6 / 2010
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Descrizione
Rilevanza costituzionale dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti di sospensione dell'attività imprenditoriale La Cassazione ribadisce la nullità del recesso per ritorsione in azienda "minidimensionale" Il Tribunale di Trieste sulla destituzione di autoferrotranviere e sull'applicabilità dello Statuto dei lavoratori
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La Cassazione ribadisce l’onere di contestare preventivamente la recidiva a un lavoratore
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Blocco perequazione pensioni
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Non è illegittimo prevedere, per l'anno 2008, il blocco della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo Inps.In relazione all'adeguatezza dei trattamenti di quiescenza alle esigenze di vita del lavoratore e della sua famiglia, la Corte Costituzionale ha infatti ritenuto che tale principio non impone un aggancio costante dei trattamenti pensionistici agli stipendi. Spetta, infatti, al legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali, dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, in proporzione alle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona, esigenze che il livello economico dei trattamenti previsti dalla norma impugnata non scalfisce, per i suoi effetti limitati al 2008. In questo caso dev'essere riconosciuta al legislatore ' all'interno di un disegno complessivo di razionalizzazione della precedente riforma previdenziale ' la libertà  di adottare misure, come quella denunciata, di concorso solidaristico al finanziamento di un riassetto progressivo delle pensioni di anzianità , onde riequilibrare il sistema a costo invariato. Né risulta violato il principio di eguaglianza, perché il blocco della perequazione automatica per l'anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori a un limite d'importo di sicura rilevanza, realizza un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste. La norma impugnata si sottrae, infine, a censure di palese irragionevolezza, perché, limitandosi a rallentare la dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo, non determina alcuna riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento. Dev'essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema a evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità , perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d'acquisto della moneta.
Il licenziamento intimato a fronte di rivendicazioni economiche configura un licenziamento ritorsivo
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dopo aver formulato alcune rivendicazioni economiche nei confronti del proprio datore di lavoro,un lavoratore veniva licenziato sulla base di un asserito giustificato motivo oggettivo. Il Tribunale di Bari adito al fine di impugnare il licenziamento, ritenuto il suo carattere ritorsivo, disponeva la reintegra del lavoratore nel posto di lavoro. La Corte di Appello territoriale, nel respingere il gravame della società  che deduceva il carattere minidimensionale dell'azienda riteneva sussistere un motivo illecito del recesso a base del licenziamento e confermava la decisione. L'azienda adiva la Cassazione rilevando che la Corte d'Appello non aveva considerato il livello occupazionale della società  e aveva applicato l'istituto della reintegra al di fuori dei casi tassativi previsti dalla legge. I giudici di legittimità  hanno respinto il ricorso richiamando il proprio orientamento in forza del quale la tutela reale deve essere riconosciuta anche ai licenziamenti nulli per motivo illecito determinante e in particolare a quelli che siano determinati da rappresaglia. La Cassazione ha quindi affermato il carattere generale della disciplina del negozio giuridico a motivo illecito e determinante e della portata di principio generale che, anche in conseguenza di ciò, ' concludono i giudici ' assume la regola di cui all'art. 3 della legge 108/90.
Vincenzo Ferrante Fabio Ravelli
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La normativa regionale non può abbassare l'età  dell'obbligo scolastico intervenendo a disciplinare apprendistato e formazione professionaleLa Corte Costituzionale ha quindi accolto la questione di legittimità  sollevata nei confronti della legge regionale abruzzese nella parte in cui permetteva l'apprendistato qualificante attraverso «formazione professionale esterna» all'azienda dopo il compimento del 15° anno di età . Fissando questo limite anagrafico, ad avviso della Corte, la legge regionale è uscita dal campo della formazione professionale (che le spetta) per invadere quello delle «norme generali sull'istruzione», di competenza esclusiva della legislazione statale. Di qui, la dichiarazione di illegittimità  costituzione della normativa regionale abruzzese.
Incarichi dirigenziali nelle amministrazioni regionali
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Non è fondata la questione di legittimità  costituzionale delle norme impugnate nella parte in cui dispongono gli stessi limiti,introdotti dalla Riforma Brunetta in materia di assunzione di dirigenti esterni, anche alle amministrazioni regionali. Si tratta di una normativa (che non riguarda né procedure concorsuali pubblicistiche per l'accesso al pubblico impiego, né la scelta delle modalità  di costituzione di quel rapporto giuridico) riconducibile alla materia dell'ordinamento civile di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., poiché il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni, disciplinato dalla normativa citata, si realizza mediante la stipulazione di un contratto di lavoro di diritto privato. Conseguentemente, la disciplina della fase costitutiva di tale contratto, cosà come quella del rapporto che sorge per effetto della conclusione di quel negozio giuridico, appartengono alla materia dell'ordinamento civile. Non sussiste, dunque, violazione degli artt. 117, terzo e quarto comma, e 119 Cost., perché la norma impugnata non attiene a materie di competenza concorrente (coordinamento della finanza pubblica) o residuale regionale (organizzazione delle Regioni e degli uffici regionali, organizzazione degli enti locali), bensà alla materia dell'ordinamento civile di competenza esclusiva statale.
Sospensione attività imprenditoriale e obbligo di motivazione
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I provvedimenti di sospensione dell'attività  imprenditoriale devono sempre essere motivati.La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato illegittima la norma impugnata, per violazione degli artt. 24, 97, primo comma, e 113 Cost., nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell'attività  imprenditoriale ivi previsti non si applicano le disposizioni di cui alla legge n. 241 del 1990, esclude l'applicazione ai medesimi provvedimenti dell'art. 3, comma 1, della suddetta legge n. 241, concernente l'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi. Premesso che tale obbligo è funzionale alla conoscibilità  e alla trasparenza dell'azione amministrativa e costituisce applicazione dei principi di buon andamento e di imparzialità  dell'amministrazione, l'impugnata disposizione elude i principi di pubblicità  e di trasparenza dell'azione amministrativa, pure affermati dall'art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità  e buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stessa amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.). Inoltre, essa vanifica l'esigenza di conoscibilità  dell'azione amministrativa (intrinseca ai medesimi principi di buon andamento e di imparzialità ) che si realizza proprio attraverso la motivazione, quale strumento volto a esternare le ragioni e il procedimento logico seguiti dall'autorità  amministrativa nell'adozione, in particolare, di provvedimenti discrezionali e lesivi delle situazioni giuridiche del soggetto che ne è destinatario.
Indennità di malattia per lavoratore in dialisi
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Il Tribunale di Arezzo dubita, in riferimento agli artt. 3, 32 e 38 della Costituzione, della legittimità  costituzionale dell'art. 2110 del codice civilenella parte in cui limita a centottanta giorni all'anno il riconoscimento dell'indennità  di malattia a favore del lavoratore che si sottopone a dialisi. Il giudizio principale ha a oggetto il ricorso proposto da una persona affetta da insufficienza renale contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) e, in particolare, il diniego da esso opposto al riconoscimento dell'indennità  di malattia per i giorni eccedenti il limite sopra indicato. Il limite in tal senso imposto dall'art. 2110 cod. civ. sarebbe, a parere del remittente, in contrasto con gli evocati parametri costituzionali, in quanto prevede una tutela attenuata per i lavoratori sottoposti a dialisi rispetto a quella garantita al lavoratore in stato di infortunio o colpito da tubercolosi. Tale disciplina, oltre a essere irrazionale e in contrasto con il principio di uguaglianza, non garantirebbe il rispetto dei principi fissati dagli artt. 32 e 38 della Costituzione in ordine alla adeguatezza delle cure e al sostegno economico che lo Stato deve garantire ai lavoratori in occasione della malattia. La Corte Costituzionale, nel dichiarare la questione inammissibile, ha sottolineato che l'art. 2110, primo comma, cod. civ. prevede che in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un'indennità  nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità . Tale disposizione si limita a garantire, in caso di malattia del lavoratore, il diritto al trattamento economico e alla conservazione del posto di lavoro nella misura e nei tempi determinati dalla legge e dalle norme contrattuali. Essa, quindi, non determina il termine massimo indennizzabile per i periodi di malattia dei lavoratori riservando tale disciplina ad altre fonti legali, ai contratti collettivi, agli usi e all'equità . Il Tribunale ha ricostruito il quadro normativo senza tener conto di tali ulteriori fonti applicabili nel caso di specie quale il d.lgs. C.p.S. 31 ottobre 1947, n. 1304, il quale in caso di malattia pone a carico dell'allora Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie (Inam), al quale oggi è subentrato l'Inps, il pagamento della relativa indennità . In particolare, l'art. 3 espressamente stabilisce che «L'indennità  giornaliera di malattia è dovuta a decorrere dal quarto giorno di malattia e per un periodo massimo di 180 giorni in un anno». L'indicazione del periodo massimo indennizzabile è stata poi ripresa dal contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da aziende del commercio, dei servizi e del terziario, stipulato il 24 luglio 2004, che all'art. 104 prevede che «Durante la malattia, il lavoratore non in prova ha diritto alla conservazione del posto per un periodo massimo di 180 giorni in un anno solare [â?¦]», precisando il successivo art. 105 (Trattamento economico di malattia) che «Durante il periodo di malattia, previsto dall'articolo precedente, il lavoratore avrà  diritto alle normali scadenze dei periodi di paga [â?¦]». Il mancato esame da parte del remittente delle disposizioni indicate e l'incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento compromettono l'iter logico argomentativo posto a fondamento della sollevata censura e ne determinano l'inammissibilità  precludendone il giudizio.
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