Descrizione
Carta di soggiorno e prestazioni assistenziali al vaglio della Corte costituzionale La Cassazione e le tecniche di outsourcing Perdita di chance per esclusione da selezione interna avanti la Corte di Appello di BolognaIl lavoratore licenziato non deve provare che il n. di dipendenti della datrice sia più di 15 per la reintegra e il risarciment
Miria M. dipendente della Srl Paper's World con qualifica di impiegata «C1» e contratto a tempo parziale, è stata licenziatanell'agosto 1993 con motivazione riferita
alla crisi del settore produttivo. Ella ha chiesto al Tribunale di Teramo di dichiarare illegittimo
il licenziamento, di ordinare la sua reintegrazione nel posto di lavoro e di condannare
l'azienda al risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. La Srl Paper's World si è
difesa sostenendo l'effettività del motivo addotto per il licenziamento e contestando comunque
di avere più di 15 dipendenti, requisito necessario per l'applicazione dell'art. 18
Stat. lav. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ma, la sua decisione è stata riformata dalla Corte
di Appello di L'Aquila che, ha dichiarato illegittimo il licenziamento. La Corte tuttavia
non ha ritenuto applicabile l'art. 18 Stat. lav. osservando che la lavoratrice non aveva provato
che il numero dei dipendenti fosse superiore a 15; pertanto, in applicazione della legge
n. 604/66, ha condannato l'azienda a riassumere l'appellante entro tre giorni o, in
mancanza, a corrisponderle un'indennità pari a 2,5 mensilità dell'ultima retribuzione globale
di fatto. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza
della Corte di L'Aquila, tra l'altro, per non avere posto a carico dell'azienda l'onere di provare
che il numero dei dipendenti era inferiore a 16 e per non avere conseguentemente ritenuto
applicabile l'art. 18 Stat. lav. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, richiamando la
sentenza delle Sezioni Unite n. 141 del 2006, secondo cui grava sul datore di lavoro l'onere
di provare l'inesistenza del requisito occupazionale e perciò l'impedimento all'applicazione
dell'art. 18 Stat. lav.
Il danno esistenziale prodotto dalla perdita di un congiunto ha natura non patrimoniale ed è diverso dal danno biologico
Angelo C. è morto nel febbraio 1993 a causa di un incidente stradale.La vedova Lidia
e i figli Alex e Massimiliano hanno chiesto al Tribunale di Brescia la condanna del responsabile
dell'incidente e della compagnia presso la quale questi era assicurato al risarcimento
di tutti i danni da loro subiti ivi compreso il danno biologico. Il Tribunale ha condannato
i convenuti al pagamento delle somme di lire 285 milioni a titolo di danno patrimoniale
subito per la perdita dell'apporto di contribuzione economica che era dato dal defunto
ai suoi famigliari e di lire 200 milioni a titolo di danno morale; ha rigettato invece la
domanda di risarcimento del danno biologico per mancanza di prove di malattie psico-fisiche
insorte a causa della scomparsa del congiunto. In grado di appello la Corte di Brescia
ha condannato i convenuti al pagamento dell'ulteriore somma di lire 90 milioni a titolo
di risarcimento del danno subito dai congiunti della vittima jure proprio in ragione
della «permanente alterazione del rapporto familiare conseguente alla perdita dello stretto
congiunto e alla privazione improvvisa di tutti quei legami affettivi, etici e psicologici
che costituivano il suo modo d'essere anche nei rapporti esterni e che erano una componente
fondamentale dell'equilibrio e armonia del nucleo familiare». La Corte ha fatto rientrare
questa permanente alterazione o danno esistenziale nel concetto di danno biologico,
osservando che «in una moderna concezione della persona intesa come portatrice di
valori, aspettative e diritti che trova il suo punto di riferimento costituzionale negli artt. 2,
29 e 32 della Costituzione, l'ordinamento giuridico deve tutelare il diritto alla salute, ossia
il benessere fisico e psichico inteso in senso ampio, da ogni ingiusta offesa altrui». In
proposito la Corte ha rilevato, tra l'altro, che il defunto conviveva pacificamente con la moglie
e i figli e aveva con loro anche rapporti di collaborazione. La compagnia assicuratrice
ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi
di motivazione e violazione di legge; essa ha tra l'altro rilevato che la Corte avrebbe dovuto
porre a carico dei congiunti della vittima la prova del danno esistenziale.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, pur correggendo la motivazione della Corte di
Brescia nel senso che il danno esistenziale costituisce un pregiudizio non patrimoniale diverso
dal danno biologico. In proposito essa ha richiamato la recente decisione delle Sezioni
Unite n. 6572 del 24 marzo 2006 secondo cui il danno esistenziale consiste in «ogni
pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile)
provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali
propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione
della sua personalità nel mondo esterno». Per quanto attiene alla prova la Suprema
Corte ha affermato che nel caso di perdita del congiunto il danno esistenziale va presunto,
ferma restando la possibilità della prova contraria. Provato il fatto-base della sussistenza
di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto,
è da ritenersi ' ha affermato la Corte ' che la privazione di tale rapporto presuntivamente
determini ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull'assetto
degli stabiliti e armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi
degli stretti congiunti del defunto (anche) all'esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni
rapporti della vita di relazione. Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione
' ha aggiunto la Corte ' dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es. situazione
di mera convivenza «forzata», caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati
da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà «separati in casa» ecc.).
In caso di assunzione con contratto di formazione lavoro la formazione non si adempie con l'affiancamento a colleghi più anzian
Francesco A. è stato assunto alle dipendenze della Vigil Sud Srl con contratto biennale di formazione e lavoro come guardia giurata.Alla scadenza del biennio,
l'azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore si è rivolto al pretore di Catania sostenendo
la nullità del termine per scadenza del rapporto, in quanto la società non aveva
adempiuto all'obbligo formativo, avendo concentrato in poche ore giornaliere all'inizio del
rapporto la formazione teorica e avendo omesso del tutto la formazione pratica dal momento
che egli era stato adibito fin dall'inizio alle mansioni di guardia giurata. Pertanto egli
ha chiesto l'annullamento del licenziamento. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro,
che il lavoratore aveva ricevuto, sia presso la sede che presso i posti esterni di servizio,
le prescritte nozioni formative sia teoriche che pratiche, dal legale rappresentante della
società , dal capo servizio, da personale all'uopo delegato e da colleghi di maggiore anzianità .
Il Tribunale di Catania, subentrato al pretore, dopo avere svolto l'istruttoria, ha dichiarato
l'illegittimità del licenziamento e ha ordinato la reintegrazione di Francesco A. nel
posto di lavoro. Questa decisione è stata confermata della Corte di Appello di Palermo,
che ha motivato la sua decisione rilevando che l'addestramento pratico proprio di un contratto
di formazione e lavoro non può identificarsi con la fase iniziale di un normale rapporto
a tempo indeterminato e che l'istruttoria aveva dimostrato un'attività di addestramento
pratico non adeguata alla specifica professionalità richiesta per la qualifica indicata
nel progetto formativo. L'esigenza formativa pratica ' ha aggiunto la Corte di Palermo
' non era soddisfatta dall'affiancamento al neo assunto di altri colleghi più anziani, per lo
svolgimento di servizi che comunque dovevano essere svolti non da singoli; né dalle spiegazioni
che il collega anziano poteva, durante il servizio operativo, dare al giovane; né poteva
consistere nello scambio di esperienze fra i più giovani, gli anziani, il capo servizio e
lo stesso amministratore, atteso che la specificità dell'obbligo formativo non può risolversi
nell'adibire il giovane allo svolgimento delle mansioni proprie della categoria di assunzione,
sia pure sotto la vigilanza dello stesso datore di lavoro o di un collaboratore. La
Srl Vigil Sud ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Palermo
per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso
in quanto ha ritenuto che la Corte di Palermo abbia adeguatamente motivato la sua decisione;
va poi ribadito ' ha aggiunto la Cassazione ' che, in mancanza della predeterminazione
legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice, per accertare che non vi
sia stato inadempimento degli obblighi formativi, può e deve fare riferimento al progetto
formativo approvato, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia o meno tempestivamente
dedotto la mancanza di formazione anche in relazione al progetto.
La richiesta del tentativo conciliatorio sospende il termine per l'impugnazione del licenziamento - Contrasto
Giovanni B. dipendente della Spa Fiart Mare è stato licenziato con motivazione riferita al superamento del periodo di comporto per malattia.La lettera di
licenziamento gli è pervenuta il 17 aprile 1998. Circa quaranta giorni dopo, il 27 maggio
1998, egli ha depositato presso la Direzione provinciale del lavoro di Napoli la richiesta
del tentativo preventivo di conciliazione prevista dall'art. 410 cod. proc. civ.,
manifestando l'intenzione di impugnare il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli,
in quanto a suo avviso il periodo di comporto non poteva ritenersi esaurito. Con lettera
pervenuta il 22 giugno 1998 la Direzione provinciale ha comunicato alla Fiart Mare
la richiesta avanzata dal lavoratore. Poiché il tentativo di conciliazione non ha avuto
esito, Giovanni B., con ricorso del 30 settembre 1998 ha chiesto al Tribunale di Napoli
di annullare il licenziamento. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che il lavoratore
doveva ritenersi decaduto dal diritto di chiedere l'annullamento del licenziamento,
in quanto non le aveva comunicato l'impugnazione nel termine di 60 giorni previsto
dall'art. 6 della legge n. 604/66 e la Direzione provinciale del lavoro le aveva dato
notizia della richiesta del tentativo di conciliazione il 22 giugno 1998, ossia quando
il termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento era scaduto da sei giorni.
La difesa del lavoratore ha replicato facendo presente di avere depositato la richiesta
del tentativo di conciliazione prima della scadenza del termine previsto dall'art. 6
della legge n. 604/66 e sostenendo l'applicabilità dell'art. 410, secondo comma cod.
proc. civ. secondo cui «la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo
di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di
conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine
di decadenza». Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Napoli hanno ritenuto la
tardività dell'impugnazione del licenziamento rilevando che la comunicazione all'azienda
da parte della Direzione provinciale del lavoro della richiesta del tentativo di
conciliazione era avvenuta oltre il termine di 60 giorni previsto dalla legge n. 604/66 e
che l'effetto sospensivo della decadenza non può verificarsi prima della ricezione da
parte del datore di lavoro della comunicazione dell'impugnazione. Il lavoratore ha proposto
ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello di Napoli
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso ponendosi in consapevole contrasto con altre decisioni
della stessa sezione (n. 20153 del 18 ottobre 2005 e n. 11116 del 15 maggio 2006,
pubblicata quest'ultima da «Legge e Giustizia» nel lancio del 6 giugno 2006) e affermando
che il termine di decadenza previsto dall'art. 6 legge n. 604/66 deve ritenersi sospeso
per effetto della comunicazione da parte del lavoratore all'Ufficio del lavoro della richiesta
di tentativo preventivo di conciliazione. L'eventuale ritardo dell'Ufficio del lavoro nel
comunicare la richiesta all'azienda ' ha affermato la Corte ' non deve avere conseguenze
negative per il lavoratore.
Il licenziamento per disobbedienza può ritenersi illegittimo se il lavoratore confidava nella tolleranza aziendale
Tommaso O. dipendente della Srl Casa di Cura Villa Pini d'Abruzzo, è stato licenziato con l'addebito di insubordinazione,per non avere eseguito la disposizione,
impartitagli dal suo superiore gerarchico, di recarsi, per ragioni di servizio, a
Chieti guidando un'autovettura aziendale. Egli ha impugnato il licenziamento davanti
al Tribunale di Chieti, riconoscendo che la guida dell'autovettura aziendale rientrava
nelle sue mansioni, ma facendo presente che egli aveva confidato nella tolleranza dell'azienda,
in quanto altre volte il suo rifiuto di guidare non aveva dato luogo a rilievi. Il
Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione di Tommaso O. nel
posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte di Appello
di L'Aquila ha confermato questa decisione, osservando che dall'istruttoria era emerso
che il lavoratore pur conducendo talora l'autovettura per brevi percorsi, aveva
mostrato una certa ritrosia alla guida e quando si rifiutava di guidare «tutto finiva là»;
inoltre in occasione di una riunione organizzativa egli aveva affermato che non conduceva
l'autovettura e il legale rappresentante dell'azienda nulla aveva replicato. Da
questi fatti la Corte ha dedotto che la tolleranza aziendale aveva determinato nel lavoratore
la pur errata convinzione che egli fosse esonerato dalla guida dell'autovettura;
pertanto il rifiuto da lui opposto in occasione dell'episodio che aveva dato luogo al
licenziamento era da considerarsi non un atto di disobbedienza, bensà la comunicazione
d'una propria difficoltà a un superiore gerarchico che egli riteneva non ne fosse
a conoscenza. Il fatto che la norma collettiva prevedesse come giusta causa del licenziamento
l'ipotesi generale dell'inadempienza addebitata ' ha osservato la Corte abruzzese
' non escludeva la necessità di valutare il fatto concreto, pur genericamente
inquadrabile in questa ipotesi, nelle particolari contingenti circostanze che lo caratterizzavano;
e nell'ambito di queste circostanze il fatto commesso era privo dell'intenzionalità ,
per l'errata convinzione che aveva mosso il lavoratore; non sussisteva pertanto
la proporzionalità fra fatto commesso e sanzione applicata. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di L'Aquila per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La mera tolleranza datoriale ' ha affermato la Corte
' non esclude di per sé l'illiceità del comportamento del lavoratore né il diritto del datore
di sanzionare un analogo successivo comportamento; nel caso in esame, tuttavia, il
giudicante non nega la sussistenza d'una formale inadempienza; esclude, correttamente,
che ciò possa condurre meccanicamente al licenziamento; afferma la necessità di «valutare
la gravità del comportamento alla luce di tutte le circostanze del caso concreto», e in
particolare «dell'elemento intenzionale che sorregge la condotta del lavoratore».
È consolidato principio giurisprudenziale ' ha ricordato la Corte ' che, anche nell'oggettiva
corrispondenza del concreto fatto addebitato all'astratta configurazione normativa, il
giudice debba valutare la sanzione applicata anche in funzione dell'elemento soggettivo
e di ogni altra circostanza che caratterizza il comportamento, nonché l'oggettiva lesione
della fiducia (quale fondamento del rapporto di lavoro).
La base di partenza per la liquidazione dell'indennizzo per la durata non ragionevole del processo è tra 1.000-1.500 euro annui
Franco F. ha chiesto alla Corte di Appello di Roma la condanna della presidenza del Consiglio dei Ministri all'equa riparazioneprevista dalla legge n. 89 del 2001 per l'eccessiva durata di un giudizio da lui promosso davanti
alla Corte dei Conti nel 1972, definito con sentenza depositata nell'ottobre del 2001. La Corte di Appello di
Roma ha rilevato che solo parte della quasi trentennale durata del giudizio, da contenersi
in nove anni, era giustificata da esigenze processuali e ha pertanto riconosciuto
il diritto di Franco F. all'equa riparazione per la violazione dell'art. 6 della Convenzione
per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle Libertà fondamentali ratificata e resa
esecutiva con la legge del 4 agosto 1955 n. 848. La Corte di Roma ha peraltro determinato
in via equitativa in euro 3.000 l'importo complessivo della riparazione dovuta
a Franco F. Questi ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di Roma per l'esiguità dell'importo liquidato e rilevando tra l'altro, che esso era
pari a un ventesimo di quanto indicato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo secondo
criteri che non possono essere ignorati dal giudice nazionale.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. In tema di equa riparazione per violazione della durata
ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 ' ha affermato la
Cassazione ' i criteri di determinazione del «quantum» della riparazione applicati dalla
Corte europea dei diritti dell'uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche
se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo
in casi simili, e tale regola di applicazione della legge nazionale, per quanto attiene
alla riparazione del danno non patrimoniale, ha natura giuridica, inerendo ai rapporti
tra la detta legge e la Cedu, onde il mancato e immotivato rispetto di essa da parte del giudice
del merito concretizza il vizio di violazione di legge denunziabile in sede di legittimità .
La valutazione equitativa, dunque, per quanto possibile ' ha affermato la Cassazione '
deve conformarsi alle liquidazioni effettuate in casi similari dalla predetta Corte europea,
la quale (con decisioni recentemente adottate a carico dell'Italia il 10 novembre 2004) ha
individuato nell'importo compreso fra euro 1.000 ed euro 1.500 per anno la base di partenza
per la quantificazione di tale indennizzo. Nella specie, la Corte di merito ha liquidato
in via equitativa, la quale indennizzo del cd. danno morale soggettivo riferito all'accertato
periodo di non ragionevole durata, complessivamente quantificato in circa anni venti,
l'importo di euro 3.000,00. Evidente appare la deroga in pejus rispetto ai parametri Cedu,
la quale, attesa la rilevante entità del di scostamento ' ha concluso la Corte ' non può
ritenersi giustificata anche per il profilo logico dal generico, astratto richiamo all'«entità
degli interessi economici in gioco» nel processo ove si è verificato il mancato rispetto del
termine ragionevole, richiamo anche avulso da qualsiasi comparazione con le condizioni
socio-economiche del ricorrente.
Incombe al datore di provare di aver rispettato il requisito dell'immediatezza nella contestazione dell'addebito disciplinare
Mauro S. dipendente della Conad Emilia Ovest Scrl è stato sottoposto a procedimento disciplinarenel luglio del 1997 con l'addebito di avere partecipato nel
novembre del 1996 alla preparazione di un documento di critica dei dirigenti della società
presentato da alcuni soci in occasione dell'assemblea del novembre 1996. Poiché
le giustificazioni da lui addotte sono state ritenute infondate, egli è stato licenziato.
Nel giudizio che ne è seguito davanti al Tribunale di Reggio Emilia, il lavoratore ha sostenuto,
tra l'altro, che il licenziamento doveva ritenersi nullo per tardività della contestazione
dell'addebito. L'azienda si è difesa affermando di avere rinvenuto soltanto
del giugno del 1997 un brogliaccio dal quale aveva potuto desumere la partecipazione
del dipendente alla redazione del documento critico. Il Tribunale ha ritenuto legittimo
il licenziamento, in quanto ha escluso la tardività dell'addebito osservando che, se l'azienda
fosse venuta a conoscenza del comportamento scorretto del dipendente prima
del giugno 1997, glielo avrebbe certamente contestato. Questa decisione è stata riformata
dalla Corte di Appello di Bologna che ha rilevato che la circostanza del rinvenimento
del brogliaccio nel giugno del 1997 non era stata provata dall'azienda. La Corte
ha anche osservato che il Tribunale aveva escluso la tardività della contestazione in
base a una presunzione non utilizzabile in quanto fondata su un fatto ignoto; pertanto
ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Mauro S. nel posto di
lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La società ha proposto ricorso
per cassazione sostenendo, tra l'altro, che la Corte di Bologna aveva posto erroneamente
a suo carico la prova dell'immediatezza della contestazione. La Suprema
Corte ha rigettato sul punto il ricorso. Perché le presunzioni semplici abbiano valore '
ha affermato la Corte ' è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi,
precisi e concordanti (art. 2729 cod. civ.); devono cioè essere tali da lasciare apparire
l'esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del
fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo
regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità ;
non è consentito al giudice, in mancanza di un fatto noto, fare riferimento a
un fatto presunto e derivare da questo un'altra presunzione. Nella specie ' ha osservato
la Corte ' correttamente il giudice di appello ha negato la validità del ragionamento,
seguito da quello di primo grado, per affermare la tempestività della contestazione
di addebito formulata dalla società , in quanto nel sostenere che se questa avesse
saputo delle inadempienze del suo dipendente lo avrebbe licenziato, ha, in sostanza,
finito con il risalire da un fatto ignoto a un altro fatto ignoto. L'immediatezza della
contestazione nel procedimento disciplinare ' ha aggiunto la Corte ' costituisce elemento
costitutivo del recesso per giusta causa, che deve essere verificato di ufficio dal
giudice; una volta eccepita dal lavoratore licenziato la tardività della contestazione, fa
carico al datore di lavoro di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva cognizione
del fatto poi addebitato al dipendente.
L'addetto alla cronaca giudiziaria non può considerasi «trombettiere» se non si limita a segnalare le notizie ma scrive i pez
Riccardo C. ha lavorato per la redazione fiorentina del quotidiano «La Repubblica» dal febbraio 1989 all'agosto 1993, come addetto alla cronaca giudiziaria,senza essere inquadrato come dipendente e senza essere iscritto all'Albo dei giornalisti.
Successivamente egli ha chiesto al pretore di Firenze di accertare che aveva lavorato in
condizioni di subordinazione e che per le mansioni svolte aveva diritto al trattamento previsto
dal contratto nazionale di lavoro giornalistico per il redattore. Sia il pretore che, in
grado di appello, il Tribunale di Firenze hanno ritenuto la domanda priva di fondamento.
La Suprema Corte con una prima sentenza n. 7020 del 2000 ha accolto il ricorso proposto
da Riccardo C. per vizi di motivazione e violazione di legge e ha rinviato la causa, per nuovo
esame, al Tribunale di Prato, che ha accertato l'esistenza, nel periodo 1989-1993, di un
rapporto di lavoro subordinato e ha condannato la società editrice al pagamento delle differenze
di retribuzione richieste. Il Tribunale di Prato, applicando l'art. 2116 cod. civ., ha
affermato il diritto del lavoratore alla retribuzione pur dovendosi ritenere la nullità del rapporto
di lavoro per effetto della mancata iscrizione di Riccardo C. all'Albo dei giornalisti. Il
Tribunale ha ravvisato la prova della subordinazione in primo luogo nei pezzi redatti da
Riccardo C., in media di 300 l'anno e cioè più di uno al giorno di lavoro; la circostanza ' ha
osservato il Tribunale ' escludeva che Riccardo C. fosse delegato soltanto alla raccolta di
notizie e il fatto che talvolta la stesura dell'articolo fosse affidato ad altri per disposizione
del capo redattore avveniva anche per i giornalisti dipendenti, come lo stesso capo redattore,
sentito come teste, aveva confermato. Altre circostanze ritenute rilevanti dal Tribunale
sono: che il lavoratore di mattina effettuava il giro quotidiano presso gli uffici giudiziari,
comunicando per telefono al giornale le notizie; che il pomeriggio egli si recava in redazione
ove si tratteneva per la stesura dei pezzi dalle 15.00 alle 21.00; che egli partecipava
ai turni di attesa presso il carcere; che il servizio di cronaca giudiziaria fosse in definitiva
a lui affidato. La società editrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la
decisione del Tribunale di Prato per vizi di motivazione e violazione di legge. In particolare
l'azienda ha sostenuto che il Tribunale di Prato non abbia tenuto in adeguata considerazione
la testimonianza del capo della redazione (secondo cui il lavoratore svolgeva i
compiti del cd. «trombettiere» ovvero del mero segnalatore di notizie) e le deposizioni di
altri testi (secondo cui Riccardo C. pur effettuando al mattino il giro degli uffici giudiziari,
non era a ciò tenuto).
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Le deposizioni testimoniali cui la ricorrente ha fatto
riferimento ' ha affermato la Corte ' non evidenziano illogicità della sentenza impugnata
e per l'altro verso ne confermano le valutazioni. Analizzando le dichiarazioni dei testi la
Corte ha osservato quanto segue: «Il capo della redazione fiorentina S. afferma la natura
di «trombettiere», cioè di mero acquisitore di notizie del C., in evidente contrasto con le
centinaia di articoli da lui redatti, dichiara di non avere al mattino dato disposizioni telefoniche
al C., ma precisa che questi telefonava ai capo redattori. Ammette la partecipazione
ai turni di attesa innanzi al carcere, ma li limita numericamente, circostanza illogica perché,
se era un semplice collaboratore esterno, non gli si potevano mai chiedere turni di attesa.
Assume, infine, di avere dato disposizione che «i trombettieri dovevano passare le informazioni
e basta» e non si è avveduto delle centinaia di pezzi che il C. scriveva. I testi, la cui
deposizione è riportata nel motivo, confermano la quotidiana telefonata mattutina all'esito
del giro negli uffici giudiziari, ma si affrettano ad affermare che il C. non era tenuto a farla,
ma non precisano gli elementi dai quali avevano desunto l'insussistenza dell'obbligo e
cioè compiono una valutazione della quale i giudici di merito correttamente non hanno tenuto
conto. Il motivo evidenzia ancora circostanze quali quella che il C. non avesse né una
stanza né una scrivania, ma utilizzasse quelle libere, ovvero la collaborazione di C. con altri
giornali, giustamente ritenute irrilevanti dalla sentenza impugnata quando si era accertata
la presenza al lavoro in redazione dalle 15 alle 21 e il possesso dell'accesso alla rete
informatica del giornale. Sono ancora evidenziati i maggior compensi corrisposti a C. da altri
giornali, circostanza che conferma soltanto, come ritenuto dai giudici di Prato, che egli
non era retribuito adeguatamente dalla società ricorrente».
Si rende inadempiente all'obbligo di fedeltà il dipendente che costituisca una società concorrente a quella del suo datore
Giovanni C., dipendente della società Srl Belvedere è stato licenziato nell'ottobre del 1996 con l'addebito di violazione dell'obbligo di fedeltà per avere partecipato
alla costituzione di un'altra società denominata Capinera società cooperativa a Rl,
che aveva oggetto analogo a quello della datrice di lavoro. Egli ha chiesto al pretore di Catania
di annullare il licenziamento sostenendo di non avere recato alcun pregiudizio alla
Srl Belvedere. Sia il pretore che la Corte di Appello di Catania hanno ritenuto la domanda
priva di fondamento affermando che il lavoratore si era reso responsabile di una grave violazione
dell'obbligo di fedeltà . Giovanni C. ha proposto ricorso per cassazione censurando
la sentenza della Corte di Catania per vizi di motivazione e per violazione dell'art. 2105
cod. civ. Questa norma ' ha sostenuto il lavoratore ' vieta ai dipendenti soltanto di «trattare
affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore», mentre la Corte
di Catania aveva ritenuto che il solo fatto di costituire una società fosse potenzialmente
dannoso per il datore di lavoro e comportasse la violazione dell'obbligo di fedeltà . La Suprema
Corte ha rigettato il ricorso richiamando la sua giurisprudenza secondo cui «integra
violazione del dovere di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. e è potenzialmente produttiva
di danno, la costituzione, da parte di un lavoratore dipendente, di una società per
lo svolgimento della medesima attività economica svolta dal datore di lavoro» (Cass. n.
6654 del 5 aprile 2004). Questa violazione ' ha aggiunto la Corte ' è più rilevante quando
la nuova compagine non sia una società ordinaria, in cui i soci si limitano a versare la
loro quota di capitale sociale ma, come nel caso in esame, una cooperativa di lavoro in cui,
invece, i soci, si impegnano a prestare personalmente la propria attività di lavoro per la
società e perciò a svolgere un'attività oggettivamente incompatibile con l'obbligo di svolgere
la medesima prestazione in favore del datore di lavoro.
Le controversie su inadempienze postconcorsuali della P.A. su assunzioni nel ruolo dirigenziale sono di pertinenza del G.O.
Eduardo M. dipendente del Ministero della Giustizia con inquadramento in area C/3 (profilo di direttore di Cancelleria), ha partecipato a un concorsoper 23 posti
di dirigente, classificandosi al 90° posto della graduatoria. Successivamente, in base
alla legge 19 gennaio 2001 n. 4, che ha previsto la copertura di posti della carriera dirigenziale
sulla base delle graduatorie ancora efficaci dei concorsi precedenti, il Ministero
ha disposto l'assunzione nel ruolo dirigenziale di 82 idonei tra cui Eduardo M. Questo
provvedimento peraltro è stato successivamente revocato e il Ministero ha disposto l'assunzione
di soli 69 idonei. Eduardo M., essendo rimasto escluso dall'assunzione si è rivolto
al Tribunale di Cuneo, giudice del lavoro, facendo valere il suo diritto al posto di dirigente.
Il Tribunale ha accolto la domanda accertando il diritto di Eduardo M. all'assunzione
nel ruolo del personale dirigenziale e alla stipulazione del relativo contratto di lavoro.
Il Tribunale ha anche condannato il Ministero al risarcimento del danno. Il Ministero ha
proposto appello sostenendo, tra l'altro, che la controversia rientrava nella giurisdizione
del giudice amministrativo. La Corte di Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione osservando,
tra l'altro, che la giurisdizione spettava al giudice del Lavoro in quanto la controversia
non concerneva la procedura concorsuale. Il Ministero ha proposto ricorso per
cassazione, censurando la decisione della Corte di Appello, tra l'altro, per avere affermato
la giurisdizione del giudice ordinario. La causa è stata assegnata alle Sezioni Unite per
la decisione sulla giurisdizione.
Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario,
rimettendo la causa alla Sezione Lavoro per la decisione degli altri motivi del ricorso.
L'interesse all'assunzione ' ha affermato la Corte ' assume la consistenza del diritto
soggettivo, cui si riferisce l'art. 63, comma uno, d.lgs. 165/2001, in primo luogo, nei casi
in cui non sono configurabili atti autoritativi e procedimenti amministrativi, il che avviene
tutte le volte in cui si esula dalla fattispecie di procedure concorsuali per l'assunzione (oppure
l'amministrazione difetta di attribuzione del potere di espletarle); in secondo luogo,
allorché la pretesa si fondi sull'atto terminale del procedimento amministrativo, la cui
conformità a legge non è contestata; infatti, la procedura concorsuale termina con la compilazione
della graduatoria finale. Spetta allora alla giurisdizione ordinaria ' ha affermato
la Corte ' il sindacato, da esplicare con la gamma dei poteri cognitori del giudice civile, sui
comportamenti successivi, riconducibili alla fase di esecuzione, in senso lato, dell'atto
amministrativo presupposto; nel caso di specie, mentre certamente era stata espletata una
procedura pubblica concorsuale (tale essendo quella preordinata all'inquadramento di
dipendenti in area superiore), la controversia è stata esattamente collocata dalla sentenza
impugnata fuori dell'ambito di quelle inerenti alla procedura; infatti, con l'approvazione
della graduatoria si esaurisce l'ambito riservato al procedimento amministrativo e all'attività
autoritativa dell'amministrazione, subentrando una fase in cui i comportamenti
dell'amministrazione vanno ricondotti all'ambito privatistico, espressione del potere negoziale
della pubblica amministrazione nella veste di datrice di lavoro, da valutarsi alla
stregua dei principi civilistici in ordine all'adempimento delle obbligazioni (art. 1218 cod.
civ.), anche secondo il paramento della correttezza e buona fede.
Il giudice può escludere che l'aver colpito un collega con un tubo producendogli una lesione sia giusta causa di licenziamento
Luigi F. dipendente della società Automobilistica tecnologie avanzate è stato sottoposto a procedimento disciplinarecon l'addebito di avere colpito con un tubo
di ferro un altro dipendente all'interno dello stabilimento, nel corso di un litigio, cagionandogli
lesioni personali. Egli si è difeso facendo presente, tra l'altro, di avere reagito a
una provocazione. L'azienda lo ha licenziato, facendo riferimento all'art. 25 lett. b) del
contratto collettivo nazionale di categoria che prevedeva la sanzione del licenziamento
per il dipendente che, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, si fosse
reso responsabile di azioni che costituiscono «delitto» a termini di legge; in questo caso
il delitto era quello di lesioni personali. Luigi F. ha chiesto al Tribunale di Melfi di annullare
il licenziamento, sostenendo che la sanzione era eccessiva in considerazione dei suoi
precedenti e delle circostanze del fatto. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha
rigettato la domanda in quanto ha ritenuto applicabile l'art. 25 lett. b) del contratto collettivo.
Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Potenza, che ha annullato
il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro
condannando inoltre l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha rilevato che dalla
prova testimoniale era emerso che il lavoratore aveva subito una provocazione e quindi
aveva agito in uno stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e senza alcuna premeditazione;
ha inoltre osservato che Luigi F. non aveva commesso in passato alcuna infrazione
e che l'episodio per il quale egli era stato licenziato non aveva cagionato alcun
danno all'azienda né aveva in alcun modo turbato l'attività aziendale; ha quindi concluso
che il fatto contestato al lavoratore non era tale da comportare una irreparabile interruzione
dell'elemento fiduciario. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte di Potenza per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua costante giurisprudenza secondo
cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto
collettivo non vincola il giudice, dal momento che la nozione di giusta causa è nozione
legale e il giudice deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei
licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla definizione di giusta causa di cui all'art.
2119 cod. civ. e se, in ossequio ai principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità ,
il fatto addebitato sia tale da legittimare il recesso, tenuto anche conto dell'elemento
intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore. Nel caso in esame ' ha osservato
la Cassazione ' la Corte di Potenza, valutata la portata del fatto contestato, anche
in relazione alla insussistenza di conseguenze patrimoniali e morali per l'azienda, e considerato
il comportamento precedente e successivo dell'incolpato e l'intensità del dolo ha
ritenuto, con motivazione adeguata, che la sanzione del licenziamento non fosse proporzionata
alla gravità della condotta addebitata.
Provocazione e derisione in ambito lavorativo possono configurare un'attenuante per il lavoratore che reagisca con calci e pugni
Fernando A., dipendente dell'Ilva Spa, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato in troncocon l'addebito di aver aggredito il collega Salvatore S.,
colpendolo con calci e pugni, all'uscita dallo spogliatoio dello stabilimento. Egli ha chiesto
al Tribunale di Taranto di annullare il licenziamento sostenendo, tra l'altro, che nella
valutazione del fatto si doveva tener presente che egli era stato oggetto di continue provocazioni
e derisioni da parte di Salvatore S., nell'ambiente di lavoro. Il Tribunale, dopo aver
svolto l'istruttoria, ha respinto la richiesta di annullamento del licenziamento, ma ha
escluso la configurabilità di una giusta causa, e ha ravvisato, nel comportamento di Fernando
A. un giustificato motivo soggettivo di recesso, riconoscendo pertanto al lavoratore
il diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. Questa decisione è stata riformata dalla
Corte d'Appello di Taranto che ha annullato il licenziamento in quanto ha ritenuto eccessiva
la sanzione, in considerazione del fatto che il comportamento di Fernando A. trovava
almeno parziale giustificazione nelle continue provocazioni e derisioni da lui subita
nell'ambiente di lavoro a opera di Salvatore S. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la decisione impugnata
sia stata adeguatamente motivata. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' il giudice
dell'appello, dopo avere proceduto all'esame delle deposizioni dei testi escussi, ne ha
ricavato «un dato di fatto», ritenuto di particolare rilevanza ai fini della valutazione del
comportamento posto a fondamento del provvedimento espulsivo. Ha, in proposito, affermato
che «la condotta dell'Angolano, pur se riprovevole, perché lo è sempre quella che
si impernia sulla violenza fisica o psichica, non fu peraltro del tutto arbitraria e d'impeto»,
essendo stata la sua reazione «con ogni probabilità » la conseguenza del rancore che era
venuto accumulandosi a causa del continuo e irritante scherno». La Corte di Appello ' ha
rilevato la Cassazione ' ha anche soggiunto, a maggior chiarimento della propria valutazione,
avallata dalle risultanze del libero interrogatorio dello stesso Fernando A., che, potendo
«dirsi provata» la circostanza che quest'ultimo agà in seguito alle continue provocazioni
subite, la sua condotta non poteva essere considerata cosà grave, sotto il profilo
psicologico, da legittimare l'adozione nei suoi confronti del provvedimento espulsivo, dovendosi
anche tener conto che essa non era avvenuta per ragioni di lavoro, né era stata
posta in essere durante l'esecuzione delle prestazioni lavorative, né nell'ambito del reparto,
ma solo nello stabilimento, per giunta in tarda ora, quando, per l'esiguo numero di
persone presenti, non era nemmeno ipotizzabile potesse aver provocato capannelli, pericolosi
per lo svolgimento dell'attività produttiva.
L'azienda non può trasferire il dipendente se ha concordato con lui un determinato luogo di lavoro
Costantino C. è stato assunto nel novembre 1992 dalla Spa My Lunch come addetto al servizio di refezione scolastica presso il Comune di Biella.Nel 2000 egli è
passato alle dipendenze della Spa Compass Group Italia, che ha incorporato la My Lunch.
Successivamente egli ha promosso nei confronti dell'azienda un'azione giudiziaria diretta
a ottenere il pagamento di trasferte. Il 10 agosto 2001 la Compass gli ha comunicato il
trasferimento da Biella a Pomigliano d'Arco con effetto dal 25 agosto. Egli ha rifiutato di
prendere servizio nella nuova sede, facendo presente che la lettera di assunzione prevedeva
espressamente Biella come luogo di lavoro. L'azienda ha aperto nei suoi confronti
un procedimento disciplinare con l'addebito di assenza ingiustificata a Pomigliano d'Arco.
Egli si è giustificato facendo presente che il suo posto di lavoro era, per contratto, Biella.
L'azienda lo ha licenziato per inadempimento. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Biella
di annullare il licenziamento e di condannare l'azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro
e a risarcirgli il danno in base all'art. 18 Stat. lav.. Il Tribunale ha rigettato il ricorso in
quanto ha ritenuto che fosse nella facoltà dell'azienda modificare il luogo di lavoro. Questa
decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Venezia, che ha dichiarato illegittimo
il licenziamento, ha ordinato all'azienda di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro
e l'ha condannata al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate
dalla data del licenziamento sino all'effettiva reintegrazione. La Corte ha motivato la sua
decisione osservando che dal contratto di lavoro sottoscritto nel novembre 1992 emergeva
l'impegno di Costantino C. a rendere la prestazione in un preciso luogo (servizio di refezione
scolastica presso il Comune di Biella) e l'obbligo della società di adibirlo a tale servizio.
La Compass ha proposto ricorso per cassazione censurando la Corte di Appello di
Venezia per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando l'orientamento espresso in varie sentenze
(n. 3219/79, n. 1738/82, n. 4334/83, n. 3249/85) secondo cui il potere datoriale di
determinare il luogo della prestazione lavorativa e di trasferire il lavoratore da un'unità
produttiva a un'altra è discrezionalmente esercitabile quando sussistano ragioni tecniche,
organizzative e produttive, salvo che, per disposizione di contratto collettivo o individuale,
non venga stabilito con carattere vincolante per entrambe le parti che la prestazione lavorativa
debba essere effettuata in un determinato luogo.
L'accordo tra azienda e lavoratore per la modifica peggiorativa delle sue funzioni è lecito se è teso alla tutela del posto
Moreno C. dipendente della società Officine di Borgo S. Giovanni con qualifica di operaio di terzo livello addetto ai collaudi,dopo avere trascorso un periodo in Cigs,
al suo rientro in servizio è stato adibito alle mansioni di carico e scarico di merce mediante
muletto. Successivamente egli ha chiesto al Tribunale di Lodi, tra l'altro, di accertare
che al rientro dalla Cigs egli aveva subito una dequalificazione in quanto le mansioni assegnategli
erano inferiori a quelle in precedenza svolte e di condannare l'azienda al risarcimento
del conseguente danno. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Milano hanno
ritenuto la domanda priva di fondamento, affermando che la modifica in senso peggiorativo
delle mansioni doveva ritenersi legittima in quanto era stata attuata, con il consenso
del lavoratore, per evitargli il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non essendovi
la possibilità di impiegarlo con mansioni equivalenti a quelle di collaudatore, soppresse
per ragioni organizzative. In particolare la Corte di Milano ha ritenuto che, eseguendo
le nuove mansioni assegnategli dopo il rientro dalla Cigs, il lavoratore le abbia accettate
per fatti concludenti, ammettendo cosà che non vi era la possibilità di destinarlo ad
altro incarico equivalente a quello in precedenza svolto. Moreno C. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di
legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nella motivazione della sua decisione essa
ha preliminarmente ricordato il principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità ,
secondo cui l'art. 2103 cod. civ., nella parte in cui prevede la nullità di qualsiasi pattuizione
che introduca modifiche peggiorative della posizione del lavoratore, non opera
allorché il patto peggiorativo corrisponda all'interesse del lavoratore stesso. Ne discende
' ha osservato la Corte ' che l'accordo per l'adibizione a mansioni inferiori alle ultime svolte,
stipulato in considerazione di una prospettiva di licenziamento fondata su serie ragioni,
non è da considerarsi in contrasto con le esigenze di libertà e dignità della persona e
rappresenta una soluzione più favorevole al lavoratore di quella ispirata a un'esigenza di
mero rispetto formale dell'art. 2103 cod. civ.; presupposti indispensabili della legittimità
di un mutamento in senso peggiorativo delle mansioni sono l'effettività della situazione
pregiudizievole che si vuole evitare e il consenso del lavoratore, che deve essere prestato
validamente ed essere esente da vizi. È evidente, ha rilevato la Corte, che, quando il datore
di lavoro desiste dall'intento di licenziare per addivenire a un cd. patto di demansionamento,
occorre che l'intento di porre fine al rapporto sia stato serio, giustificato e non
l'espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione a una norma imperativa; in caso
di impugnativa dell'accordo, l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto
che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro in base all'art.
5 della legge n. 604/66 e all'art. 2103 cod. civ.. Nel caso in esame ' ha affermato la Cassazione
' la Corte di Appello di Milano ha ritenuto che la prova della sussistenza di condizioni
legittimanti il licenziamento fosse rinvenibile da un lato nell'accettazione da parte
del lavoratore di mansioni peggiori rispetto a quelle originarie e dall'altro nella carenza di
mansioni equivalenti, desumibile dal fatto in sé dell'accettazione poiché questa implicava
ammissione della veridicità del fatto. Questo ragionamento ' ha affermato la Suprema
Corte ' è censurabile in quanto l'esecuzione delle mansioni inferiori assegnate non significa
di per sé accettazione di una proposta contrattuale modificativa del precedente assetto
del rapporto lavorativo, né, a maggior ragione, può significare riconoscimento di
mancanza di posti di lavoro equivalenti, in assenza di ogni specificazione di circostanze
che possano deporre in tal senso.
Il rifiuto di assunzione dell'invalido tramite collocamento non è giustificato dalla mancanza di qualificazione professionale
Silverio G., invalido civile con riduzione della capacità lavorativa superiore ai due terzi,è stato avviato al lavoro obbligatoriamente in base alla legge n. 482 del 1968
presso la Srl Gemex Italia. Questa ha rifiutato l'assunzione sostenendo di avere necessità
soltanto di personale con conoscenza delle lingue straniere parlate e scritte, che Silverio
G. non conosceva. Il lavoratore ha chiesto al pretore di Milano, nel novembre del 1998, di
dichiarare l'avvenuta costituzione di un rapporto di lavoro anche in base all'art. 2932 cod.
civ. oppure, in subordine, la condanna della società all'assunzione, nonché in ogni caso al
risarcimento del danno rappresentato dalla mancata corresponsione della retribuzione e
dal pregiudizio previdenziale. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Milano
hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, in base ai risultati di una consulenza tecnica,
che aveva attestato l'insussistenza degli elementi richiesti per un proficuo inserimento
dell'invalido nella struttura organizzativa della convenuta; in particolare, secondo
la consulenza, per potere essere utile all'azienda, il convenuto avrebbe dovuto conoscere
le lingue inglese e tedesca parlate e scritte e saper fare uso del computer. Silverio G. ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Milano per vizi
di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il nostro ordinamento ' ha osservato la Corte ' prevede
l'assunzione obbligatoria presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private di
lavoratori appartenenti ad alcune categorie, espressamente indicate, meno favorite sul
mercato del lavoro (oppure ritenute ' anche per ragioni di natura completamente diversa
' meritevoli di una particolare tutela), come onere di solidarietà sociale al fine di consentire
anche a essi lo svolgimento di un'attività produttiva, e dare cosà attuazione nei loro
confronti al principio costituzionale del diritto al lavoro. All'epoca dei fatti, nel 1998, la materia
era disciplinata dalla legge 2 aprile 1968, n. 482 (ora sostituita dalla legge 12 marzo
1999, n. 68), che imponeva ai datori di lavoro con un determinato numero di lavoratori di
assumere una certa percentuale, calcolata sul numero complessivo degli occupati, di lavoratori
rientranti nelle categorie protette, e in particolare un certo numero di invalidi, avviati
obbligatoriamente al lavoro. La libertà di scelta a disposizione del datore di lavoro era
limitata: poteva richiedere, a sua scelta, soltanto l'invio di lavoratori avviati obbligatoriamente
con la qualifica di operaio oppure, invece, di impiegato, ma non pretendere che
fossero in possesso di specifici requisiti di professionalità . Al di fuori della diversità fra
queste categorie ' ha osservato la Corte ' rimane irrilevante qualsiasi possibile divergenza
fra attitudini professionali e le esigenze aziendali; solo eccezionalmente il datore di lavoro
può rifiutare l'assunzione obbligatoria del prestatore avviatogli in applicazione della
legge n. 482/1968, se lo svolgimento dell'attività da parte dell'invalido avviato obbligatoriamente
risulti potenzialmente pericoloso per la sua stessa sicurezza, o per quella degli
altri lavoratori e dei terzi in genere, o per quella degli stessi impianti. L'unica impossibilità
che può rilevare come discriminante rispetto alla normale illegittimità del rifiuto del datore
di lavoro di procedere all'assunzione del prestatore avviatogli obbligatoriamente ' ha
affermato la Corte ' è quella, oggettiva, di inserimento fisico, anche in relazione ai pregiudizi
che ne possano derivare al lavoratore invalido all'interno dell'ambiente di lavoro;
non può rilevare, invece, la mancata possibilità di impiegare la prestazione del lavoratore
in maniera considerata utile, a causa del mancato possesso da parte sua della capacità e
della preparazione necessarie per lo svolgimento dell'attività affidatagli, in sostanza il
mancato gradimento di quella prestazione. L'istituto dell'avviamento obbligatorio, in particolare
degli invalidi ' ha precisato la Corte ' risponde proprio alla finalità di consentire il
reperimento di una occupazione anche a soggetti che altrimenti verrebbero assunti difficilmente,
e perciò la sua applicazione non può essere condizionata dal possesso di attitudini
o di capacità professionali particolari, e neppure dall'organizzazione aziendale adottata
dall'imprenditore, il quale non può pretendere il possesso da parte del lavoratore
avviato obbligatoriamente di requisiti diversi dalla categoria richiesta di operaio oppure
di impiegato. Il datore di lavoro ' ha aggiunto la Corte ' non è tenuto a modificare appositamente
la propria organizzazione per rendere possibile al lavoratore avviatogli obbligatoriamente
lo svolgimento di una prestazione di lavoro, e neppure per evitare che quella
prestazione e la stessa presenza dell'invalido possano risultare pregiudizievoli all'interessato,
ad altri, o agli stessi impianti, ma, nel predisporre autonomamente la propria organizzazione
aziendale, non può neppure non tenere conto dell'obbligo impostigli dalla
legge di assumere un certo numero di prestatori appartenenti alle categorie protette (cosà
come deve tenere conto, in via generale, di tutti i molteplici obblighi imposti dalla legge
per le più diverse finalità , amministrative, di sicurezza, sanitarie, ecc.): l'art. 11, secondo
comma, della legge n. 482/1968 prevede espressamente che «nel limite percentuale
di posti dovuti [â?¦] saranno riservati ai mutilati e invalidi almeno la metà dei posti disponibili
di custodi, portieri, magazzinieri, ascensoristi, addetti alla vendita dei biglietti nei locali
di pubblico spettacolo (cinema, teatri, sale di concerti, ecc.), guardiani di parcheggi
per vetture, guardiani di magazzini o che comportino mansioni analoghe», e il successivo
terzo comma aggiunge un obbligo di precedenza, anche tra gli invalidi, in favore di quelli
che abbiano determinate minorazioni. Qualora l'imprenditore non abbia tenuto conto di
questo obbligo e abbia organizzato la propria struttura aziendale (eventualmente anche
appaltando all'esterno lo svolgimento di tutte le attività non essenziali) senza prevedere
postazioni di lavoro che possano essere ricoperte da personale non qualificato avviato
obbligatoriamente ' ha concluso la Corte ' il successivo rifiuto di assumere quel personale
rimane illegittimo, senza che il datore possa opporre l'impossibilità di utilizzare l'invalido
perché mancante della necessaria qualificazione professionale.
Applicazione su retribuzione del medico del servizio sanitario della trattenuta del 15% per attività professionale extramuraria
Salvatore R. dirigente medico in servizio presso la Ausl/2 di Bari con rapporto di lavoro a tempo pieno,nel periodo dal gennaio 1996 al marzo 2000 ha svolto libera
attività professionale all'esterno della struttura ospedaliera, che non disponeva di spazi
adeguati e camere a pagamento per consentirgli l'esercizio della libera professione all'interno
dell'azienda sanitaria. La Ausl/2 gli ha applicato, sull'indennità medica di tempo pieno,
la decurtazione del 15% prevista dall'art. 4 della legge n. 724/94 per i dipendenti sanitari
che svolgano anche attività di libera professione. Salvatore R. ha chiesto al Tribunale
di Trani di dichiarare illegittima la ritenuta, sostenendo che essa avrebbe potuto essere
effettuata soltanto se la Ausl gli avesse messo a disposizione spazi adeguati e camere
a pagamento all'interno dell'azienda, in esecuzione dell'obbligo stabilito dall'art. 4
del d.lgs. n. 502/92. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha condannato la Ausl a restituire
al medico le somme trattenute. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello
di Bari, che ha ritenuto legittima la decurtazione. La mancata ottemperanza della Ausl
all'obbligo di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 502 del 1992 di mettere a disposizione i locali per
l'esercizio della libera professione ' ha osservato la Corte di Bari ' non precludeva alla Ausl
l'applicazione della normativa specifica che prevede la detrazione del 15% sull'indennità
di tempo pieno dovuta al personale sanitario esercente anche attività libero professionale.
Salvatore R. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di Bari per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il
ricorso. L'art. 4 della legge n. 724/94 ' ha affermato la Corte ' connette la ritenuta alla sola
circostanza dell'esercizio di attività extramuraria, senza condizionarla affatto alla predisposizione
di quanto necessario per l'esercizio di attività intramuraria; e è anzi la stessa
norma che indica le uniche conseguenze della mancata attuazione, da parte della Ausl
dell'obbligo previsto dall'art. 4 del d.lgs. n. 502/92 (allestimento di spazi da destinare all'esercizio
della libera professione), prevedendo, per tale ipotesi, l'immediata risoluzione
del contratto del direttore generale ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. n. 502/92. In applicazione
del principio ermeneutico secondo cui ubi lex voluit dixit deve pertanto escludersi ' ha
osservato la Corte ' in mancanza di una espressa previsione legislativa, che la mancata
applicazione dei presupposti per l'esercizio della libera professione intra moenia determini
l'ulteriore effetto di rendere inapplicabile la ritenuta in esame.
Immediatezza della contestazione dell'addebito e tempestività di licenziamento sono elementi costitutivi del diritto di recesso
Maurizio C., dipendente della Spa La Fondiaria'Sai, ha percepito dall'Inail, nel periodo dal 3 agosto al 6 novembre 1992,l'indennità per invalidità temporanea conseguente
a un infortunio sul lavoro, verificatosi il 30 luglio 1992. Nello stesso periodo egli ha
continuato a incassare la normale retribuzione corrispostagli dall'azienda. Nel dicembre
del 1994 la Sai è stata informata dall'Inail dell'accaduto, con la comunicazione di fine anno
relativa alla quantificazione dei tassi della tariffa dei premi. Nel gennaio del 1995 l'azienda
ha chiesto a Maurizio C. la restituzione della retribuzione indebitamente corrispostagli
nel periodo 3 agosto-6 novembre 1992, per un importo complessivo di lire nove milioni
circa. Poiché il dipendente non ha provveduto al rimborso, la Sai gli ha rinnovato la
richiesta nell'ottobre del 1996, anche questa volta senza esito. Con lettera del 27 febbraio
1997 l'azienda ha aperto nei confronti di Maurizio C. un procedimento disciplinare, contestandogli
di avere percepito indebitamente la retribuzione nel periodo 3 agosto-6 novembre
1992, senza restituirla. Alla contestazione ha fatto seguito il licenziamento in tronco,
intimatogli il 12 settembre 1997. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare
il licenziamento, affermandone l'illegittimità per tardività della contestazione dell'addebito
e per l'eccessività della sanzione. Il Tribunale ha rigettato la domanda. Questa decisione
è stata riformata dalla Corte di Appello di Roma che ha annullato il licenziamento e ha
ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, condannando l'azienda al
risarcimento del danno. La Corte ha ritenuto, in particolare, che la contestazione dell'addebito
sia stata tardiva in quanto avvenuta più di due anni dopo che la datrice di lavoro era
stata portata a conoscenza dell'accaduto. La mancanza ' ha osservato la Corte di Roma
' non può ritenersi verificata solo a seguito della richiesta di restituzione avanzata dalla
società , in quanto il fatto della indebita percezione contestato al dipendente resta sempre
lo stesso e diversamente, facendo riferimento alla formulazione dei successivi solleciti
diretti alla restituzione dell'importo trattenuto al dipendente, si perverrebbe all'inammissibile
conseguenza di rimettere alla volontà del datore di lavoro la tempestività della
contestazione. La Fondiaria-Sai ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza
della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte
ha rigettato il ricorso richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui in base
all'art. 7 Stat. lav., la contestazione deve essere immediata, in stretta connessione temporale
con il fatto addebitato al dipendente o con la conoscenza che di esso abbia avuto
il datore di lavoro e tempestivo deve essere anche il successivo licenziamento. In base all'art.
2119 cod. civ., l'immediatezza della contestazione e la tempestività del licenziamento
' ha affermato la Corte ' si configurano quali elementi costitutivi del diritto al recesso
del datore di lavoro, in quanto il ritardo nella contestazione dell'addebito o nell'intimazione
del recesso inducono ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia voluto
soprassedere al provvedimento espulsivo, considerando non grave o comunque non
meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore.
Scuola superiore di polizia
Il regolamento disciplina il nuovo assetto organizzativo e funzionale della Scuola Superiore di Polizia,che in attuazione dell'autonomia didattico-istituzionale
prevista istituisce e realizza i corsi di formazione, di perfezionamento e di specializzazione,
e svolge le attività di formazione permanente e ricorrente per il personale dirigente e
direttivo della Polizia di Stato, che si rendano necessarie in relazione alle esigenze istituzionali.
(Gazzetta Ufficiale n. 203 del 1° settembre 2006)
Competenze magistrati e dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari
Il decreto individua le competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari,e istituisce come organi periferici di livello dirigenziale generale
del Ministero della Giustizia, le direzioni generali regionali e interregionali dell'organizzazione
giudiziaria.
(Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2006 ' suppl. Ordinario n. 173)
Incompatibilità tra funzione di responsabile aziendale servizio protezione rischi e rappresentante sicurezza dei lavoratori
La sentenza è già stata brevemente trattata in questo numero della rivista (p. 7), ma vale la pena di approfondire i dati che qualificano la fattispecie.La Srl Madonna
dei Miracoli ha assegnato al suo dipendente Umberto D., nell'ottobre del 1998, la funzione
di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall'art. 2
lettera e) del decreto legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Umberto D. ha rifiutato l'incarico,
facendo presente che esso era incompatibile con quello, in precedenza da lui assunto,
di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, previsto dall'art. 2 lettera f) della stessa
legge. Per questo rifiuto l'azienda lo ha licenziato. Egli ha chiesto al pretore di L'Aquila
l'annullamento del licenziamento, sostenendo che il rifiuto da lui opposto alla richiesta aziendale
doveva ritenersi giustificato. Il pretore ha rigettato la domanda. Questa decisione
è stata riformata dalla Corte d'Appello di L'Aquila che ha annullato il licenziamento. La
Corte ha ritenuto giustificato il rifiuto del lavoratore di svolgere le funzioni di responsabile
del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, affidategli dal datore di lavoro, atteso
che tali mansioni erano incompatibili con quelle di rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte
di L'Aquila per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato
il ricorso. Nel sistema delineato dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 ' ha osservato
la Corte ' la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai
rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona. Il responsabile
del servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro
nell'espletamento di un'attività che questi, in determinati casi, potrebbe svolgere
personalmente (art. 10 del d.lgs. n. 626 e all. I); esercita quindi prerogative proprie del datore
di lavoro in tema di sicurezza del lavoro; contribuisce a determinare gli oneri economici
che il datore di lavoro deve sopportare perché il lavoro in azienda sia e rimanga sicuro,
atteso che le misure relative alla sicurezza non devono comportare oneri finanziari per
i lavoratori (art. 3, comma 2). Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è chiamato,
invece, a svolgere una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte
dall'azienda nel settore della sicurezza; deve essere consultato dal datore di lavoro sulla
designazione delle persone addette all'espletamento dei compiti del servizio di prevenzione
e protezione, fra cui il responsabile del servizio (art. 8, comma 2); deve essere consultato
in ordine alla valutazione dei rischi, alla individuazione, programmazione, realizzazione
e verifica della prevenzione nell'azienda (art. 19, comma 1, lett. b), nonché sulla
designazione degli addetti all'attività di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione
dei lavoratori (art. 19, comma 1, lett. c), e sulla organizzazione della formazione
di tali addetti (art. 19, comma 1, lett. d); svolge tutta una serie di funzioni, elencate nell'art.
19, che possono, in sintesi, definirsi di costante controllo dell'attività svolta, in materia di
sicurezza, dal datore di lavoro e dal servizio di prevenzione da questi istituito, compresa
la facoltà di fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione
e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impieganti per attuarle
non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro (lett. o); fruisce delle
stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali. Concentrare nella
stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché
finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro ' ha affermato la Corte '
significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato e il controllante
coinciderebbero; è come se, nei casi in cui può svolgere direttamente i compiti
propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (art. 10, primo comma), il datore
di lavoro fosse eletto dai lavoratori come loro rappresentante per la sicurezza; chiaramente
diversa è la volontà della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione
costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori.
Procedimento disciplinare per i notai
Il decreto, in attuazione dell'articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246sostituisce il comma 5 dell'articolo 30 della legge n. 89/1913: «Il notaio,
inoltre, cessa dall'esercizio notarile per dispensa o interdizione dall'ufficio, rimozione,
sospensione o destituzione».
(Gazzetta Ufficiale n. 186 dell'11 agosto 2006 ' suppl. Ordinario n. 184)
Sicurezza sociale. Spese ospedaliere sostenute in un altro Stato membro. Spese di trasferimento, di soggiorno e di vitto
1. Gli artt. 22, nn. 1, lett. c), e 2, nonché 36 del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori
autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , debbono essere
interpretati nel senso che non conferiscono all'affiliato, autorizzato dall'istituzione
competente a recarsi in un altro Stato membro per ivi ricevere cure ospedaliere appropriate
al suo stato di salute, un diritto a ottenere dalla detta istituzione il rimborso delle
spese di trasferimento, di soggiorno e di vitto sostenute nel territorio di tale Stato membro
da lui stesso e dalla persona che l'ha accompagnato, fatta eccezione per le spese di
soggiorno e di vitto dell'affiliato medesimo nell'istituto ospedaliero.
2. Una normativa nazionale che preveda un diritto a prestazioni ulteriori rispetto a quelle
previste dall'art. 22, n. 1, del regolamento n. 1408/71, come modificato e aggiornato dal
regolamento n. 118/97, nel caso contemplato alla lett. a) del detto paragrafo 1, ma non in
quello contemplato alla lett. c) del medesimo paragrafo, non pregiudica l'efficacia diretta
di tale disposizione e non viola il principio di leale cooperazione sancito dall'art. 10 Ce.
Anticipo finanziaria
Tra le «disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria» che il decreto introduce si pone l'attenzionesull'art. 21 comma 4 il quale, sostituendo l'articolo 9 del
d.lgs. n. 124/2004, specifica che esclusivamente tramite posta elettronica gli enti, le organizzazioni
sindacali e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale
e i consigli nazionali degli ordini professionali possono inoltrare alla Direzione generale
costituita presso il Ministero del Lavoro i quesiti di ordine generale sull'applicazione
delle normative di competenza del ministero stesso, anziché presso le singole direzioni
provinciali. L'adeguamento alle indicazioni contenute nelle risposte ai quesiti esclude
l'applicazione delle relative sanzioni penali, amministrative e civili. L'art. 41 oltre a modificare
l'art. 19, comma 8 del d.lgs. n. 165/2001, cioè la cessazione, decorsi novanta giorni
dal voto sulla fiducia al Governo, degli incarichi dirigenziali di Segretario generale di ministeri,
di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali, dispone che venga
applicato anche ai direttori delle Agenzie, incluse quelle fiscali. In sede di prima applicazione
del comma 8 modificato gli incarichi conferiti prima del 17 maggio 2006 cassano ove
non confermati entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del decreto.
(Gazzetta Ufficiale n. 230 del 3 ottobre 2006)
Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale
La legge nel convertire il decreto legge n. 223/2006 apporta delle modifiche riguardanti il settore dei servizi professionali.Nel particolare si specifica che: le tariffe non sono vietate,
ma non sono obbligatorie e possono essere forniti «servizi professionali
di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti,
fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività libero-professionale deve
essere esclusivo». Viene inoltre sostituito il comma 3 dell'art. 2233 del codice civile: «Sono
nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati e i praticanti abilitati
con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali».
(Gazzetta Ufficiale n. 186 dell'11 agosto 2006 ' suppl. Ordinario n. 183)
Illegittimità della protesta dei farmacisti contro il «decreto Bersani»
La Commissione ha sanzionato la Federfarma per la giornata di astensione collettiva dal servizio per le farmacie privateper protesta contro l'emanazione del cd.
«decreto Bersani», contestando la violazione relativa al mancato rispetto del termine di
preavviso previsto dall'art. 2, comma 1, legge n. 146/1990 nonché dall'art. 3 della Regolamentazione
provvisoria delle prestazioni indispensabili nel settore delle farmacie private
adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione n. 03/169 del 17 dicembre
2003. La Commissione ha ritenuto di non potere accogliere le difese della Federfarma secondo
le quali: a) nelle more del giudizio amministrativo pendente in ordine alla legittimità
della Regolamentazione provvisoria la Commissione avrebbe dovuto astenersi dal
comminare sanzioni in base a tale disciplina regolamentare; b) lo sciopero avrebbe dovuto
essere considerato come azione proclamata in difesa della salvaguardia dei livelli essenziali
delle prestazioni sanitarie, e dunque del diritto alla salute, e fosse pertanto ascrivibile
alla fattispecie dello sciopero «in difesa dell'ordine costituzionale» (art. 2, comma
7, legge 146/1990 e ss. mod.), come tale non soggetto all'obbligo del preavviso minimo;
c) essendo la regola dell'obbligo di preavviso prevista al fine «di consentire ai gestori dei
servizi pubblici esenziali di approntare eventuali rimedi per sovvenire agli inconvenienti
causati dallo sciopero», tale necessità non si sarebbe dovuta ravvisare nel caso di specie,
giacché gli associati Federfarma garantirebbero direttamente e con immediatezza i presidi
minimi senza alcuna necessità di tempi per l'organizzazione delle prestazioni di lavoratori
dipendenti; d) anche in relazione alla ulteriore finalità del preavviso di rendere edotti
gli utenti della temporanea sospensione del servizio, tale obiettivo sarebbe stato comunque
raggiunto in funzione del clamore suscitato dalla protesta e dal conseguente spazio
ad essa dedicato da tutti gli organi di informazione; e) infine il danno cagionato agli utenti
sarebbe stato minimo. La Commissione ha invece ritenuto che la pendenza del giudizio
amministrativo avverso la regolazione provvisoria non incide sulla efficacia del provvedimento
e che, in ogni caso, la regola del preavviso minimo trova diretto fondamento nell'art.
2, commi 1 e 5, della legge 146/1990. Inoltre ad avviso della Commissione non può
neppure essere accolta la tesi dell'afferenza dello sciopero in oggetto alla fattispecie di cui
all'art. 2, comma 7, legge 146/1990, atteso che, stante la sua formulazione letterale, tale
eccezione si riferisce a «situazioni di eccezionale gravità tali da mettere in pericolo le istituzioni
democratiche» (delibera n. 337 dell'8 maggio 1997), e che la norma in questione
fa «principale riferimento ad ipotesi di sovvertimento violento ' o pericolo di sovvertimento
violento ' dell'ordinamento statale da parte di poteri o soggetti usurpatori» (delibera
n. 78 dell'11 febbraio 1999). La Commissione ha infine rilevato che: «la legge considera
le 'regole (sostanziali) da rispettare e 'le procedure da seguire in caso di conflitto
collettivo alla stessa stregua, come due ordini di limiti del diritto di sciopero strumentali
alla salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti degli utenti» (Corte cost. 10 giugno 1993,
n. 276), per cui la regola del preavviso non può essere considerata meramente funzionale
alla organizzazione delle prestazioni minime da parte di chi gestisce il servizio pubblico,
quasi che il termine di dieci giorni fosse concesso in beneficio del soggetto proclamante;
né peraltro può ritenersi che l'eventuale clamore suscitato dall'iniziativa ed il conseguente
spazio occupato dalla relativa notizia nei mezzi di informazione possano esonerare
le organizzazioni proclamanti dal rispetto del predetto obbligo, volto a garantire la
preventiva conoscenza, da parte degli utenti, della astensione dal servizio. Anche la scarsa
lesività dell'astensione collettiva e le asserite ragioni di urgenza della protesta non sono
state considerate dalla Commissione ragioni idonee a legittimare la violazione della disciplina
di legge relativa al preavviso minimo, la quale, nel settore in oggetto, è posta a
presidio e garanzia dei fondamentali diritti costituzionali alla salute e alla vita.
Illegittimità della protesta degli avvocati contro il «decreto Bersani»
La Commissione ha sanzionato l'Organismo unitario dell'avvocatura italiana per l'astensione dalle udienze civili, penali, amministrative e tributarieper i giorni 10,
11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 e 21 luglio 2006 indetta senza osservare il termine di
preavviso di cui all'art. 2, comma 3, della Regolamentazione provvisoria dell'astensione
collettiva degli avvocati dall'attività giudiziaria. L'Organismo unitario ha addotto a giustificazione
del mancato preavviso la «lesività costituzionale [â?¦] il grave pregiudizio di diritti
fondamentali dei cittadini e la compromissione delle garanzie essenziali del giusto processo
» delle disposizioni contenute nel cd. «decreto Bersani» riguardanti le professioni.
La Commissione ha disatteso questa difesa affermando che al fine di sostenere la legittimità
della deroga al termine di preavviso e alle limitazioni alla durata delle astensioni dal
lavoro non è sufficiente invocare la motivazione della «lesività costituzionale» poiché tale
motivo in tanto può rilevare in quanto integri gli estremi della difesa dell'ordine costituzionale.
L'affermazione di carattere generale contenuta nella sentenza della Corte costituzionale
n. 276/1993, secondo la quale le ipotesi dell'art. 2, comma 7, legge n.
146/1990, «ineriscono alla persona e a interessi fondamentali della collettività », non può
essere invocata ' ad avviso della Commissione ' per giustificare l'applicazione di tale norma
a qualsiasi astensione proclamata per la tutela di diritti della persona e degli interessi
fondamentali della collettività perché per la realizzazione di ciascuna delle fattispecie
previste devono ricorrere elementi più specifici. Tanto più che la Commissione, successivamente
a tale sentenza della Corte costituzionale, ha ritenuto che l'art. 2, comma 7, della
legge n. 146/1990 «nel richiamare gli eventi lesivi dell'ordine costituzionale, si riferisce
a situazioni di eccezionale gravità tali da mettere in pericolo le istituzioni democratiche e
non comprende le astensioni di protesta politico-economica» (delibera n. 337 dell'8 maggio
1997) e che la norma in questione fa «principale riferimento ad ipotesi di sovvertimento
violento ' o pericolo di sovvertimento violento ' dell'ordinamento statale da parte
di poteri o soggetti usurpatori» (delibera n. 78 dell'11 febbraio 1999). In definitiva, secondo
l'interpretazione adottata dalla Commissione, lo sciopero in difesa dell'ordine costituzionale
è soltanto quello proclamato allorché siano minacciati i valori fondanti del nostro
sistema di governo democratico e di libertà individuali e collettive, e non quando l'eventuale
incostituzionalità di una legge possa essere fatta valere attraverso gli ordinari rimedi
di costituzionalità .
Trattamento dati personali biometrici di lavoratori per accesso ad aree riservate aeroportuali e di verifica presenza dipendenti
L'Autorità ha ribadito che la raccolta e la registrazione di impronte digitali e dei dati biometrici da esse ricavatie successivamente utilizzati per l'autenticazione o l'identificazione
degli interessati sono operazioni di trattamento di dati personali
(art. 4,comma 1, lett. b), del Codice), alle quali trova applicazione la normativa
contenuta nel Codice.
La liceità dell'adozione di tali sistemi di controllo deve essere pertanto valutata sul
piano della conformità ai principi di necessità , proporzionalità , finalità e correttezza (artt.
3 e 11 del Codice). Secondo l'orientamento dell'Autorità , l'utilizzo di dati biometrici può risultare
infatti giustificato solo se proporzionato per presidiare accessi ad «aree sensibili»,
considerata la natura delle attività ivi svolte (ad esempio, processi produttivi pericolosi o
sottoposti a segreti, di varia natura) o in ragione dei beni ivi custoditi (quali, documenti
segreti o riservati o oggetti di valore) oppure, nella situazione in esame, per assicurare la
sicurezza di terzi. Nel caso sottoposto all'esame dell'Autorità , una società di handling in
area aeroportuale è stata autorizzata a trattare dati biometrici dei dipendenti in quanto i
locali dove la società svolge le proprie attività di assistenza a terra (correlate all'ordinato
svolgimento del traffico aeroportuale) sono risultate richiedere l'adozione di standard di
sicurezza specifici ed elevati, nonché di affidabili sistemi di identificazione dei soggetti deputati
ad accedervi in conformità alle procedure previste dalla vigente normativa a garanzia
della sicurezza di persone e cose (cfr. d.p.r. 4 luglio 1985, n. 461). Alla luce di tali circostanze,
l'Autorità ha ritenuto proporzionato l'uso di dati biometrici tratti delle impronte
digitali nei locali sopra indicati, tenendo conto anche del fatto che il template, memorizzato
su una smart card e protetto con una chiave crittografica, sarebbe destinato a restare
nell'esclusiva disponibilità dell'interessato. L'Autorità ha invece ritenuto non legittimo
il trattamento di dati biometrici per l'accesso ad uffici della società rispetto ai quali non è
stata fornita dalla società idonea prova della sussistenza di analoghe stringenti esigenze
di sicurezza che, in conformità ai principi di necessità e proporzionalità (artt. 3 e 11 del Codice),
giustifichino l'utilizzo di dati biometrici in luogo di altri strumenti meno invasivi.
L'Autorità ha altresà ritenuto illecito il trattamento di dati biometrici per perseguire la diversa
finalità di rilevazione della presenza dei dipendenti della società . Ciò, sia in quanto
la società non ha addotto ragioni specifiche a sostegno della necessità di ricorrere a tale
peculiare modalità di verifica dell'osservanza dell'orario di lavoro, limitandosi ad accennare
all'esigenza di natura prettamente organizzativa di evitare la contemporanea presenza
di due sistemi di controllo concorrenti, sia perché ne sarebbe prevista l'introduzione
nei soli confronti dei dipendenti destinati ad accedere all'area riservata, ad esclusione
dei restanti lavoratori della società . Ad avviso dell'Autorità la verifica dell'esatto adempimento
della prestazione lavorativa può essere quindi legittimamente perseguita, nel caso
esaminato, senza ricorrere ad alcun trattamento di dati biometrici (nel rispetto dell'art.
3 del Codice), avvalendosi pertanto di altro idoneo sistema a tal fine predisposto.
Licenziamenti collettivi
La direttiva n. 75/129/Cee, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi,dev'essere interpretata nel senso che essa è applicabile ai licenziamenti collettivi risultanti dalla cessazione
definitiva del funzionamento di un'impresa o di uno stabilimento, decisa autonomamente
dal datore di lavoro, in mancanza di una previa decisione giudiziaria, senza che
la deroga prevista dall'art. 1, n. 2, lett. d), di tale direttiva possa escluderne l'applicazione.
Libera circolazione e libero soggiorno nel territorio dell’Unione europea. Indennità di disoccupazione
Previdenza sociale. Copertura di prestazioni di malattia e di maternità. Calcolo dei contributi
L'art. 33, n. 1, del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori autonomi e ai loro familiari
che si spostano all'interno della Comunità , non osta a che, per la determinazione della
base imponibile ai fini del calcolo dei contributi di assicurazione malattia applicati nello
Stato membro di residenza del titolare di pensioni corrisposte da enti dello Stato medesimo,
competente a corrispondere prestazioni ai sensi dell'art. 27 del regolamento medesimo,
siano ricomprese in tale base imponibile, oltre alle pensioni percepite nello Stato
membro di residenza, pensioni corrisposte da enti di un altro Stato membro, purché i detti
contributi non superino l'importo delle pensioni percepite nello Stato membro di residenza.
Tuttavia, l'art. 39 Ce osta a che venga preso in considerazione l'importo delle pensioni
percepite da enti di un altro Stato membro qualora in tale altro Stato membro siano
già stati versati contributi sui redditi di lavoro ivi percepiti. Spetta agli interessati provare
l'effettività di tali precedenti versamenti previdenziali.
Pagamento straordinario in regime di pronta disponibilità
Il ricorrente, dipendente dell'Asl, adiva il Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro per ottenere il pagamento delle ore di lavoro straordinariosvolte in regime di pronta disponibilità , deducendo la violazione degli artt. 34 e 7 del Ccnl
comparto sanità . L'Azienda convenuta si costituiva deducendo l'infondatezza del ricorso
sia per la mancanza di autorizzazione del dirigente responsabile allo svolgimento di dette
prestazioni che per la mancanza di prova della proficua utilizzazione delle prestazioni
supplementari svolte dal dipendente. Condividendo quanto dedotto dalla difesa ricorrente,
il giudice del lavoro superava letture superficiali e restrittive della norma in questione
e, nell'accogliere integralmente la domanda, in sentenza chiariva: «Detta disposizione
stabilisce, invero, un generico rinvio al dirigente responsabile, amministrativo o sanitario,
e non esclusivamente a quello, generale, che abbia funzioni di rappresentanza esterna
dell'azienda, essendo il primo comunque deputato ad attività di direzione e organizzazione
del personale e potendo, dunque, per tal modo esercitare il controllo preventivo sull'effettiva
necessità di prestazioni straordinarie, per assicurare, in ogni momento e circostanza,
la regolarità e il buon andamento del servizio gestito dall'Asl. Ciò appare particolarmente
evidente ove si consideri che, trattandosi di «autorizzazione preventiva» e non
successiva, la stessa può avere un senso logico e una effettiva utilità per l'azienda, solo
se rimessa al dirigente presente nei vari momenti e turni, anche notturni, in cui può verificarsi
l'esigenza e la necessità di utilizzare il personale in prestazioni straordinarie supplementari,
a seconda delle contingenze che dovessero via via emergere». Quanto al servizio
di pronta disponibilità l'art.7 comma 6 Ccnl Comparto sanità , garantisce al dipendente,
quale corrispettivo del sacrificio inerente all'obbligo di immediata reperibilità per
l'eventuale chiamata in servizio, la possibilità di fruire di una giornata di riposo compensativo
purché ne faccia espressa richiesta nel termine di 30 giorni. In sentenza viene tra
l'altro specificato che non sussiste alcun obbligo per il dipendente di far uso dei riposi
compensativi per controbilanciare le prestazioni straordinarie rese, prevedendo l'art. 34
in capo al lavoratore una mera facoltà di usufruirne. Il giudice del lavoro evidenziava altresà
la pretestuosità dell'eccezione sollevata dall'Asl quanto alla proficua utilizzazione
delle prestazioni straordinarie «non potendosi evidentemente dubitare del vantaggio recato
all'Azienda dallo svolgimento di siffatte prestazioni, in quanto dalla stessa proficuamente
utilizzate per assicurare un servizio ottimale agli utenti della Sanità ».
Accesso agli atti da parte di un rappresentante sindacale – Atti di natura privatistica della pubblica amministrazione
Politica sociale. Tutela lavoratori in caso d’insolvenza del datore. Indennità di licenziamento convenuta in sede conciliativ
Clausole 1, lett. b), e 5, accordo quadro a tempo determinato. Possibile deroga per i contratti con amministrazioni pubbliche
L'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva n. 1999/70/Ce,relativa all'accordo quadro Ces,
Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, dev'essere interpretato nel senso che non
osta, in linea di principio, a una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante
dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato
da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano
trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione
è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro
appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un'altra misura
effettiva destinata a evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione
di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel
settore pubblico.
Compenso per lavoro straordinario nelle giornate festive infrasettimanali ex art. 9 Ccnl Comparto sanità
Un dipendente dell'Asl, adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli per ottenere il pagamento delle ore di lavoro straordinario effettuate,in giorni
festivi infrasettimanali, deducendo la violazione degli artt. 9 e 34 dell'Accordo integrativo
del Ccnl comparto sanità . L'Asl convenuta si costituiva contestando il fondamento
della domanda e chiedendone il rigetto. Il giudice del lavoro, superando le pretestuose
e dilatorie eccezioni formulate dalla convenuta, ha accolto la domanda e riconosciuto
il fondamento del diritto nell'Accordo integrativo del Ccnl che all'art. 9 espressamente
prevede: «L'attività prestata in giorno festivo infrasettimanale dà titolo,
a richiesta del dipendente da effettuarsi entro 30 giorni, a equivalente riposo compensativo
o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione
prevista per il lavoro straordinario festivo». È poi l'art. 34 al comma 8 a disciplinare
il trattamento economico ovvero il metodo di calcolo del compenso e le diverse
percentuali di maggiorazione che saranno del 15, del 30 e del 50% a seconda che
sia rispettivamente straordinario diurno, notturno o festivo e notturno/festivo. Il compenso
dell'art. 9 non è dunque un'indennità ma una vera e propria voce della retribuzione,
un particolare corrispettivo maggiorato riconosciuto al dipendente per il lavoro
prestato nelle giornate festive infrasettimanali che trova il suo presupposto giuridico
nella contrattazione collettiva e la sua prova documentale nei fogli paga e di servizio.
È stata fondamentale nella questione in oggetto una piana e corretta lettura dell'art. 9
che non prevede alcun obbligo contrattuale per il dipendente di far uso dei riposi compensativi
per controbilanciare eventuali prestazioni straordinarie rese, piuttosto una
mera facoltà di goderne in alternativa al compenso in denaro. L'esplicita e tempestiva
richiesta è infatti presupposto indispensabile solo per fruire del riposo, non certo per
ottenere quanto di diritto spettante per la «straordinaria» prestazione lavorativa resa.
Contratto di lavoro a tempo determinato e obblighi comunitari
La Corte prende atto di come, senza eccezioni, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto, sotto la vigenza della legge n. 230/1962,che il contratto a
tempo determinato per un verso si configurasse come ipotesi eccezionale, con conseguente
tipicità e tassatività delle situazioni derogatorie, per altro verso fosse ontologicamente
connotato dalla temporaneità della prestazione (ex plurimis, Cass. Ss.Uu.
n. 5739/1997 e Cass. n. 167/2006). Le ragioni poste a fondamento della deroga al regime
contrattuale ordinario sono rinvenibili nella straordinarietà dell'esigenza datoriale
rispetto al ciclo produttivo. Anche la formulazione dell'art. 1 d.lgs. n. 368/2001,
nonostante l'esplicita abrogazione della legge n. 230/1962, non si discosta ' ritiene la
Corte fiorentina ' dalla menzionata impostazione, perché il contratto a tempo determinato
resta descritto come un'ipotesi autorizzabile, seppure nell'ambito di una previsione
articolata mediante clausole generali e non più attraverso l'elencazione di fattispecie
analitiche. Tuttavia, il ricorso a una clausola generale piuttosto che a una elencazione
tassativa delle ipotesi autorizzate potrebbe condurre all'affermazione della
realizzata, fisiologica, alternatività fra i due tipi contrattuali, posto che le esigenze
tecniche, produttive, organizzative o sostitutive finiscono per enunciare tutte le possibili
manifestazioni del potere datoriale, cosà realizzando la massima flessibilità nella
dotazione della forza lavoro, secondo quanto affermato dalla circolare 1° agosto 2002,
n. 42 del Ministero del lavoro). A parere della Corte d'Appello, tale proposta ermeneutica
si pone in contrasto con la direttiva 99/70/Ce, della quale la novella del 2001 costituisce
l'attuazione nell'ordinamento italiano, direttiva che non ha a oggetto l'introduzione
di nuove forme di flessibilità in ragione delle esigenze del mercato del lavoro,
bensà l'approntamento di un normativa volta a elidere forme di discriminazione e abusi,
come chiaramente risultante dalla clausola di non regresso di cui al punto 16. Sulla
scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale (sen. n. 41/2000), ossia che un
regime di liberalizzazione del contratto a tempo determinato finirebbe per violare un
preciso obbligo comunitario, la Corte d'Appello ritiene che l'art. 1 d.lgs. n. 368/2001
debba essere interpretato senza discostarsi dal tradizionale impianto regola/eccezione
e che, sebbene le ipotesi derogatorie siano enunciate attraverso una clausola generale
e non più tramite l'elencazione tassativa, nel nostro ordinamento il contratto di
lavoro è ancora corrispondente al prototipo a tempo indeterminato e l'apposizione del
termine continua a configurare deroghe rispetto allo schema generale.
Reclamo – Opposizione a precetto – Sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo – Ammissibilità – Ne bis in idem
Quadro aspirante alla promozione a dirigente – Mancata illegittima attribuzione della qualifica dirigenziale
Esclusione dalla selezione per attribuzione di qualifica superiore
Una dipendente delle Poste italiane Spa, inquadrata nell'Area operativa, quale ex V categoria,esclusa dalla procedura selettiva per accertamento professionale necessaria
per passare all'area quadri di secondo livello prevista dalla lett. E della circ. n.
35/95, adiva il Tribunale di Piacenza chiedendo la condanna della datrice di lavoro al risarcimento
del danno per perdita di chance da liquidarsi con separato giudizio, ritenendo
la sua esclusione illegittima perché operata sulla base di scelte discrezionali arbitrarie,
non conformi ai criteri previsti contrattualmente e quindi poste in violazione dei principi
di correttezza e buona fede. Si costituiva in giudizio Poste italiane, chiedendo il rigetto
della domanda attorea, eccependo che la lavoratrice non aveva dimostrato di essere
in possesso dei titoli di servizio idonei a metterla in grado di essere ammessa al colloquio
per l'accertamento professionale, né che, se la selezione fosse stata espletata in
modo legittimo, avrebbe certamente potuto ottenere la promozione. Il Tribunale del lavoro
di Piacenza, con sentenza n. 114/2001 accoglieva la domanda, dichiarando l'illegittimità
della selezione per quadri di secondo livello, nonché l'illegittimità dell'esclusione
della ricorrente dalla preselezione per violazione dei criteri selettivi indicati dalla circolare,
condannando Poste al risarcimento del danno da quantificarsi con separato giudizio.
Il Tribunale in particolare fondava il proprio giudizio di illegittimità della selezione sul fatto
che la mancata documentazione della fase di preselezione rendeva impossibile la verifica
dei criteri adottati e la sua valutazione comparativa tra gli ammessi e gli esclusi, ponendosi
quindi in contrasto con i principi di trasparenza e obiettività enunciati dall'art.
50 del Ccnl di categoria. La violazione delle norme procedurali da parte del datore di lavoro
erano quindi un inadempimento contrattuale cui doveva essere collegato presuntivamente
il danno dedotto, senza che il creditore potesse essere tenuto ad alcun onere
probatorio in ordine al nesso di causalità . Contro la sentenza proponeva appello Poste italiane,
che viene accolto dalla Corte rilevando come l'appellata (rimasta contumace in
secondo grado) non avesse assolto agli oneri probatori e di allegazione su di lei gravanti.
La decisione merita attenzione anche perché ripercorre gli orientamenti della Suprema
Corte in punto al risarcimento del danno da perdita di chance. Innanzitutto viene ricordato
che un lavoratore, ritenutosi illegittimamente pretermesso, può far valere il diritto
soggettivo alla promozione o può invece limitarsi a lamentare il mancato rispetto
del corretto svolgimento delle procedure concorsuali (Cass. n. 3183/99 e n. 158/94) e tale
differenza di posizioni soggettive azionate si riflette sia sull'onere probatorio da assolvere,
sia sul versante dei danni da risarcire.
Nel primo caso, infatti, il lavoratore deve provare che il corretto svolgimento delle operazioni
del concorso lo avrebbe portato certamente tra i promossi «come può verificarsi ove
la normativa dettata dalla contrattazione collettiva o dalla regolamentazione interna o
comunque dal bando di concorso preveda un sistema di scelta dei promovendi basato su
criteri predeterminati, incentrati su criteri di ponderazione oggettiva (cd. punteggi fissi o
vincolati)» (cosà Cass. n. 11522/97), ovvero quando i criteri di scelta riservino al datore di
lavoro una valutazione discrezionale (cd. punteggi liberi) che tuttavia non può essere affetta
da manifesta inadeguatezza o irragionevolezza, ossia non può essere arbitraria (cosà
Cass. n. 2167/96): il datore di lavoro, infatti, nel compimento delle operazioni selettive
deve attenersi alle regole fondamentali della correttezza e buona fede che si traducono in
un obbligo di imparzialità della stima comparativa (cosà Cass. n. 650/92 e n. 8710/99) e
non può compiere salti logici tra il giudizio comparativo e gli elementi che dovrebbero sorreggere
detto giudizio. In tale primo caso i danni patiti si identificano nel pregiudizio economico
conseguente alla mancata promozione e consistono nella differenza tra il globale
trattamento economico goduto dal lavoratore e quello a cui avrebbe avuto diritto se avesse
ottenuto la promozione.
Nel secondo caso invece, ove non si possa dimostrare il nesso di causalità tra il corretto
svolgimento della procedura concorsuale e la rivendicata promozione, il lavoratore
potrà ugualmente agire in giudizio per la tutela del suo diritto soggettivo al rispetto
della regolarità dell'iter concorsuale (Cass. n. 3481/99). I principi di buona fede
e correttezza, infatti, fungono da limite al potere imprenditoriale e funzionano quali
criteri «qualificativi scuscettibili di discriminare l'adempimento dall'inadempimento»
(Cass. n. 6864/87, n. 6657/91, 7210/92, n. 4725/93). In questo caso i danni risarcibili
non sono quelli derivanti dalla «mancata promozione», bensà quelli consistenti nella
perdita della possibilità di promozione e quindi nella privazione della possibilità di
progressioni nell'attività lavorativa (danni certi e non probabili, cosà Cass. n. 15810/01,
n. 8468/00 n. 8132, n. 14074/00), onde il danno patrimoniale risarcibile ' consistente
non in un lucro cessante, bensà nel danno emergente da perdita di una possibilità attuale
(Cass. n. 11322/03) ' può essere determinato ex art. 1226 cod. civ., applicando
al parametro delle retribuzioni percipende e percepite, un coefficiente di riduzione che
tenga conto del tasso di probabilità che il lavoratore aveva di risultare vincitore (Cass.
n. 158/94, n. 2167/96, n. 11522/97). L'onere probatorio gravante sul candidato è quello
di provare i fatti che configurano la violazione degli obblighi (generali o specifici) incombenti
sul datore nell'espletamento delle procedure concorsuali, la sussistenza degli
obblighi stessi che si lamentano violati (Cass. n. 2280/2000), nonché il nesso causale
tra l'inadempimento e l'evento dannoso, con l'indicazione degli elementi (come a
esempio il posto in graduatoria) idonei a far ritenere che il regolare svolgimento delle
procedure selettive avrebbe comportato una concreta, effettiva, attuale e non ipotetica
probabilità di vittoria del candidato pretermesso (Cass. n. 11522/97, Cass. n.
11322/03 cit.).
Azione di mero accertamento – Interesse ad agire – Licenziamento collettivo – Criteri di individuazione
Accertamento del rapporto di lavoro subordinato – Elementi della fattispecie – Potere direttivo e indici di subordinazione
Ferie collettive e comporto
La Corte di Cassazione nel riformare la decisione della Corte di Appello di Milano che aveva annullato il licenziamentointimato da una azienda per superamento
del periodo di comporto, ritenendo non computabile il periodo di malattia ricompreso nelle
ferie collettive della società , ha, viceversa, stabilito che nel periodo di comporto devono
essere inclusi i giorni non lavorati ricadenti all'interno del periodo di malattia a meno
che il lavoratore fornisca la prova della propria guarigione nei periodi non lavorati onde
sottrarli al calcolo del comporto.
Non è cumulabile il ruolo di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e quello di responsabile per la sicurezza in aziend
Un lavoratore nominato rappresentante della sicurezza per i lavoratori di un'azienda si rifiutava di svolgere l'incarico,assegnatogli dalla società datrice di lavoro, di responsabile della sicurezza.
All'esito del rifiuto il lavoratore veniva licenziato Nel corso
del giudizio promosso dal dipendente per la reintegra nel posto di lavoro il Tribunale
del lavoro di L'Aquila rigettava il ricorso ritenendo ingiustificato il rifiuto del dipendente.
La Corte di Appello competente riformava la decisione statuendo che il rifiuto del lavoratore
era da ritenersi legittimo stante una incompatibilità tra la funzione di rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza e quella di responsabile della sicurezza in azienda. La Corte
di Cassazione nel confermare la decisione dei giudici di appello ha affermato che nel sistema
delineato dal decreto legislativo 626/94, la funzione di responsabile del servizio
prevenzione e protezione dai rischi designato dal datore di lavoro, e quella di rappresentante
dei lavoratori per la sicurezza non sono cumulabili nella stessa persona. Tale incompatibilità
' prosegue la corte ' pur non espressamente prevista dalla normativa deve
ritenersi in considerazione del diverso ruolo assegnato ai due soggetti. Il responsabile del
servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro nell'espletamento
di una attività che questi, in determinati casi potrebbe svolgere personalmente,
il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, viceversa, è chiamato a svolgere
una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore
della sicurezza. Sulla base di tali distinti ruoli, conclude la Suprema Corte, non è possibile
concentrare i due ruoli perché altrimenti si vanificherebbe ogni controllo da parte
dei lavoratori atteso che il controllante coinciderebbe con il controllato.
L’economicità della gestione di un ente religioso riconduce nell’area della tutela reale la disciplina sui licenziamenti
Lavoro straordinario degli autotrasportatori – Pagamento forfettizzato – Contratto collettivo aziendale
Carta di soggiorno e prestazioni assistenziali
Il requisito del possesso della carta di soggiorno ai fini del godimento delle prestazioni assistenziali da parte dei cittadini extracomunitarinon si applica alle situazioni precedenti all'entrata in vigore delle disposizioni censurate. A sollevare la
questione di legittimità erano stati i tribunali di Milano e Monza nella parte in cui tale complesso
normativo prevede la necessità del possesso della carta di soggiorno e della relativa
condizione reddituale, affinché gli stranieri inabili civili possano fruire (o, quanto meno,
continuare a fruire) della pensione di inabilità . Nei casi di specie, i cittadini stranieri,
pur avendo richiesto la carta di soggiorno, non potevano ottenerla, giacché essa ' in base
al disposto dell'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del
2002 ' viene attribuita allo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato
da almeno sei anni, titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un
numero indeterminato di rinnovi, il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento
proprio e dei familiari; reddito che i ricorrenti, proprio a causa della loro inabilità ,
non erano in grado di produrre. Il giudice di Milano sosteneva che la normativa, secondo
l'orientamento del Comune e un parere del Consiglio di Stato, si applica anche a coloro
che avevano i requisiti per ottenere la pensione prima dell'entrata in vigore della legge
e anche nei confronti dei cittadini che hanno già ricevuto i ratei di pensione. La Corte
costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sulla base del principio di irretroattività
delle norme impugnate. «In linea di principio ' sostiene la Corte ' al legislatore
è consentito modificare il regime di un rapporto di durata, quale quello in oggetto, con misure
che incidano negativamente sulla posizione del destinatario delle prestazioni, purché
esse non siano in contrasto con principi costituzionali e, quindi, non ledano posizioni
aventi fondamento costituzionale». Quanto detto, tuttavia, «non implica che, ogniqualvolta
sia introdotta una nuova disciplina legale di un rapporto di durata avente tali caratteristiche,
essa necessariamente debba essere applicata ai rapporti già costituiti sulla base
della previgente normativa».
Reversibilità della pensione indiretta di guerra
Anche il vedovo ha diritto alla reversibilità della pensione indiretta di guerra.La Corte costituzionale ha quindi accolto la questione sollevata dalla Corte dei conti della
Liguria nella parte in cui la norma non prevede il vedovo quale soggetto di diritto alla pensione
indiretta di guerra. La disposizione censurata contrasterebbe con l'articolo 3 della
Costituzione poiché, secondo quanto previsto dalla sentenza costituzionale n. 9 del 1980
in relazione al diritto alla pensione di reversibilità di guerra, «l'esclusione del vedovo dal
diritto a pensione indiretta di guerra non è in alcun modo giustificata dalla condizione di
soggetto maschio, diversa rispetto alla simmetrica condizione della vedova del militare o
del civile, titolare del diritto a pensione a norma dell'articolo 55 della legge 648/50». Tali
rilievi sono stati pienamente accolti dalla Corte, la quale ha chiarito che, alla luce della
sentenza 9/1980, «non si giustifica il deteriore trattamento riservato al vedovo dalla disposizione
denunciata in base alla sola diversità di sesso, posto che la pensione indiretta
di guerra ' rispetto a quella di reversibilità , che si acquisisce a titolo derivativo ' è diritto
che, al pari della pensione diretta (della quale condivide la natura risarcitoria), spetta a titolo
originario, in base al vincolo familiare».