5 / 2006
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Descrizione
Carta di soggiorno e prestazioni assistenziali al vaglio della Corte costituzionale La Cassazione e le tecniche di outsourcing Perdita di chance per esclusione da selezione interna avanti la Corte di Appello di Bologna
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Il lavoratore licenziato non deve provare che il n. di dipendenti della datrice sia più di 15 per la reintegra e il risarciment
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Miria M. dipendente della Srl Paper's World con qualifica di impiegata «C1» e contratto a tempo parziale, è stata licenziatanell'agosto 1993 con motivazione riferita alla crisi del settore produttivo. Ella ha chiesto al Tribunale di Teramo di dichiarare illegittimo il licenziamento, di ordinare la sua reintegrazione nel posto di lavoro e di condannare l'azienda al risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat. lav. La Srl Paper's World si è difesa sostenendo l'effettività  del motivo addotto per il licenziamento e contestando comunque di avere più di 15 dipendenti, requisito necessario per l'applicazione dell'art. 18 Stat. lav. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ma, la sua decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di L'Aquila che, ha dichiarato illegittimo il licenziamento. La Corte tuttavia non ha ritenuto applicabile l'art. 18 Stat. lav. osservando che la lavoratrice non aveva provato che il numero dei dipendenti fosse superiore a 15; pertanto, in applicazione della legge n. 604/66, ha condannato l'azienda a riassumere l'appellante entro tre giorni o, in mancanza, a corrisponderle un'indennità  pari a 2,5 mensilità  dell'ultima retribuzione globale di fatto. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di L'Aquila, tra l'altro, per non avere posto a carico dell'azienda l'onere di provare che il numero dei dipendenti era inferiore a 16 e per non avere conseguentemente ritenuto applicabile l'art. 18 Stat. lav. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, richiamando la sentenza delle Sezioni Unite n. 141 del 2006, secondo cui grava sul datore di lavoro l'onere di provare l'inesistenza del requisito occupazionale e perciò l'impedimento all'applicazione dell'art. 18 Stat. lav.
Il danno esistenziale prodotto dalla perdita di un congiunto ha natura non patrimoniale ed è diverso dal danno biologico
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Angelo C. è morto nel febbraio 1993 a causa di un incidente stradale.La vedova Lidia e i figli Alex e Massimiliano hanno chiesto al Tribunale di Brescia la condanna del responsabile dell'incidente e della compagnia presso la quale questi era assicurato al risarcimento di tutti i danni da loro subiti ivi compreso il danno biologico. Il Tribunale ha condannato i convenuti al pagamento delle somme di lire 285 milioni a titolo di danno patrimoniale subito per la perdita dell'apporto di contribuzione economica che era dato dal defunto ai suoi famigliari e di lire 200 milioni a titolo di danno morale; ha rigettato invece la domanda di risarcimento del danno biologico per mancanza di prove di malattie psico-fisiche insorte a causa della scomparsa del congiunto. In grado di appello la Corte di Brescia ha condannato i convenuti al pagamento dell'ulteriore somma di lire 90 milioni a titolo di risarcimento del danno subito dai congiunti della vittima jure proprio in ragione della «permanente alterazione del rapporto familiare conseguente alla perdita dello stretto congiunto e alla privazione improvvisa di tutti quei legami affettivi, etici e psicologici che costituivano il suo modo d'essere anche nei rapporti esterni e che erano una componente fondamentale dell'equilibrio e armonia del nucleo familiare». La Corte ha fatto rientrare questa permanente alterazione o danno esistenziale nel concetto di danno biologico, osservando che «in una moderna concezione della persona intesa come portatrice di valori, aspettative e diritti che trova il suo punto di riferimento costituzionale negli artt. 2, 29 e 32 della Costituzione, l'ordinamento giuridico deve tutelare il diritto alla salute, ossia il benessere fisico e psichico inteso in senso ampio, da ogni ingiusta offesa altrui». In proposito la Corte ha rilevato, tra l'altro, che il defunto conviveva pacificamente con la moglie e i figli e aveva con loro anche rapporti di collaborazione. La compagnia assicuratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha tra l'altro rilevato che la Corte avrebbe dovuto porre a carico dei congiunti della vittima la prova del danno esistenziale. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, pur correggendo la motivazione della Corte di Brescia nel senso che il danno esistenziale costituisce un pregiudizio non patrimoniale diverso dal danno biologico. In proposito essa ha richiamato la recente decisione delle Sezioni Unite n. 6572 del 24 marzo 2006 secondo cui il danno esistenziale consiste in «ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità  nel mondo esterno». Per quanto attiene alla prova la Suprema Corte ha affermato che nel caso di perdita del congiunto il danno esistenziale va presunto, ferma restando la possibilità  della prova contraria. Provato il fatto-base della sussistenza di un rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto defunto, è da ritenersi ' ha affermato la Corte ' che la privazione di tale rapporto presuntivamente determini ripercussioni (anche se non necessariamente per tutta la vita) sia sull'assetto degli stabiliti e armonici rapporti del nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del defunto (anche) all'esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti della vita di relazione. Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la presunzione ' ha aggiunto la Corte ' dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla (es. situazione di mera convivenza «forzata», caratterizzata da rapporti deteriorati, contrassegnati da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà  «separati in casa» ecc.).
In caso di assunzione con contratto di formazione lavoro la formazione non si adempie con l'affiancamento a colleghi più anzian
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Francesco A. è stato assunto alle dipendenze della Vigil Sud Srl con contratto biennale di formazione e lavoro come guardia giurata.Alla scadenza del biennio, l'azienda ha posto termine al rapporto. Il lavoratore si è rivolto al pretore di Catania sostenendo la nullità  del termine per scadenza del rapporto, in quanto la società  non aveva adempiuto all'obbligo formativo, avendo concentrato in poche ore giornaliere all'inizio del rapporto la formazione teorica e avendo omesso del tutto la formazione pratica dal momento che egli era stato adibito fin dall'inizio alle mansioni di guardia giurata. Pertanto egli ha chiesto l'annullamento del licenziamento. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che il lavoratore aveva ricevuto, sia presso la sede che presso i posti esterni di servizio, le prescritte nozioni formative sia teoriche che pratiche, dal legale rappresentante della società , dal capo servizio, da personale all'uopo delegato e da colleghi di maggiore anzianità . Il Tribunale di Catania, subentrato al pretore, dopo avere svolto l'istruttoria, ha dichiarato l'illegittimità  del licenziamento e ha ordinato la reintegrazione di Francesco A. nel posto di lavoro. Questa decisione è stata confermata della Corte di Appello di Palermo, che ha motivato la sua decisione rilevando che l'addestramento pratico proprio di un contratto di formazione e lavoro non può identificarsi con la fase iniziale di un normale rapporto a tempo indeterminato e che l'istruttoria aveva dimostrato un'attività  di addestramento pratico non adeguata alla specifica professionalità  richiesta per la qualifica indicata nel progetto formativo. L'esigenza formativa pratica ' ha aggiunto la Corte di Palermo ' non era soddisfatta dall'affiancamento al neo assunto di altri colleghi più anziani, per lo svolgimento di servizi che comunque dovevano essere svolti non da singoli; né dalle spiegazioni che il collega anziano poteva, durante il servizio operativo, dare al giovane; né poteva consistere nello scambio di esperienze fra i più giovani, gli anziani, il capo servizio e lo stesso amministratore, atteso che la specificità  dell'obbligo formativo non può risolversi nell'adibire il giovane allo svolgimento delle mansioni proprie della categoria di assunzione, sia pure sotto la vigilanza dello stesso datore di lavoro o di un collaboratore. La Srl Vigil Sud ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Palermo per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che la Corte di Palermo abbia adeguatamente motivato la sua decisione; va poi ribadito ' ha aggiunto la Cassazione ' che, in mancanza della predeterminazione legislativa di specifici modelli di formazione, il giudice, per accertare che non vi sia stato inadempimento degli obblighi formativi, può e deve fare riferimento al progetto formativo approvato, indipendentemente dal fatto che il lavoratore abbia o meno tempestivamente dedotto la mancanza di formazione anche in relazione al progetto.
La richiesta del tentativo conciliatorio sospende il termine per l'impugnazione del licenziamento - Contrasto
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Giovanni B. dipendente della Spa Fiart Mare è stato licenziato con motivazione riferita al superamento del periodo di comporto per malattia.La lettera di licenziamento gli è pervenuta il 17 aprile 1998. Circa quaranta giorni dopo, il 27 maggio 1998, egli ha depositato presso la Direzione provinciale del lavoro di Napoli la richiesta del tentativo preventivo di conciliazione prevista dall'art. 410 cod. proc. civ., manifestando l'intenzione di impugnare il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli, in quanto a suo avviso il periodo di comporto non poteva ritenersi esaurito. Con lettera pervenuta il 22 giugno 1998 la Direzione provinciale ha comunicato alla Fiart Mare la richiesta avanzata dal lavoratore. Poiché il tentativo di conciliazione non ha avuto esito, Giovanni B., con ricorso del 30 settembre 1998 ha chiesto al Tribunale di Napoli di annullare il licenziamento. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che il lavoratore doveva ritenersi decaduto dal diritto di chiedere l'annullamento del licenziamento, in quanto non le aveva comunicato l'impugnazione nel termine di 60 giorni previsto dall'art. 6 della legge n. 604/66 e la Direzione provinciale del lavoro le aveva dato notizia della richiesta del tentativo di conciliazione il 22 giugno 1998, ossia quando il termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento era scaduto da sei giorni. La difesa del lavoratore ha replicato facendo presente di avere depositato la richiesta del tentativo di conciliazione prima della scadenza del termine previsto dall'art. 6 della legge n. 604/66 e sostenendo l'applicabilità  dell'art. 410, secondo comma cod. proc. civ. secondo cui «la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza». Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Napoli hanno ritenuto la tardività  dell'impugnazione del licenziamento rilevando che la comunicazione all'azienda da parte della Direzione provinciale del lavoro della richiesta del tentativo di conciliazione era avvenuta oltre il termine di 60 giorni previsto dalla legge n. 604/66 e che l'effetto sospensivo della decadenza non può verificarsi prima della ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione dell'impugnazione. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Appello di Napoli per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso ponendosi in consapevole contrasto con altre decisioni della stessa sezione (n. 20153 del 18 ottobre 2005 e n. 11116 del 15 maggio 2006, pubblicata quest'ultima da «Legge e Giustizia» nel lancio del 6 giugno 2006) e affermando che il termine di decadenza previsto dall'art. 6 legge n. 604/66 deve ritenersi sospeso per effetto della comunicazione da parte del lavoratore all'Ufficio del lavoro della richiesta di tentativo preventivo di conciliazione. L'eventuale ritardo dell'Ufficio del lavoro nel comunicare la richiesta all'azienda ' ha affermato la Corte ' non deve avere conseguenze negative per il lavoratore.
Il licenziamento per disobbedienza può ritenersi illegittimo se il lavoratore confidava nella tolleranza aziendale
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Tommaso O. dipendente della Srl Casa di Cura Villa Pini d'Abruzzo, è stato licenziato con l'addebito di insubordinazione,per non avere eseguito la disposizione, impartitagli dal suo superiore gerarchico, di recarsi, per ragioni di servizio, a Chieti guidando un'autovettura aziendale. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Chieti, riconoscendo che la guida dell'autovettura aziendale rientrava nelle sue mansioni, ma facendo presente che egli aveva confidato nella tolleranza dell'azienda, in quanto altre volte il suo rifiuto di guidare non aveva dato luogo a rilievi. Il Tribunale ha annullato il licenziamento ordinando la reintegrazione di Tommaso O. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte di Appello di L'Aquila ha confermato questa decisione, osservando che dall'istruttoria era emerso che il lavoratore pur conducendo talora l'autovettura per brevi percorsi, aveva mostrato una certa ritrosia alla guida e quando si rifiutava di guidare «tutto finiva là»; inoltre in occasione di una riunione organizzativa egli aveva affermato che non conduceva l'autovettura e il legale rappresentante dell'azienda nulla aveva replicato. Da questi fatti la Corte ha dedotto che la tolleranza aziendale aveva determinato nel lavoratore la pur errata convinzione che egli fosse esonerato dalla guida dell'autovettura; pertanto il rifiuto da lui opposto in occasione dell'episodio che aveva dato luogo al licenziamento era da considerarsi non un atto di disobbedienza, bensà la comunicazione d'una propria difficoltà  a un superiore gerarchico che egli riteneva non ne fosse a conoscenza. Il fatto che la norma collettiva prevedesse come giusta causa del licenziamento l'ipotesi generale dell'inadempienza addebitata ' ha osservato la Corte abruzzese ' non escludeva la necessità  di valutare il fatto concreto, pur genericamente inquadrabile in questa ipotesi, nelle particolari contingenti circostanze che lo caratterizzavano; e nell'ambito di queste circostanze il fatto commesso era privo dell'intenzionalità , per l'errata convinzione che aveva mosso il lavoratore; non sussisteva pertanto la proporzionalità  fra fatto commesso e sanzione applicata. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di L'Aquila per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La mera tolleranza datoriale ' ha affermato la Corte ' non esclude di per sé l'illiceità  del comportamento del lavoratore né il diritto del datore di sanzionare un analogo successivo comportamento; nel caso in esame, tuttavia, il giudicante non nega la sussistenza d'una formale inadempienza; esclude, correttamente, che ciò possa condurre meccanicamente al licenziamento; afferma la necessità  di «valutare la gravità  del comportamento alla luce di tutte le circostanze del caso concreto», e in particolare «dell'elemento intenzionale che sorregge la condotta del lavoratore». È consolidato principio giurisprudenziale ' ha ricordato la Corte ' che, anche nell'oggettiva corrispondenza del concreto fatto addebitato all'astratta configurazione normativa, il giudice debba valutare la sanzione applicata anche in funzione dell'elemento soggettivo e di ogni altra circostanza che caratterizza il comportamento, nonché l'oggettiva lesione della fiducia (quale fondamento del rapporto di lavoro).
La base di partenza per la liquidazione dell'indennizzo per la durata non ragionevole del processo è tra 1.000-1.500 euro annui
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Franco F. ha chiesto alla Corte di Appello di Roma la condanna della presidenza del Consiglio dei Ministri all'equa riparazioneprevista dalla legge n. 89 del 2001 per l'eccessiva durata di un giudizio da lui promosso davanti alla Corte dei Conti nel 1972, definito con sentenza depositata nell'ottobre del 2001. La Corte di Appello di Roma ha rilevato che solo parte della quasi trentennale durata del giudizio, da contenersi in nove anni, era giustificata da esigenze processuali e ha pertanto riconosciuto il diritto di Franco F. all'equa riparazione per la violazione dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'uomo e delle Libertà  fondamentali ratificata e resa esecutiva con la legge del 4 agosto 1955 n. 848. La Corte di Roma ha peraltro determinato in via equitativa in euro 3.000 l'importo complessivo della riparazione dovuta a Franco F. Questi ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per l'esiguità  dell'importo liquidato e rilevando tra l'altro, che esso era pari a un ventesimo di quanto indicato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo secondo criteri che non possono essere ignorati dal giudice nazionale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89 ' ha affermato la Cassazione ' i criteri di determinazione del «quantum» della riparazione applicati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili, e tale regola di applicazione della legge nazionale, per quanto attiene alla riparazione del danno non patrimoniale, ha natura giuridica, inerendo ai rapporti tra la detta legge e la Cedu, onde il mancato e immotivato rispetto di essa da parte del giudice del merito concretizza il vizio di violazione di legge denunziabile in sede di legittimità . La valutazione equitativa, dunque, per quanto possibile ' ha affermato la Cassazione ' deve conformarsi alle liquidazioni effettuate in casi similari dalla predetta Corte europea, la quale (con decisioni recentemente adottate a carico dell'Italia il 10 novembre 2004) ha individuato nell'importo compreso fra euro 1.000 ed euro 1.500 per anno la base di partenza per la quantificazione di tale indennizzo. Nella specie, la Corte di merito ha liquidato in via equitativa, la quale indennizzo del cd. danno morale soggettivo riferito all'accertato periodo di non ragionevole durata, complessivamente quantificato in circa anni venti, l'importo di euro 3.000,00. Evidente appare la deroga in pejus rispetto ai parametri Cedu, la quale, attesa la rilevante entità  del di scostamento ' ha concluso la Corte ' non può ritenersi giustificata anche per il profilo logico dal generico, astratto richiamo all'«entità  degli interessi economici in gioco» nel processo ove si è verificato il mancato rispetto del termine ragionevole, richiamo anche avulso da qualsiasi comparazione con le condizioni socio-economiche del ricorrente.
Incombe al datore di provare di aver rispettato il requisito dell'immediatezza nella contestazione dell'addebito disciplinare
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Mauro S. dipendente della Conad Emilia Ovest Scrl è stato sottoposto a procedimento disciplinarenel luglio del 1997 con l'addebito di avere partecipato nel novembre del 1996 alla preparazione di un documento di critica dei dirigenti della società  presentato da alcuni soci in occasione dell'assemblea del novembre 1996. Poiché le giustificazioni da lui addotte sono state ritenute infondate, egli è stato licenziato. Nel giudizio che ne è seguito davanti al Tribunale di Reggio Emilia, il lavoratore ha sostenuto, tra l'altro, che il licenziamento doveva ritenersi nullo per tardività  della contestazione dell'addebito. L'azienda si è difesa affermando di avere rinvenuto soltanto del giugno del 1997 un brogliaccio dal quale aveva potuto desumere la partecipazione del dipendente alla redazione del documento critico. Il Tribunale ha ritenuto legittimo il licenziamento, in quanto ha escluso la tardività  dell'addebito osservando che, se l'azienda fosse venuta a conoscenza del comportamento scorretto del dipendente prima del giugno 1997, glielo avrebbe certamente contestato. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Bologna che ha rilevato che la circostanza del rinvenimento del brogliaccio nel giugno del 1997 non era stata provata dall'azienda. La Corte ha anche osservato che il Tribunale aveva escluso la tardività  della contestazione in base a una presunzione non utilizzabile in quanto fondata su un fatto ignoto; pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Mauro S. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La società  ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l'altro, che la Corte di Bologna aveva posto erroneamente a suo carico la prova dell'immediatezza della contestazione. La Suprema Corte ha rigettato sul punto il ricorso. Perché le presunzioni semplici abbiano valore ' ha affermato la Corte ' è necessario che gli elementi presi in considerazione siano gravi, precisi e concordanti (art. 2729 cod. civ.); devono cioè essere tali da lasciare apparire l'esistenza del fatto ignoto come una conseguenza ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità ; non è consentito al giudice, in mancanza di un fatto noto, fare riferimento a un fatto presunto e derivare da questo un'altra presunzione. Nella specie ' ha osservato la Corte ' correttamente il giudice di appello ha negato la validità  del ragionamento, seguito da quello di primo grado, per affermare la tempestività  della contestazione di addebito formulata dalla società , in quanto nel sostenere che se questa avesse saputo delle inadempienze del suo dipendente lo avrebbe licenziato, ha, in sostanza, finito con il risalire da un fatto ignoto a un altro fatto ignoto. L'immediatezza della contestazione nel procedimento disciplinare ' ha aggiunto la Corte ' costituisce elemento costitutivo del recesso per giusta causa, che deve essere verificato di ufficio dal giudice; una volta eccepita dal lavoratore licenziato la tardività  della contestazione, fa carico al datore di lavoro di dimostrare le ragioni impeditive della tempestiva cognizione del fatto poi addebitato al dipendente.
L'addetto alla cronaca giudiziaria non può considerasi «trombettiere» se non si limita a segnalare le notizie ma scrive i pez
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Riccardo C. ha lavorato per la redazione fiorentina del quotidiano «La Repubblica» dal febbraio 1989 all'agosto 1993, come addetto alla cronaca giudiziaria,senza essere inquadrato come dipendente e senza essere iscritto all'Albo dei giornalisti. Successivamente egli ha chiesto al pretore di Firenze di accertare che aveva lavorato in condizioni di subordinazione e che per le mansioni svolte aveva diritto al trattamento previsto dal contratto nazionale di lavoro giornalistico per il redattore. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Firenze hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. La Suprema Corte con una prima sentenza n. 7020 del 2000 ha accolto il ricorso proposto da Riccardo C. per vizi di motivazione e violazione di legge e ha rinviato la causa, per nuovo esame, al Tribunale di Prato, che ha accertato l'esistenza, nel periodo 1989-1993, di un rapporto di lavoro subordinato e ha condannato la società  editrice al pagamento delle differenze di retribuzione richieste. Il Tribunale di Prato, applicando l'art. 2116 cod. civ., ha affermato il diritto del lavoratore alla retribuzione pur dovendosi ritenere la nullità  del rapporto di lavoro per effetto della mancata iscrizione di Riccardo C. all'Albo dei giornalisti. Il Tribunale ha ravvisato la prova della subordinazione in primo luogo nei pezzi redatti da Riccardo C., in media di 300 l'anno e cioè più di uno al giorno di lavoro; la circostanza ' ha osservato il Tribunale ' escludeva che Riccardo C. fosse delegato soltanto alla raccolta di notizie e il fatto che talvolta la stesura dell'articolo fosse affidato ad altri per disposizione del capo redattore avveniva anche per i giornalisti dipendenti, come lo stesso capo redattore, sentito come teste, aveva confermato. Altre circostanze ritenute rilevanti dal Tribunale sono: che il lavoratore di mattina effettuava il giro quotidiano presso gli uffici giudiziari, comunicando per telefono al giornale le notizie; che il pomeriggio egli si recava in redazione ove si tratteneva per la stesura dei pezzi dalle 15.00 alle 21.00; che egli partecipava ai turni di attesa presso il carcere; che il servizio di cronaca giudiziaria fosse in definitiva a lui affidato. La società  editrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione del Tribunale di Prato per vizi di motivazione e violazione di legge. In particolare l'azienda ha sostenuto che il Tribunale di Prato non abbia tenuto in adeguata considerazione la testimonianza del capo della redazione (secondo cui il lavoratore svolgeva i compiti del cd. «trombettiere» ovvero del mero segnalatore di notizie) e le deposizioni di altri testi (secondo cui Riccardo C. pur effettuando al mattino il giro degli uffici giudiziari, non era a ciò tenuto). La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Le deposizioni testimoniali cui la ricorrente ha fatto riferimento ' ha affermato la Corte ' non evidenziano illogicità  della sentenza impugnata e per l'altro verso ne confermano le valutazioni. Analizzando le dichiarazioni dei testi la Corte ha osservato quanto segue: «Il capo della redazione fiorentina S. afferma la natura di «trombettiere», cioè di mero acquisitore di notizie del C., in evidente contrasto con le centinaia di articoli da lui redatti, dichiara di non avere al mattino dato disposizioni telefoniche al C., ma precisa che questi telefonava ai capo redattori. Ammette la partecipazione ai turni di attesa innanzi al carcere, ma li limita numericamente, circostanza illogica perché, se era un semplice collaboratore esterno, non gli si potevano mai chiedere turni di attesa. Assume, infine, di avere dato disposizione che «i trombettieri dovevano passare le informazioni e basta» e non si è avveduto delle centinaia di pezzi che il C. scriveva. I testi, la cui deposizione è riportata nel motivo, confermano la quotidiana telefonata mattutina all'esito del giro negli uffici giudiziari, ma si affrettano ad affermare che il C. non era tenuto a farla, ma non precisano gli elementi dai quali avevano desunto l'insussistenza dell'obbligo e cioè compiono una valutazione della quale i giudici di merito correttamente non hanno tenuto conto. Il motivo evidenzia ancora circostanze quali quella che il C. non avesse né una stanza né una scrivania, ma utilizzasse quelle libere, ovvero la collaborazione di C. con altri giornali, giustamente ritenute irrilevanti dalla sentenza impugnata quando si era accertata la presenza al lavoro in redazione dalle 15 alle 21 e il possesso dell'accesso alla rete informatica del giornale. Sono ancora evidenziati i maggior compensi corrisposti a C. da altri giornali, circostanza che conferma soltanto, come ritenuto dai giudici di Prato, che egli non era retribuito adeguatamente dalla società  ricorrente».
Si rende inadempiente all'obbligo di fedeltà il dipendente che costituisca una società concorrente a quella del suo datore
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Giovanni C., dipendente della società  Srl Belvedere è stato licenziato nell'ottobre del 1996 con l'addebito di violazione dell'obbligo di fedeltà per avere partecipato alla costituzione di un'altra società  denominata Capinera società  cooperativa a Rl, che aveva oggetto analogo a quello della datrice di lavoro. Egli ha chiesto al pretore di Catania di annullare il licenziamento sostenendo di non avere recato alcun pregiudizio alla Srl Belvedere. Sia il pretore che la Corte di Appello di Catania hanno ritenuto la domanda priva di fondamento affermando che il lavoratore si era reso responsabile di una grave violazione dell'obbligo di fedeltà . Giovanni C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Catania per vizi di motivazione e per violazione dell'art. 2105 cod. civ. Questa norma ' ha sostenuto il lavoratore ' vieta ai dipendenti soltanto di «trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l'imprenditore», mentre la Corte di Catania aveva ritenuto che il solo fatto di costituire una società  fosse potenzialmente dannoso per il datore di lavoro e comportasse la violazione dell'obbligo di fedeltà . La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando la sua giurisprudenza secondo cui «integra violazione del dovere di fedeltà  di cui all'art. 2105 cod. civ. e è potenzialmente produttiva di danno, la costituzione, da parte di un lavoratore dipendente, di una società  per lo svolgimento della medesima attività  economica svolta dal datore di lavoro» (Cass. n. 6654 del 5 aprile 2004). Questa violazione ' ha aggiunto la Corte ' è più rilevante quando la nuova compagine non sia una società  ordinaria, in cui i soci si limitano a versare la loro quota di capitale sociale ma, come nel caso in esame, una cooperativa di lavoro in cui, invece, i soci, si impegnano a prestare personalmente la propria attività  di lavoro per la società  e perciò a svolgere un'attività  oggettivamente incompatibile con l'obbligo di svolgere la medesima prestazione in favore del datore di lavoro.
Le controversie su inadempienze postconcorsuali della P.A. su assunzioni nel ruolo dirigenziale sono di pertinenza del G.O.
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Eduardo M. dipendente del Ministero della Giustizia con inquadramento in area C/3 (profilo di direttore di Cancelleria), ha partecipato a un concorsoper 23 posti di dirigente, classificandosi al 90° posto della graduatoria. Successivamente, in base alla legge 19 gennaio 2001 n. 4, che ha previsto la copertura di posti della carriera dirigenziale sulla base delle graduatorie ancora efficaci dei concorsi precedenti, il Ministero ha disposto l'assunzione nel ruolo dirigenziale di 82 idonei tra cui Eduardo M. Questo provvedimento peraltro è stato successivamente revocato e il Ministero ha disposto l'assunzione di soli 69 idonei. Eduardo M., essendo rimasto escluso dall'assunzione si è rivolto al Tribunale di Cuneo, giudice del lavoro, facendo valere il suo diritto al posto di dirigente. Il Tribunale ha accolto la domanda accertando il diritto di Eduardo M. all'assunzione nel ruolo del personale dirigenziale e alla stipulazione del relativo contratto di lavoro. Il Tribunale ha anche condannato il Ministero al risarcimento del danno. Il Ministero ha proposto appello sostenendo, tra l'altro, che la controversia rientrava nella giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte di Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione osservando, tra l'altro, che la giurisdizione spettava al giudice del Lavoro in quanto la controversia non concerneva la procedura concorsuale. Il Ministero ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Appello, tra l'altro, per avere affermato la giurisdizione del giudice ordinario. La causa è stata assegnata alle Sezioni Unite per la decisione sulla giurisdizione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario, rimettendo la causa alla Sezione Lavoro per la decisione degli altri motivi del ricorso. L'interesse all'assunzione ' ha affermato la Corte ' assume la consistenza del diritto soggettivo, cui si riferisce l'art. 63, comma uno, d.lgs. 165/2001, in primo luogo, nei casi in cui non sono configurabili atti autoritativi e procedimenti amministrativi, il che avviene tutte le volte in cui si esula dalla fattispecie di procedure concorsuali per l'assunzione (oppure l'amministrazione difetta di attribuzione del potere di espletarle); in secondo luogo, allorché la pretesa si fondi sull'atto terminale del procedimento amministrativo, la cui conformità  a legge non è contestata; infatti, la procedura concorsuale termina con la compilazione della graduatoria finale. Spetta allora alla giurisdizione ordinaria ' ha affermato la Corte ' il sindacato, da esplicare con la gamma dei poteri cognitori del giudice civile, sui comportamenti successivi, riconducibili alla fase di esecuzione, in senso lato, dell'atto amministrativo presupposto; nel caso di specie, mentre certamente era stata espletata una procedura pubblica concorsuale (tale essendo quella preordinata all'inquadramento di dipendenti in area superiore), la controversia è stata esattamente collocata dalla sentenza impugnata fuori dell'ambito di quelle inerenti alla procedura; infatti, con l'approvazione della graduatoria si esaurisce l'ambito riservato al procedimento amministrativo e all'attività  autoritativa dell'amministrazione, subentrando una fase in cui i comportamenti dell'amministrazione vanno ricondotti all'ambito privatistico, espressione del potere negoziale della pubblica amministrazione nella veste di datrice di lavoro, da valutarsi alla stregua dei principi civilistici in ordine all'adempimento delle obbligazioni (art. 1218 cod. civ.), anche secondo il paramento della correttezza e buona fede.
Il giudice può escludere che l'aver colpito un collega con un tubo producendogli una lesione sia giusta causa di licenziamento
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Luigi F. dipendente della società  Automobilistica tecnologie avanzate è stato sottoposto a procedimento disciplinarecon l'addebito di avere colpito con un tubo di ferro un altro dipendente all'interno dello stabilimento, nel corso di un litigio, cagionandogli lesioni personali. Egli si è difeso facendo presente, tra l'altro, di avere reagito a una provocazione. L'azienda lo ha licenziato, facendo riferimento all'art. 25 lett. b) del contratto collettivo nazionale di categoria che prevedeva la sanzione del licenziamento per il dipendente che, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, si fosse reso responsabile di azioni che costituiscono «delitto» a termini di legge; in questo caso il delitto era quello di lesioni personali. Luigi F. ha chiesto al Tribunale di Melfi di annullare il licenziamento, sostenendo che la sanzione era eccessiva in considerazione dei suoi precedenti e delle circostanze del fatto. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto applicabile l'art. 25 lett. b) del contratto collettivo. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Potenza, che ha annullato il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro condannando inoltre l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha rilevato che dalla prova testimoniale era emerso che il lavoratore aveva subito una provocazione e quindi aveva agito in uno stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e senza alcuna premeditazione; ha inoltre osservato che Luigi F. non aveva commesso in passato alcuna infrazione e che l'episodio per il quale egli era stato licenziato non aveva cagionato alcun danno all'azienda né aveva in alcun modo turbato l'attività  aziendale; ha quindi concluso che il fatto contestato al lavoratore non era tale da comportare una irreparabile interruzione dell'elemento fiduciario. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Potenza per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il giudice, dal momento che la nozione di giusta causa è nozione legale e il giudice deve sempre verificare, stante la inderogabilità  della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla definizione di giusta causa di cui all'art. 2119 cod. civ. e se, in ossequio ai principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità , il fatto addebitato sia tale da legittimare il recesso, tenuto anche conto dell'elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore. Nel caso in esame ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di Potenza, valutata la portata del fatto contestato, anche in relazione alla insussistenza di conseguenze patrimoniali e morali per l'azienda, e considerato il comportamento precedente e successivo dell'incolpato e l'intensità  del dolo ha ritenuto, con motivazione adeguata, che la sanzione del licenziamento non fosse proporzionata alla gravità  della condotta addebitata.
Provocazione e derisione in ambito lavorativo possono configurare un'attenuante per il lavoratore che reagisca con calci e pugni
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Fernando A., dipendente dell'Ilva Spa, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato in troncocon l'addebito di aver aggredito il collega Salvatore S., colpendolo con calci e pugni, all'uscita dallo spogliatoio dello stabilimento. Egli ha chiesto al Tribunale di Taranto di annullare il licenziamento sostenendo, tra l'altro, che nella valutazione del fatto si doveva tener presente che egli era stato oggetto di continue provocazioni e derisioni da parte di Salvatore S., nell'ambiente di lavoro. Il Tribunale, dopo aver svolto l'istruttoria, ha respinto la richiesta di annullamento del licenziamento, ma ha escluso la configurabilità  di una giusta causa, e ha ravvisato, nel comportamento di Fernando A. un giustificato motivo soggettivo di recesso, riconoscendo pertanto al lavoratore il diritto all'indennità  sostitutiva del preavviso. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Taranto che ha annullato il licenziamento in quanto ha ritenuto eccessiva la sanzione, in considerazione del fatto che il comportamento di Fernando A. trovava almeno parziale giustificazione nelle continue provocazioni e derisioni da lui subita nell'ambiente di lavoro a opera di Salvatore S. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che la decisione impugnata sia stata adeguatamente motivata. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' il giudice dell'appello, dopo avere proceduto all'esame delle deposizioni dei testi escussi, ne ha ricavato «un dato di fatto», ritenuto di particolare rilevanza ai fini della valutazione del comportamento posto a fondamento del provvedimento espulsivo. Ha, in proposito, affermato che «la condotta dell'Angolano, pur se riprovevole, perché lo è sempre quella che si impernia sulla violenza fisica o psichica, non fu peraltro del tutto arbitraria e d'impeto», essendo stata la sua reazione «con ogni probabilità » la conseguenza del rancore che era venuto accumulandosi a causa del continuo e irritante scherno». La Corte di Appello ' ha rilevato la Cassazione ' ha anche soggiunto, a maggior chiarimento della propria valutazione, avallata dalle risultanze del libero interrogatorio dello stesso Fernando A., che, potendo «dirsi provata» la circostanza che quest'ultimo agà in seguito alle continue provocazioni subite, la sua condotta non poteva essere considerata cosà grave, sotto il profilo psicologico, da legittimare l'adozione nei suoi confronti del provvedimento espulsivo, dovendosi anche tener conto che essa non era avvenuta per ragioni di lavoro, né era stata posta in essere durante l'esecuzione delle prestazioni lavorative, né nell'ambito del reparto, ma solo nello stabilimento, per giunta in tarda ora, quando, per l'esiguo numero di persone presenti, non era nemmeno ipotizzabile potesse aver provocato capannelli, pericolosi per lo svolgimento dell'attività  produttiva.
L'azienda non può trasferire il dipendente se ha concordato con lui un determinato luogo di lavoro
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Costantino C. è stato assunto nel novembre 1992 dalla Spa My Lunch come addetto al servizio di refezione scolastica presso il Comune di Biella.Nel 2000 egli è passato alle dipendenze della Spa Compass Group Italia, che ha incorporato la My Lunch. Successivamente egli ha promosso nei confronti dell'azienda un'azione giudiziaria diretta a ottenere il pagamento di trasferte. Il 10 agosto 2001 la Compass gli ha comunicato il trasferimento da Biella a Pomigliano d'Arco con effetto dal 25 agosto. Egli ha rifiutato di prendere servizio nella nuova sede, facendo presente che la lettera di assunzione prevedeva espressamente Biella come luogo di lavoro. L'azienda ha aperto nei suoi confronti un procedimento disciplinare con l'addebito di assenza ingiustificata a Pomigliano d'Arco. Egli si è giustificato facendo presente che il suo posto di lavoro era, per contratto, Biella. L'azienda lo ha licenziato per inadempimento. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Biella di annullare il licenziamento e di condannare l'azienda a reintegrarlo nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno in base all'art. 18 Stat. lav.. Il Tribunale ha rigettato il ricorso in quanto ha ritenuto che fosse nella facoltà  dell'azienda modificare il luogo di lavoro. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Venezia, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento, ha ordinato all'azienda di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e l'ha condannata al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino all'effettiva reintegrazione. La Corte ha motivato la sua decisione osservando che dal contratto di lavoro sottoscritto nel novembre 1992 emergeva l'impegno di Costantino C. a rendere la prestazione in un preciso luogo (servizio di refezione scolastica presso il Comune di Biella) e l'obbligo della società  di adibirlo a tale servizio. La Compass ha proposto ricorso per cassazione censurando la Corte di Appello di Venezia per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando l'orientamento espresso in varie sentenze (n. 3219/79, n. 1738/82, n. 4334/83, n. 3249/85) secondo cui il potere datoriale di determinare il luogo della prestazione lavorativa e di trasferire il lavoratore da un'unità  produttiva a un'altra è discrezionalmente esercitabile quando sussistano ragioni tecniche, organizzative e produttive, salvo che, per disposizione di contratto collettivo o individuale, non venga stabilito con carattere vincolante per entrambe le parti che la prestazione lavorativa debba essere effettuata in un determinato luogo.
L'accordo tra azienda e lavoratore per la modifica peggiorativa delle sue funzioni è lecito se è teso alla tutela del posto
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Moreno C. dipendente della società  Officine di Borgo S. Giovanni con qualifica di operaio di terzo livello addetto ai collaudi,dopo avere trascorso un periodo in Cigs, al suo rientro in servizio è stato adibito alle mansioni di carico e scarico di merce mediante muletto. Successivamente egli ha chiesto al Tribunale di Lodi, tra l'altro, di accertare che al rientro dalla Cigs egli aveva subito una dequalificazione in quanto le mansioni assegnategli erano inferiori a quelle in precedenza svolte e di condannare l'azienda al risarcimento del conseguente danno. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Milano hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, affermando che la modifica in senso peggiorativo delle mansioni doveva ritenersi legittima in quanto era stata attuata, con il consenso del lavoratore, per evitargli il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non essendovi la possibilità  di impiegarlo con mansioni equivalenti a quelle di collaudatore, soppresse per ragioni organizzative. In particolare la Corte di Milano ha ritenuto che, eseguendo le nuove mansioni assegnategli dopo il rientro dalla Cigs, il lavoratore le abbia accettate per fatti concludenti, ammettendo cosà che non vi era la possibilità  di destinarlo ad altro incarico equivalente a quello in precedenza svolto. Moreno C. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nella motivazione della sua decisione essa ha preliminarmente ricordato il principio ormai acquisito nella giurisprudenza di legittimità , secondo cui l'art. 2103 cod. civ., nella parte in cui prevede la nullità  di qualsiasi pattuizione che introduca modifiche peggiorative della posizione del lavoratore, non opera allorché il patto peggiorativo corrisponda all'interesse del lavoratore stesso. Ne discende ' ha osservato la Corte ' che l'accordo per l'adibizione a mansioni inferiori alle ultime svolte, stipulato in considerazione di una prospettiva di licenziamento fondata su serie ragioni, non è da considerarsi in contrasto con le esigenze di libertà  e dignità  della persona e rappresenta una soluzione più favorevole al lavoratore di quella ispirata a un'esigenza di mero rispetto formale dell'art. 2103 cod. civ.; presupposti indispensabili della legittimità  di un mutamento in senso peggiorativo delle mansioni sono l'effettività  della situazione pregiudizievole che si vuole evitare e il consenso del lavoratore, che deve essere prestato validamente ed essere esente da vizi. È evidente, ha rilevato la Corte, che, quando il datore di lavoro desiste dall'intento di licenziare per addivenire a un cd. patto di demansionamento, occorre che l'intento di porre fine al rapporto sia stato serio, giustificato e non l'espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione a una norma imperativa; in caso di impugnativa dell'accordo, l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni di fatto che avrebbero giustificato il licenziamento incombe sul datore di lavoro in base all'art. 5 della legge n. 604/66 e all'art. 2103 cod. civ.. Nel caso in esame ' ha affermato la Cassazione ' la Corte di Appello di Milano ha ritenuto che la prova della sussistenza di condizioni legittimanti il licenziamento fosse rinvenibile da un lato nell'accettazione da parte del lavoratore di mansioni peggiori rispetto a quelle originarie e dall'altro nella carenza di mansioni equivalenti, desumibile dal fatto in sé dell'accettazione poiché questa implicava ammissione della veridicità  del fatto. Questo ragionamento ' ha affermato la Suprema Corte ' è censurabile in quanto l'esecuzione delle mansioni inferiori assegnate non significa di per sé accettazione di una proposta contrattuale modificativa del precedente assetto del rapporto lavorativo, né, a maggior ragione, può significare riconoscimento di mancanza di posti di lavoro equivalenti, in assenza di ogni specificazione di circostanze che possano deporre in tal senso.
Il rifiuto di assunzione dell'invalido tramite collocamento non è giustificato dalla mancanza di qualificazione professionale
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Silverio G., invalido civile con riduzione della capacità  lavorativa superiore ai due terzi,è stato avviato al lavoro obbligatoriamente in base alla legge n. 482 del 1968 presso la Srl Gemex Italia. Questa ha rifiutato l'assunzione sostenendo di avere necessità  soltanto di personale con conoscenza delle lingue straniere parlate e scritte, che Silverio G. non conosceva. Il lavoratore ha chiesto al pretore di Milano, nel novembre del 1998, di dichiarare l'avvenuta costituzione di un rapporto di lavoro anche in base all'art. 2932 cod. civ. oppure, in subordine, la condanna della società  all'assunzione, nonché in ogni caso al risarcimento del danno rappresentato dalla mancata corresponsione della retribuzione e dal pregiudizio previdenziale. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Milano hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, in base ai risultati di una consulenza tecnica, che aveva attestato l'insussistenza degli elementi richiesti per un proficuo inserimento dell'invalido nella struttura organizzativa della convenuta; in particolare, secondo la consulenza, per potere essere utile all'azienda, il convenuto avrebbe dovuto conoscere le lingue inglese e tedesca parlate e scritte e saper fare uso del computer. Silverio G. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il nostro ordinamento ' ha osservato la Corte ' prevede l'assunzione obbligatoria presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private di lavoratori appartenenti ad alcune categorie, espressamente indicate, meno favorite sul mercato del lavoro (oppure ritenute ' anche per ragioni di natura completamente diversa ' meritevoli di una particolare tutela), come onere di solidarietà  sociale al fine di consentire anche a essi lo svolgimento di un'attività  produttiva, e dare cosà attuazione nei loro confronti al principio costituzionale del diritto al lavoro. All'epoca dei fatti, nel 1998, la materia era disciplinata dalla legge 2 aprile 1968, n. 482 (ora sostituita dalla legge 12 marzo 1999, n. 68), che imponeva ai datori di lavoro con un determinato numero di lavoratori di assumere una certa percentuale, calcolata sul numero complessivo degli occupati, di lavoratori rientranti nelle categorie protette, e in particolare un certo numero di invalidi, avviati obbligatoriamente al lavoro. La libertà  di scelta a disposizione del datore di lavoro era limitata: poteva richiedere, a sua scelta, soltanto l'invio di lavoratori avviati obbligatoriamente con la qualifica di operaio oppure, invece, di impiegato, ma non pretendere che fossero in possesso di specifici requisiti di professionalità . Al di fuori della diversità  fra queste categorie ' ha osservato la Corte ' rimane irrilevante qualsiasi possibile divergenza fra attitudini professionali e le esigenze aziendali; solo eccezionalmente il datore di lavoro può rifiutare l'assunzione obbligatoria del prestatore avviatogli in applicazione della legge n. 482/1968, se lo svolgimento dell'attività  da parte dell'invalido avviato obbligatoriamente risulti potenzialmente pericoloso per la sua stessa sicurezza, o per quella degli altri lavoratori e dei terzi in genere, o per quella degli stessi impianti. L'unica impossibilità  che può rilevare come discriminante rispetto alla normale illegittimità  del rifiuto del datore di lavoro di procedere all'assunzione del prestatore avviatogli obbligatoriamente ' ha affermato la Corte ' è quella, oggettiva, di inserimento fisico, anche in relazione ai pregiudizi che ne possano derivare al lavoratore invalido all'interno dell'ambiente di lavoro; non può rilevare, invece, la mancata possibilità  di impiegare la prestazione del lavoratore in maniera considerata utile, a causa del mancato possesso da parte sua della capacità  e della preparazione necessarie per lo svolgimento dell'attività  affidatagli, in sostanza il mancato gradimento di quella prestazione. L'istituto dell'avviamento obbligatorio, in particolare degli invalidi ' ha precisato la Corte ' risponde proprio alla finalità  di consentire il reperimento di una occupazione anche a soggetti che altrimenti verrebbero assunti difficilmente, e perciò la sua applicazione non può essere condizionata dal possesso di attitudini o di capacità  professionali particolari, e neppure dall'organizzazione aziendale adottata dall'imprenditore, il quale non può pretendere il possesso da parte del lavoratore avviato obbligatoriamente di requisiti diversi dalla categoria richiesta di operaio oppure di impiegato. Il datore di lavoro ' ha aggiunto la Corte ' non è tenuto a modificare appositamente la propria organizzazione per rendere possibile al lavoratore avviatogli obbligatoriamente lo svolgimento di una prestazione di lavoro, e neppure per evitare che quella prestazione e la stessa presenza dell'invalido possano risultare pregiudizievoli all'interessato, ad altri, o agli stessi impianti, ma, nel predisporre autonomamente la propria organizzazione aziendale, non può neppure non tenere conto dell'obbligo impostigli dalla legge di assumere un certo numero di prestatori appartenenti alle categorie protette (cosà come deve tenere conto, in via generale, di tutti i molteplici obblighi imposti dalla legge per le più diverse finalità , amministrative, di sicurezza, sanitarie, ecc.): l'art. 11, secondo comma, della legge n. 482/1968 prevede espressamente che «nel limite percentuale di posti dovuti [â?¦] saranno riservati ai mutilati e invalidi almeno la metà  dei posti disponibili di custodi, portieri, magazzinieri, ascensoristi, addetti alla vendita dei biglietti nei locali di pubblico spettacolo (cinema, teatri, sale di concerti, ecc.), guardiani di parcheggi per vetture, guardiani di magazzini o che comportino mansioni analoghe», e il successivo terzo comma aggiunge un obbligo di precedenza, anche tra gli invalidi, in favore di quelli che abbiano determinate minorazioni. Qualora l'imprenditore non abbia tenuto conto di questo obbligo e abbia organizzato la propria struttura aziendale (eventualmente anche appaltando all'esterno lo svolgimento di tutte le attività  non essenziali) senza prevedere postazioni di lavoro che possano essere ricoperte da personale non qualificato avviato obbligatoriamente ' ha concluso la Corte ' il successivo rifiuto di assumere quel personale rimane illegittimo, senza che il datore possa opporre l'impossibilità  di utilizzare l'invalido perché mancante della necessaria qualificazione professionale.
Applicazione su retribuzione del medico del servizio sanitario della trattenuta del 15% per attività professionale extramuraria
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Salvatore R. dirigente medico in servizio presso la Ausl/2 di Bari con rapporto di lavoro a tempo pieno,nel periodo dal gennaio 1996 al marzo 2000 ha svolto libera attività  professionale all'esterno della struttura ospedaliera, che non disponeva di spazi adeguati e camere a pagamento per consentirgli l'esercizio della libera professione all'interno dell'azienda sanitaria. La Ausl/2 gli ha applicato, sull'indennità  medica di tempo pieno, la decurtazione del 15% prevista dall'art. 4 della legge n. 724/94 per i dipendenti sanitari che svolgano anche attività  di libera professione. Salvatore R. ha chiesto al Tribunale di Trani di dichiarare illegittima la ritenuta, sostenendo che essa avrebbe potuto essere effettuata soltanto se la Ausl gli avesse messo a disposizione spazi adeguati e camere a pagamento all'interno dell'azienda, in esecuzione dell'obbligo stabilito dall'art. 4 del d.lgs. n. 502/92. Il Tribunale ha accolto la domanda e ha condannato la Ausl a restituire al medico le somme trattenute. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Bari, che ha ritenuto legittima la decurtazione. La mancata ottemperanza della Ausl all'obbligo di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 502 del 1992 di mettere a disposizione i locali per l'esercizio della libera professione ' ha osservato la Corte di Bari ' non precludeva alla Ausl l'applicazione della normativa specifica che prevede la detrazione del 15% sull'indennità  di tempo pieno dovuta al personale sanitario esercente anche attività  libero professionale. Salvatore R. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Bari per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 4 della legge n. 724/94 ' ha affermato la Corte ' connette la ritenuta alla sola circostanza dell'esercizio di attività  extramuraria, senza condizionarla affatto alla predisposizione di quanto necessario per l'esercizio di attività  intramuraria; e è anzi la stessa norma che indica le uniche conseguenze della mancata attuazione, da parte della Ausl dell'obbligo previsto dall'art. 4 del d.lgs. n. 502/92 (allestimento di spazi da destinare all'esercizio della libera professione), prevedendo, per tale ipotesi, l'immediata risoluzione del contratto del direttore generale ai sensi dell'art. 3 del d.lgs. n. 502/92. In applicazione del principio ermeneutico secondo cui ubi lex voluit dixit deve pertanto escludersi ' ha osservato la Corte ' in mancanza di una espressa previsione legislativa, che la mancata applicazione dei presupposti per l'esercizio della libera professione intra moenia determini l'ulteriore effetto di rendere inapplicabile la ritenuta in esame.
Immediatezza della contestazione dell'addebito e tempestività di licenziamento sono elementi costitutivi del diritto di recesso
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Maurizio C., dipendente della Spa La Fondiaria'Sai, ha percepito dall'Inail, nel periodo dal 3 agosto al 6 novembre 1992,l'indennità  per invalidità  temporanea conseguente a un infortunio sul lavoro, verificatosi il 30 luglio 1992. Nello stesso periodo egli ha continuato a incassare la normale retribuzione corrispostagli dall'azienda. Nel dicembre del 1994 la Sai è stata informata dall'Inail dell'accaduto, con la comunicazione di fine anno relativa alla quantificazione dei tassi della tariffa dei premi. Nel gennaio del 1995 l'azienda ha chiesto a Maurizio C. la restituzione della retribuzione indebitamente corrispostagli nel periodo 3 agosto-6 novembre 1992, per un importo complessivo di lire nove milioni circa. Poiché il dipendente non ha provveduto al rimborso, la Sai gli ha rinnovato la richiesta nell'ottobre del 1996, anche questa volta senza esito. Con lettera del 27 febbraio 1997 l'azienda ha aperto nei confronti di Maurizio C. un procedimento disciplinare, contestandogli di avere percepito indebitamente la retribuzione nel periodo 3 agosto-6 novembre 1992, senza restituirla. Alla contestazione ha fatto seguito il licenziamento in tronco, intimatogli il 12 settembre 1997. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare il licenziamento, affermandone l'illegittimità  per tardività  della contestazione dell'addebito e per l'eccessività  della sanzione. Il Tribunale ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Roma che ha annullato il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha ritenuto, in particolare, che la contestazione dell'addebito sia stata tardiva in quanto avvenuta più di due anni dopo che la datrice di lavoro era stata portata a conoscenza dell'accaduto. La mancanza ' ha osservato la Corte di Roma ' non può ritenersi verificata solo a seguito della richiesta di restituzione avanzata dalla società , in quanto il fatto della indebita percezione contestato al dipendente resta sempre lo stesso e diversamente, facendo riferimento alla formulazione dei successivi solleciti diretti alla restituzione dell'importo trattenuto al dipendente, si perverrebbe all'inammissibile conseguenza di rimettere alla volontà  del datore di lavoro la tempestività  della contestazione. La Fondiaria-Sai ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Appello per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui in base all'art. 7 Stat. lav., la contestazione deve essere immediata, in stretta connessione temporale con il fatto addebitato al dipendente o con la conoscenza che di esso abbia avuto il datore di lavoro e tempestivo deve essere anche il successivo licenziamento. In base all'art. 2119 cod. civ., l'immediatezza della contestazione e la tempestività  del licenziamento ' ha affermato la Corte ' si configurano quali elementi costitutivi del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto il ritardo nella contestazione dell'addebito o nell'intimazione del recesso inducono ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia voluto soprassedere al provvedimento espulsivo, considerando non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore.
Scuola superiore di polizia
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Il regolamento disciplina il nuovo assetto organizzativo e funzionale della Scuola Superiore di Polizia,che in attuazione dell'autonomia didattico-istituzionale prevista istituisce e realizza i corsi di formazione, di perfezionamento e di specializzazione, e svolge le attività  di formazione permanente e ricorrente per il personale dirigente e direttivo della Polizia di Stato, che si rendano necessarie in relazione alle esigenze istituzionali. (Gazzetta Ufficiale n. 203 del 1° settembre 2006)
Protezione dall’esposizione all’amianto
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Competenze magistrati e dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari
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Il decreto individua le competenze dei magistrati capi e dei dirigenti amministrativi degli uffici giudiziari,e istituisce come organi periferici di livello dirigenziale generale del Ministero della Giustizia, le direzioni generali regionali e interregionali dell'organizzazione giudiziaria. (Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2006 ' suppl. Ordinario n. 173)
Incompatibilità tra funzione di responsabile aziendale servizio protezione rischi e rappresentante sicurezza dei lavoratori
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La sentenza è già  stata brevemente trattata in questo numero della rivista (p. 7), ma vale la pena di approfondire i dati che qualificano la fattispecie.La Srl Madonna dei Miracoli ha assegnato al suo dipendente Umberto D., nell'ottobre del 1998, la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi prevista dall'art. 2 lettera e) del decreto legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Umberto D. ha rifiutato l'incarico, facendo presente che esso era incompatibile con quello, in precedenza da lui assunto, di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, previsto dall'art. 2 lettera f) della stessa legge. Per questo rifiuto l'azienda lo ha licenziato. Egli ha chiesto al pretore di L'Aquila l'annullamento del licenziamento, sostenendo che il rifiuto da lui opposto alla richiesta aziendale doveva ritenersi giustificato. Il pretore ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di L'Aquila che ha annullato il licenziamento. La Corte ha ritenuto giustificato il rifiuto del lavoratore di svolgere le funzioni di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, affidategli dal datore di lavoro, atteso che tali mansioni erano incompatibili con quelle di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di L'Aquila per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Nel sistema delineato dal decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626 ' ha osservato la Corte ' la funzione di responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi, designato dal datore di lavoro (art. 2, lett. e), e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (art. 2, lett. f) non sono cumulabili nella stessa persona. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro nell'espletamento di un'attività  che questi, in determinati casi, potrebbe svolgere personalmente (art. 10 del d.lgs. n. 626 e all. I); esercita quindi prerogative proprie del datore di lavoro in tema di sicurezza del lavoro; contribuisce a determinare gli oneri economici che il datore di lavoro deve sopportare perché il lavoro in azienda sia e rimanga sicuro, atteso che le misure relative alla sicurezza non devono comportare oneri finanziari per i lavoratori (art. 3, comma 2). Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è chiamato, invece, a svolgere una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza; deve essere consultato dal datore di lavoro sulla designazione delle persone addette all'espletamento dei compiti del servizio di prevenzione e protezione, fra cui il responsabile del servizio (art. 8, comma 2); deve essere consultato in ordine alla valutazione dei rischi, alla individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione nell'azienda (art. 19, comma 1, lett. b), nonché sulla designazione degli addetti all'attività  di prevenzione incendi, al pronto soccorso, alla evacuazione dei lavoratori (art. 19, comma 1, lett. c), e sulla organizzazione della formazione di tali addetti (art. 19, comma 1, lett. d); svolge tutta una serie di funzioni, elencate nell'art. 19, che possono, in sintesi, definirsi di costante controllo dell'attività  svolta, in materia di sicurezza, dal datore di lavoro e dal servizio di prevenzione da questi istituito, compresa la facoltà  di fare ricorso alle autorità  competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impieganti per attuarle non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro (lett. o); fruisce delle stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali. Concentrare nella stessa persona le funzioni di due figure cui il legislatore ha attribuito funzioni diverse, ancorché finalizzate al comune obiettivo della sicurezza del lavoro ' ha affermato la Corte ' significa eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato e il controllante coinciderebbero; è come se, nei casi in cui può svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (art. 10, primo comma), il datore di lavoro fosse eletto dai lavoratori come loro rappresentante per la sicurezza; chiaramente diversa è la volontà  della legge, che richiede entrambe le figure per una azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori.
Procedimento disciplinare per i notai
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Il decreto, in attuazione dell'articolo 7, comma 1, lettera e), della legge 28 novembre 2005, n. 246sostituisce il comma 5 dell'articolo 30 della legge n. 89/1913: «Il notaio, inoltre, cessa dall'esercizio notarile per dispensa o interdizione dall'ufficio, rimozione, sospensione o destituzione». (Gazzetta Ufficiale n. 186 dell'11 agosto 2006 ' suppl. Ordinario n. 184)
Sicurezza sociale. Spese ospedaliere sostenute in un altro Stato membro. Spese di trasferimento, di soggiorno e di vitto
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1. Gli artt. 22, nn. 1, lett. c), e 2, nonché 36 del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , debbono essere interpretati nel senso che non conferiscono all'affiliato, autorizzato dall'istituzione competente a recarsi in un altro Stato membro per ivi ricevere cure ospedaliere appropriate al suo stato di salute, un diritto a ottenere dalla detta istituzione il rimborso delle spese di trasferimento, di soggiorno e di vitto sostenute nel territorio di tale Stato membro da lui stesso e dalla persona che l'ha accompagnato, fatta eccezione per le spese di soggiorno e di vitto dell'affiliato medesimo nell'istituto ospedaliero. 2. Una normativa nazionale che preveda un diritto a prestazioni ulteriori rispetto a quelle previste dall'art. 22, n. 1, del regolamento n. 1408/71, come modificato e aggiornato dal regolamento n. 118/97, nel caso contemplato alla lett. a) del detto paragrafo 1, ma non in quello contemplato alla lett. c) del medesimo paragrafo, non pregiudica l'efficacia diretta di tale disposizione e non viola il principio di leale cooperazione sancito dall'art. 10 Ce.
Anticipo finanziaria
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Tra le «disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria» che il decreto introduce si pone l'attenzionesull'art. 21 comma 4 il quale, sostituendo l'articolo 9 del d.lgs. n. 124/2004, specifica che esclusivamente tramite posta elettronica gli enti, le organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro maggiormente rappresentative sul piano nazionale e i consigli nazionali degli ordini professionali possono inoltrare alla Direzione generale costituita presso il Ministero del Lavoro i quesiti di ordine generale sull'applicazione delle normative di competenza del ministero stesso, anziché presso le singole direzioni provinciali. L'adeguamento alle indicazioni contenute nelle risposte ai quesiti esclude l'applicazione delle relative sanzioni penali, amministrative e civili. L'art. 41 oltre a modificare l'art. 19, comma 8 del d.lgs. n. 165/2001, cioè la cessazione, decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo, degli incarichi dirigenziali di Segretario generale di ministeri, di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali, dispone che venga applicato anche ai direttori delle Agenzie, incluse quelle fiscali. In sede di prima applicazione del comma 8 modificato gli incarichi conferiti prima del 17 maggio 2006 cassano ove non confermati entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del decreto. (Gazzetta Ufficiale n. 230 del 3 ottobre 2006)
Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale
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La legge nel convertire il decreto legge n. 223/2006 apporta delle modifiche riguardanti il settore dei servizi professionali.Nel particolare si specifica che: le tariffe non sono vietate, ma non sono obbligatorie e possono essere forniti «servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società  di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività  libero-professionale deve essere esclusivo». Viene inoltre sostituito il comma 3 dell'art. 2233 del codice civile: «Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati e i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali». (Gazzetta Ufficiale n. 186 dell'11 agosto 2006 ' suppl. Ordinario n. 183)
Illegittimità della protesta dei farmacisti contro il «decreto Bersani»
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La Commissione ha sanzionato la Federfarma per la giornata di astensione collettiva dal servizio per le farmacie privateper protesta contro l'emanazione del cd. «decreto Bersani», contestando la violazione relativa al mancato rispetto del termine di preavviso previsto dall'art. 2, comma 1, legge n. 146/1990 nonché dall'art. 3 della Regolamentazione provvisoria delle prestazioni indispensabili nel settore delle farmacie private adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione n. 03/169 del 17 dicembre 2003. La Commissione ha ritenuto di non potere accogliere le difese della Federfarma secondo le quali: a) nelle more del giudizio amministrativo pendente in ordine alla legittimità  della Regolamentazione provvisoria la Commissione avrebbe dovuto astenersi dal comminare sanzioni in base a tale disciplina regolamentare; b) lo sciopero avrebbe dovuto essere considerato come azione proclamata in difesa della salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, e dunque del diritto alla salute, e fosse pertanto ascrivibile alla fattispecie dello sciopero «in difesa dell'ordine costituzionale» (art. 2, comma 7, legge 146/1990 e ss. mod.), come tale non soggetto all'obbligo del preavviso minimo; c) essendo la regola dell'obbligo di preavviso prevista al fine «di consentire ai gestori dei servizi pubblici esenziali di approntare eventuali rimedi per sovvenire agli inconvenienti causati dallo sciopero», tale necessità  non si sarebbe dovuta ravvisare nel caso di specie, giacché gli associati Federfarma garantirebbero direttamente e con immediatezza i presidi minimi senza alcuna necessità  di tempi per l'organizzazione delle prestazioni di lavoratori dipendenti; d) anche in relazione alla ulteriore finalità  del preavviso di rendere edotti gli utenti della temporanea sospensione del servizio, tale obiettivo sarebbe stato comunque raggiunto in funzione del clamore suscitato dalla protesta e dal conseguente spazio ad essa dedicato da tutti gli organi di informazione; e) infine il danno cagionato agli utenti sarebbe stato minimo. La Commissione ha invece ritenuto che la pendenza del giudizio amministrativo avverso la regolazione provvisoria non incide sulla efficacia del provvedimento e che, in ogni caso, la regola del preavviso minimo trova diretto fondamento nell'art. 2, commi 1 e 5, della legge 146/1990. Inoltre ad avviso della Commissione non può neppure essere accolta la tesi dell'afferenza dello sciopero in oggetto alla fattispecie di cui all'art. 2, comma 7, legge 146/1990, atteso che, stante la sua formulazione letterale, tale eccezione si riferisce a «situazioni di eccezionale gravità  tali da mettere in pericolo le istituzioni democratiche» (delibera n. 337 dell'8 maggio 1997), e che la norma in questione fa «principale riferimento ad ipotesi di sovvertimento violento ' o pericolo di sovvertimento violento ' dell'ordinamento statale da parte di poteri o soggetti usurpatori» (delibera n. 78 dell'11 febbraio 1999). La Commissione ha infine rilevato che: «la legge considera le 'regole (sostanziali) da rispettare e 'le procedure da seguire in caso di conflitto collettivo alla stessa stregua, come due ordini di limiti del diritto di sciopero strumentali alla salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti degli utenti» (Corte cost. 10 giugno 1993, n. 276), per cui la regola del preavviso non può essere considerata meramente funzionale alla organizzazione delle prestazioni minime da parte di chi gestisce il servizio pubblico, quasi che il termine di dieci giorni fosse concesso in beneficio del soggetto proclamante; né peraltro può ritenersi che l'eventuale clamore suscitato dall'iniziativa ed il conseguente spazio occupato dalla relativa notizia nei mezzi di informazione possano esonerare le organizzazioni proclamanti dal rispetto del predetto obbligo, volto a garantire la preventiva conoscenza, da parte degli utenti, della astensione dal servizio. Anche la scarsa lesività  dell'astensione collettiva e le asserite ragioni di urgenza della protesta non sono state considerate dalla Commissione ragioni idonee a legittimare la violazione della disciplina di legge relativa al preavviso minimo, la quale, nel settore in oggetto, è posta a presidio e garanzia dei fondamentali diritti costituzionali alla salute e alla vita.
Illegittimità della protesta degli avvocati contro il «decreto Bersani»
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La Commissione ha sanzionato l'Organismo unitario dell'avvocatura italiana per l'astensione dalle udienze civili, penali, amministrative e tributarieper i giorni 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20 e 21 luglio 2006 indetta senza osservare il termine di preavviso di cui all'art. 2, comma 3, della Regolamentazione provvisoria dell'astensione collettiva degli avvocati dall'attività  giudiziaria. L'Organismo unitario ha addotto a giustificazione del mancato preavviso la «lesività  costituzionale [â?¦] il grave pregiudizio di diritti fondamentali dei cittadini e la compromissione delle garanzie essenziali del giusto processo » delle disposizioni contenute nel cd. «decreto Bersani» riguardanti le professioni. La Commissione ha disatteso questa difesa affermando che al fine di sostenere la legittimità  della deroga al termine di preavviso e alle limitazioni alla durata delle astensioni dal lavoro non è sufficiente invocare la motivazione della «lesività  costituzionale» poiché tale motivo in tanto può rilevare in quanto integri gli estremi della difesa dell'ordine costituzionale. L'affermazione di carattere generale contenuta nella sentenza della Corte costituzionale n. 276/1993, secondo la quale le ipotesi dell'art. 2, comma 7, legge n. 146/1990, «ineriscono alla persona e a interessi fondamentali della collettività », non può essere invocata ' ad avviso della Commissione ' per giustificare l'applicazione di tale norma a qualsiasi astensione proclamata per la tutela di diritti della persona e degli interessi fondamentali della collettività  perché per la realizzazione di ciascuna delle fattispecie previste devono ricorrere elementi più specifici. Tanto più che la Commissione, successivamente a tale sentenza della Corte costituzionale, ha ritenuto che l'art. 2, comma 7, della legge n. 146/1990 «nel richiamare gli eventi lesivi dell'ordine costituzionale, si riferisce a situazioni di eccezionale gravità  tali da mettere in pericolo le istituzioni democratiche e non comprende le astensioni di protesta politico-economica» (delibera n. 337 dell'8 maggio 1997) e che la norma in questione fa «principale riferimento ad ipotesi di sovvertimento violento ' o pericolo di sovvertimento violento ' dell'ordinamento statale da parte di poteri o soggetti usurpatori» (delibera n. 78 dell'11 febbraio 1999). In definitiva, secondo l'interpretazione adottata dalla Commissione, lo sciopero in difesa dell'ordine costituzionale è soltanto quello proclamato allorché siano minacciati i valori fondanti del nostro sistema di governo democratico e di libertà  individuali e collettive, e non quando l'eventuale incostituzionalità  di una legge possa essere fatta valere attraverso gli ordinari rimedi di costituzionalità .
Durata dell’astensione dalle udienze degli avvocati e interruzione nei giorni di sabato e domenica
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Trattamento dati personali biometrici di lavoratori per accesso ad aree riservate aeroportuali e di verifica presenza dipendenti
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L'Autorità  ha ribadito che la raccolta e la registrazione di impronte digitali e dei dati biometrici da esse ricavatie successivamente utilizzati per l'autenticazione o l'identificazione degli interessati sono operazioni di trattamento di dati personali (art. 4,comma 1, lett. b), del Codice), alle quali trova applicazione la normativa contenuta nel Codice. La liceità  dell'adozione di tali sistemi di controllo deve essere pertanto valutata sul piano della conformità  ai principi di necessità , proporzionalità , finalità  e correttezza (artt. 3 e 11 del Codice). Secondo l'orientamento dell'Autorità , l'utilizzo di dati biometrici può risultare infatti giustificato solo se proporzionato per presidiare accessi ad «aree sensibili», considerata la natura delle attività  ivi svolte (ad esempio, processi produttivi pericolosi o sottoposti a segreti, di varia natura) o in ragione dei beni ivi custoditi (quali, documenti segreti o riservati o oggetti di valore) oppure, nella situazione in esame, per assicurare la sicurezza di terzi. Nel caso sottoposto all'esame dell'Autorità , una società  di handling in area aeroportuale è stata autorizzata a trattare dati biometrici dei dipendenti in quanto i locali dove la società  svolge le proprie attività  di assistenza a terra (correlate all'ordinato svolgimento del traffico aeroportuale) sono risultate richiedere l'adozione di standard di sicurezza specifici ed elevati, nonché di affidabili sistemi di identificazione dei soggetti deputati ad accedervi in conformità  alle procedure previste dalla vigente normativa a garanzia della sicurezza di persone e cose (cfr. d.p.r. 4 luglio 1985, n. 461). Alla luce di tali circostanze, l'Autorità  ha ritenuto proporzionato l'uso di dati biometrici tratti delle impronte digitali nei locali sopra indicati, tenendo conto anche del fatto che il template, memorizzato su una smart card e protetto con una chiave crittografica, sarebbe destinato a restare nell'esclusiva disponibilità  dell'interessato. L'Autorità  ha invece ritenuto non legittimo il trattamento di dati biometrici per l'accesso ad uffici della società  rispetto ai quali non è stata fornita dalla società  idonea prova della sussistenza di analoghe stringenti esigenze di sicurezza che, in conformità  ai principi di necessità  e proporzionalità  (artt. 3 e 11 del Codice), giustifichino l'utilizzo di dati biometrici in luogo di altri strumenti meno invasivi. L'Autorità  ha altresà ritenuto illecito il trattamento di dati biometrici per perseguire la diversa finalità  di rilevazione della presenza dei dipendenti della società . Ciò, sia in quanto la società  non ha addotto ragioni specifiche a sostegno della necessità  di ricorrere a tale peculiare modalità  di verifica dell'osservanza dell'orario di lavoro, limitandosi ad accennare all'esigenza di natura prettamente organizzativa di evitare la contemporanea presenza di due sistemi di controllo concorrenti, sia perché ne sarebbe prevista l'introduzione nei soli confronti dei dipendenti destinati ad accedere all'area riservata, ad esclusione dei restanti lavoratori della società . Ad avviso dell'Autorità  la verifica dell'esatto adempimento della prestazione lavorativa può essere quindi legittimamente perseguita, nel caso esaminato, senza ricorrere ad alcun trattamento di dati biometrici (nel rispetto dell'art. 3 del Codice), avvalendosi pertanto di altro idoneo sistema a tal fine predisposto.
Licenziamenti collettivi
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La direttiva n. 75/129/Cee, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi,dev'essere interpretata nel senso che essa è applicabile ai licenziamenti collettivi risultanti dalla cessazione definitiva del funzionamento di un'impresa o di uno stabilimento, decisa autonomamente dal datore di lavoro, in mancanza di una previa decisione giudiziaria, senza che la deroga prevista dall'art. 1, n. 2, lett. d), di tale direttiva possa escluderne l'applicazione.
Libera circolazione e libero soggiorno nel territorio dell’Unione europea. Indennità di disoccupazione
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Previdenza sociale. Copertura di prestazioni di malattia e di maternità. Calcolo dei contributi
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L'art. 33, n. 1, del regolamento n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , non osta a che, per la determinazione della base imponibile ai fini del calcolo dei contributi di assicurazione malattia applicati nello Stato membro di residenza del titolare di pensioni corrisposte da enti dello Stato medesimo, competente a corrispondere prestazioni ai sensi dell'art. 27 del regolamento medesimo, siano ricomprese in tale base imponibile, oltre alle pensioni percepite nello Stato membro di residenza, pensioni corrisposte da enti di un altro Stato membro, purché i detti contributi non superino l'importo delle pensioni percepite nello Stato membro di residenza. Tuttavia, l'art. 39 Ce osta a che venga preso in considerazione l'importo delle pensioni percepite da enti di un altro Stato membro qualora in tale altro Stato membro siano già  stati versati contributi sui redditi di lavoro ivi percepiti. Spetta agli interessati provare l'effettività  di tali precedenti versamenti previdenziali.
Pagamento straordinario in regime di pronta disponibilità
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Il ricorrente, dipendente dell'Asl, adiva il Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro per ottenere il pagamento delle ore di lavoro straordinariosvolte in regime di pronta disponibilità , deducendo la violazione degli artt. 34 e 7 del Ccnl comparto sanità . L'Azienda convenuta si costituiva deducendo l'infondatezza del ricorso sia per la mancanza di autorizzazione del dirigente responsabile allo svolgimento di dette prestazioni che per la mancanza di prova della proficua utilizzazione delle prestazioni supplementari svolte dal dipendente. Condividendo quanto dedotto dalla difesa ricorrente, il giudice del lavoro superava letture superficiali e restrittive della norma in questione e, nell'accogliere integralmente la domanda, in sentenza chiariva: «Detta disposizione stabilisce, invero, un generico rinvio al dirigente responsabile, amministrativo o sanitario, e non esclusivamente a quello, generale, che abbia funzioni di rappresentanza esterna dell'azienda, essendo il primo comunque deputato ad attività  di direzione e organizzazione del personale e potendo, dunque, per tal modo esercitare il controllo preventivo sull'effettiva necessità  di prestazioni straordinarie, per assicurare, in ogni momento e circostanza, la regolarità  e il buon andamento del servizio gestito dall'Asl. Ciò appare particolarmente evidente ove si consideri che, trattandosi di «autorizzazione preventiva» e non successiva, la stessa può avere un senso logico e una effettiva utilità  per l'azienda, solo se rimessa al dirigente presente nei vari momenti e turni, anche notturni, in cui può verificarsi l'esigenza e la necessità  di utilizzare il personale in prestazioni straordinarie supplementari, a seconda delle contingenze che dovessero via via emergere». Quanto al servizio di pronta disponibilità  l'art.7 comma 6 Ccnl Comparto sanità , garantisce al dipendente, quale corrispettivo del sacrificio inerente all'obbligo di immediata reperibilità  per l'eventuale chiamata in servizio, la possibilità  di fruire di una giornata di riposo compensativo purché ne faccia espressa richiesta nel termine di 30 giorni. In sentenza viene tra l'altro specificato che non sussiste alcun obbligo per il dipendente di far uso dei riposi compensativi per controbilanciare le prestazioni straordinarie rese, prevedendo l'art. 34 in capo al lavoratore una mera facoltà  di usufruirne. Il giudice del lavoro evidenziava altresà la pretestuosità  dell'eccezione sollevata dall'Asl quanto alla proficua utilizzazione delle prestazioni straordinarie «non potendosi evidentemente dubitare del vantaggio recato all'Azienda dallo svolgimento di siffatte prestazioni, in quanto dalla stessa proficuamente utilizzate per assicurare un servizio ottimale agli utenti della Sanità ».
Accesso agli atti da parte di un rappresentante sindacale – Atti di natura privatistica della pubblica amministrazione
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Politica sociale. Tutela lavoratori in caso d’insolvenza del datore. Indennità di licenziamento convenuta in sede conciliativ
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Clausole 1, lett. b), e 5, accordo quadro a tempo determinato. Possibile deroga per i contratti con amministrazioni pubbliche
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L'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva n. 1999/70/Ce,relativa all'accordo quadro Ces, Unice e Ceep sul lavoro a tempo determinato, dev'essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un'altra misura effettiva destinata a evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.
Compenso per lavoro straordinario nelle giornate festive infrasettimanali ex art. 9 Ccnl Comparto sanità
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Un dipendente dell'Asl, adiva il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli per ottenere il pagamento delle ore di lavoro straordinario effettuate,in giorni festivi infrasettimanali, deducendo la violazione degli artt. 9 e 34 dell'Accordo integrativo del Ccnl comparto sanità . L'Asl convenuta si costituiva contestando il fondamento della domanda e chiedendone il rigetto. Il giudice del lavoro, superando le pretestuose e dilatorie eccezioni formulate dalla convenuta, ha accolto la domanda e riconosciuto il fondamento del diritto nell'Accordo integrativo del Ccnl che all'art. 9 espressamente prevede: «L'attività  prestata in giorno festivo infrasettimanale dà  titolo, a richiesta del dipendente da effettuarsi entro 30 giorni, a equivalente riposo compensativo o alla corresponsione del compenso per lavoro straordinario con la maggiorazione prevista per il lavoro straordinario festivo». È poi l'art. 34 al comma 8 a disciplinare il trattamento economico ovvero il metodo di calcolo del compenso e le diverse percentuali di maggiorazione che saranno del 15, del 30 e del 50% a seconda che sia rispettivamente straordinario diurno, notturno o festivo e notturno/festivo. Il compenso dell'art. 9 non è dunque un'indennità  ma una vera e propria voce della retribuzione, un particolare corrispettivo maggiorato riconosciuto al dipendente per il lavoro prestato nelle giornate festive infrasettimanali che trova il suo presupposto giuridico nella contrattazione collettiva e la sua prova documentale nei fogli paga e di servizio. È stata fondamentale nella questione in oggetto una piana e corretta lettura dell'art. 9 che non prevede alcun obbligo contrattuale per il dipendente di far uso dei riposi compensativi per controbilanciare eventuali prestazioni straordinarie rese, piuttosto una mera facoltà  di goderne in alternativa al compenso in denaro. L'esplicita e tempestiva richiesta è infatti presupposto indispensabile solo per fruire del riposo, non certo per ottenere quanto di diritto spettante per la «straordinaria» prestazione lavorativa resa.
Mancata corresponsione dell’assegno per il nucleo familiare sul periodo di malattia
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Riconoscimento mansioni superiori – Presupposti
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Licenziamento – Giustificato motivo oggettivo – Presupposti
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Inclusione dell’indennità di amministrazione nel computo della tredicesima mensilità
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Reintegra – Diritto di opzione – Pagamento dell’indennità sostitutiva – Cessazione del rapporto
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Vincolo di esclusività – Attività concorrenziale – Previsione contrattuale – Limiti
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Opposizione a precetto – Sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo – Reclamabilità
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Contratto di lavoro a tempo determinato e obblighi comunitari
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La Corte prende atto di come, senza eccezioni, la giurisprudenza di legittimità  ha sempre ritenuto, sotto la vigenza della legge n. 230/1962,che il contratto a tempo determinato per un verso si configurasse come ipotesi eccezionale, con conseguente tipicità  e tassatività  delle situazioni derogatorie, per altro verso fosse ontologicamente connotato dalla temporaneità  della prestazione (ex plurimis, Cass. Ss.Uu. n. 5739/1997 e Cass. n. 167/2006). Le ragioni poste a fondamento della deroga al regime contrattuale ordinario sono rinvenibili nella straordinarietà  dell'esigenza datoriale rispetto al ciclo produttivo. Anche la formulazione dell'art. 1 d.lgs. n. 368/2001, nonostante l'esplicita abrogazione della legge n. 230/1962, non si discosta ' ritiene la Corte fiorentina ' dalla menzionata impostazione, perché il contratto a tempo determinato resta descritto come un'ipotesi autorizzabile, seppure nell'ambito di una previsione articolata mediante clausole generali e non più attraverso l'elencazione di fattispecie analitiche. Tuttavia, il ricorso a una clausola generale piuttosto che a una elencazione tassativa delle ipotesi autorizzate potrebbe condurre all'affermazione della realizzata, fisiologica, alternatività  fra i due tipi contrattuali, posto che le esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive finiscono per enunciare tutte le possibili manifestazioni del potere datoriale, cosà realizzando la massima flessibilità  nella dotazione della forza lavoro, secondo quanto affermato dalla circolare 1° agosto 2002, n. 42 del Ministero del lavoro). A parere della Corte d'Appello, tale proposta ermeneutica si pone in contrasto con la direttiva 99/70/Ce, della quale la novella del 2001 costituisce l'attuazione nell'ordinamento italiano, direttiva che non ha a oggetto l'introduzione di nuove forme di flessibilità  in ragione delle esigenze del mercato del lavoro, bensà l'approntamento di un normativa volta a elidere forme di discriminazione e abusi, come chiaramente risultante dalla clausola di non regresso di cui al punto 16. Sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale (sen. n. 41/2000), ossia che un regime di liberalizzazione del contratto a tempo determinato finirebbe per violare un preciso obbligo comunitario, la Corte d'Appello ritiene che l'art. 1 d.lgs. n. 368/2001 debba essere interpretato senza discostarsi dal tradizionale impianto regola/eccezione e che, sebbene le ipotesi derogatorie siano enunciate attraverso una clausola generale e non più tramite l'elencazione tassativa, nel nostro ordinamento il contratto di lavoro è ancora corrispondente al prototipo a tempo indeterminato e l'apposizione del termine continua a configurare deroghe rispetto allo schema generale.
Reclamo – Opposizione a precetto – Sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo – Ammissibilità – Ne bis in idem
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Quadro aspirante alla promozione a dirigente – Mancata illegittima attribuzione della qualifica dirigenziale
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Giusta causa di licenziamento – Ritardato rientro al lavoro dall’estero del dipendente straniero
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Esclusione dalla selezione per attribuzione di qualifica superiore
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Una dipendente delle Poste italiane Spa, inquadrata nell'Area operativa, quale ex V categoria,esclusa dalla procedura selettiva per accertamento professionale necessaria per passare all'area quadri di secondo livello prevista dalla lett. E della circ. n. 35/95, adiva il Tribunale di Piacenza chiedendo la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno per perdita di chance da liquidarsi con separato giudizio, ritenendo la sua esclusione illegittima perché operata sulla base di scelte discrezionali arbitrarie, non conformi ai criteri previsti contrattualmente e quindi poste in violazione dei principi di correttezza e buona fede. Si costituiva in giudizio Poste italiane, chiedendo il rigetto della domanda attorea, eccependo che la lavoratrice non aveva dimostrato di essere in possesso dei titoli di servizio idonei a metterla in grado di essere ammessa al colloquio per l'accertamento professionale, né che, se la selezione fosse stata espletata in modo legittimo, avrebbe certamente potuto ottenere la promozione. Il Tribunale del lavoro di Piacenza, con sentenza n. 114/2001 accoglieva la domanda, dichiarando l'illegittimità  della selezione per quadri di secondo livello, nonché l'illegittimità  dell'esclusione della ricorrente dalla preselezione per violazione dei criteri selettivi indicati dalla circolare, condannando Poste al risarcimento del danno da quantificarsi con separato giudizio. Il Tribunale in particolare fondava il proprio giudizio di illegittimità  della selezione sul fatto che la mancata documentazione della fase di preselezione rendeva impossibile la verifica dei criteri adottati e la sua valutazione comparativa tra gli ammessi e gli esclusi, ponendosi quindi in contrasto con i principi di trasparenza e obiettività  enunciati dall'art. 50 del Ccnl di categoria. La violazione delle norme procedurali da parte del datore di lavoro erano quindi un inadempimento contrattuale cui doveva essere collegato presuntivamente il danno dedotto, senza che il creditore potesse essere tenuto ad alcun onere probatorio in ordine al nesso di causalità . Contro la sentenza proponeva appello Poste italiane, che viene accolto dalla Corte rilevando come l'appellata (rimasta contumace in secondo grado) non avesse assolto agli oneri probatori e di allegazione su di lei gravanti. La decisione merita attenzione anche perché ripercorre gli orientamenti della Suprema Corte in punto al risarcimento del danno da perdita di chance. Innanzitutto viene ricordato che un lavoratore, ritenutosi illegittimamente pretermesso, può far valere il diritto soggettivo alla promozione o può invece limitarsi a lamentare il mancato rispetto del corretto svolgimento delle procedure concorsuali (Cass. n. 3183/99 e n. 158/94) e tale differenza di posizioni soggettive azionate si riflette sia sull'onere probatorio da assolvere, sia sul versante dei danni da risarcire. Nel primo caso, infatti, il lavoratore deve provare che il corretto svolgimento delle operazioni del concorso lo avrebbe portato certamente tra i promossi «come può verificarsi ove la normativa dettata dalla contrattazione collettiva o dalla regolamentazione interna o comunque dal bando di concorso preveda un sistema di scelta dei promovendi basato su criteri predeterminati, incentrati su criteri di ponderazione oggettiva (cd. punteggi fissi o vincolati)» (cosà Cass. n. 11522/97), ovvero quando i criteri di scelta riservino al datore di lavoro una valutazione discrezionale (cd. punteggi liberi) che tuttavia non può essere affetta da manifesta inadeguatezza o irragionevolezza, ossia non può essere arbitraria (cosà Cass. n. 2167/96): il datore di lavoro, infatti, nel compimento delle operazioni selettive deve attenersi alle regole fondamentali della correttezza e buona fede che si traducono in un obbligo di imparzialità  della stima comparativa (cosà Cass. n. 650/92 e n. 8710/99) e non può compiere salti logici tra il giudizio comparativo e gli elementi che dovrebbero sorreggere detto giudizio. In tale primo caso i danni patiti si identificano nel pregiudizio economico conseguente alla mancata promozione e consistono nella differenza tra il globale trattamento economico goduto dal lavoratore e quello a cui avrebbe avuto diritto se avesse ottenuto la promozione. Nel secondo caso invece, ove non si possa dimostrare il nesso di causalità  tra il corretto svolgimento della procedura concorsuale e la rivendicata promozione, il lavoratore potrà  ugualmente agire in giudizio per la tutela del suo diritto soggettivo al rispetto della regolarità  dell'iter concorsuale (Cass. n. 3481/99). I principi di buona fede e correttezza, infatti, fungono da limite al potere imprenditoriale e funzionano quali criteri «qualificativi scuscettibili di discriminare l'adempimento dall'inadempimento» (Cass. n. 6864/87, n. 6657/91, 7210/92, n. 4725/93). In questo caso i danni risarcibili non sono quelli derivanti dalla «mancata promozione», bensà quelli consistenti nella perdita della possibilità  di promozione e quindi nella privazione della possibilità  di progressioni nell'attività  lavorativa (danni certi e non probabili, cosà Cass. n. 15810/01, n. 8468/00 n. 8132, n. 14074/00), onde il danno patrimoniale risarcibile ' consistente non in un lucro cessante, bensà nel danno emergente da perdita di una possibilità  attuale (Cass. n. 11322/03) ' può essere determinato ex art. 1226 cod. civ., applicando al parametro delle retribuzioni percipende e percepite, un coefficiente di riduzione che tenga conto del tasso di probabilità  che il lavoratore aveva di risultare vincitore (Cass. n. 158/94, n. 2167/96, n. 11522/97). L'onere probatorio gravante sul candidato è quello di provare i fatti che configurano la violazione degli obblighi (generali o specifici) incombenti sul datore nell'espletamento delle procedure concorsuali, la sussistenza degli obblighi stessi che si lamentano violati (Cass. n. 2280/2000), nonché il nesso causale tra l'inadempimento e l'evento dannoso, con l'indicazione degli elementi (come a esempio il posto in graduatoria) idonei a far ritenere che il regolare svolgimento delle procedure selettive avrebbe comportato una concreta, effettiva, attuale e non ipotetica probabilità  di vittoria del candidato pretermesso (Cass. n. 11522/97, Cass. n. 11322/03 cit.).
Azione di mero accertamento – Interesse ad agire – Licenziamento collettivo – Criteri di individuazione
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Mansioni promiscue – Prevalenza qualitativa sul piano professionale
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Le condizioni di legittimità di un licenziamento devono essere valutate al momento dell’intimazione
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La Corte precisa l’ambito territoriale del contratto collettivo di lavoro
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Accertamento del rapporto di lavoro subordinato – Elementi della fattispecie – Potere direttivo e indici di subordinazione
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Posizione organizzativa – Diritto al mantenimento – Insussistenza
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Ferie collettive e comporto
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La Corte di Cassazione nel riformare la decisione della Corte di Appello di Milano che aveva annullato il licenziamentointimato da una azienda per superamento del periodo di comporto, ritenendo non computabile il periodo di malattia ricompreso nelle ferie collettive della società , ha, viceversa, stabilito che nel periodo di comporto devono essere inclusi i giorni non lavorati ricadenti all'interno del periodo di malattia a meno che il lavoratore fornisca la prova della propria guarigione nei periodi non lavorati onde sottrarli al calcolo del comporto.
L’outsourcing al vaglio della Corte di Cassazione
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Non è cumulabile il ruolo di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e quello di responsabile per la sicurezza in aziend
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Un lavoratore nominato rappresentante della sicurezza per i lavoratori di un'azienda si rifiutava di svolgere l'incarico,assegnatogli dalla società  datrice di lavoro, di responsabile della sicurezza. All'esito del rifiuto il lavoratore veniva licenziato Nel corso del giudizio promosso dal dipendente per la reintegra nel posto di lavoro il Tribunale del lavoro di L'Aquila rigettava il ricorso ritenendo ingiustificato il rifiuto del dipendente. La Corte di Appello competente riformava la decisione statuendo che il rifiuto del lavoratore era da ritenersi legittimo stante una incompatibilità  tra la funzione di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e quella di responsabile della sicurezza in azienda. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione dei giudici di appello ha affermato che nel sistema delineato dal decreto legislativo 626/94, la funzione di responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi designato dal datore di lavoro, e quella di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza non sono cumulabili nella stessa persona. Tale incompatibilità  ' prosegue la corte ' pur non espressamente prevista dalla normativa deve ritenersi in considerazione del diverso ruolo assegnato ai due soggetti. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro nell'espletamento di una attività  che questi, in determinati casi potrebbe svolgere personalmente, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, viceversa, è chiamato a svolgere una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza. Sulla base di tali distinti ruoli, conclude la Suprema Corte, non è possibile concentrare i due ruoli perché altrimenti si vanificherebbe ogni controllo da parte dei lavoratori atteso che il controllante coinciderebbe con il controllato.
L’economicità della gestione di un ente religioso riconduce nell’area della tutela reale la disciplina sui licenziamenti
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Lavoro straordinario degli autotrasportatori – Pagamento forfettizzato – Contratto collettivo aziendale
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Carta di soggiorno e prestazioni assistenziali
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Il requisito del possesso della carta di soggiorno ai fini del godimento delle prestazioni assistenziali da parte dei cittadini extracomunitarinon si applica alle situazioni precedenti all'entrata in vigore delle disposizioni censurate. A sollevare la questione di legittimità  erano stati i tribunali di Milano e Monza nella parte in cui tale complesso normativo prevede la necessità  del possesso della carta di soggiorno e della relativa condizione reddituale, affinché gli stranieri inabili civili possano fruire (o, quanto meno, continuare a fruire) della pensione di inabilità . Nei casi di specie, i cittadini stranieri, pur avendo richiesto la carta di soggiorno, non potevano ottenerla, giacché essa ' in base al disposto dell'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla legge n. 189 del 2002 ' viene attribuita allo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno sei anni, titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinnovi, il quale dimostri di avere un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari; reddito che i ricorrenti, proprio a causa della loro inabilità , non erano in grado di produrre. Il giudice di Milano sosteneva che la normativa, secondo l'orientamento del Comune e un parere del Consiglio di Stato, si applica anche a coloro che avevano i requisiti per ottenere la pensione prima dell'entrata in vigore della legge e anche nei confronti dei cittadini che hanno già  ricevuto i ratei di pensione. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sulla base del principio di irretroattività  delle norme impugnate. «In linea di principio ' sostiene la Corte ' al legislatore è consentito modificare il regime di un rapporto di durata, quale quello in oggetto, con misure che incidano negativamente sulla posizione del destinatario delle prestazioni, purché esse non siano in contrasto con principi costituzionali e, quindi, non ledano posizioni aventi fondamento costituzionale». Quanto detto, tuttavia, «non implica che, ogniqualvolta sia introdotta una nuova disciplina legale di un rapporto di durata avente tali caratteristiche, essa necessariamente debba essere applicata ai rapporti già  costituiti sulla base della previgente normativa».
Reversibilità della pensione indiretta di guerra
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Anche il vedovo ha diritto alla reversibilità  della pensione indiretta di guerra.La Corte costituzionale ha quindi accolto la questione sollevata dalla Corte dei conti della Liguria nella parte in cui la norma non prevede il vedovo quale soggetto di diritto alla pensione indiretta di guerra. La disposizione censurata contrasterebbe con l'articolo 3 della Costituzione poiché, secondo quanto previsto dalla sentenza costituzionale n. 9 del 1980 in relazione al diritto alla pensione di reversibilità  di guerra, «l'esclusione del vedovo dal diritto a pensione indiretta di guerra non è in alcun modo giustificata dalla condizione di soggetto maschio, diversa rispetto alla simmetrica condizione della vedova del militare o del civile, titolare del diritto a pensione a norma dell'articolo 55 della legge 648/50». Tali rilievi sono stati pienamente accolti dalla Corte, la quale ha chiarito che, alla luce della sentenza 9/1980, «non si giustifica il deteriore trattamento riservato al vedovo dalla disposizione denunciata in base alla sola diversità  di sesso, posto che la pensione indiretta di guerra ' rispetto a quella di reversibilità , che si acquisisce a titolo derivativo ' è diritto che, al pari della pensione diretta (della quale condivide la natura risarcitoria), spetta a titolo originario, in base al vincolo familiare».
Il demansionamento del lavoratore attuato da un’azienda è lecito se extrema ratio per evitare un licenziamento
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