6 / 2008
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Descrizione
Incostituzionalità della cosiddetta "forma onerosa di spoils system" La Cassazione elimina ogni equivoco sul contenuto della comunicazione dei criteri di scelta e sulla tutela dei singoli lavoratori nella gestione della Cigs Le Sezioni Unite e la risarcibilità del danno non patrimoniale di rilevanza costituzionale
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Cessazione appalto per successione – Socio lavoratore – Licenziamento collettivo – Configurabile
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Mancata notifica nel termine di dieci giorni – Termini ordinatori e termini perentori – Conseguenze
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Mantenimento dei diritti dei lavoratori – Trasferimento di imprese
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Risarcimento del danno dovuto al lavoratore per illegittimità del termine apposto
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L. M., assunta a tempo determinato dalla Telecom Italia Spa, ha cessato di prestare servizio, per scadenza del termine, il 15 settembre 1995.Il 9 dicembre 1998,dopo aver chiesto al Tribunale di Roma la dichiarazione della nullità  del termine, ella ha invitato l'azienda a riammetterla in servizio, offrendo la sua prestazione lavorativa. La richiesta non è stata accolta. Il Tribunale di Roma, con sentenza del luglio 1999 ha dichiarato la nullità  del termine ed ha condannato l'azienda a riammettere la lavoratrice in servizio e a risarcirle il danno in misura pari alla retribuzione maturata con effetto dal 15 settembre 1995. In grado di appello, la Corte di Roma ha parzialmente riformato questa decisione, in quanto pur confermando la dichiarazione di nullità  del termine, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno affermando che, in base a valutazioni probabilistiche, tenuto conto dell'età  e delle mansioni della lavoratrice nonché della mancata prova del persistente dello stato di inoccupazione, doveva ritenersi che un triennio fosse un periodo ragionevole per poter reperire un'altra occasione di lavoro, «tenuto anche presente l'obbligo da parte debitrice di non aggravare l'entità  dei danni usando dell'ordinaria diligenza, come previsto dall'art. 1227 cod. civ.». In base a tale norma «il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza». Conseguentemente, la Corte ha stabilito che il danno da risarcire era rappresentato dall'equivalente delle retribuzioni perse dal lavoratore a decorrere dall'atto di messa in mora e fino al compimento del triennio dalla interruzione del rapporto per effetto della scadenza del termine; poiché L. M. aveva offerto la propria prestazione alla Telecom solo in data 9 dicembre 1998, successivamente alla scadenza del termine di tre anni dall'interruzione del rapporto, avvenuta il 15 settembre 1995, la domanda di risarcimento danni è stata respinta. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Secondo la costante giurisprudenza di legittimità , a partire da Cass. Ss. Uu. 8 ottobre 2002 n. 14381 ' ha ricordato la Corte ' in caso di trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di uno o più contratti a termine tra le stesse parti per effetto della nullità  del o dei termini, al dipendente che cessi l'esecuzione della prestazione lavorativa alla scadenza del termine pur illegittimamente previsto non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, cosà determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro; da tale data, il datore di lavoro che rifiuti la prestazione deve al lavoratore il risarcimento del danno, normalmente commisurato alle retribuzioni perdute da tale momento. Tale risarcimento ' ha affermato la Corte ' può essere limitato per effetto di fatti ritualmente acquisiti in giudizio per essere stati tempestivamente allegati e provati, che valgano a ridurre il risarcimento, come l'aliunde perceptum da parte del lavoratore nel periodo successivo alla messa in mora; il risarcimento può poi essere escluso quanto a quei danni che il lavoratore avrebbe potuto evitare, ai sensi dell'art. 1227, comma 2, cod. civ., usando l'ordinaria diligenza. La relativa deduzione è peraltro qualificabile in termini di eccezione in senso stretto e come tale va tempestivamente formulata e provata dalla parte che vi ha interesse. Infine ' ha osservato la Corte ' la liquidazione equitativa del danno è possibile, a norma dell'art. 432 cod. proc. civ., «quando sia certo il diritto, ma non sia possibile determinare la somma dovuta», senza che essa possa peraltro supplire a carenze di deduzione e prova il cui onere grava sulle parti. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte ' non ha fatto buon governo di tali principi, anticipando la valutazione del danno risarcibile ad una fase temporale antecedente al momento dell'offerta della prestazione da parte della lavoratrice e contenendo il danno da risarcire in limiti temporali determinati sulla base di valutazioni generiche, non sufficientemente radicate su elementi ritualmente acquisiti al giudizio e, con riguardo alla ritenuta imputabilità  del danno alla violazione da parte della lavoratrice dell'obbligo di ordinaria diligenza, su dati di fatto non specificati, eccepiti e provati dalla società , sulla quale incombeva il relativo onere. La Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata e ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'appello di Roma in diversa composizione.
Il lavoratore autonomo con incarico di durata determinata ha diritto di recedere dal contratto per giusta causa
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M. C. ha sottoscritto con la Spa C. Fintec nel giugno del 2000 un «contratto di prestazione d'opera intellettuale a termine»di durata quinquennale, con il quale gli è stato conferito l'incarico di coordinare ed organizzare l'intero complesso aziendale rispondendo al presidente del consiglio di amministrazione e all'amministratore delegato. Il contratto prevedeva inoltre un vincolo di non concorrenza, anche per il triennio successivo alla scadenza. M. C. ha svolto l'incarico con le modalità  previste dal contratto sino al maggio 2001, quando nell'organigramma aziendale sono stati inseriti alcuni dirigenti che lo hanno di fatto rimpiazzato. In seguito a ciò, essendo stato privato dei suoi compiti, egli, nell'agosto del 2001 ha comunicato all'azienda le dimissioni «per giusta causa» ed ha quindi chiesto al Tribunale di Mantova di accertare che il contratto d'opera si era risolto esclusivamente per colpa della società  e di condannare la medesima al pagamento dei compensi previsti per il quadriennio di residua durata convenuta del rapporto. L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, l'applicabilità  dell'art. 2237 cod. civ. secondo cui, in caso di recesso dal contratto per giusta causa il professionista ha diritto soltanto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l'opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente. Il Tribunale, con sentenza del febbraio 2004, ha accertato che il recesso era avvenuto per giusta causa ed ha condannato la società  a risarcire al ricorrente il danno subito, pari al compenso pattuito per la collaborazione fino alla scadenza del contratto (giugno 2005), detratto l'aliunde perceptum, da calcolarsi in separata sede e a pagargli il compenso pattuito per l'osservanza dell'obbligo di non con-correnza. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia, che, tra l'altro, ha escluso l'applicabilità  dell'art. 2237 cod. civ. in quanto le parti avevano convenuto una determinata durata del rapporto; nessuna norma, e nemmeno l'art. 2237 ' ha osservato la Corte ' impedisce alle parti di atteggiare la disciplina del loro rapporto prevedendo vincoli di carattere obbligatorio sui termini e modalità  del recesso, che assicurino, in un adeguato contemperamento, una tutela sia all'interesse del prestatore di opera intellettuale a non vedersi privare prima della scadenza della attività  di lavoro convenuta, sia all'interesse del committente ad assicurarsi quell'opera o quel collaboratore per un certo periodo; la pattuizione di un termine per il recesso non impedisce il recesso stesso, ma ha la finalità  di qualificarlo contrattualmente e precisamente di qualificarlo come inadempimento ai fini del risarcimento del danno, sempre che non sia a sua volta determinato da un inadempimento della controparte che renda impossibile proseguire nel contratto. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Brescia per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La regolamentazione legale del recesso dal contratto di opera ' ha affermato la Corte ' può essere volutamente derogata da una pattuizione di predeterminazione della durata, che risponde a interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 cod. civ. per entrambe le parti e comporta, di per sé, l'assoggettamento del rapporto alle regole del diritto comune proprio del recesso per giusta causa derivante da inadempimento, con la conseguenza della risarcibilità  integrale del danno di cui agli artt. 1223 e ss. cod. civ. L'apposizione di un termine ad un rapporto di collaborazione professionale continuativa ' ha osservato la Corte ' può essere sufficiente ad integrare la deroga pattizia alla facoltà  di recesso cosà come disciplinata dalla legge, non essendo a tal fine necessario un patto specifico ed espresso: pertanto, poiché in assenza di pattuizioni diverse o di giusta causa, l'apposizione di un termine finale determina in modo vincolante la durata del rapporto, nell'ipotesi di recesso unilaterale dal contratto da parte del committente il prestatore ha il diritto di conseguire il compenso contrattualmente previsto per l'intera durata del rapporto; lo stesso diritto spetta al prestatore d'opera in caso di suo recesso per giusta causa. Per quanto attiene alla nozione di «giusta causa», ha aggiunto la Corte, occorre riferirsi alla definizione datane da «antica» dottrina ' secondo cui «la giusta causa è quell'avvenimento esteriore che influendo sullo svolgimento del rapporto determina la prevalenza dell'interesse di una parte all'estinzione sull'interesse dell'altra alla conservazione del rapporto» ' per considerare la precisazione (sicuramente più tecnica) indicata dalla «recente » dottrina a mente dalla quale «la giusta causa consiste in una situazione sopravvenuta che attiene allo svolgimento del rapporto, impedendone la realizzazione della funzione economico-giuridica e, quindi, alla causa del negozio, fonte del rapporto, nel suo aspetto funzionale». L'implicazione tratta da tale definizione ' ha rilevato la Corte ' è che, concretando l'inadempimento una mancanza o un vizio funzionale della causa, il problema del coordinamento fra questa situazione e la «giusta causa», non è suscettibile di una soluzione unitaria, in quanto si deve fare capo per ogni singolo rapporto alla disciplina dettata della legge e alle sue esigenze peculiari, per vedere se le norme generali sulla risoluzione del contratto vadano pur sempre applicate ovvero lo strumento più rapido del recesso per giusta causa debba impiegarsi in talune ipotesi di deficienza funzionale della causa. Nel rapporto di lavoro ' ha affermato la Corte ' l'inadempimento deve essere ricompreso nella giusta causa poiché è proprio l'inadempimento e a far venire meno, prima di ogni altro fatto, il presupposto fiduciario del rapporto. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui l'istituto del recesso per giusta causa, disciplinato dall'art. 2119 cod. civ. è utilizzabile nell'ambito del rapporto di agenzia (sottotipo qualificato di prestazione d'opera) che ha pacificamente natura autonoma e non già  subordinata.
Licenziamento ritorsivo e abuso di ufficio
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La dott.ssa B. dirigente del Comune di C., con funzioni di vice segretario,nell'ottobre del 1999 è stata privata del suo incarico e destinata all'Ufficio Studi, istituito con decreto sindacale del successivo 3 novembre, rimasto poi assolutamente inoperativo, con conseguente totale demansionamento dell'interessata. Ne è seguito un processo penale a carico del sindaco e del segretario comunale del Comune, imputati del reato di abuso d'ufficio previsto dall'art. 323 c.p. per avere, con un provvedimento emesso in violazione delle norme di legge in materia di pubblico impiego, intenzionalmente recato alla dirigente un danno ingiusto. La dirigente si è costituita parte civile. Il Tribunale di Torino ha pronunciato la loro assoluzione «perché il fatto non costituisce reato». La Corte d'appello di Torino ha invece ritenuto che il reato sia stato commesso, ma lo ha dichiarato estinto per prescrizione. Nella motivazione della sentenza, la Corte torinese, in base alle risultanze degli atti amministrativi e alle deposizioni dei testi escussi ha affermato che «l'affrettata scelta di assegnare la dirigente all'ufficio studi non ancora costituito, quindi l'istituzione ex novo di detta struttura organizzativa in via d'urgenza, da parte del sindaco e poi da parte della giunta nascondeva di fatto la volontà  di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l'esatto contrario in termini di pubblica utilità ». Gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte torinese per avere ritenuto sussistente il reato di abuso d'ufficio. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte ' fa buon governo alla legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l'assegnazione della dott.ssa B. all'istituendo Ufficio Studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di C., una serie di violazioni di legge, con l'unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza politica, non era gradita all'organo esecutivo del Comune e al segretario generale che affiancava ed ispirava l'azione del primo.
Il clamore causato dal rinvio a giudizio di un dirigente non è sufficiente a giustificarne il licenziamento
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I. S., dirigente medico della Ausl n. 4 di Prato, nel febbraio 2001 è stato sottoposto dall'Autorità  giudiziaria alla misura cautelare degli arresti domiciliarinell'ambito di un'indagine per corruzione continuata riferita all'ipotesi di percezione di denaro, alcuni anni prima (quando egli lavorava presso altra azienda) da parte di un fornitore di presidi medico-chirurgici. La notizia è stata pubblicata dai giornali. L'azienda, dopo aver sospeso il dipendente dal servizio, nel marzo 2001 lo ha licenziato con motivazione riferita all'indagine penale in corso e al rilievo anche nazionale della vicenda. Il dirigente è stato rinviato a giudizio, con l'imputazione di corruzione, nel giugno del 2001. Egli ha chiesto al Tribunale di Prato l'annullamento del licenziamento. L'azienda si è difesa sostenendo che l'avvio del provvedimento penale a carico del dirigente ed il clamore derivatone avevano fatto venir meno la base fiduciaria del rapporto. Il Tribunale ha rigettato il ricorso del dirigente. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento ed ha condannato l'azienda al pagamento dell'indennità  di preavviso e dell'indennità  supplementare prevista dal contratto collettivo di categoria per il licenziamento ingiustificato. Il dirigente ' ha osservato la Corte d'appello ' può essere licenziato per fatti che costituiscono reato anche prima che la sua colpevolezza sia accertata in sede penale; tuttavia la sola circostanza che egli sia indagato per un grave reato e l'indagine abbia suscitato clamore non può integrare giusta causa di licenziamento, in applicazione dei principi di garanzia derivanti dagli artt. 24 (diritto di difesa) e 27 (presunzione di non colpevolezza) Cost., i quali assumono ancora maggior rilievo quando si tratti di reati commessi al di fuori del rapporto di lavoro e addirittura prima della sua costituzione, essendo molto difficile che, in tali casi, il datore di lavoro abbia elementi per valutare la fondatezza delle accuse. Nel caso di specie ' ha affermato la Corte di Firenze ' alla data del licenziamento la Ausl disponeva di scarni elementi di informazione e non poteva d'altra parte fondare il recesso su indiscrezioni o illazioni giornalistiche, né, del resto, essa aveva mai sostenuto di aver acquisito autonomamente elementi di colpevolezza del sanitario; inoltre, tenendo conto delle clausole collettive circa la sospensione dal servizio, l'azienda non aveva fornito alcuna dimostrazione dell'impossibilità  di tollerare una sospensione del sanitario protratta quantomeno per taluni mesi. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, pur ricordando la sua giurisprudenza secondo cui il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall'art. 27, comma 2, Cost. concerne le garanzie relative all'attuazione della pretesa punitiva dello Stato; essa non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà  di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresà integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità  da determinare una situazione di improseguibilità , anche provvisoria, del rapporto, senza necessità  di attendere la sentenza definitiva di condanna. Ma deve anche ricordarsi ' ha affermato la Corte ' che, per costante giurisprudenza, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del rinvio a giudizio del lavoratore con l'imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario ' ancorché non commessi nello svolgimento del rapporto ' deve accertare l'effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l'adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva, mentre non può ritenere integrata la giusta causa di licenziamento sulla base del solo fatto oggettivo del rinvio a giudizio del lavoratore e di una ritenuta incidenza di quest'ultimo sul rapporto fiduciario e sull'immagine dell'azienda. La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte ' si è sostanzialmente conformata a questi principi, avendo messo in evidenza che al momento dell'intimazione del recesso, avvenuta peraltro quando I. S. non era ancora stato rinviato a giudizio, l'azienda, che oltretutto non aveva mai sostenuto di aver autonomamente acquisito elementi a carico del dipendente, non disponeva, né avrebbe potuto disporre ' trattandosi di fatti commessi nell'ambito di un precedente rapporto di lavoro ' di alcun dato per vagliare la fondatezza delle accuse, sicché in sostanza aveva licenziato il sanitario in forza della sola circostanza che questi era stato sottoposto ad indagine penale e che la vicenda aveva suscitato clamore.
La trasferta si distingue dal trasferimento per la breve durata
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V. S., dipendente della società  Veliapol, istituto di vigilanza, nel maggio del 1997 è stato trasferito da Lecce a Gallipoli.Un anno dopo, nel giugno del 1998, egli è stato nuovamente trasferito, da Gallipoli a Lecce. Egli ha chiesto al giudice del Lavoro di Lecce di dichiarare illegittimo questo secondo provvedimento, sostenendo che esso non era giustificato da ragioni organizzative, essendo stato in realtà  disposto per motivo di ritorsione a seguito del suo rifiuto di dissociarsi dal sindacato di appartenenza. L'azienda si è difesa sostenendo che il lavoratore era stato inviato a Gallipoli in trasferta, ragion per cui il suo rientro a Lecce non poteva essere ritenuto un trasferimento e che comunque il provvedimento impugnato era stato determinato da ragioni organizzative. Il giudice, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha dichiarato illegittimo il trasferimento da Gallipoli a Lecce. Questa decisione è stata confermata in grado di appello, dalla Corte di Lecce, in base alle risultanze istruttorie. Le affermazioni testimoniali ' ha osservato la Corte ' sono chiare, univoche e pesanti nel denunciare il comportamento della direzione aziendale della Veliapol; per cui ogni altra considerazione risulta priva di particolare significato, tanto più che trattasi di testimonianze rese da soggetti con lunga esperienza di lavoro alle dipendenze della Veliapol o con incarichi di rappresentanza sindacale aziendale o di responsabilità  sindacale a livello provinciale, per cui non si può dubitare della loro ampia conoscenza dei fatti occorsi in azienda. La Corte ha anche escluso che il lavoratore fosse stato inviato a Gallipoli in trasferta, osservando che l'assegnazione di V. S. alla sede di Gallipoli in data 1 maggio 1997 era da intendersi come trasferimento in ragione della sua durata (oltre un anno) e delle esigenze non transitorie presso il distaccamento di Gallipoli, per cui la destinazione di V. S. non poteva avere nella prospettiva aziendale carattere di provvisorietà . L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Lecce per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. In linea generale ' ha affermato la Corte ' l'art. 2103 cod. civ. limita il potere datoriale di trasferimento all'ipotesi del passaggio da una unità  produttiva ad un'altra, prescrivendo la sussistenza di «comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive», come presupposto (di legittimità ) dell'atto di trasferimento individuale, presupposto che non è necessario che sussista nel caso di trasferimento nell'ambito della stessa unità  produttiva. Un primo snodo è, quindi, rappresentato dalla identificazione della fattispecie regolamentata, cioè che vi siano: a) il mutamento del luogo di lavoro («trasferimento»); b) due unità  produttive (quelle di provenienza e quella di destinazione). Quanto al primo presupposto può dirsi che il trasferimento consiste in un mutamento (tendenzialmente) definitivo e non già  temporaneo, come nel caso della trasferta; questa si distingue dal trasferimento perché è indefettibilmente caratterizzata dalla temporaneità  dell'assegnazione del lavoratore ad una sede diversa da quella abituale. Nella specie ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di appello di Lecce ha ritenuto che «l'assegnazione di V. S. alla sede di Gallipoli in data 1° maggio 1997, era da intendersi come trasferimento in ragione della sua durata (oltre un anno) e delle esigenze non transitorie presso il distaccamento di Gallipoli per cui la destinazione di Vincenzo S. non poteva avere nella prospettiva aziendale carattere di provvisorietà »; la Corte territoriale ha, quindi, esattamente interpretato ed applicato le norme dell'art. 2103 cod. civ. in base alla situazione di fatto cosà come accertata con riferimento alle risultanze processuali.
Il danno da dequalificazione può essere accertato in via presuntiva
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A. S. dipendente del Banco di Sicilia con qualifica di funzionario ha svolto per alcuni anni,sino al 1978, le mansioni di ricerca operativa per la soluzione di problemi relativi alla gestione del credito con l'applicazione di metodologie econometriche. Dopo essere stato colpito da una grave malattia, egli è stato in un primo tempo destinato ad attività  di studio e successivamente privato di ogni incarico. Dopo un periodo quadriennale di totale emarginazione dall'attività  lavorativa, egli ha chiesto, nel maggio 1996, al giudice del lavoro di condannare il Banco di Sicilia ad attribuirgli mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte e a risarcirgli i danni causati alla sua professionalità  ed alla sua personalità  morale. Il giudice, con sentenza del novembre 1998, ha accolto parzialmente le domande, condannando la banca a reintegrare il lavoratore alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza. In grado di appello il Tribunale di Roma, con sentenza del marzo 2004, ha ritenuto che, durante il giudizio, la Banca avesse assegnato al lavoratore un incarico adeguato; conseguentemente ha dichiarato la cessazione della materia del contendere in materia di assegnazione di mansioni. Il Tribunale ha peraltro accolto la domanda di risarcimento del danno professionale, determinando il relativo importo in misura pari al 40% della retribuzione relativa al periodo del demansionamento; ha invece rigettato la domanda di risarcimento del danno di immagine. In proposito il Tribunale ha cosà motivato la sua decisione: «Nella fattispecie, non sembra possa negarsi che una lesione alla personalità  morale ed al bagaglio di capacità  professionali si sia verificata sia in considerazione del notevolmente lungo tempo in cui il demansionamento si è protratto (1992 ' 1997), sia per l'elevata qualificazione raggiunta dal lavoratore, sia per la considerevole anzianità  di servizio, con presumibile raggiungimento di un alto livello di esperienza specifica, sia per il fatto che non sono state semplicemente attribuite mansioni inferiori, ma il lavoratore è stato lasciato quasi in totale inerzia, salvo lo svolgimento di compiti di scarso impegno qualitativo e quantitativo. A diverse conclusioni, invece, può giungersi quanto al più specifico danno all'immagine professionale poiché A. S. non ha dedotto specifici elementi di fatto da cui possa desumersi che l'immagine professionale e cioè la stima e la considerazione di cui il lavoratore godeva innanzi tutto nel suo ambiente di lavoro, potesse essere diminuita per effetto del demansionamento, non essendo a ciò sufficiente il fatto in sé della dequalificazione ». Entrambe le parti hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisone del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui il danno da dequalificazione può essere accertato in via presuntiva. Nella specie, come si evince chiaramente dal testo della motivazione ' ha osservato la Cassazione ' la Corte di merito ha, nell'ambito dell'apprezzamento di fatto di sua competenza, desunto correttamente la sussistenza di un danno (di natura professionale) da demansionamento dall'osservazione che la sostanziale ed assoluta diversità  delle mansioni assegnate rispetto a quelle in precedenza svolte determina un grave nocumento all'esperienza, alla professionalità  ed alle attitudini del lavoratore, in relazione soprattutto alla «quasi totale inerzia» provocata illegittimamente ad A. S. dalla Banca datrice di lavoro. A tale riguardo ' ha ricordato la Cassazione ' «questa Corte ha di recente statuito che in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno determinandone anche l'entità  in via equitativa con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova anche presuntiva in base agli elementi di fatto relativi alla qualità  e quantità  della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità  colpita alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto» (Cass. n. 14729/2006 e n. 14302/2006). Giurisprudenza questa che si è sviluppata con riferimento al principio affermato dalle Sezioni Unite secondo cui «il danno esistenziale (provocato da demansionamento) ' da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità  nel mondo esterno ' va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità , conoscibilità  all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) ' il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico ' si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove» (Cass. Sez. Unite n. 6572/2006).
Il principio di solidarietà giustifica la retroattività di una norma di legge interpretativa in materia previdenziale
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La Spa Azienda servizi municipalizzati di Brescia ha corrisposto, in base al contratto collettivo, ai suoi dipendenti l'intera retribuzionerelativa a periodi di assenza per malattia, con conseguente esonero per l'Inps dall'erogazione dell'indennità  di malattia. Per tali periodi l'azienda non ha versato i contributi previdenziali all'Inps. L'Istituto ha ottenuto dal Tribunale di Brescia un decreto ingiuntivo per il pagamento dei contributi non versati e delle relative sanzioni. L'Azienda ha proposto opposizione invocando l'art. 6 della legge 11 gennaio 1943 n. 138 (costituzione dell'Ente mutualità  fascista) secondo cui «l'indennità  non è dovuta quando il trattamento economico di malattia è corrisposto per legge o per contratto collettivo dal datore di lavoro e da altri enti in misura pari o superiore a quella fissata dai contratti collettivi ai sensi del presente articolo». L'Azienda ha sostenuto che questa norma debba essere interpretata nel senso che, a fronte dell'esonero dell'Istituto del pagamento dell'indennità  di malattia debba esservi un esonero del datore di lavoro dal pagamento dei contributi. Il Tribunale non ha accolto l'opposizione ed ha condannato l'azienda al pagamento dei contributi, in quanto ha ritenuto che la legge n. 138/43 non preveda alcun esonero per i datori di lavoro. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Brescia con sentenza dell'aprile 2004. Nel maggio del 2005 l'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Brescia per violazione di legge. Per la discussione del ricorso è stata fissata l'udienza del 25 settembre 2008. Prima della discussione è entrata in vigore la legge 6 agosto 2008 n. 133 che ha convertito il decreto legge 25 giugno 2008 n. 112 «disposizioni vigenti per lo sviluppo economico». L'art. 20, comma 1, di questa legge dispone testualmente: «Il secondo comma, dell'articolo 6, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, si interpreta nel senso che i datori di lavoro che hanno corrisposto per legge o per contratto collettivo, anche di diritto comune, il trattamento economico di malattia, con conseguente esonero dell'Istituto nazionale della previdenza sociale dall'erogazione della predetta indennità , non sono tenuti al versamento della relativa contribuzione all'Istituto medesimo. Restano acquisite alla gestione e conservano la loro efficacia le contribuzioni comunque versate per i periodi anteriori alla data del 1° gennaio 2009». Per effetto dell'entrata in vigore di questa norma interpretativa, la Suprema Corte, ha accolto il ricorso dell'azienda. L'art. 20 della legge n. 138/2008 ' ha affermato la Corte ' è una norma di interpretazione autentica, come tale retroattiva, che deve trovare pertanto applicazione nel caso in esame. La Suprema Corte ha escluso che la nuova norma, in quanto retroattiva, possa essere ritenuta incostituzionale, affermando che essa trova giustificazione adeguata sul piano della ragionevolezza, essendo ispirata al principio della solidarietà  che è fondamento della previdenza sociale. In proposito, nella motivazione della sentenza, si legge: «La retroattività  trova, nella specie, giustificazione adeguata sul piano della ragionevolezza ' in quanto la norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 cit.) 'consegue all'affermazione di un principio solidaristico da parte delle sezioni unite della Corte di cassazione (cosà, testualmente, la relazione al disegno di legge di conversione) ' né pare, comunque, in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti. A tale proposito, infatti, le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 10232 del 2003) ' sia pure a sostegno di conclusione affatto diversa rispetto al quella (ora) proposta dalla norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133 cit.) ' condividono la 'opinione comunemente ricevuta che il fondamento della previdenza sociale stia nel principio di solidarietà , onde il concetto di sinallagma, ossia di equilibrio di obbligazioni corrispettive, risulta insufficiente alla rappresentazione del sistema. E la Corte Costituzionale (sentenza n. 47 del 2008) ' parimenti a sostegno della medesima conclusione, in funzione, peraltro, dello scrutinio di costituzionalità  ' ritiene, a sua volta, che 'l'ampia discrezionalità  della quale gode il legislatore nel conformare, anche in attuazione del principio di solidarietà , gli oneri della contribuzione previdenziale, nel caso in esame è stata dunque esercitata in modo non irragionevole. Coerentemente, la norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, cit.) intende esercitare la stessa discrezionalità  del legislatore ' 'nel conformare, anche in attuazione del principio di solidarietà , gli oneri della contribuzione previdenziale ' in modo diverso ma, parimenti, 'non irragionevole. È lo stesso principio di solidarietà  ' che risulta perseguito, per quanto si è detto, dalla norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, cit.) ' ad escluderne, manifestamente, la illegittimità  ' anche ' in riferimento ad altro parametro costituzionale (articolo 117, comma 1, Cost. in relazione all'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo: sul punto, vedi, per tutte, Cass. n. 677 del 2008 ed, in senso contrario nelle conclusioni, ordinanza n. 22260 del 2008, alle quali si rinvia, anche per il riferimento di precedenti giurisprudenziali ulteriori). È ben vero, infatti, che i principi della certezza del diritto, della parità  delle parti ed, in genere, dell'equo processo (di cui all'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo) si oppongono alla 'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, mediante l'emanazione di leggi retroattive in materia civile che influiscano sui processi pendenti ' secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ' ma sono fatte salve, tuttavia, sia l'ipotesi della sussistenza di motivi imperiosi di interesse generale ' quale ratio della norma retroattiva ' sia l'ipotesi della ingerenza della norma medesima su processi pendenti, che non siano stati instaurati contro lo Stato, ma contro soggetti diversi, o che, comunque, non ne impongano l'esito, in senso favorevole allo Stato medesimo. Ora il principio di solidarietà  ' perseguito dalla norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, cit.) ' costituisce, indubbiamente, uno di quei motivi imperiosi di interesse generale, che giustificano, per quanto si è detto, la retroattività  della norma medesima. Parimenti a sostegno della legittimità  costituzionale (in riferimento all'articolo 117, primo comma, della costituzione) della norma di interpretazione autentica in esame (di cui all'articolo 20, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, cit.) concorre, tuttavia, la ingerenza della stessa norma su processi pendenti, come nella specie, contro soggetti diversi dallo Stato ' quale, appunto, l'Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) ' e, comunque, l'imposizione ' che ne risulta ' dell'esito dei processi medesimi, in senso favorevole alla controparte privata».
La scorrettezza del comportamento aziendale può costituire giusta causa di dimissioni in base all’art. 2119 cod. civ.
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Il ritardo nella ripresa del servizio, dopo la sentenza dichiarativa della nullità del termine può essere giustificato
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A. S. assunta dalla Spa Poste italiane con contratto a tempo determinatoha ottenuto dal Tribunale di Milano la dichiarazione della illegittimità  del termine e del suo diritto ad essere riammessa in servizio. La sentenza del Tribunale è stata pronunciata il 12 giugno 2002. L'azienda, con lettera del 2 luglio 2002, ha invitato la lavoratrice a riprendere servizio l'11 luglio 2001. Nel giorno stabilito dall'azienda la lavoratrice si è presentata in ufficio accompagnata dal suo rappresentante sindacale ed ha proposto di riprendere servizio il 23 luglio, in quanto essendo stata nel frattempo assunta con altra azienda, avesse la necessità  di dare alla medesima il preavviso di recesso. La richiesta di dilazione è stata respinta dalla Spa Poste italiane che ha licenziato la lavoratrice con motivazione riferita al suo rifiuto di riprendere servizio. A. S. ha chiesto al Tribunale di annullare il licenziamento, sostenendo che il ritardo nel riprendere servizio doveva ritenersi ragionevolmente giustificato. L'azienda si è difesa sostenendo che il comportamento tenuto dalla lavoratrice rientrava nella fattispecie del «ritardo arbitrario» per la quale il contratto collettivo prevedeva il licenziamento. Il Tribunale ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Milano, che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione della lavoratrice e condannando l'azienda al risarcimento del danno. In proposito, la Corte territoriale ha ritenuto non ingiustificata la mancata prestazione della lavoratrice nel periodo dall'11 al 22 luglio 2001, in considerazione del fatto che ella aveva giustificato la propria richiesta di dilazione nella ripresa del servizio con la necessità  di «dare il preavviso da altro rapporto di lavoro che aveva intrapreso in attesa dell'esito della lite precedente» e ritenendo non pretestuosa siffatta giustificazione. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte ' ha correttamente accertato la circostanza, non contestata dall'azienda, della avvenuta presentazione di A. S. in ufficio l'11 luglio 2001 e della sua proposta di riprendere servizio il 23 luglio 2001 per potere rispettare impegni precedentemente assunti; conseguentemente ha affermato, con giudizio di merito non censurabile in Cassazione in quanto applica standards valutativi attinti in maniera non illogica a nozioni di comune esperienza, che la giustificazione addotta dalla lavoratrice non poteva ritenersi pretestuosa e pertanto non poteva rientrare nella fattispecie di ritardo arbitrario per la quale il contratto collettivo prevedeva il licenziamento. Quello che la Corte territoriale ha pertanto voluto esprimere ' ha osservato la Cassazione ' è il giudizio che i fatti sono tali da far ritenere che la sanzione irrogata del licenziamento sia del tutto sproporzionata rispetto ad un comportamento giustificato in maniera non pretestuosa e comunque non eccessivamente lesivo, in via di principio, della correttezza del rapporto di lavoro al quale la società  aveva corrisposto con una completa chiusura, invece di analizzare in concreto le ragioni della controparte, rapportandole alle proprie esigenze, alla ricerca di una soluzione equilibrata quanto alla individuazione della data di ripresa possibilmente concordata del rapporto.
L'incompletezza delle informazioni aziendali comporta l'illegittimità del ricorso alla cassa integrazione
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All'inizio del 1993 la Spa Ilva ha avviato una procedura per la collocazione di personale in cassa integrazione,con riferimento all'art. 1 della legge n. 223 del 1991. Nel marzo del 1993 l'azienda ha firmato con le rappresentanze sindacali un verbale di accordo nel quale le parti si sono date reciprocamente atto «di avere espletato le procedure e le consultazioni previste dalle vigenti disposizioni di legge e di contratto». È seguito il collocamento in Cigs di vari lavoratori. V. G., uno dei cassintegrati, ha chiesto al giudice del lavoro di Taranto di dichiarare l'illegittimità  e l'inefficacia del procedimento adottato nei suoi confronti per inosservanza degli obblighi di informazione preventiva previsti dalla legge e la condanna dell'azienda a corrispondergli le differenze fra la retribuzione spettantegli e quanto percepito per trattamento di Cigs. L'azienda si è difesa sostenendo che la correttezza della procedura risultava dal verbale di accordo sottoscritto con le organizzazioni sindacali. Il Tribunale ha rigettato le domande. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Lecce, che ha disapplicato il provvedimento di collocamento in Cigs, accogliendo le domande proposte dal lavoratore, in quanto ha ritenuto che l'azienda non abbia rispettato gli obblighi di informazione e consultazione previsti dall'art. 1 della legge n. 223 del 1991. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Lecce per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha sostenuto, in particolare, che la sentenza impugnata non aveva tenuto nel debito conto l'accordo sottoscritto con le rappresentanze sindacali il 12 marzo 1993. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui, ai fini della legittimità  della sospensione della retribuzione per i lavoratori collocati in cassa integrazione guadagni straordinari, l'azienda è tenuta a comunicare l'individuazione dei lavoratori da sospendere e i motivi per i quali non vengono adottati i meccanismi di rotazione; e che la sussistenza di vizi procedimentali e la conseguente inefficacia dei provvedimenti aziendali può essere fatta valere giudizialmente dai lavoratori, in quanto la regolamentazione della materia è finalizzata alla tutela, oltre che degli interessi pubblici e collettivi, soprattutto di quelli dei singoli lavoratori. In applicazione di tale principio ' ha affermato la Corte ' non merita alcuna critica la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto l'illegittimità  delle messa in cassa integrazione osservando ' con una motivazione congrua e del tutto corretta sul piano logico-giuridico e pertanto non suscettibile di alcuna censura in sede di legittimità  ' che nel caso di specie la mancata prova dell'effettuazione della comunicazione ex art. 1 della legge n. 223 del 1991 incideva sulla validità  del provvedimento di messa in cassa integrazione; ed invero, non assumeva alcun rilievo, per andare in contrario avviso, il verbale dell'accordo sindacale atteso che lo stesso ' risultando generico il richiamo a precedenti consultazioni per non essere stato precisato in modo chiaro il tempo di effettuazione delle stesse ' non conteneva alcun elemento dal quale si potesse desumere l'adempimento da parte della datrice di lavoro del prescritto onere informativo non soltanto con riguardo alle ragioni della crisi ma anzitutto ai criteri di scelta e di rotazione dei lavoratori.
L'erronea identificazione dei lavoratori interessati da una riduzione di personale produce l’inefficacia dei licenziamenti
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Controllo dei conducenti nel settore dei trasporti su strada
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Il decreto, in attuazione della direttiva 2006/22/Ce, disciplina i controlli sui conducenti,le imprese e i veicoli di tutte le categorie di trasporto che rientrano nel campo di applicazione dei regolamenti n. 3820/85/Cee e n. 3821/85/Cee. I controlli, sia su strada che nei locali delle imprese, di tutte le categorie di trasporto su strada dovranno essere effettuati, ogni anno, almeno sul 2 per cento dei giorni di lavoro effettivo dei conducenti. La percentuale sarà  portata al 3 per cento, dopo il 1° gennaio 2010. Il ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali comunica all'Ufficio di coordinamento, entro il mese di gennaio di ogni anno, i dati relativi al numero complessivo dei giorni di lavoro che ciascun conducente deve effettuare nel periodo di riferimento. (Gazzetta Ufficiale n. 218 del 17 settembre 2008 ' suppl. ordinario n. 175)
Misure anticrisi e «bonus straordinario»
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Il decreto contiene «misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresae per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale». Per l'anno solare 2009 sono prorogate, per il settore privato, le misure sperimentali riguardanti l'incremento della produttività  del lavoro, previste dall'articolo 2, comma 1, lettera c), del d.l. 27 maggio 2008, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 126. «Tali misure trovano applicazione, entro il limite di importo complessivo di 6.000 euro lordi». La detassazione comporta l'assoggettamento all'aliquota del 10% e riguarda i lavoratori che nell'anno 2008 hanno ottenuto un reddito da lavoro dipendente non superiore a 35.000 euro lordi. Se il sostituto d'imposta non è lo stesso tenuto ad applicare la detassazione, è lo stesso lavoratore beneficiario che attesta per iscritto l'importo dei redditi da lavoro conseguiti nel 2008. L'art. 17 introduce incentivi per il rientro dei ricercatori scientifici residenti all'estero: i redditi da lavoro dipendente od autonomo dei docenti o ricercatori che abbiano svolto attività  di ricerca o di docenza all'estero per almeno due anni continuativi e che, a partire dal 29 novembre 2008 e per i 5 anni successivi, tornino a svolgere la loro attività  in Italia, sono imponibili soltanto per il 10% ai fini dell'Irpef e non concorrono ai fini dell'Irap. Lo sgravio è per il periodo d'imposta in cui il ricercatore diviene fiscalmente residente in Italia e nei due periodi di imposta successivi sempre che la propria residenza rimanga in Italia. L'art. 19 potenzia ed estende gli strumenti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro o di disoccupazione: a) indennità  di disoccupazione ordinaria non agricola con requisiti normali per i lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali e che siano in possesso dei requisiti, subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno al venti per cento a carico degli Enti bilaterali previsti dalla contrattazione collettiva, ivi compresi quelli ex art. 12 del d.lgs. n. 276/2003. La durata massima è di 90 giornate di indennità  nell'anno solare. La norma non trova applicazione nei confronti dei lavoratori di aziende destinatarie di Cig, nei contratti a tempo indeterminato con sospensioni programmate e nei contratti a tempo parziale di tipo verticale. L'indennità  di disoccupazione non spetta nel caso in cui la perdita e la sospensione dello stato di disoccupazione trovino una propria disciplina nella normativa in materia di incontro tra domanda ed offerta di lavoro; b) indennità  ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti ex art. 7, comma 3, della legge n. 160/1988 in favore dei dipendenti da imprese artigiane o da agenzie di somministrazione in missione presso imprese del settore artigiano sospesi per crisi aziendali o occupazionali subordinatamente ad un intervento integrativo pari ad almeno il venti per cento da parte degli Enti bilaterali sopra indicati. La durata massima è di 90 giorni. La norma non trova applicazione nei confronti dei lavoratori di aziende destinatarie di Cig, nei contratti a tempo indeterminato con sospensioni programmate e nei contratti a tempo parziale di tipo verticale. L'indennità  di disoccupazione non spetta nel caso in cui la perdita e la sospensione dello stato di disoccupazione trovino una propria disciplina nella normativa in materia di incontro tra domanda ed offerta di lavoro; c) in via sperimentale per il periodo 2009-2011, e subordinatamente ad un intervento integrativo da parte degli Enti bilaterali pari ad almeno il venti per cento, un trattamento, in caso di sospensione per crisi aziendali od occupazionali o in caso di licenziamento, pari a quella ordinaria di disoccupazione con requisiti normali, in favore degli apprendisti assunti alla data del 29 novembre 2008 e con almeno 3 mesi di servizio presso l'azienda interessata dal trattamento, per la durata massima di 90 giorni nell'intero periodo di vigenza del contratto. Il datore di lavoro è tenuto a comunicare sia a servizi per l'impiego che all'Inps, competente per territorio, sia la sospensione dell'attività  lavorativa che i nominativi dei soggetti interessati: questi ultimi debbono immediatamente rendersi disponibili ad una nuova attività  attraverso una dichiarazione al competente centro per l'impiego. Quest'ultimo immediatamente o, comunque, nei 5 giorni successivi, deve comunicare i nominativi a tutte le agenzie di lavoro e gli altri soggetti accreditati ex artt. 4, 5, 6 e 7 del d.lgs. n. 276/2003 dei lavoratori che devono essere disponibili sia ad una ricollocazione che ad un percorso formativo finalizzato all'occupazione; d) per il triennio 2009-2011 è riconosciuta ai collaboratori coordinati e continuativi una somma liquidata in un'unica soluzione pari al 10% del reddito percepito nell'anno precedente, qualora siano iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell'Inps, che operino in regime di monocommittenza, che abbiano conseguito nell'anno precedente un reddito superiore a 5.000 euro o inferiore a 13.800 euro, con un numero di mensilità  accreditate alle gestione separata non inferiore a tre, che svolgano nell'anno di riferimento l'attività  in zone dichiarate in stato di crisi ovvero in settori dichiarati in crisi e che non risultino accreditati nell'anno di riferimento almeno due mesi presso la gestione separata. Il sistema degli enti bilaterali eroga la quota integrativa di cui alle precedenti lettere a), b) e c), fino a concorrenza delle risorse disponibili. «I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono le risorse minime a valere sul territorio nazionale. I fondi interprofessionali per la formazione continua di cui all'articolo 118 della legge n. 388/2000 possono destinare interventi, anche in deroga alle disposizioni vigenti, per misure temporanee ed eccezionali volte alla tutela dei lavoratori, anche con contratti di apprendistato o a progetto, a rischio di perdita del posto di lavoro ai sensi del Regolamento Ce 2204/2002». Viene prorogata, limite di 45 milioni di euro per il 2009 a carico del Fondo per l'occupazione, fino al 31 dicembre 2009 la normativa sui trattamenti integrativi e sulla mobilità  per i dipendenti da imprese commerciali con più di 50 dipendenti, da agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con un organico superiore alle 50 unità , da imprese di vigilanza privata con più di 15 dipendenti. Anche ai lavoratori portuali che prestano lavoro temporaneo ex lege n. 84/1994 è riconosciuto il trattamento di Cigs. L'iscrizione nelle liste di mobilità  per i lavoratori licenziati per giustificato motivo oggettivo da imprese sotto dimensionate alle 16 unità , è prorogata al 31 dicembre 2009. Le modalità  di applicazione delle prestazioni di cui all'articolo 19 saranno definite da apposito decreto del ministro del Lavoro di concerto con il ministro dell'Economia, nel limite delle somme di 289 milioni di euro per l'anno 2009, di 304 milioni di euro per ciascuno degli anni 2010 e 2011 e di 54 milioni di euro a decorrere dall'anno 2012. L'articolo 1 del decreto introduce, per il solo anno 2009, un «bonus straordinario per famiglie, lavoratori pensionati e non autosufficienza». (Gazzetta Ufficiale n. 280 del 29 novembre 2008 ' supplemento ordinario n. 263)
Riforma della regolamentazione del settore della vigilanza privata e garanzia di trattamenti retributivi minimi
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L'Autorità  Garante ha espresso alcune osservazioni in merito allo schema di regolamentorecante «Modificazioni al regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza in materia di guardie particolari, istituti di vigilanza e investigazione privata». L'Autorità  aveva già  avuto modo di esaminare gli elementi di criticità  della regolamentazione dei servizi di vigilanza privata in precedenti segnalazioni e pareri, da ultimo con la segnalazione del 24 maggio 2007, nei quali ha rilevato che la vigente regolamentazione delle attività  di vigilanza risulta sotto diversi aspetti ingiustificatamente limitativa, anche alla luce delle importanti evoluzioni che si registrano in questo settore, quali ad esempio l'innovazione tecnologica e la creazione di imprese attive a livello nazionale e con reti di vendita sovra-provinciali. Proprio su tali aspetti si è recentemente pronunciata la Corte di giustizia delle Comunità  europee con la sentenza del 13 dicembre 2007 nella quale ha ritenuto che lo Stato italiano ha violato gli articoli 43 e 49 del Trattato Ce. Ad avviso dell'Autorità  nel nuovo schema di regolamento l'aspetto che desta le maggiori perplessità  sotto il profilo concorrenziale è quello della fissazione delle tariffe. Secondo l'Autorità  gli spazi di discrezionalità  affidati all'amministrazione prefettizia non ricomprendono anche la potestà  di fissare tariffe minime. Al riguardo, si rileva che l'art. 135 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (di seguito Tulps) fa riferimento esclusivamente all'esposizione negli uffici di ciascun istituto di una tabella indicante il livello massimo deiprezzi autonomamente determinati dall'istituto stesso. L'Autorità  ha già  più volte indicato che non sussistono giustificazioni economiche per la fissazione di tariffe minime e massime e che, viceversa, l'esigenza di assicurare altre finalità  di carattere pubblicistico quali l'addestramento del personale, il pagamento dei contributi assicurativi e previdenziali, l'osservanza degli obblighi contrattuali e delle leggi sul lavoro può essere perseguita con altri strumenti già  a disposizione dell'amministrazione o con altri nuovi strumenti previsti nello stesso schema di regolamento. Nello schema di regolamento viene mantenuto, tuttavia, un meccanismo di controllo preventivo e successivo da parte del prefetto sulla congruità  delle tariffe applicate dagli istituti. In tal senso si è espresso anche il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4816 del 20 settembre 2005. Tale sentenza conferma quanto già  rilevava una consolidata giurisprudenza secondo la quale non è dato ravvisare alcuna disposizione normativa, di rango primario o secondario, che autorizzi i prefetti a fissare, in via preventiva e con caratteri di generalità , tariffe minime ed inderogabili per i servizi di vigilanza. In particolare, l'Autorità  ha rilevato che non appare giustificato il collegamento che si intende effettuare fra la congruità  della tariffa e il rispetto di una pluralità  di oneri e costi, con particolare riferimento a quelli relativi al personale. Infatti, tali interventi sulle tariffe attengono ad elementi che non sono a conoscenza del prefetto o di una commissione ministeriale, mentre come noto non assicurano in alcun modo né la qualità  del servizio né il rispetto degli stessi oneri e obblighi, per i quali invece risultano più efficaci altri e diversi strumenti già  previsti e nella disponibilità  dell'amministrazione. Tali interventi invece determinano notevoli effetti distorsivi in quanto riducono sensibilmente il confronto fra imprese concorrenti e disincentivano un'adeguata ricerca dell'efficienza del singolo operatore attraverso strategie di minimizzazione dei costi. L'Autorità  non ritiene condivisibile, quindi, lo schema di regolamento laddove prevede che nella licenza vengano indicate le tariffe che l'istituto dovrà  applicare e l'attestazione di congruità  di queste da parte del prefetto, nonché la limitazione del numero delle guardie e delle tipologie di servizi. Nei servizi di vigilanza, caratterizzati da una forte incidenza del costo del lavoro, il numero di Gpg autorizzate rappresenta la principale misura della capacità  produttiva effettiva e potenziale delle imprese, e rappresenta quindi un fattore essenziale per adeguare la propria offerta alle esigenze del mercato ed al confronto competitivo. Ove venga rigidamente fissato il numero delle guardie in servizio presso i singoli istituti, risultano vanificati i principi espressi in materia di concorrenza dalla legge n. 287/90. In tal modo è il prefetto a determinare la capacità  di concorrenza delle imprese, attraverso vincoli alle quantità  producibili da ciascuna di esse, particolarmente intensi per i servizi ad alto contenuto di lavoro, come il piantonamento fisso e la ronda. L'eccessiva rigidità  del numero massimo di guardie impiegabili da ciascun istituto comporta inoltre la cristallizzazione dei comportamenti di mercato e favorisce la collusione tra le imprese, come l'Autorità  ha avuto modo di rilevare in occasione di procedimenti da essa svolti. Per tale ragione, secondo l'Autorità , il mantenimento nello schema di regolamento del sistema autorizzatorio relativo al numero massimo di Gpg rappresenta un significativo ostacolo allo sviluppo di un ambiente competitivo. L'Autorità  poi ritiene ragionevole che nelle verifiche per la conferma dell'autorizzazione debba essere ricompreso il controllo degli obblighi assicurativi e previdenziali di legge, non ritiene appare invece comprensibile e giustificata la valutazione in ordine al rispetto della contrattazione sindacale previsto dallo schema di regolamento, che è invece di competenza della giurisdizione del lavoro.
Sanzioni per inosservanza dell’ordinanza di precettazione
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Differimento dello sciopero per precettazione e obbligo di ripetizione delle procedure di raffreddamento
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In caso di differimento dello sciopero, a seguito di invito proveniente dalle Autorità  ex art. 8 legge n. 146/1990 (Presidente del Consiglio, ministro delegato o prefetto),ad una data in relazione alla quale risulti superato il periodo di validità  delle procedure di raffreddamento e conciliazione, la procedura potrà  non essere ripetuta, a condizione che lo sciopero differito possa considerarsi legittimo ' vale a dire senza che la sua proclamazione violi la disciplina legale o contrattuale del settore di riferimento ' e la fissazione della nuova data di effettuazione sia contestuale alla revoca.
Modalità degli scioperi in adesione
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La commissione ha espresso il parere che, nel caso della concentrazione nella stessa giornata di più astensioni,la proclamazione di uno sciopero successivo, sia pure in adesione ad uno sciopero proclamato da altre Oo.Ss., deve rispettare la durata e la articolazione dello sciopero proclamato per primo, ferma restando la facoltà  dei singoli lavoratori di aderire a quest'ultima astensione.
Libera circolazione delle persone – Studente cittadino giunto in un altro Stato membro per seguirvi una formazione
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Politica sociale – Mantenimento dei diritti dei lavoratori – Trasferimento di imprese –
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Pubblico impiego – Tutela cautelare – Sanzioni disciplinari della multa e della sospensione dal servizio
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Inquadramento attività – Inps – Tutela cautelare – Fumus boni iuris e periculum in mora – Insussistenza
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Rapporto lavoro subordinato – Richiesta risarcimento danni – Presupposti – Insussistenza Art. 32 Ccnl trasporti
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Demansionamento - Insorgenza di sindrome reattiva da stress - Procedura d'urgenza
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Nel caso di specie il giudice, investito della domanda di cautela, affrontava il demansionamento di un lavoratore subordinatoassunto a tempo indeterminato con inquadramento al II livello retributivo del Ccnl terziario distribuzione e servizi che sino al maggio 2008 svolgeva, presso un grande negozio di abbigliamento, le mansioni di capo reparto calzature. In particolare, nella fattispecie in esame il ricorrente veniva seguito al di fuori dell'orario e del luogo di lavoro dal direttore del negozio il quale accertava in tal modo la frequentazione che sussisteva tra il ricorrente ed un'altra lavoratrice del negozio. Appresa la circostanza, il direttore procedeva con repentina gradualità  ad esautorare il ricorrente dalle mansioni lui affidate sino a quel momento, dapprima affiancandogli altre persone, ed in seguito comunicandogli, al suo rientro a lavoro dopo un periodo di malattia, che di là in avanti egli non avrebbe più svolto le mansioni di capo reparto calzature ma di addetto alla messa in ordine dei cestoni dell'abbigliamento in promozione che erano situati in prossimità  dell'uscita del negozio. Il direttore comandava inoltre al ricorrente di indossare di là innanzi la maglietta aziendale riservata ai commessi e di non indossare più l'abito scuro, come invece gli era stato ordinato sino ad allora. Acclarata l'impossibilità  di risolvere altrimenti la vicenda, il ricorrente adiva con ricorso redatto ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. il Tribunale di Bologna, chiedendo che questi ordinasse alla resistente la reintegra in mansioni equivalenti a quelle svolte in precedenza e ponendo a suo carico le spese della fase cautelare. Assunte sommarie informazioni, il Tribunale riteneva provato il fumus boni iuris sulla base dell'evidente riduzione qualitativa e quantitativa delle mansioni svolte dal ricorrente, anche alla luce della declaratoria contrattuale del Ccnl, ritenendo altresà che indice significativo del demansionamento era costituito dall'ordine di servizio che aveva imposto al ricorrente di rinunciare all'abito scuro per indossare la divisa aziendale. Per quanto riguardava l'elemento del periculum in mora, il Tribunale riteneva assorbente della questione l'essere insorta nel ricorrente, una volta iniziato il demansionamento, una sindrome ansiosa di tipo reattivo che gli aveva reso necessario ricorrere a farmaci specifici, con ciò confermando quell'orientamento espresso dalla giurisprudenza del merito (ex multis, Pret. Firenze 10 dicembre 1998; Pret. Torino 31 dicembre 1997; Pret. Milano 9 dicembre 1993; Pret. Roma 19 maggio 1986; Pret. Roma 3 luglio 1984) e di legittimità  (ex multis, Cass. del 25.2.2005; Cass. 17314/2004 e Cass. 11704/2003), secondo cui sono integrati gli estremi per l'intervento cautelare nei casi in cui vengano lese posizioni soggettive di carattere assoluto attinenti alla sfera personale dell'individuo e tutelate da norme di rango costituzionale. Su tali basi argomentative il Tribunale di Bologna ha ordinato quindi alla resistente l'immediata reintegra del ricorrente nelle mansioni di capo reparto o in altre mansioni di valore equivalente, condannandola altresà alla rifusione delle spese del giudizio in ossequio all'autonoma stabilità  che caratterizza l'ordinanza resa ex art. 700 cod. proc. civ. a seguito della legge n. 80 del 14 maggio 2005. Nonostante abbia deciso di non reclamare il provvedimento, l'azienda non ha ottemperato l'ordine del giudice, cosà spingendo l'interprete a domandarsi perché il legislatore abbia deciso di non estendere al diritto del lavoro gli effetti di una norma dell'adottanda riforma della giustizia (art. 54, comma 1, del d.d.l. n. 1441-bis - A) che introducendo nel nostro ordinamento la «coazione indiretta» sotto forma di pena pecuniaria privata in favore del creditore e in danno del debitore, avrebbe consentito un deciso balzo in avanti sulla strada della effettiva giustiziabilità  dei diritti dei lavoratori in ipotesi quali quella che si è ora affrontata (cfr. Alleva, Le riforme della giustizia del lavoro nel d.d.l. governativo n. 1167 in discussione al Senato. Note critiche e proposte emendative, 13.11.2008, su www.cgil.it).
Licenziamento - Genericità delle condotte contestate - illegittimità
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Ad un igienista dentale, dipendente di un Centro odontostomatologico, venivano contestate,nella medesima missiva, due mancanze. La prima aveva ad oggetto asserite condotte negligenti non specificate; la seconda riguardava una conversazione con un paziente del centro, che avrebbe avuto, secondo la convenuta, contenuto diffamatorio. Il lavoratore, che non aveva precedenti disciplinari, veniva sospeso; presentava invano le giustificazioni, negando le condotte addebitategli; seguiva licenziamento in tronco, che il ricorrente impugnava. Il giudice rilevava che le circostanze oggetto della prima parte della contestazione erano «assolutamente generiche, in quanto mancava qualsiasi indicazione ' anche solo descrittiva e non necessariamente specifica ed analitica ' delle violazioni poste in essere dal lavoratore e delle correlate disposizioni e/o norme, rispetto alle quali lo stesso si sarebbe reso inadempiente». Riteneva quindi che tali contestazioni, essendo «del tutto indeterminate nel loro contenuto», erano di conseguenza «prive di rilevanza da un punto di vista disciplinare»; non ammetteva in merito ad esse «le prove testimoniali dedotte da parte convenuta, in forza del principio di immutabilità  delle contestazioni ed in ossequio al diritto di difesa dell'incolpato». La seconda circostanza oggetto di contestazione era il contenuto di una conversazione con un paziente del centro, udita da un odontoiatra collaboratore dello stesso, che avrebbe avuto contenuto diffamatorio. La convenuta sosteneva che il lavoratore avrebbe «riferito al paziente che era inutile che si sottoponesse cosà frequentemente alle prestazioni di igiene orale perché non erano necessarie e pertanto era solo un sistema per rubargli i soldi». Veniva ammesso il teste, citato dalla convenuta, che confermava di avere assistito casualmente ad un colloquio fra il ricorrente ed una cliente e di avere sentito il primo dire alla paziente che «non era necessario che si sottoponesse cosà spesso ad interventi di igiene dentale in quanto quello era soltanto un modo per prenderle dei soldi», anzi il teste precisava che l'A. «disse che quello era un modo per farle spendere più soldi». Il teste escludeva che il ricorrente avesse usato l'espressione «rubare dei soldi». Il giudice, «escluso che il ricorrente abbia usato il termine 'sistema (che avrebbe connotato negativamente la prassi operativa del Centro) e soprattutto escluso che abbia usato l'espressione 'rubare i soldi» riteneva che «l'episodio ' cosà come ricostruito dall'unica persona che ha assistito al colloquio tra l'A. e la paziente» assumesse una «valenza diversa da quella contestata» e si avvicinava «molto a quello che il ricorrente ha sempre ammesso di avere detto ai pazienti, e cioè che era consigliabile curare meglio la propria igiene orale, in quanto ciò avrebbe loro consentito di evitare frequenti sedute odontoiatriche e di risparmiare in tal modo soldi. Intesa in questo modo, l'affermazione del ricorrente perde evidentemente il suo carattere diffamatorio nei confronti del datore di lavoro, con la conseguenza che il fatto contestato non integra gli estremi della giusta causa di licenziamento. Il licenziamento veniva quindi dichiarato illegittimo 'in quanto privo di giusta causa e, comunque, sproporzionato in relazione all'addebito contestato». Il giudice, sussistendo il requisito dimensionale, condannava la convenuta alla reintegra ed al risarcimento del danno. In merito a quest'ultimo, la convenuta aveva contestato la inclusione del rateo di tfr nella retribuzione mensile globale di fatto. Il giudice, accogliendo la domanda del ricorrente, liquidava il risarcimento sulla base di una retribuzione mensile globale di fatto comprendente «anche un rateo di tredicesima, uno di quattordicesima ed uno di tfr, e cioè tutto quello che il lavoratore avrebbe percepito (ivi compreso, quindi, quanto avrebbe maturato a titolo di Tfr) se il rapporto fosse regolarmente proseguito». In merito all'aliunde perceptum, il giudice dichiarava doversi detrarre, dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, tutto quanto percepito per lo svolgimento di attività  lavorativa; «al contrario, non va detratto quanto percepito a titolodi indennità  di disoccupazione, trattandosi di somme che vengono riconosciute al lavoratore soltanto provvisoriamente e che devono essere restituite qualora, come nel caso di specie, venga accertata l'illegittimità  del licenziamento con conseguente ripristino del rapporto di lavoro».
Trasferimento – Rsa cessato dalla carica da sei mesi – Assenza di nulla-osta della orga- nizzazione sindacale – Illegittim
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Violazione del diritto alla trasformazione del rapporto a tempo determinato - Verbale accordo sindacale - Diritto assunzione
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Sulla base di un verbale di accordo sottoscritto in data 15 settembre 2007 tra le Oo.Ss. territoriali di categoria e la società  Giacchieri Sasquest'ultima si impegnava ad assumere alle proprie dipendenze, con contratti full-time a tempo determinato di dodici mesi, i lavoratori che a seguito del licenziamento posto in essere dalla Gesticoop Scrl, erano stati collocati in mobilità , usufruendo in tal modo degli sgravi contributivi previsti per le assunzioni di personale attinto dalle suddette liste. In particolare, il verbale di accordo sottoscritto nel settembre del 2007, prevedeva che la Giacchieri Sas ' subentrata alla Gesticoop Scrl nella gestione dell'appalto dei servizi di pulizia degli aeromobili e di movimentazione dei bagagli presso l'aeroporto G. Marconi di Bologna ' si impegnava atrasformare a tempo indeterminato i rapporti di lavoro dei dipendenti assunti con contratto a termine dalla mobilità , prima della scadenza degli stessi, salvo casi particolari che saranno oggetto di confronto tra le parti firmatarie». Tuttavia, spirato il termine previsto nei contratti a termine, due dei lavoratori assunti dalla Giacchieri Sas venivano licenziati con effetto immediato. I signori A. M. e A. O., pertanto, convenivano in giudizio, con un procedimento d'urgenza ex art. 700 cod. proc. civ., la Giacchieri Sas per far accertare l'illegittimità  del comportamento posto in essere dalla società  e la violazione del diritto alla trasformazione del rapporto a tempo indeterminato, come previsto dal suddetto accordo sindacale. Il Tribunale del lavoro di Bologna ' con ordinanza del 18 novembre 2008, accoglieva il ricorso proposto dai due lavoratori e ordinava alla società  Giacchieri Sas di assumere i signori A. M. e A. O. con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, alle medesime condizioni già  stabilite nel contratto a termine concluso inter partes, nel rispetto, dunque, delle stesse posizioni lavorative da loro precedentemente occupate. In particolare, il giudice, valutata la previsione contrattuale prevista, ha ritenuto che la facoltà  concessa alla società  convenuta di sottrarsi eccezionalmente all'obbligazione assunta con la sottoscrizione dell'accordo, era condizionata a due presupposti: che si trattasse di «casi particolari» e che, in ogni caso, questi «fossero oggetto di confronto sindacale». Ed in ogni caso, l'accordo sindacale, come è stato anche rilevato dal giudice nel provvedimento de quo, prevedeva a carico dell'impresa subentrante l'obbligo a contrattare, per il quale è possibile chiederne l'esecuzione in forma specifica, poiché tutti gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro sono conosciuti, coincidendo essi con quelli pattuiti nel contratto a termine che già  aveva avuto corso tra le parti. Ciò premesso, i due presupposti non sono stati rispettati dalla società  convenuta in giudizio in quanto, nessuna specifica comunicazione è stata rivolta alle associazioni sindacali entro i termini previsti, ma invece, è stata solo annunciata l'esistenza di inadempienze contrattuali e/o assenze dal lavoro non meglio specificate e individuate nel numero di lavoratori esclusi dalla conversione. Per tali motivi, dunque, il giudice ha accolto il ricorso cautelare, ordinando l'attuazione dell'accordo sindacale nel rispetto dei diritti e della tutela della condizione lavorativa dei ricorrenti
Esposizione ad amianto, modalità del calcolo del requisito minimo di esposizione
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Il Tribunale di Genova ha risolto con una puntuale decisione un curioso problemainsorto in relazione alle modalità  di accertamento del requisito previsto dalla legge 257/1992 per il riconoscimento del beneficio previdenziale per esposizione ad amianto. Come è noto, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che il beneficio ' anche antecedente alla entrata in vigore dell'art. 47 d.l. 30 settembre 2003 n. 269 ' viene riconosciuto a fronte di una esposizione all'amianto in concentrazione media annua non inferiore a 100 fibre/litro come valore medio su otto ore al giorno, concentrazione che corrisponde a quella di 0.1 fibre per centimetro cubo espressa con una diversa unità  di misura dall'art. 24 d.lgs. 277/91 (Cosà per tutte Cass. 10 settembre 2007 n. 18945 in motivazione). Alcuni consulenti tecnici genovesi avevano sostenuto che, mentre nel caso in cui la esposizione è continua tutto l'anno l'operazione matematica da effettuare era semplicemente quella di moltiplicare il numero di fibre cui il lavoratore era esposto per le ore annue di esposizione e poi dividere il prodotto ottenuto per le ore annue (convenzionalmente 1920), laddove invece la esposizione non fosse stata continua la suddetta operazione di calcolo andava completata con un successivo passaggio quello di dividere il risultato ottenuto per 8, ove ci si fosse trovati in presenza di esposizioni giornaliere molto limitate o addirittura per sedici laddove ci si fosse trovati in presenza di esposizioni ancora più saltuarie e cioè limitate ad alcuni giorni alla settimana. E ciò in supposta applicazione di un criterio riduttivo che sarebbe stato indicato dalla cd formula di Verdel. Il Tribunale di Genova con la sentenza suddetta ha precisamente affermato che si trattava di un grosso equivoco, in quanto la formula di Verdel non stabiliva affatto coefficienti riduttivi ma semplicemente un criterio convenzionale per cui l'ottavo di giornata o il sedicesimo di giornata andavano semplicemente inseriti nel calcolo in sostituzione del tempo reale quando questo fosse limitato a pochi minuti al giorno oppure a pochi minuti non tutti i giorni. Ma comunque, quando in assurda ipotesi la formula di Verdel avesse avuto il significato che si pretendeva attribuirle, essa sarebbe stata inutilizzabile per palese violazione di legge. Infatti con tale lettura da una parte si pretendeva di utilizzare un diverso criterio di calcolo a seconda del tipo di esposizione, cosa di per se stessa inammissibile, dall'altra finiva con il richiedere per il riconoscimento del beneficio non già  una esposizione media a 100 fibre, bensà una esposizione media a 8 o ad addirittura 16 volte tanto è cioè a 800 o a 1600 fibre.
Ferie arretrate non godute - Diritto del datore ad imporre il godimento - Inesistenza
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Un lavoratore ha maturato in epoca antecedente al 2003 una rilevante quantità  di ferienon godute che vengono regolarmente annotate a listino paga: nel corso del 2008 il datore pretende che il lavoratore ne fruisca tutte insieme con il risultato che il lavoratore dovrebbe assentarsi dal servizio per circa sei mesi. Il lavoratore resiste alla pretesa del datore e chiede che gli venga corrisposta l'indennità  sostitutiva. Il datore ricorre in via di urgenza al Tribunale di Genova affinché questi determini il periodo in cui tali ferie debbano essere godute. Il Tribunale respinge la richiesta osservando che la funzione delle ferie vale al recupero delle energie psichiche per cui non può più essere svolta in relazione a quelle ferie che sono maturate in epoca risalente da ben oltre un anno. In conseguenza secondo quanto previsto da Cass. 24 ottobre 2000 n. 13980: «Una volta decorso l'anno di competenza, il datore di lavoro non può imporre al lavoratore di godere effettivamente delle ferie né può stabilire il periodo nel quale deve goderle ma è tenuto al risarcimento del danno».
Mancata notifica nel termine di dieci giorni - Conseguenze - Improcedibilità del ricorso - Non sussiste
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La Corte d'appello di Genova, portando alle estreme conseguenze i principi affermati di recente dalle Sezioni Unite della Corte di cassazionecon la sentenza 30 luglio 2008 n. 20604, risolve una questione di procedibilità  sollevata dalla difesa dell'appellato in relazione alla tardiva notifica del ricorso e del decreto presidenziale di fissazione d'udienza e nomina del relatore. Nel caso de quo, infatti, l'Istituto previdenziale ap- pellante aveva provveduto a notificare ricorso e decreto oltre il termine di 10 giorni previsto dall'art. 435, secondo comma, cod. proc. civ. (da interpretarsi, comunque, alla luce della sentenza della Corte costituzionale 14 gennaio 1977 n. 15), avendo comunque rispettato il cd. «termine a difesa» previsto dal successivo terzo comma del predetto art. 435 cod. proc. civ.: il giudice di secondo grado ha accolto l'eccezione sollevata, dichiarando improcedibile il ricorso dell'Istituto previdenziale. La Corte genovese ha recepito ed applicato in maniera draconiana quanto potrebbe dedursi in un obiter dictumdelle Ss.Uu. Suprema Corte, ovvero l'automatica decadenza della parte dal compiere un'attività  pro- cessuale dopo la scadenza di un termine ordinatorio (quale quello previsto dall'art. 435, secondo comma, cod. proc. civ.) non prorogato, anche se esso non sia posto a difesa od a garanzia, sulla base di una propria ed innovativa rilettura costituzionalmente orientata di tale norma procedurale con particolare riferimento al nuovo art. 111 comma 2 della Costituzione ed all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. La peculiarità  dell'interpretazione data dalla Corte d'appello di Genova consiste inoltre nel fatto che secondo tale giudice parrebbero configurarsi, all'interno del codice di procedura, tre tipi diversi di termini: i termini perentori, la cui decorrenza importa la decadenza dalla possibilità  di compiere l'atto, i termini ordinatori per le parti, che possono essere, anche d'ufficio, abbreviati o prorogati, ma se scaduti senza proroga comportano le stesse conseguenze della scadenza del termine perentorio, ed i termini ordinatori per il giudice ed i suoi ausiliari, la cui decorrenza non comporta alcuna conseguenza, salvi eventuali riflessi a carattere disciplinare.
Inquadramento superiore - Collaboratori di vigilanza - Transizione tra sistemi di inquadramento - Interpretazione del contratto
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Nell'interpretazione del contratto collettivo si deve in primo luogo far riferimento al significato letterale delle espressioni usatee, quando esso risulti univoco, non è consentito ricorso agli ulteriori criteri interpretativi di cui agli artt. 1362 ' 1371 cod.civ., che esplicano soltanto una funzione sussidiaria e complementare, potendo essere utilizzati solo quando il dato letterale sia insufficiente ad evidenziare in modo certo ed immediato la volontà  contrattuale. I canoni legali di ermeneutica sono infatti disciplinati da un principio di gerarchia interna. La controversia riguardava un dipendente del Comune di Muggia, assunto con la qualifica di collaboratore di vigilanza ed inquadrato nella V qualifica funzionale, il quale rivestiva poi la qualifica di istruttore di vigilanza, inquadrato nella VI qualifica funzionale. Successivamente, egli riceveva provvisoriamente il comando della Polizia municipale con attribuzione formalizzata delle funzioni proprie della VII qualifica funzionale (istruttore direttivo di vigilanza), diventando inoltre il responsabile dell'organizzazione complessiva del servizio di Polizia municipale per il Comune di Muggia. Il 1° agosto 2002 entrava in vigore il nuovo Ccrl per il personale del comparto unico del Friuli Venezia Giulia, area enti locali, che andava ad introdurre un nuovo sistema di classificazione. Sulla base di tale nuova sistemazione, il ricorrente chiedeva al datore di lavoro di riconoscergli, con decorrenza 1° agosto 2002, l'inquadramento nella posizione economica Plb1, ritenendo che le funzioni effettivamente svolte rientrassero nella citata categoria, ex art. 30, comma 11, del citato Ccrl. Tale norma stabilisce che «In sede di prima attuazione del nuovo ordinamento relativo al personale dell'area della polizia locale, il personale stesso ascritto alla ex 6° qualifica funzionale in servizio di ruolo alla di entrata in vigore del presente contratto, è inquadrato, dalla medesima data, nella nuova categoria Plb, posizione economica Plb1, profilo professionale di ufficiale tenente di polizia locale, sulla base dei requisiti di seguito indicati: a) personale al quale, con atti formali da parte dell'amministrazione di appartenenza, siano state attribuite funzioni di responsabile del complessivo servizio di vigilanza; b) personale addetto all'esercizio di effettivi compiti di coordinamento e controllo di altri operatori, già  ascritto alla 6° qualifica funzionale a seguito di procedure concorsuali, su posti in dotazione organica che prevedessero l'esercizio di tali funzioni, con almeno cinque anni dia anzianità  di servizio effettivo nella qualifica funzionale stessa, e la frequenza a un corso attinente di almeno 36 ore». A seguito di tale richiesta, il Comune revocava le funzioni superiori di comandante Plb1, considerando che tali mansioni erano state conferite al ricorrente in attesa che la dotazione organica fosse opportunamente coperta, e che si era trattato pertanto di una temporanea collocazione, priva di effetti ai fini dell'inquadramento. Il giudice accoglieva il ricorso ritenendo ampiamente provato e al di là  di ogni contestazione che il ricorrente avesse effettivamente espletato le funzioni superiori. Ai fini della decisione, il giudice esaminava il nuovo Ccrl personale del comparto unico, area enti locali, 1998 ' 2001, rilevando che esso ha introdotto «un nuovo sistemadi classificazione del personale, articolato in aree, categorie e posizioni economiche», e che, per realizzare la transizione fra i vari sistemi di inquadramento, esso ha dettato regole specifiche per l'inquadramento nel nuovo sistema di coloro che già  erano in servizio. Per quanto concerne l'area professionale della polizia locale, è l'articolo 30 che si è occupato di dettare le norme transitorie, prevedendo, alla lettera a), comma 11 quanto già  riportato. Richiamandosi al principio della sovranità  dell'interpretazione letterale del contratto laddove esso si presti ad una lettura univoca e non contraddittoria come elaborato dalla Cassazione (tra le altre Cass. sez. lav., 20.2.2008, n. 4342; Cass. sez. lav., 19.3.2007; Cass. sez. lav. 22.11.2004, n. 22004; Cass. sez. lav., 14.10.2004, n. 20272; Cass. sez. lav., 16.8.2004, n. 15949; Cass. sez. lav., 3.8.2004, n. 14850; Cass. sez. lav. 29.7.2004, n. 14495), il giudice riteneva che, essendo stata attribuita al ricorrente con atti formali la responsabilità  del complessivo servizio di vigilanza, come previsto dalla lett. a) dell'art. 30, il ricorrente avesse diritto ad essere inquadrato nella posizione economica Plb1. In materia di interpretazione del contratto collettivo è oramai consolidata la giurisprudenza della Suprema Corte: i canoni legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362-1371 cod.civ.) si ritengono governati da un principio di gerarchia in forza del quale quelli strettamente interpretativi (artt. 1362-1355 cod.civ.) prevalgono su quelli interpretativi ' integrativi (artt. 1366-1371 cod.civ.), e pertanto, «a fronte della ricostruzione della comune volontà  delle parti resa palese dalla applicazione delle norme strettamente interpretative ed in particolare dal principale strumento fornito dalla connessione logica delle espressioni usate, la previsione legislativa dei criteri ermeneutici secondo un principio gerarchico esclude la concreta operatività  delle norme interpretative integrative, tra cui si colloca l'art. 1367 cod.civ.», vale a dire il criterio della conservazione del contratto (cosà Cass. sez. lav., 5.8.2005, n. 16549). Viene posto in particolare rilievo il criterio logico ' sistematico ex art. 1363 cod.civ., che impone di desumere la volontà  manifestata dai contraenti «da un esame complessivo delle diverse clausole aventi attinenza, tenendosi conto del comportamento, anche successivo delle parti» (Cass. sez. lav., 8.5.2006, n. 10434 e Cass. sez. lav., 26.10.2007, n. 22507). La necessità  di applicare i criteri ermeneutici tipici in materia contrattuale, d'altronde, deriva dalla natura negoziale del contratto collettivo, per cui si impone che l'indagine ermeneutica debba essere compiuta secondo i criteri dettati dagli articoli 1362 cod. civ. e ss., e non sulla base degli articoli 12 e 14 delle preleggi. (Cass. sez. lav., 24.1.2008, n. 1582). Assume, infine, particolare rilevanza, nell'applicazione dei generali canoni ermeneutici, il principio di buona fede, la cui rilevanza è stata recentemente sottolineata dalla Cassazione in una sentenza in materia di diritti sindacali, laddove essa ha affermato che «nella interpretazione delle disposizioni del contratto collettivo [â?¦] deve, nell'applicazione dei criteri ermeneutici codicistici, attribuirsi il dovuto rilievo e x articolo 1366 cod.civ., al principio di buona fede».
Inquadramento superiore – Operatori doganali – Esercizio di fatto di mansioni superiori – Area Quadri – Retribuzione
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Rimborso delle spese processuali – Dipendente comunale – Imputazione penale – Ente pubblico – Giurisdizione amministrati
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Il giudice ha il potere-dovere di acquisire il contratto collettivo
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Nel corso di una controversia promossa da un agente al fine di vedersi riconoscere l'indennità  suppletiva di clientela,il difensore del ricorrente produceva solo successivamente all'introduzione del giudizio l'accordo economico collettivo a base della propria domanda. Il tribunale di Como e la Corte di appello di Milano in sede di appello ritenevano legittima la produzione. Nel respingere il ricorso incidentale della società  che censurava la decisione dei giudici di appello che avevano ritenuto ammissibile la produzione tardiva la Suprema Corte ha richiamato la propria giurisprudenza che considera estranee al regime delle decadenze dei mezzi istruttori del rito lavoro la produzione del contratto collettivo. Osserva, infatti, la Suprema Corte che i mezzi di prova ed i documenti che a pena di decadenza il ricorrente deve indicare nel ricorso e depositare insieme ad esso sono quelli aventi ad oggetto i fatti posti a base della domanda. Agli artt. 5, 414 e 415 cod. proc. civ. ' rilevano i giudici di legittimità  ' non è invece riconducibile il contratto o l'accordo collettivo, quando esso debba costituire criterio di giudizio. Nel richiamare le norme del rito lavoro che impongono al giudice di conoscere il testo dei contratti collettivi, la Suprema Corte ha quindi ritenuto che tali atti, pur se non formalmente inseriti fra le norme di diritto, rimanevano sul piano dell'acquisizione al processo distinti dai semplici fatti di causa.
Le controversie di un lavoratore nei confronti del gruppo parlamentare sfuggono all’autodichia della Camera dei deputati
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La Cassazione afferma la necessità di una specificazione temporale degli addebiti
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Una responsabile di una azienda commerciale veniva licenziata per giusta causa a seguito di una contestazione disciplinarearticolata su 14 addebiti consistenti in addebiti per violazioni sulla normativa aziendale sulla scontistica applicata sulla merce, ordinativi di merce illogici, scortesia con la clientela, ricevimento in ufficio di amici, mancata esposizione di capi di abbigliamento, indebiti richiami alle commesse. Nel corso del giudizio il Tribunale di Como rigettava la domanda della ricorrente con sentenza riformata dalla Corte di appello di Milano che, viceversa, rilevava la genericità  degli addebiti formulati contestati alla lavoratrice senza la necessaria contestualizzazione temporale né con una specificazione delle persone offese dal comportamento della direttrice che aveva impedito il diritto di difesa. La Corte di cassazione nel respingere il gravame della azienda ha affermato che la carenza di tali elementi ha determinato la violazione del principio di specificità  della contestazione che risponde alla primaria finalità  di rendere l'incolpato edotto dei fatti ascritti al fine di consentirgli il diritto di difesa.
L’esigenza di rasserenare gli animi può costituire un motivo idoneo a giustificare il trasferimento di un lavoratore
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Per determinate professione costituisce fatto notorio il danno alla professionalità derivante da una dequalificazione
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Un medico responsabile di un reparto di chirurgia di una Asl veniva trasferito presso il reparto di pronto soccorsodove rimaneva senza potere svolgere la propria attività  di chirurgo fino ad un provvedimento cautelare di ripristino intervenuto dopo quasi un anno. Nel corso di un successivo giudizio di condanna al risarcimento nel danno promosso dal medico innanzi al magistrato del lavoro di Avezzano la struttura sanitaria veniva condannata, con sentenza confermata dalla locale Corte di appello di L'Aquila, ad un risarcimento del danno determinato equitativamente sulla base della notorietà  del danno derivante dall'inattività . La Corte di cassazione nel respingere il ricorso dell'ente ha ritenuto congruamente motivata la decisione dei giudici abruzzesi. Nell'affermare che il fatto notorio è costituito da un fatto di comune conoscenza che appartiene alla cultura media della collettività  anche locale che può desumersi anche da una conoscibilità  derivante dai moderni mezzi di comunicazione che il magistrato può porre a fondamento senza necessità  di motivare sul punto ha ritenuto congrua la decisione della locale Corte di appello che aveva ritenuto che la professione medica analogamente a quella dei musicisti e degli sportivi necessita al fine di acquisire valore di una pratica continua.
Non è ammissibile un patto di prova di durata superiore ai tre mesi per mansioni non direttive
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Nel corso di un giudizio di impugnativa di un licenziamento per mancato superamento del periodo di provail lavoratore interessava il Tribunale di L'Aquila al fine di vedere dichiarare la nullità  del proprio patto di prova concordato per un periodo di sei mesi. Il locale magistrato accoglieva il ricorso con decisione confermata dalla Corte di appello. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  ha affermato che la disciplina codicistica del patto di prova viene integrata da altre norme che concorrono a determinare l'ambito e le particolarità . Tra le norme integratrici del contenuto della previsione generale codicistica la Cassazione ha ritenuto che debba continuarsi a fare riferimento al r.d.l. 13 novembre 1924 n. 1825 sull'impiego privato che non è stato abrogato e continua ad applicarsi. Sulla base di tale rilievo la Cassazione ha quindi ritenuto che la norma di un contratto che impone un limite semestrale per i lavoratori non addetti a funzioni direttive sia nulla in quanto in contrasto con la previsione che stabilisce un limite massimo alla durata da ritenersi ancora in vigore nell'ordinamento giuridico.
Lo ius variandi deve essere esercitato in modo da assicurare il perfezionamento delle capacità specifiche del dipendente
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Una dipendente di una azienda telefonica addetta a mansioni amministrative adiva il Tribunale di Romaal fine di vedere accertata l'illegittimità  della decisione aziendale con la quale la lavoratrice era stata assegnata a funzioni di operatrice di call center nell'ambito di un numero di servizio all'utenza disposto dalla società . Nel costituirsi in giudizio la società  rilevava la equivalenza del livello contrattuale di riferimento e la conseguente legittimità  dell'operato che veniva ritenuta in primo grado di giudizio. La locale Corte di appello, tuttavia, riformava la decisione evidenziando la radicale disomogeneità  delle mansioni assegnate dall'azienda che non permettevano un accrescimento professionale ma anzi determinavano una fossilizzazione delle capacità  della lavoratrice. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso dell'azienda, pur affermando che il diritto di modificare le mansioni del dipendente non deve essere esercitato in modo da assicurare uno sviluppo di carriera del dipendente ha comunque precisato che la facoltà  di modificare le mansioni del lavoratore trova un limite nella necessità  di garantire nella nuova funzione assegnata al lavoratore una utilizzazione ovvero il perfezionamento e l'accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto lavorativo.
Il giudice deve accertare se il lavoratore ha consegnato all’ufficio postale il telegramma di impugnativa del licenziamento
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Il contratto di associazione in partecipazione non richiede una partecipazione alle perdite né un compenso rapportato agli util
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Alcuni lavoratori addetti ad un cinema con mansioni di cassiere e di mascherastipulavano con l'azienda alcuni contratti di associazione in partecipazione che prevedevano una partecipazione al fatturato dell'azienda escludendo una partecipazione alle perdite. A seguito di verifiche Inps i contratti venivano contestati e la società  veniva intimata a regolarizzare i rapporti di lavoro. Le ingiunzioni di pagamento degli enti previdenziali notificate all'azienda venivano quindi opposte innanzi al Tribunale di Macerata. All'esito del giudizio di primo grado veniva accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con sentenza, tuttavia, integralmente riformata dalla Corte di appello di Ancona. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  ha ritenuto corretta la decisione della locale Corte di appello che aveva escluso che la mancata partecipazione alle perdite determinasse una invalidità  del contratto di associazione dal momento che la partecipazione alle perdite non costituisce un elemento qualificante il rapporto di associazione. I giudici di legittimità  hanno inoltre affermato che neppure concorre ad escludere la causa di un contratto di associazione la circostanza che l'associato non possa esercitare un effettivo controllo sulla gestione dell'impresa dal momento che la disciplina codicistica pur prevedendo il diritto dell'associato al controllo e al rendiconto non ne determina le modalità  lasciando alle parti il potere di stabilirne le modalità . Da ultimo - conclude la Corte ' non assume rilevanza neppure la circostanza che la partecipazione dell'associato sia commisurata al ricavo e non agli utili netti. La partecipazione dell'associato calcolata su un parametro maggiore rispetto a quello normativo non snatura ' a detta dei giudici del supremo collegio ' la causa del contratto. Nel respingere il ricorso la Cassazione ha quindi affermato che la causa del contratto è ravvisabile in definitiva nello scambio tra un determinato apporto dell'associato all'impresa dell'associante ed il vantaggio economico che l'associante si impegna a corrispondere al primo.
Il licenziamento ingiurioso non può ritenersi tale dalla sola infondatezza dell’addebito
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Il lavoratore può rifiutarsi di dare seguito ad un trasferimento successivamente dichiarato illegittimo
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Un lavoratore di una azienda editoriale, ricevuto un provvedimento di trasferimento, adiva il giudice del lavoro di Romain sede cautelare al fine di vedere disporre l'inefficacia del provvedimento. Il magistrato, tuttavia, rigettava la domanda. All'esito del giudizio sommario il lavoratore non dava seguito al provvedimento aziendale e veniva, quindi, licenziato per giusta causa. Nel corso del giudizio di merito avverso il licenziamento il trasferimento veniva ritenuto illegittimo ed il lavoratore veniva reintegrato nel posto di lavoro con sentenza confermata in sede di gravame. La società  soccombente proponeva, quindi, avverso la decisione della Corte di appello un ricorso di legittimità  rilevando l'invalidità  della decisione laddove non aveva correttamente considerato che a fronte del rigetto del ricorso cautelare il rifiuto del lavoratore di adempiere alla disposizione aziendale, configurava una ipotesi di autotutela ingiustificata ed in contrasto con una decisione giudiziale. La Corte di cassazione ha respinto il gravame osservando, da un lato, che un provvedimento cautelare di rigetto non esprime un accertamento della legittimità  del provvedimento del trasferimento che potrà  aversi solo all'esito della vicenda processuale, e rilevando, per altro verso, che il provvedimento di trasferimento che non sia adeguatamente giustificato è affetto da nullità . Nel respingere il ricorso i giudici hanno quindi osservato che non si può ritenere che sussista una presunzione di legittimità  dei provvedimenti aziendali né un principio che imponga l'ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio. Il rifiuto di adempiere ad un provvedimento illegittimo di trasferimento appare pertanto del tutto legittimo dal momento che la dichiarazione di illegittimità  del trasferimento determina la nullità  del provvedimento che rende, quindi, il rifiuto del lavoratore non sanzionabile.
La disciplina transitoria sui contratti a termine configura una norma eccezionale ed è di stretta interpretazione
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A seguito della dichiarazione di nullità  del termine di un contratto di lavoro a tempo determinatostipulato da un lavoratore sulla base delle causali «autorizzate» dalla contrattazione collettiva con la società  Poste italiane Spa la società  impugnava la sentenza della Corte di appello di Genova innanzi alla Suprema Corte. Nelle more del giudizio di legittimità  interveniva la legislazione speciale che con riferimento ai soli giudizi in corso introduce per alcune violazioni del decreto legislativo 368/2001 l'istituto dell'indennizzo alternativo al ripristino del rapporto lavorativo. La Corte di cassazione nel confermare la decisione della Corte di appello di Genova che aveva disposto il ripristino del rapporto ha escluso l'applicazione dello ius superveniens rilevando che tale norma riferita soltanto alle ipotesi di violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 368/2001 all'interno del quale, peraltro, è stata inserita non può essere, per sua evidente natura eccezionale, interpretata estensivamente né può essere applicata al di fuori dei casi contemplati. Nell'affermare tale principio la Suprema Corte ha quindi ritenuto irrilevante la disamina della legittimità  costituzionale della normativa recentemente introdotta.
La Cassazione riafferma la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da lesioni di diritti costituzionali
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Nell'ambito di una controversia estranea ad un rapporto di lavoro nella quale veniva richiesto il risarcimento del cd. «danno esistenziale»rivendicato per effetto di immissioni sonore moleste, le Sezioni Unite hanno affrontato in termini sistematici la tematica del cd danno esistenziale affermando che lo stesso non costituisce una voce autonoma di danno ma una semplice componente del cd danno non patrimoniale che costituisce una categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottocategorie e risarcibile nei casi previsti dalla legge. Nello sviluppo della sentenza la decisione, nel ricercare la fonte della risarcibilità  del danno non patrimoniale, ha quindi affermato che la tutela minima di valori costituzionali determina la risarcibilità  di tale danno. Affermano, infatti, le sezioni unite che dal principio del necessario riconoscimento per i diritti inviolabili della persona della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue la risarcibilità  della lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato come conseguenza un danno non patrimoniale. La lesione dei diritti di rilevanzacostituzionale comporta, quindi, l'obbligo di risarcire tale danno quale che sia la fonte della responsabilità : contrattuale o extracontrattuale. Tra gli interessi della persona presidiati dalla costituzione la sentenza ha affermato la personalità  morale dei prestatori di lavoro con la conseguenza che tale lesione ' ravvisabile nei casi di pregiudizi alla professionalità  ' si risolve nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità  del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall'impresa. Nell'affrontare il tema della prova del danno le sezioni unite, pur ribadendo che è da respingere l'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, hanno ritenuto che, attenendo il pregiudizio ad un bene immateriale il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere un particolare rilievo e potrà  costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri.
Un precedente rapporto anche non di lavoro subordinato rende nullo il successivo patto di prova per carenza di causa
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Un lavoratore dopo aver svolto per un anno un periodo di tirocinio in favore di una aziendasulla base di un piano di inserimento professionale per giovani privi di occupazione veniva assunto dalla medesima azienda con un contratto di lavoro assoggettato alla clausola di prova. Prima della scadenza del periodo di prova il rapporto veniva, tuttavia, risolto dall'azienda che riteneva non superato positivamente il periodo di prova. Nel corso del giudizio di annullamento del licenziamento promosso dal lavoratore la Corte di appello di Torino, riformando la decisione di primo grado, riteneva la nullità  del patto di prova e dichiarava l'illegittimità  del licenziamento. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso promosso dall'azienda ha quindi affermato, richiamando propri precedenti, che deve ritenersi illegittimamente apposto un patto di prova che non sia funzionale alla sperimentazione del rapporto per essere questa già  intervenuta con esito positivo attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto tra le parti avente ad oggetto le medesime mansioni dal momento che l'accertamento dell'idoneità  risulta accertabile precedentemente all'assunzione per effetto delle prestazioni già  effettuate sia pure svolte per un diverso titolo.
La Cassazione ribadisce l'esigenza di tutela dei diritti dei singoli lavoratori nella gestione della cassa integrazione
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«In tema di scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione guadagnila legge n. 223 del 1991, art. 1, prescrive al comma settimo da parte del datore di lavoro, a seguito della sua ammissione alla cassa integrazione guadagni straordinaria, la comunicazione alle organizzazioni sindacali dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere, in base a quanto previsto dalla legge n. 164 del 1975. Tale disposizione, che pone a carico del datore di lavoro un preciso onere, va osservata come tutte le restanti disposizioni della suddetta legge n. 223 del 1991, volte a tutelare, nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle organizzazioni sindacali, anche dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, (contenente norme per la semplificazione del procedimento per la concessione del trattamento di cassa integrazione guadagni straordinaria e di integrazione salariale a seguito della stipula di contratti di solidarietà ), atteso che tale disciplina non incide con effetto abrogativo o modificativo sulle suddette disposizioni ma è volta unicamente a diversamente regolamentare il procedimento amministrativo, di rilevanza pubblica, di concessione di integrazione salariale». Nell'ambito di una controversia sorta all'interno del Gruppo Fiat presso i giudici torinesi, la Suprema Corte chiarisce, in termini estremamente convincenti e di rilevanza sistematica, il limitato impatto sulla materia della cassa integrazione straordinaria e delle procedure di mobilità  che ha avuto il d.P.R. sopraindicato, al quale invece la difesa datoriale aveva attribuito una netta modifica della legislazione di tutela dei diritti individuali.
Assistenza sanitaria per italiani all’estero
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Social card e competenze regionali
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La norma istituisce un fondo per interventi di sostegno economico alle fasce debolitramite l'istituzione di una carta acquisti finalizzata all'acquisto dei generi alimentari e delle forniture energetiche e di gas da privati. La norma ignora del tutto le competenze regionali in materia di politiche sociali (quarto comma dell'art. 117 Cost.) Viene creato un fondo speciale diretto ad interventi di attività  che vedono le Regioni direttamente interessate per le loro funzioni. Tanto più che lo Stato definisce i requisiti di accesso a tali benefici, con riferimento alla «popolazione in stato di particolare bisogno residente di cittadinanza italiana» (con evidente disparità  di trattamento che non considera rilevante il disagio economico senza lo status di cittadino italiano). I criteri, le modalità  di individuazione dei titolari del beneficio e l'ammontare del beneficio stesso, escludono una qualsiasi forma di partecipazione degli enti regionali, con conseguente evidente violazione anche del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Enti pubblici creditizi
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Non è fondata la questione di legittimità  costituzionale della norma impugnata(che, in via di interpretazione autentica, estende al trattamento pensionistico dei dipendenti di enti pubblici creditizi collocati a riposo anteriormente al 31 dicembre 1990, il meccanismo di perequazione automatica previsto dall'art. 11 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503) in riferimento all'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della irragionevolezza per contrasto con il fine dichiaratamente perseguito dalla norma censurata di estinguere il contenzioso giudiziario in materia. Posto che sono legittime le norme di interpretazione autentica che attribuiscono alla disposizione interpretata uno dei significati ricompresi nell'area semantica della disposizione stessa, le censure formulate fanno riferimento ad uno soltanto degli scopi della norma, non tenendo conto della circostanza che la medesima enuncia, tra questi, anche quello, non irragionevole, di realizzare «il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi».
Benefici previdenziali amianto
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Non è illegittimo escludere dall'applicazione della disciplina previgente (e più favorevole)in materia di benefici previdenziali da esposizione all'amianto coloro che prima del 2 ottobre 2003 non abbiano presentato domanda amministrativa di riconoscimento dei benefici previsti dall'art. 13, comma 8, legge n. 257 del 1992, pur avendo poi presentato domanda nel termine decadenziale previsto dall'art. 47 del d.l. n. 269/2003. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione prospettata in relazione al fatto che il legislatore, legittimamente, ha dettato una disciplina transitoria inerente al passaggio da un regime ad un altro in correlazione con il mutamento di funzione e di struttura della misura disciplinata. Considerando che tale passaggio comportava un trattamento meno favorevole, ha voluto far salve alcune situazioni ritenute meritevoli di tutela, introducendo disposizioni derogatorie rispetto all'immediata applicazione della nuova disciplina. Tra tali ipotesi ha inserito anche quella di coloro che avessero precedentemente presentato domanda amministrativa per ottenere il riconoscimento del beneficio, in ragione della relativa efficacia ai fini del conseguimento della pensione. In questo contesto va riconosciuta al legislatore ampia discrezionalità  ' salvo il limite della palese irragionevolezza ' nella fissazione delle norme di carattere transitorio dettate per agevolare il passaggio da un regime ad un altro, tanto più ove si tratti di disciplina di carattere derogatorio comportante scelte connesse all'individuazione delle categorie dei beneficiari delle prestazioni di carattere previdenziale.
Concorso pubblico – Esclusione cittadino extracomunitario – Essenzialità del requisito della cittadinanza
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Licenziamento ritorsivo – Qualifica di dirigente – Tutela reale – Intento discriminatorio – Attività sindacale
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Tulela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro
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L'art. 8-bis della direttiva n. 80/987/Cee, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membrirelative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, deve essere interpretato nel senso che, per poter ritenere che un'impresa avente sede in uno Stato membro abbia delle attività  sul territorio di un altro Stato membro, non è necessario che essa disponga di una filiale o di uno stabilimento fisso in tale altro Stato. Occorre, tuttavia, che tale impresa disponga in quest'ultimo Stato di una presenza economica stabile, caratterizzata dall'esistenza di risorse umane che le consentano di compiervi determinate attività . Nel caso di un'impresa di trasporti che ha sede in uno Stato membro, la semplice circostanza che un lavoratore da essa occupato in detto Stato effettui consegne di merci tra quest'ultimo Stato e un altro Stato membro non può consentire di concludere che detta impresa disponga di una presenza economica stabile in un altro Stato membro
Licenziamento giustificato motivo oggettivo per contenimento dei costi - Illegittimità
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Una dipendente di un'azienda privata, licenziata per giustificato motivo oggettivo, chiedeva al Tribunale di Pescara l'annullamento del licenziamentoin quanto nella missiva la società  si era trincerata dietro frasi stereotipate e generiche, senza indicare le ragioni tecniche e produttive che giustificavano la risoluzione del rapporto. Il giudice del lavoro adito ha accolto il ricorso osservando che il licenziamento motivato dalla necessità  di procedere al contenimento dei costi nonché ad un riassetto organizzativo alfine di una più economica gestione dell'impresa in tanto può essere ritenuto legittimo in quanto il datore di lavoro fornisca la prova della necessità  di fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti e dell'impossibilità  di utilizzare il lavoratore licenziato in altre mansioni. Inoltre, ha osservato che, in caso di riduzione del personale in un settore in cui siano assegnati più lavoratori, il datore di lavoro deve giustificare le ragioni della scelta del singolo lavoratore cosà da far ritenere che la stessa non sia discriminatoria. Sulla base di tali principi, attesa l'assenza di prova da parte della società  convenuta, il Tribunale di Pescara ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato.
Accordo aziendale - Tregua sindacale - Partecipazione a sciopero - Conseguenze
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A fronte di un accordo aziendale che «premia» i lavoratori per la loro mancata partecipazione a scioperi indetti a livello nazionale,regionale, provinciale o locale per il rinnovo del contratto collettivo con la corresponsione di una maggiorazione retributiva, il lavoratore ricorrente lamenta la natura discriminatoria di tale clausola negoziale, richiedendo il pagamento della differenza retributiva non percepita per aver aderito allo sciopero proclamato a livello nazionale dall'organizzazione sindacale alla quale egli è iscritto. Invero, il trattamento economico di maggior favore, previsto dall'accordo aziendale, non costituisce oggetto di una concessione unilaterale del datore di lavoro o di una pattuizione individuale con i lavoratori, per essere corrisposto in attuazione di un accordo aziendale intercorso con la Rsu; pertanto, il datore di lavoro dovrebbe eventualmente essere condannato al pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo dei trattamenti economici di maggior favore illegittimamente corrisposti, ma non subire, accertati i fatti, una condanna a favore del singolo lavoratore discriminatoper il pagamento della differenza retributiva pregiudizievolmente non percepita, che costituisce il proprium della domanda giudiziale. Per quanto il comportamento del datore di lavoro potrebbe comunque assumere una valenza discriminatoria, dal momento che l'accordo aziendale prevedeva puntualmente la decadenza dell'intero accordo in caso di partecipazione anche di un solo lavoratore a uno sciopero, configurandosi di conseguenza la corresponsione della maggiorazione retributiva non più attuativa di un accordo sindacale ormai decaduto, ma come un atto unilaterale del datore di lavoro e quindi discriminatorio. Si è posta piuttosto la questione della nullità  di una clausola di un accordo aziendale intercorso con la Rsu rivolta a impedire o comunque a limitare l'esercizio del diritto di sciopero, inficiante eventualmente l'intero accordo: non vi è dubbio che i contraenti non avrebbero concluso l'accordo senza quella parte del suo contenuto in ipotesi colpita dalla nullità , costituendo infatti il vantaggio patrimoniale riconosciuto dall'accordo aziendale la contropartita specifica della limitazione temporanea dell'autotutela sindacale, secondo una biunivoca correlazione. La pronuncia del giudice è rivolta a riconoscere validità  ed efficaci a tale clausola dell'accordo aziendale quale clausola di tregua, seppur atipica; l'accordo aziendale può dunque contenere anche una siffatta clausola di tregua, senza per questo incorrere in nullità  assoluta. In conseguenza non può muoversi al datore di lavoro stipulante un'accusa di atto o comportamento discriminatorio nel mancato riconoscimento dei benefici economici del patto a chi quel patto ha violato. Al contempo, rivestendo sostanzialmente l'accordo aziendale efficacia meramente obbligatoria, la clausola contrattuale di tregua sindacale non può incidere sulla sfera giuridica del singolo lavoratore, ancorché affiliato alla stessa sigla sindacale dei componenti della Rsu; ne consegue la legittimità  dell'esercizio del diritto di sciopero e irrilevante risulta la violazione dell'accordo aziendale da parte del singolo lavoratore sul piano civilistico del rapporto. Il comportamento del lavoratore può assumere rilievo solo sul piano endoassociativo; peraltro, la problematica emersa della responsabilità  endoassociativa del lavoratore iscritto a sigla sindacale che ha indetto lo sciopero, cosà come quella dei lavoratori e dei componenti la Rsu che hanno dissentito a livello locale da quanto indetto a livello sovraziendale, meglio nazionale, dalla sigla di affiliazione, restano tema estraneo all'oggetto della controversia.
Reintegro del dirigente pubblico
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È illegittimo prevedere l'offerta dell'equo indennizzo al posto del reintegro nel posto di lavoro per un dirigente pubblico rimosso a seguito di spoils systemA parere della Corte costituzionale la normativa regionale non tutela l'imparzialità  amministrativa in quanto la tutela legale nel settore pubblico coinvolge anche la collettività  sotto il profilo della protezione dei più generali interessi sanciti dall'art. 97 Cost. Forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità  riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi. In particolare, la circostanza che il direttore generale di azienda sanitaria locale, rimosso automaticamente e senza contraddittorio, riceva, in applicazione della disposizione legislativa regionale impugnata, un ristoro economico, non attenua in alcun modo il pregiudizio da quella rimozione arrecato all'interesse collettivo all'imparzialità  e al buon andamento della pubblica amministrazione. Tale pregiudizio, anzi, appare in certa misura aggravato, dal momento che, come correttamente rileva il Collegio rimettente alludendo ad una «forma onerosa di spoils system», la collettività  subisce anche un aggiuntivo costo finanziario: all'obbligo di corrispondere la retribuzione dei nuovi dirigenti sanitari, nominati in sostituzione di quelli automaticamente decaduti, si aggiunge, infatti, quello di corrispondere a questi ultimi un ristoro economico.
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