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Sulla scorta dei dati empirici raccolti da una ricerca condotta nel 2012 in 15 imprese appartenenti prevalentemente al settore automotive della provincia di Torino, l’articolo si pone la domanda di quali siano le caratteristiche di una politica formativa congruente con il modello della «produzione snella». Si constata che l’applicazione di questo nuovo modello produttivo comporta una profonda ridefinizione delle politiche formative. In proposito sono stati individuati sei principi caratterizzanti la politica formativa lean, la cui applicazione, però, varia significativamente in relazione al contesto aziendale. Le nuove politiche di formazione in parte conservano e in parte ridefiniscono i tradizionali dualismi della formazione continua. Il sistema di relazioni industriali sembra possedere potenzialmente la capacità di attenuare i vecchi e nuovi dualismi sociali, tuttavia, il sindacato sembra dotato di una modesta capacità propositiva e di iniziativa; nel contempo, sono molte le imprese che non ritengono, almeno in via di fatto, la negoziazione collettiva una risorsa del nuovo processo di razionalizzazione.
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Il saggio è incentrato sul «Manifesto per la promozione sociale e la diffusione dell’apprendimento della lingua e della cultura italiana nel mondo», promosso dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in concorso con la Cgil, la Flc Cgil, l’Inca Cgil, lo Spi Cgil e l’Associazione Proteo-Fare-Sapere. L’iniziativa si pone l’obiettivo di dare corpo a un progetto politico per il futuro della lingua italiana nel mondo, rinnovandone anche le fonti normative e legislative, e dunque promuovere una svolta profonda nella politica culturale del paese per la promozione e la diffusione della lingua, dell’arte e della cultura italiana all’estero. La proposta, infatti, si inserisce all’interno di una cornice più ampia, che presuppone la riconquista da parte della politica di una sua autonomia, anche culturale, nella prefigurazione del futuro dell’Italia e dell’Europa.
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Il saggio rappresenta un approfondimento specifico della mia tesi di laurea magistrale «Tra conflitti e diritti: saperi e lavoro nel pensiero di Bruno Trentin» (relatore Lorenzo Bertucelli, Unimore) e – attraverso un’analisi di carte personali e materiali di studio perlopiù inediti rinvenuti presso l’Archivio storico Cgil – concentra la sua attenzione sul ruolo avuto da Trentin nell’esperienza delle «150 ore per il diritto allo studio» durante la prima metà degli anni settanta. Le tracce di quella riflessione sono rinvenibili anche nell’elaborazione successiva di Trentin, fino agli anni duemila, e intrecciano i temi dell’istruzione e dell’informazione lungo l’intero arco della vita delle persone; l’originalità di Trentin sta nel credere che questa priorità – all’altezza della società postfordista, precarizzata e della conoscenza – possa rappresentare un potenziale di emancipazione concreta per la persona che lavora, riscoprendo quindi anche la tensione utopica che stava alla base delle 150 ore.
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Basato su interviste con i principali attori tedeschi e su un’analisi della letteratura, l’articolo analizza lo sviluppo recente dell’economia tedesca e la strategia tedesca nell’affrontare la crisi dell’eurozona. La Germania è uno stato commerciale (trading state), la cui crescita è fortemente trainata dalle esportazioni. Fino agli anni novanta, rigidità istituzionali forti, nel sistema di relazioni industriali e nel sistema di protezione sociale, contribuivano a conciliare lo sviluppo delle esportazioni con una crescita armonica dei consumi interni, contribuendo cosi a ingabbiare la «tigre» tedesca. A partire dagli anni novanta, sia le relazioni industriali sia la protezione sociale sono state fortemente liberalizzate, stimolando ulteriormente la competitività estera e indebolendo i consumi interni. Il modello economico tedesco, cosi come è venuto profilandosi negli ultimi dieci anni, è alla base delle politiche di austerità che la Germania impone all’Europa. Tali politiche sono fortemente condivise dai partiti politici, dagli attori sociali e dall’opinione pubblica, e le probabilità che la strategia tedesca cambi sono minime.
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La Legge di stabilità 2014-2016 elaborata dal governo italiano e approvata dal Parlamento è volta al rispetto dei vincoli previsti dai trattati europei, e non alla crescita del reddito e dell’occupazione. Ciò nonostante, la Commissione europea non ha ritenuto di dare «semaforo verde», in quanto il rientro dal debito non è garantito nel breve e nel medio periodo. La proposta governativa non viene giudicata soddisfacente dai tecnocrati europei perché non coerente con le politiche di rigore e di austerità espansiva, ma neppure soddisfa le parti sociali, che chiedono interventi non simbolici per la riduzione del cuneo fiscale, quindi per la crescita e l’occupazione. Ma siamo certi che impegnare tutte le risorse disponibili per la riduzione del cuneo sia la politica più adatta per far uscire il paese dalla crisi, in presenza di una trappola della produttività che caratterizza il nostro paese da venti anni?
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L’articolo esamina la crisi della rappresentanza politica e sindacale come esito del processo di corrosione delle identità collettive e delle istituzioni nelle quali quelle identità avevano preso forma. Mentre alla politica spetta – nel difficile equilibrio tra il locale e il globale – la costruzione di un nuovo spazio collettivo, democratico e aperto, nel quale il cittadino consapevole e informato possa prendere posizione sui temi in discussione, il sindacato è chiamato ad attuare uno sforzo serio di autoriforma e a rimettere al centro la sua autonomia e alterità rispetto al sistema politico, per sfuggire al pericoloso «slittamento nel politico». In conclusione viene analizzato il rapporto esistente tra rappresentanza e conflitto, sostenendo che la rappresentanza si costituisce nel conflitto, nello scontro tra opzioni alternative, come espressione di una diversità di interessi, di valori, di progetti, che costituisce il cuore della democrazia e la trama profonda di una società plurale e complessa.
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I processi di globalizzazione e integrazione sovranazionale hanno fortemente inciso sulla forma di Stato democratica. Il potere si radica sempre più in istituzioni transnazionali che sfuggono ai meccanismi di controllo nazionale. La crisi economica dell’ultimo quinquennio ha accelerato questo processo in nome di un diritto europeo della crisi incentrato sul principio di condizionalità (aiuti in cambio di austerity e riforme strutturali), affidato a un’inafferrabile sorveglianza multilaterale. Le sempre più forti resistenze a questo modello economico impongono di trovare una via per superare il deficit di sovranità sociale dell’Unione.
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Qual è il destino della rappresentanza democratica nel secolo che si annuncia come il «secolo antipolitico»? Siamo condannati ad assistere, come avviene da due decenni nel nostro paese, al continuo e inestricabile alternarsi di governi populisti e di governi tecnocratici? Il saggio prova a rispondere a questi interrogativi, analizzando, da una parte, quanto la crisi che ha investito nell’ultimo quinquennio l’Europa abbia ulteriormente logorato l’autorità delle tradizionali istituzioni della rappresentanza (partiti, parlamenti, sindacati), dall’altra, quali siano le chance di successo e le prospettive della risposta populista.
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Lo scritto mette in relazione il populismo sviluppatosi in Europa negli ultimi anni non solo con l’acuta crisi dei partiti politici, ma anche con la straordinaria mutazione della struttura psichica degli individui che è in corso nel mondo occidentale (la perversione del legame sociale). Definito il populismo come il rifiuto del fatto che in una democrazia, fondata sul principio della sovranità popolare, l’unico principio generatore della politica nazionale è il concorso/conflitto – come realmente si svolge tra le forze date – dei cittadini tra di loro e attraverso i partiti politici, e dunque che è estranea a tale principio la rappresentanza carismatica della bontà originaria del popolo, vengono ricondotti nell’alveo del populismo anche il neogiusnaturalismo e il costituzionalismo fondato sulla retorica dei diritti. Viene infine esaminato il possibile rapporto tra la critica al populismo e la «questione morale», intesa come superamento della distinzione/alterità, tipica del pensiero moderno, tra politica e morale.
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Tutti i soggetti di rappresentanza collettiva sono scossi da una diffusa insoddisfazione di stampo populista, ma anche dall’emergere di nuove reti di auto-organizzazione. Mentre si accentua la crisi sociale dei partiti, i sindacati sembrano in grado di fronteggiare meglio le nuove sfide. Nel caso italiano essi ottengono migliori risultati sul piano della membership, che si consolida nonostante la crisi economica. Essi si sono mostrati anche più sensibili ad allargare strumenti di democrazia, anche partecipativa, come dimostrano i recenti accordi interconfederali (2011-2014). Ma per essere all’altezza della situazione debbono diventare più efficaci sul terreno dell’offerta di rappresentanza per i settori crescenti e meno protetti del mercato del lavoro.