioni del contratto collettivo – esercizio del diritto di di
Diritto del padre ai riposi giornalieri – Titolarità del diritto – Status della madre casalinga – Riconoscimento
Sospensione dal lavoro con ricorso alla Cig in costanza di preavviso di dimissioni
Un ingegnere progettista che aveva preavvisato alla società datrice di lavoro
le sue dimissioniera assegnato con altra collega alla progettazione di alcuni particolari
tecnici che avrebbero richiesto un ulteriore mese di lavoro e che avrebbe potuto portare
a compimento durante il periodo di preavviso; gli veniva altresà prospettato che sarebbe
stato necessario, nelle giornate successive, realizzare particolari tecnici ulteriori
per un diverso prodotto aziendale. Egli veniva invece invitato a passare le consegne della
progettazione che stava svolgendo ad un collaboratore autonomo che prestava la sua
attività presso gli uffici dell'azienda e sospeso dal lavoro con ricorso alla Cig ordinaria, richiesta
per «un contingente calo di ordinativi». Nonostante che l'accordo prevedesse la
rotazione della sospensione tra i dipendenti, presso l'ufficio tecnico solo il lavoratore e
un collega, analogamente dimissionario, venivano sospesi per più settimane. Il lavoratore
impugnava tempestivamente il provvedimento di sospensione e chiedeva di essere
immediatamente riammesso al lavoro sino allo spirare del periodo di preavviso contrattuale
chiedendo altresà di essere tenuto indenne da ogni danno derivante, sotto il profilo
patrimoniale, dalla sospensione. La società non riscontrava la sua richiesta. Svolto inutilmente
il tentativo di conciliazione egli impugnava la sospensione avanti al Tribunale
chiedendo, essendo ormai cessato il rapporto, la declaratoria di illegittimità della sua
sospensione ed il pagamento delle retribuzioni contrattuali. Secondo il Tribunale incombe
sul datore di lavoro l'onere di provare il nesso di causalità tra la sospensione del singolo
lavoratore e le ragioni per le quali la legge gli riconosce il potere di sospensione, atteso
che il potere di scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione guadagni, al primo
riservato, non è incondizionato, ma sottoposto al limite di carattere interno derivante
dalla necessaria sussistenza del rapporto di coerenza fra le scelte effettuate e le finalità
specifiche cui è preordinata la cassa integrazione guadagni e dall'obbligo di osservare
i doveri di correttezza e buona fede imposti dall'artt. 1175 e 1375 cod. civ., nonché
dall'ulteriore limite di carattere esterno derivante dal divieto di discriminazione tra lavoratori.
(Cass n. 8998/2003; Cass. n. 18296/2002). L'istruttoria testimoniale confermava
che non sussisteva alcun nesso causale tra la finalità indicata dalla società nel verbale di
accordo sindacale che precedeva la sospensione e la scelta del lavoratore da sospendere,
ed anzi confermava che il suo apporto lavorativo sarebbe stato necessario e che l'ufficio
al quale egli era addetto non era affatto interessato dalla crisi derivante dal calo degli
ordinativi che determinava la richiesta di Cig, tanto che il lavoratore era stato sostituito
da un collaboratore autonomo nelle sue mansioni. Rilevava il giudice che neppure
nelle comunicazioni di sospensione dell'attività lavorativa indirizzate al lavoratore dalla
società convenuta erano indicati i criteri specifici idonei a giustificare la scelta del ricorrente
quale lavoratore da collocare in Cig. Per il giudice la domanda con cui il lavoratore
sospeso, allegando l'illegittimità della sospensione per collocamento in cassa integrazione,
chiede, quale ristoro per aver subito l'illegittima sospensione del rapporto, la differenza
tra la retribuzione e il trattamento di integrazione salariale, ha natura di risarcimento
del danno da inadempimento contrattuale ex art. 1218 cod. civ., con conseguente
applicazione dei criteri di riparto dell'onere della prova in materia contrattuale (Cass.
civ., Ss. Uu., 30 ottobre 2001, n. 13533; Cass. n. 1550/2006). Come è noto l'imprenditore,
con la richiesta di ammissione al trattamento, deve indicare le cause della sospen-sione del rapporto o della diminuzione dell'orario, la durata prevedibile, nonché il numero
dei lavoratori interessati: e, come si è detto, la scelta dei singoli lavoratori da sospendere
è censurabile in ragione della violazione, da parte del datore, dei parametri di
buona fede, correttezza e non discriminazione, al cui rispetto il datore stesso è tenuto sia
in ragione degli art. 1175-1375 cod. civ. che del principio di corrispondenza tra la causa
che determina l'esigenza della sospensione e l'attività del lavoratore sospeso. In ipotesi
di ricorso alla Cassa integrazione ordinaria, infatti, se la «causa integrabile» non è riferibile
al posto di lavoro legittimamente occupato dal dipendente sospeso, la collocazione
in Cig è illegittima e consegue il diritto del lavoratore alla riammissione nel posto di lavoro
e al risarcimento del danno, nella misura della differenza tra quanto percepito a titolo
di integrazione e la retribuzione piena spettante.
I criteri di scelta dei lavoratori da collocare in cassa integrazione devono essere, inoltre e
comunque, specifici, trasparenti e verificabili cosà da rendere fattibile «ex post» il controllo
della legittimità dell'operato dell'impresa da parte dei soggetti interessati. Nel caso
concreto non avendo il datore di lavoro assolto all'onere della prova sullo stesso incombente
' non essendosi costituito in giudizio ' ed essendo emersa dall'istruttoria l'insussistenza
del nesso causale tra la scelta del ricorrente e le cause del ricorso alla Cig, il giudice
dichiarava che la sospensione dall'attività lavorativa con collocazione integrava un inadempimento
contrattuale ex art. 1218 cod. civ. per violazione dei criteri di buona fede,
correttezza e del principio di non discriminazione nonché delle previsioni di cui alla legge
n. 164/1975 e legge n. 223/91 e doveva pertanto essere dichiarata illegittima, con condanna
al pagamento del danno derivante in misura delle differenze retributive.
Lettura del dispositivo all’udienza successiva a quella della discussione– Nullità della sentenza: insussistenza – licenz
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Necessità di specificazione del motivo produttivo-Organizzativo –
Improcedibilità appello – Rispetto del termine di 10 gg. per la notifica dell’appello – Questione di costituzionalità
La Cassazione afferma l’antisindacalità della sostituzione dei lavoratori scioperanti con il personale direttivo dell’azien
Stretta della cassazione sulla configurabilità del dirigente convenzionale
Un lavoratore inquadrato con la categoria di dirigente veniva licenziato da
un'azienda sulla base di una generica soppressione della posizione lavorativa
ricoperta.Nel corso del giudizio instaurato innanzi al Tribunale di Milano il lavoratore
richiedeva l'annullamento del licenziamento e la conseguente reintegra nel posto di
lavoro deducendo che al proprio inquadramento non corrispondevano gli effettivi poteri
che caratterizzano un dirigente, alter ego dell'imprenditore. La domanda del ricorrente
veniva respinta nei due gradi di giudizio di merito. La Corte di Cassazione nel
confermare la decisione del Collegio ambrosiano ha ripercorso lo sviluppo della giurisprudenza
relativamente alla configurabilità della nozione di dirigente per affermare
che alla luce della recente decisione delle Sezioni Unite 30 marzo 2007 n. 7880 la distinzione
tra dirigente apicale e convenzionale deve ritenersi superata. Afferma, infatti,
la Suprema Corte che la diversità contenutistica tra le posizioni dirigenziali non legittima
la limitazione della qualifica dirigenziale esclusivamente al solo soggetto che
costituisca un alter ego dell'imprenditore, dovendosi fare riferimento in considerazione
della complessità della struttura dell'azienda ed alla molteplicità delle dinamiche aziendali
nonché alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale
alla contrattazione collettiva di settore che esprime volta per volta la volontà delle
associazioni stipulanti in relazione alla specifica esperienza nell'ambito del singolo
settore produttivo.
Non costituisce una violazione della riservatezza la divulgazione di documenti aziendali sottoscritti dal dipendente
In occasione della ricezione di una serie di lettere anonime di contenuto diffamatorio
un'azienda operante nel settore del trasporto ferroviarioal fine di
scoprire l'autore delle missive consegnava ai lavoratori interessati dalle affermazioni
offensive alcuni documenti redatti e sottoscritti da un lavoratore sospettato di esserne
l'autore al fine di confrontare la scrittura. Il lavorare, risultato estraneo alla vicenda
all'esito di una perizia calligrafica, interessava il Tribunale di Milano al fine di richiedere
il risarcimento del danno per lesione della riservatezza. Il lavoratore lamentava,
infatti, che la consegna di documenti contenenti suoi dati personali costituiva un trattamento
di dati illegittimo. Il Tribunale di Milano e la competente Corte di Appello rigettavano
la domanda escludendo che documenti aziendali costituissero un «trattamento
di dati personali». La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici
di appello sul rilievo che la normativa generale in tema di riservatezza debba essere
coordinata con l'obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie
a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro alle sue dipendenze.
In presenza di lettere di contenuto diffamatorio, quindi, ' evidenzia la Corte
' erano in gioco diritti degli altri dipendenti di rilievo costituzionale, e tali diritti non
potevano trovare attuazione se non individuando l'autore degli anonimi. Sulla base di
tale ponderazione di interessi ed anche sulla base del rilievo effettuato dai giudici di
merito che i documenti consegnati avevano un contenuto «pochissimo significante»
l'iniziativa della società è stata ritenuta correttamente legittima.
La sentenza di reintegra nel posto di lavoro può determinare un danno alla professionalità equitativamente valutabile
Alcuni lavoratori i cui licenziamenti erano stati dichiarati illegittimi con sentenze
passate in giudicato adivano il Tribunale di Bergamoal fine di ottenere il risarcimento
dei danni conseguenti alla mancata reintegrazione nel posto di lavoro. La
Corte di Appello, ritenendo che l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori contenga una previsione
di risarcimento che riguarda solo la parte del mancato guadagno, accoglieva la domanda
dei lavoratori per la lesione subita alla professionalità . Avverso tale decisione l'azienda
proponeva ricorso di legittimità osservando che il danno da licenziamento illegittimo
nell'ambito della tutela reale era integralmente «coperto» dalla previsione contenuta
nello Statuto dei lavoratori e lamentando altresà che i giudici di merito avevano ritenuto
sussistere un danno in re ipsa in violazione dall'inerzia del lavoratore disattendendo
la giurisprudenza delle Sezioni Unite che imponeva una rigorosa dimostrazione
del danno alla professionalità . La Corte di Cassazione ha respinto il gravame affermando
che il danno alla professionalità trova il proprio riconoscimento nella previsione dell'art.
2103 cod. civ. che non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 18 dello Statuto in
quanto le due norme danno una propria specificità e sono dotate da marcati caratteri differenziali.
Sulla base di tale affermazione la Suprema Corte ha quindi ritenuto che la tutela
reale non esclude che il lavoratore possa richiedere il danno ulteriore che gli sia derivato
dal ritardo nella reintegra e che tale danno possa essere liquidato equitativamente.
Nell'escludere, inoltre, il motivo di censura relativamente all'affermazione del danno
in carenza di una compiuta prova, la Suprema Corte ha ricordato che in presenza di una
lunga inattività e per prestazioni che richiedano un costante aggiornamento l'inoperosità
determina un danno che può ritenersi in via presuntiva come correttamente affermato
dai giudici di merito.
Un lavoratore che assiste un parente disabile può essere trasferito per incompatibilità ambientale
Un'insegnante che assisteva un proprio familiare con grave menomazioni e che
beneficiava, quindi, delle agevolazionidi cui alla legge quadro sull'handicap, veniva
trasferita ad altro istituto scolastico a causa di una esasperata conflittualità esistente
con i colleghi e con gli alunni che aveva determinato una incompatibilità ambientale del
docente all'interno dell'istituto. Nel corso del giudizio volto a vedere dichiarare l'inefficacia
del provvedimento di trasferimento il giudice del lavoro di Messina, con sentenza
confermata in sede di gravame, accoglieva la domanda della lavoratrice. A fronte del ricorso
di legittimità promosso dall'amministrazione la Sezione lavoro, in considerazione
dell'importanza della questione, rimetteva la decisione alle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite
hanno accolto il ricorso sul rilievo che la scelta operata dal legislatore che permette
al lavoratore di opporsi al trasferimento deve essere intesa nel senso che nel bilanciamento
degli interessi delle parti di un rapporto di lavoro introduce un limite esterno al
potere del datore di lavoro di trasferimento dal momento che l'interesse della persona
andicappata prevale sulle esigenze produttive ed organizzative del datore di lavoro. Tale
bilanciamento, tuttavia, concludono le Sezioni Unite, non esclude che l'interesse del
lavoratore debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla ordinaria
mobilità , che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro,
pubblico o privato, cosà come avviene in altre ipotesi di divieto di trasferimento previste
dall'ordinamento per le quali la considerazione dei principi costituzionali coinvolti può
determinare un limite alla prescrizione di inamovibilità . Tali ulteriori rilevanti interessi si
distinguono ' afferma la Cassazione ' dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo
in quanto costituiscono esse stesse cause di disorganizzazione e disfunzione realizzando,
di per sé, una obiettiva esigenza di modifica del posto di lavoro. La particolarità delle
esigenze sottese a tali situazioni, riconducibili a valori di rilievo costituzionale e allo
stesso mantenimento dell'assistenza alle persone andicappate (come nel caso di soppressione
del posto di lavoro) determina la inapplicabilità in caso di incompatibilità ambientale del diritto di opporsi al trasferimento. Sulla base di tali rilievi le Sezioni Unite
hanno quindi ritenuto che il diritto di colui che assiste un parente o un affine handicappato
a non essere trasferito ai sensi dell'art. 33 legge 104/90 non può subire limitazioni
in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell'azienda, non
è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una verifica rigorosa, la incompatibilità
della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.
Il licenziamento intimato per il rifiuto di divenire socio di cooperativa non costituisce licenziamento ritorsivo
Un lavoratore che aveva rifiutato di divenire socio cooperatore all'interno di una
cooperativadi cui era dipendente veniva licenziato dall'azienda per tale ragione. Il
Tribunale di Venezia ritenendo il licenziamento nullo in quanto ritorsivo disponeva la reintegra
del dipendente nel posto di lavoro. La sentenza del locale magistrato veniva tuttavia
riformata dalla Corte di Appello che escludendo il carattere ritorsivo disponeva l'applicazione
della cd. tutela obbligatoria. Avverso tale decisione interponeva gravame di legittimità
il lavoratore il quale censurava la decisione del Collegio veneziano laddove aveva
omesso di considerare che il licenziamento era scaturito dalla mancata adesione alla
proposta di trasformazione del rapporto e che conseguentemente doveva ritenersi nullo
discriminatorio in quanto finalizzato a perseguire uno scopo contrario a norme imperative.
La Corte di Cassazione pur dando atto che il licenziamento discriminatorio è suscettibile
di una interprestazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende
anche il licenziamento per ritorsione, ossia intimato a seguito di comportamenti risultati
sgraditi dal datore di lavoro ha, tuttavia, affermato che tale nozione non comprende tutte
le ipotesi non rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato
motivo di recesso. Il licenziamento discriminatorio inteso in senso estensivo costituisce una
specificazione del licenziamento viziato da motivo illecito di cui, tuttavia, afferma la
Cassazione, costituisce solo una specie. Il licenziamento discriminatorio inteso in senso
lato riguarda, quindi, solo la risoluzione basata su motivi che integrano il perseguimento
di una finalità contraria all'ordine pubblico, al buon costume o ad altri scopi espressamente
proibiti dalla legge e non quando rivelino altri fini che in sé, pur non legittimi, non
siano configgenti con tali principi.
Nuova disciplina dei contratti a termine
Il Governo Berlusconi aveva tentato di impedire che i contratti a termine illegittimi(che fossero oggetto di contenzioso giudiziario alla data del 22 agosto
2008) venissero convertiti in contratti a tempo indeterminato, concedendo solamente
un modestissimo ristoro economico da un minimo di 2,5 ad un massimo di 6 mensilità
di retribuzione. La norma in questione ha suscitato fin dall'inizio grande scalpore per
gli evidenti profili di incostituzionalità che, oggi, trovano definitiva conferma nelle motivazioni
della sentenza della Corte Costituzionale: «In effetti, situazioni di fatto identiche
[â?¦] risultano destinatarie di discipline sostanziali diverse per la mera e del tutto
casuale circostanza della pendenza di un giudizio alla data del 22 agosto 2008 (giorno
di entrata in vigore dell'art. 4-bis del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dall'art. 21,
comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112). La Corte ha inoltre avuto modo
di esaminare la questione della presunta violazione del diritto comunitario (per
l'abbassamento del livello di tutela per i lavoratori), giudicando infondata l'eccezione
sollevata rispetto agli artt. 1, comma 1, e 11 del d.lgs. n. 368/2001. Il primo di questi articoli
ha sostanzialmente innovato la precedente disciplina del decreto n. 368/2001
stabilendo che: «È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di
lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro». Questa locuzione
finale era stata interpretata dai giudici rimettenti come una modifica peggiorativa
rispetto alla precedente formulazione dell'articolo 1 (che, appunto, non prevedeva
quest'ultima parte). La Corte Costituzionale, tuttavia, ha rigettato la questione facendo
leva sul secondo comma dell'articolo 1 del d.lgs. n. 368 (non innovato né cancellato
dal Governo Berlusconi), a norma del quale: «L'apposizione del termine è priva di
effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono
specificate le ragioni di cui al comma 1». In sostanza, per dirla con le parole della Corte:
«L'onere di specificazione previsto da quest'ultima disposizione impone che, tutte
le volte in cui l'assunzione a tempo determinato avvenga per soddisfare ragioni di carattere
sostitutivo, risulti per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa
della sua sostituzione». È questo, a ben vedere, un punto cruciale: in ogni caso di apposizione
del termine al contratto di lavoro, il datore ha sempre l'onere di specificarne
le causali in modo chiaro e trasparente per consentire un effettivo controllo giudiziale
sull'effettivo svolgimento del rapporto di lavoro, pena la conversione del contratto. In
questo senso, quindi, la Corte Costituzionale ha affermato che, rispetto alla precedente
disciplina di cui alla legge del 1962, nulla di sostanziale è cambiato e, quindi, non vi
è stato un arretramento nella tutela dei lavoratori a termine. L'ultima questione affrontata
dalla sentenza n. 214/2009 riguarda, infine, la legittimità dell'utilizzo dei contratti
a termine «acausali» (ovvero senza alcun onere di specificazione delle cause giustificatrici
per l'apposizione del termine ai contratti) da parte delle aziende concessionarie
di servizi nei settori delle poste. Ad avviso del giudice rimettente, la norma, consentendo
alle aziende concessionarie di servizi nei settori delle poste di stipulare contratti
di lavoro a tempo determinato (oltre che per le causali e nelle forme previste dall'art.
1 dello stesso d.lgs. n. 368 del 2001) anche liberamente entro i limiti temporali e
quantitativi in essa indicati, avrebbe violato l'art. 3 della Costituzione poiché avrebbe
introdotto, ai danni dei lavoratori operanti nel settore delle poste, una disciplina differenziata
del lavoro a termine priva di ragionevolezza e di valide ragioni giustificatrici.
La Corte, anche in questo caso, ha deciso per l'infondatezza della questione sottopostale
sottolineando che «il legislatore, in base ad una valutazione ' operata una volta
CORTE COST.
14 LUGLIO 2009
N. 214
(Pres. Amirante,
Rel. Gazzella)
Nuova disciplina dei
contratti a termine
Art. 4-bis d.lgs. n. 368/2001 introdotto
dall'art. 21, comma 1-
bis, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112
convertito in legge 6 agosto
2008, n. 133 (art. 3 Cost.)
per tutte in via generale e astratta ' delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi
postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto
che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato
senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici
del termine». Inoltre, dato che tali aziende operano in un settore di « preminente interesse
generale» e svolgono un «servizio universale», non è dunque irragionevole riconoscere
ad esse «una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque
fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato
». In definitiva, l'uso del contratto a termine «libero da causali» costituisce
un'assoluta eccezione, selezionata attraverso ben precisi parametri relativi alla natura
e alle funzioni svolte dalle aziende interessate.