
Descrizione
Rilevanza costituzionale dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti di sospensione dell'attività imprenditoriale La Cassazione ribadisce la nullità del recesso per ritorsione in azienda "minidimensionale" Il Tribunale di Trieste sulla destituzione di autoferrotranviere e sull'applicabilità dello Statuto dei lavoratoriBlocco perequazione pensioni
Non è illegittimo prevedere, per l'anno 2008, il blocco della rivalutazione automatica
delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo Inps.In relazione
all'adeguatezza dei trattamenti di quiescenza alle esigenze di vita del lavoratore
e della sua famiglia, la Corte Costituzionale ha infatti ritenuto che tale principio non
impone un aggancio costante dei trattamenti pensionistici agli stipendi. Spetta, infatti,
al legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali,
dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, in proporzione alle
risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona, esigenze che il livello economico dei trattamenti previsti
dalla norma impugnata non scalfisce, per i suoi effetti limitati al 2008. In questo
caso dev'essere riconosciuta al legislatore ' all'interno di un disegno complessivo di
razionalizzazione della precedente riforma previdenziale ' la libertà di adottare misure,
come quella denunciata, di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto
progressivo delle pensioni di anzianità , onde riequilibrare il sistema a costo invariato.
Né risulta violato il principio di eguaglianza, perché il blocco della perequazione automatica
per l'anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori a un limite
d'importo di sicura rilevanza, realizza un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente
diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di
pensioni più modeste. La norma impugnata si sottrae, infine, a censure di palese irragionevolezza,
perché, limitandosi a rallentare la dinamica perequativa delle pensioni
di valore più cospicuo, non determina alcuna riduzione quantitativa dei trattamenti in
godimento. Dev'essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato
del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a
paralizzarlo, esporrebbero il sistema a evidenti tensioni con gli invalicabili principi di
ragionevolezza e proporzionalità , perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza,
potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere
d'acquisto della moneta.
Il licenziamento intimato a fronte di rivendicazioni economiche configura un licenziamento ritorsivo
dopo aver formulato alcune rivendicazioni economiche nei confronti del proprio
datore di lavoro,un lavoratore veniva licenziato sulla base di un asserito giustificato
motivo oggettivo. Il Tribunale di Bari adito al fine di impugnare il licenziamento,
ritenuto il suo carattere ritorsivo, disponeva la reintegra del lavoratore nel posto di
lavoro. La Corte di Appello territoriale, nel respingere il gravame della società che deduceva
il carattere minidimensionale dell'azienda riteneva sussistere un motivo illecito
del recesso a base del licenziamento e confermava la decisione. L'azienda adiva la
Cassazione rilevando che la Corte d'Appello non aveva considerato il livello occupazionale
della società e aveva applicato l'istituto della reintegra al di fuori dei casi tassativi
previsti dalla legge. I giudici di legittimità hanno respinto il ricorso richiamando il proprio
orientamento in forza del quale la tutela reale deve essere riconosciuta anche ai
licenziamenti nulli per motivo illecito determinante e in particolare a quelli che siano
determinati da rappresaglia. La Cassazione ha quindi affermato il carattere generale
della disciplina del negozio giuridico a motivo illecito e determinante e della portata di
principio generale che, anche in conseguenza di ciò, ' concludono i giudici ' assume la
regola di cui all'art. 3 della legge 108/90.
Vincenzo Ferrante Fabio Ravelli
La normativa regionale non può abbassare l'età dell'obbligo scolastico intervenendo
a disciplinare apprendistato e formazione professionaleLa Corte Costituzionale
ha quindi accolto la questione di legittimità sollevata nei confronti della
legge regionale abruzzese nella parte in cui permetteva l'apprendistato qualificante
attraverso «formazione professionale esterna» all'azienda dopo il compimento del 15°
anno di età . Fissando questo limite anagrafico, ad avviso della Corte, la legge regionale
è uscita dal campo della formazione professionale (che le spetta) per invadere
quello delle «norme generali sull'istruzione», di competenza esclusiva della legislazione
statale. Di qui, la dichiarazione di illegittimità costituzione della normativa regionale
abruzzese.
Incarichi dirigenziali nelle amministrazioni regionali
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme impugnate
nella parte in cui dispongono gli stessi limiti,introdotti dalla Riforma Brunetta in
materia di assunzione di dirigenti esterni, anche alle amministrazioni regionali. Si tratta di
una normativa (che non riguarda né procedure concorsuali pubblicistiche per l'accesso al
pubblico impiego, né la scelta delle modalità di costituzione di quel rapporto giuridico)
riconducibile alla materia dell'ordinamento civile di cui all'art. 117, secondo comma, lettera
l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato
dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto
privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, cosà
come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico,
appartengono alla materia dell'ordinamento civile. Non sussiste, dunque, violazione
degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., perché la norma impugnata non attiene
a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) o residuale
regionale (organizzazione delle Regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti
locali), bensà alla materia dell'ordinamento civile di competenza esclusiva statale.
Sospensione attività imprenditoriale e obbligo di motivazione
I provvedimenti di sospensione dell'attività imprenditoriale devono sempre
essere motivati.La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato illegittima la norma impugnata,
per violazione degli artt. 24, 97, primo comma, e 113 Cost., nella parte in cui, stabilendo
che ai provvedimenti di sospensione dell'attività imprenditoriale ivi previsti non si
applicano le disposizioni di cui alla legge n. 241 del 1990, esclude l'applicazione ai medesimi
provvedimenti dell'art. 3, comma 1, della suddetta legge n. 241, concernente l'obbligo
di motivazione dei provvedimenti amministrativi. Premesso che tale obbligo è funzionale
alla conoscibilità e alla trasparenza dell'azione amministrativa e costituisce applicazione
dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'amministrazione, l'impugnata
disposizione elude i principi di pubblicità e di trasparenza dell'azione amministrativa,
pure affermati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il
valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e
buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri
interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa
amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.). Inoltre, essa vanifica l'esigenza di conoscibilità dell'azione
amministrativa (intrinseca ai medesimi principi di buon andamento e di imparzialità )
che si realizza proprio attraverso la motivazione, quale strumento volto a esternare le
ragioni e il procedimento logico seguiti dall'autorità amministrativa nell'adozione, in particolare,
di provvedimenti discrezionali e lesivi delle situazioni giuridiche del soggetto che
ne è destinatario.
Indennità di malattia per lavoratore in dialisi
Il Tribunale di Arezzo dubita, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della
Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 2110 del codice civilenella parte in cui limita a centottanta giorni all'anno il riconoscimento dell'indennità di
malattia a favore del lavoratore che si sottopone a dialisi. Il giudizio principale ha a
oggetto il ricorso proposto da una persona affetta da insufficienza renale contro
l'Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) e, in particolare, il diniego da esso
opposto al riconoscimento dell'indennità di malattia per i giorni eccedenti il limite
sopra indicato. Il limite in tal senso imposto dall'art. 2110 cod. civ. sarebbe, a parere
del remittente, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, in quanto prevede
una tutela attenuata per i lavoratori sottoposti a dialisi rispetto a quella garantita al
lavoratore in stato di infortunio o colpito da tubercolosi. Tale disciplina, oltre a essere
irrazionale e in contrasto con il principio di uguaglianza, non garantirebbe il rispetto
dei principi fissati dagli artt. 32 e 38 della Costituzione in ordine alla adeguatezza delle
cure e al sostegno economico che lo Stato deve garantire ai lavoratori in occasione
della malattia. La Corte Costituzionale, nel dichiarare la questione inammissibile, ha
sottolineato che l'art. 2110, primo comma, cod. civ. prevede che in caso di infortunio,
di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti
di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità
nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo
equità . Tale disposizione si limita a garantire, in caso di malattia del lavoratore, il
diritto al trattamento economico e alla conservazione del posto di lavoro nella misura
e nei tempi determinati dalla legge e dalle norme contrattuali. Essa, quindi, non determina
il termine massimo indennizzabile per i periodi di malattia dei lavoratori riservando
tale disciplina ad altre fonti legali, ai contratti collettivi, agli usi e all'equità . Il
Tribunale ha ricostruito il quadro normativo senza tener conto di tali ulteriori fonti
applicabili nel caso di specie quale il d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304, il quale in
caso di malattia pone a carico dell'allora Istituto nazionale per l'assicurazione contro
le malattie (Inam), al quale oggi è subentrato l'Inps, il pagamento della relativa indennità .
In particolare, l'art. 3 espressamente stabilisce che «L'indennità giornaliera di
malattia è dovuta a decorrere dal quarto giorno di malattia e per un periodo massimo
di 180 giorni in un anno». L'indicazione del periodo massimo indennizzabile è stata poi
ripresa dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del commercio,
dei servizi e del terziario, stipulato il 24 luglio 2004, che all'art. 104 prevede
che «Durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del
posto per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare [â?¦]», precisando il successivo
art. 105 (Trattamento economico di malattia) che «Durante il periodo di malattia,
previsto dall'articolo precedente, il lavoratore avrà diritto alle normali scadenze
dei periodi di paga [â?¦]». Il mancato esame da parte del remittente delle disposizioni
indicate e l'incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento compromettono
l'iter logico argomentativo posto a fondamento della sollevata censura e ne
determinano l'inammissibilità precludendone il giudizio.