• Lo scopo di questo articolo è duplice: descrivere le principali novità stabilite dal decreto di riforma degli ammortizzatori sociali e, soprattutto, verificare, in termini qualitativi e con l’ausilio di alcune simulazioni su come cambiano in seguito alla riforma le tutele potenziali dei lavoratori dipendenti del settore privato, se la sostituzione di Aspi e Mini-Aspi con la Naspi aumenti le tutele a cui i lavoratori dipendenti avrebbero diritto in caso di licenziamento o se, al contrario, la riforma possa rivelarsi peggiorativa per alcuni lavoratori. A tal fine si guarderà a tutte le dimensioni attraverso cui si concreta uno schema di indennità di disoccupazione, ovvero, i requisiti di accesso, la durata di erogazione delle prestazioni e gli importi previsti come indennità e come contribuzione figurativa a fini pensionistici.
  • L’articolo esamina le recenti modifiche che lo schema di decreto legislativo emanato dal Governo il 20 febbraio 2015 in attuazione della legge n. 183/2014 (Jobs Act), intende apportare alla disciplina delle mansioni del lavoratore. Partendo dall’analisi legislativa e giurisprudenziale in materia, le autrici affrontano da un punto di vista di diritto costituzionale le implicazioni che le nuove norme sul demansionamento, abbinate a quelle sui licenziamenti, potrebbero avere sulla garanzia di diritti fondamentali dei lavoratori, quali il diritto alla salvaguardia della professionalità e alla conservazione del posto di lavoro, che sembrano destinati dalle nuove norme ad una tensione inconciliabile.
  • L’articolo analizza la disciplina dei licenziamenti introdotta, soltanto per i lavoratori nuovi assunti, dal decreto legislativo n. 23 del 2015, nell’ambito del cd. Jobs Act del Governo Renzi. Il saggio ricostruisce le linee di fondo del provvedimento e ne valuta l’impatto sulle relazioni di lavoro e sull’azione delle organizzazioni sindacali. Vengono anche evidenziati i possibili effetti critici del provvedimento, quali l’effetto sulle condizioni di concorrenza tra le imprese, soprattutto in alcuni settori economici, e sulla spinta delle imprese a sostituire il personale già in servizio con lavoratori più giovani e meno costosi. L’autore delinea infine i terreni sui quali la contrattazione collettiva potrebbe temperare gli aspetti socialmente ed economicamente negativi della nuova disciplina legale.
  • Lo scopo di questo articolo è descrivere i contenuti della norma che ha previsto la fiscalizzazione per un triennio dei contributi a carico del lavoro sui contratti a tempo indeterminato stipulati nel corso del 2015 e valutare, da un lato, i possibili effetti di tale norma sulle convenienze delle imprese a sostituire contratti a termine con contratti a tutele crescenti e, dall’altro, i possibili oneri per il bilancio pubblico derivanti dalla concessione degli sgravi contributivi.
  • L’Italia soffre da ormai due decenni di mancanza di crescita. Il deterioramento della sua economia si è accentuato drammaticamente dal 2008 con lo scoppio della crisi finanziaria internazionale, divenuta nei paesi europei una crisi di domanda aggregata. La dinamica negativa degli investimenti, della produttività, del progresso tecnologico alimenta la trappola della produttività, che né ulteriori riforme del mercato del lavoro né tagli del cuneo fiscale sul costo del lavoro possono interrompere. La via di uscita piuttosto potrà trovarsi solo nel ribaltamento dell’attuale modello di sviluppo, che riporti al centro del processo produttivo la conoscenza, gli investimenti e il lavoro, di qualità e duraturo. Ma ciò non può avvenire che nel coordinato consesso europeo di una rinnovata politica industriale.
  • L’articolo analizza il ruolo giocato dall’istruzione di lavoratori e imprenditori nel condizionare (promuovere) diverse dimensioni della qualità del lavoro. Le analisi empiriche sono sviluppate sulla base dei dati della Rilevazione sulle imprese e sui lavoratori (Ril) condotta dall’Isfol per il 2010 e permettono di evidenziare i seguenti risultati. Primo, il livello di istruzione degli imprenditori è un fattore fondamentale per favorire gli investimenti in formazione professionale, l’adozione della contrattazione integrativa sui salari e l’occupazione con contratti a tempo indeterminato. Secondo, il livello di istruzione dei lavoratori è positivamente correlato alla propensione delle imprese a effettuare investimenti formativi, ma non costituisce un freno all’uso dei contratti a temine né agevola l’adozione della contrattazione integrativa sui salari. Tali risultati mettono in luce come il capitale umano dei datori di lavoro costituisca un elemento critico per aumentare la qualità del lavoro e, quindi, per la crescita economica e sociale del paese.
  • Il Mezzogiorno d’Italia è nel pieno di un declino economico e non solo economico che ha caratteristiche sue proprie e si somma a quello generale del paese. Il divario tra Nord e Sud aumenta e si ripropone una «questione meridionale» peraltro mai risolta, che ha caratteristiche nuove rispetto al passato. Oggi la «questione meridionale» è, soprattutto, una «questione cognitiva»: pochi i giovani meridionali che si laureano, molti i giovani laureati meridionali che vanno via, poche le aziende che nel Mezzogiorno producono beni e/o servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Inoltre, quella meridionale è una «questione dimenticata». La cui soluzione prevede una nuova consapevolezza e la necessità di entrare finalmente nella società e nell’economia della conoscenza.
  • L’articolo esamina l’attuale crisi economica del nostro paese che comprende, oltre agli effetti della crisi internazionale, anche quelli, ben precedenti, di una specifica debolezza. S’intende proporre una interpretazione di questo declino alternativa a quelle correnti che non rispondono a un corretto criterio di ricostruzione storica. A questo fine sono individuate nelle modificazioni intervenute nei fattori della competitività internazionale e nella nostra mancata risposta strutturale le cause determinanti del nostro crescente divario. Le prevalenti politiche liberiste adottate non consentono di introdurre le necessarie modificazioni strutturali, lasciando così inalterate le cause della nostra crisi. Nella politica industriale questa posizione si traduce in interventi che, nella migliore delle ipotesi, tende ad accrescere una competitività di costo, mentre la questione è quella dello sviluppo di una competitività di qualità. Anche gli effetti di trascinamento dovuti all’azione della crescita internazionale o a interventi sul cambio euro/dollaro, non sono in grado, evidentemente, di eliminare il divario con gli altri paesi dell’Unione europea e i conseguenti effetti sociali.
  • Il saggio analizza le trasformazioni del sistema industriale europeo, specificatamente la nascita di un sistema industriale integrato organizzato per sistemi di reti di imprese, e come questo ha reagito alla crisi globale. Il saggio evidenzia le ricadute sociali ed economiche di tale processo e la conseguente necessità di un deciso intervento pubblico di innovazione e organizzazione del sistema industriale, sulla base di una discussione pubblica e democratica che riveda criticamente che cosa produrre, come produrlo e per chi.
  • L’articolo argomenta la necessità di una politica industriale in Europa a partire da un’analisi della competitività e delle dinamiche occupazionali nei diversi paesi membri dell’Unione. La prima parte è dedicata agli effetti della crisi sulla struttura occupazionale. Il processo di polarizzazione in corso tra le diverse categorie professionali viene descritto in modo dettagliato, evidenziando l’accelerazione subita dal medesimo processo a seguito della recessione. Nella seconda parte l’attenzione è posta sulla capacità competitiva delle industrie europee. Qui viene messa in luce la discrasia tra le evidenze empiriche raccolte e le proposte di politica economica della Commissione europea in materia di competitività. Quest’ultima si è concentrata prevalentemente sugli stimoli alla «competitività di prezzo», allo scopo di favorire le esportazioni sui mercati esteri. Tale impostazione, tuttavia, risulta essere poco convincente. La letteratura e i dati empirici presentati sembrano altresì suggerire la necessità di un sostegno alla «competitività tecnologica», intesa come qualità e livello tecnologico dei prodotti. In ultimo, si conclude presentando una proposta di politica industriale europea capace di favorire il cambiamento strutturale verso attività legate alla sostenibilità ambientale, alle applicazioni delle Ict e ai sistemi sanitari e di welfare.
  • Prendendo spunto dal volume di Mazzucato (2014 [2013]) e dal suo riferimento all’«ecosistema» dell’innovazione, il presente contributo propone un nuovo modo di pensare all’intervento statale nel caso delle attività innovative. Il concetto di Sistema nazionale di innovazione è qui analizzato, tra i più recenti schemi teorici che si occupano di Stato e delle sue politiche innovative. Si evidenziano le criticità di questo approccio, legate alla sua impostazione normativa fortemente influenzata dalla supply-side economics (economia dal lato dell’offerta). Si tratta di un approccio che Mazzucato aiuta a criticare, in quanto si limita ad aggiustare i fallimenti di mercato e/o garantire un ambiente friendly all’interno del quale le imprese possano innovare. Ci si deve invece muovere verso uno Stato innovatore di prima istanza.
  • I cambiamenti nella protezione sociale degli ultimi venticinque anni hanno ampliato il ruolo dei sistemi di welfare locale, con l’assegnazione ai livelli decentrati di maggiori e più complesse competenze, non sempre accompagnate da un corrispondente accesso alle risorse finanziarie necessarie per un’adeguata offerta di servizi. Diverse analisi hanno cercato di dare spiegazioni plausibili a questo processo. Negli approcci economici hanno prevalso le ragioni che sottostanno alle teorie del federalismo fiscale, mentre i sociologi hanno più insistito sull’adattabilità dell’offerta di servizi di welfare locale, pubblici e privati, come risposta a una domanda di protezione sociale più diversificata e frammentata che caratterizza il periodo post fordista. Alcune analisi politologiche, rilevando la crescente ibridazione degli originali modelli di welfare, sostengono che l’importanza dei livelli locali non è ascrivibile a un particolare modello, ma ha le sue radici in fenomeni culturali e nelle vicende storico politiche che hanno configurato le istituzioni della democrazia e le forme di partecipazione in ogni paese. La crisi di questi ultimi anni ha messo a dura prova i sistemi di welfare locale che si sono trovati nella morsa di una domanda di protezione crescente, in presenza di vincoli finanziari molto più stringenti. Di conseguenza, hanno dato avvio a una serie di sperimentazioni nelle forme di intervento, in cui si è andato ampliando il peso dei soggetti non pubblici, mentre la funzione dell’amministrazione locale si è andata trasformando da un ruolo di governo a un compito di governance. All’analisi di queste trasformazioni è dedicata la sezione monografica del fascicolo, che mette in luce una serie di aspetti particolarmente interessanti, riassunti nella seconda parte di questa nota introduttiva.
  • L’articolo si sofferma sulle ragioni della mancata realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, perlomeno non in forma omogenea nei diversi territori del paese come a suo tempo previsto dalla legge quadro di settore, la 328 del 2000. All’origine di tale insuccesso si identifica l’estrema eterogeneità nella spesa sociale territoriale – forse non nota ai tempi del varo della riforma, perlomeno non nelle dimensioni successivamente rilevate dall’Istat – associata a un impianto normativo fortemente improntato al decentramento amministrativo, vieppiù rafforzato dalla (immediatamente successiva) riforma del Titolo V della Costituzione, che ha ricondotto la materia delle politiche sociali alla esclusiva competenza regionale. La previsione costituzionale (e della 328) di garanzia dell’uniformità nell’esercizio dei diritti sociali nei diversi territori sulla base della definizione di livelli essenziali delle prestazioni non sembra esser stata felice, anche perché di difficile attuazione – come la storia recente ha dimostrato – a fronte di una spesa sociale territoriale non solo estremamente eterogenea, ma anche prevalentemente finanziata a livello locale e con ammontare del finanziamento nazionale non ancorato a scelte di programmazione (competenza esclusiva regionale), ma a mere esigenze complessive di finanza pubblica. Alcuni segnali di cambiamento sono però riscontrabili: dalla discussione parlamentare di riforma della Costituzione ai processi di riforma sull’«infrastruttura» del sistema (riforma dell’Isee e varo del Sistema informativo dei servizi sociali), dall’attenzione al sociale che è stata posta nella programmazione dei fondi strutturali comunitari nel settennio 2014-2020, con la proposta del governo di un «Programma operativo nazionale per l’inclusione sociale», alla scelta dell’ultima Legge di stabilità di rendere strutturale il finanziamento – per quanto ancora lontano, in termini quantitativi, dalle necessità del sistema – del Fondo per le politiche sociali e del Fondo per le non autosufficienze.
  • A fronte della crescente complessità di bisogni e rischi sociali e della contrazione delle risorse disponibili, gli enti locali, sebbene con profonde differenze, hanno intrapreso interessanti percorsi di innovazione sociale che stanno ridisegnando le strutture del welfare locale e il concetto stesso di «politica pubblica». In queste sperimentazioni, ricomprese nello schema del secondo welfare, gli enti locali diventano promotori di reti e attivatori delle risorse presenti sui territori, mantenendo il ruolo di garanti dei diritti sociali in ultima istanza. Il modello che ne deriva non è però immune a rischi, a cominciare da un’accentuazione delle disparità territoriali, e richiede adeguati investimenti e politiche di supporto.
  • La crisi economica e il periodo di austerità che ne è derivato hanno profondamente cambiato il volto del sistema di welfare italiano. A causa dei tagli alla spesa sociale e a fronte dell’aumento dei rischi e dei bisogni, il settore pubblico appare, infatti, incapace di rispondere in modo efficace alle crescenti richieste provenienti dai cittadini. L’analisi tiene conto di questo scenario per interrogarsi su quali scelte possano essere intraprese per il rilancio del welfare e insieme del sistema economico, ma più nello specifico per comprendere quali prospettive di sviluppo ci siano per nuove forme di tutela dentro le aziende. Forme di tutela che non solo abbiano delle forti ricadute sui territori ma che vedano coinvolti i territori stessi e la comunità che li abita. A questo fine l’articolo, dopo aver analizzato il contesto tra crisi economico-finanziaria e nuovi bisogni, si interroga sul ruolo delle imprese nel processo di rinnovamento del welfare state e sulle potenzialità di sviluppo del welfare aziendale e contrattuale tra le piccole e medie imprese. Vengono inoltre approfonditi una serie di casi che si sono sviluppati grazie alla costituzione di reti multi-stakeholder in cui diversi attori, in modo sinergico, sembrano collaborare per offrire non solo ai lavoratori ma a una platea ampia di beneficiari nuovi strumenti e forme di sostegno per fronteggiare le nuove forme di vulnerabilità.
  • I progetti sociali hanno spesso l’obiettivo di sviluppare la coesione e l’innovazione sociale nelle comunità locali. Le attività implementate in questo ambito sono particolarmente eterogene per modalità di realizzazione e per risultati ottenuti. A partire dall’esperienza di un bando sul tema della coesione sociale lanciato nel 2008 e terminato nel 2012 dalla Fondazione Cariplo di Milano, finanziando 13 progetti in altrettanti comunità locali, l’articolo discute le «buone pratiche» emergenti dallo studio di caso. L’articolo discute anche di alcuni tratti salienti, riscontrati trasversalmente tra diversi interventi, che appaiono rilevanti per il buon esito degli stessi nel raggiungere gli obiettivi prefissati. Seppur le conclusioni non possano essere, evidentemente, generalizzabili, esse forniscono diverse indicazioni utili alle istituzioni pubbliche, alle fondazioni e agli enti impegnati con azioni su questo tema.
  • La questione dell’abitare in Italia si presenta come una componente fondamentale delle politiche redistributive e, in molti casi, si intreccia con la lotta per la legalità e il rispetto delle regole. Rispecchia insomma sia la cattiva distribuzione della ricchezza sia il mal funzionamento del nostro sistema di protezione sociale, ed è spesso anche fattore scatenante di conflitti tra poveri. Ancora oggi la politica del governo in materia abitativa è quella del Piano Casa varato dal Governo Berlusconi nell’ormai lontano 2008. Dopo sette anni il cosiddetto Piano nazionale di edilizia sociale è ai blocchi di partenza. Il problema, in Italia, dove si continua a costruire al ritmo di 150 mila unità abitative ogni anno, non è di quantità ma riguarda l’accessibilità a un alloggio. Le misure di carattere ediliziourbanistico servono a poco, se non si sposta il baricentro del mercato dalla proprietà all’affitto. Occorre una risposta efficace a una domanda abitativa nuova per tipologia, dimensione, servizi richiesti e, soprattutto, per livelli di canone compatibili col reddito dei cittadini. In questo contesto diventa urgente la revisione della l. 431/1998 (la legge sugli affitti), la riforma degli ex Iacp (gli enti di gestione delle case popolari), la costituzione di un sistema territoriale di Agenzie per la casa, la sperimentazione e la costruzione di un welfare locale legato ai bisogni dell’abitare.
  • Il sindacato, a tutti i livelli, è chiamato a una nuova e più diffusa capacità di analisi degli avvenimenti sociali, economici, politici, e a costruire intorno alla sua proposta di società, di innovazione sociale e di sviluppo una ricca rete di relazioni. È necessario un coinvolgimento ancora più forte e profondo perché, attraverso l’impegno negoziale e l’alimentazione dei processi partecipativi, si contribuisca a favorire anche la diffusione del potere (anche di genere), anziché la sua concentrazione, si costruiscano rapporti di solidarietà orizzontale, si aumenti la consapevolezza dei propri diritti e delle proprie responsabilità, si rovesci, insomma, la piramide decisionale e si riparta veramente dalla centralità della persona/cittadino, dai suoi bisogni ma anche dalla valorizzazione delle sue competenze, dei suoi saperi.
  • Contrariamente a quanto previsto negli anni novanta, la popolazione residente in Italia non è in calo ma in crescita, anche se rimane il problema dell’invecchiamento. Le previsioni demografiche dell’epoca tendevano a sottostimare la natalità, la longevità e, soprattutto, i flussi migratori, rivelatisi molto più alti di quelli inizialmente previsti. Anche se gli istituti che producono le previsioni demografiche, Istat ed Eurostat in primo luogo, ne evidenziano sempre l’incertezza e affiancano scenari alternativi a quello centrale, per molto tempo gli scenari centrali delle previsioni sono stati gli unici considerati nel dibattito sulle riforme pensionistiche e del welfare a livello nazionale ed europeo. Questo ha fatto sì che si siano individuati problemi e realizzati interventi molto costosi socialmente sulla base di scenari rivelatisi ex post lontani dalla realtà. In particolare, la dinamica della spesa pensionistica e la sua «gobba», che tanta attenzione ha catturato nel dibattito sulle riforme, sarebbero risultate diverse con ipotesi sui saldi migratori più aderenti alla realtà. Da questo punto di vista, il fatto che ancora oggi la spesa pensionistica presenti elementi di criticità non va attribuito a problemi legati all’andamento demografico, bensì, piuttosto, all’insoddisfacente andamento economico e occupazionale.
  • L’articolo richiama l’analisi di Minsky, dalla interpretazione di Keynes alla teoria delle crisi e del money manager capitalism, e la proposta di considerare lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, sottolineando in particolare la severità dei controlli sul lavoro necessari in questo caso come nel caso dell’esercito del lavoro di Ernesto Rossi.
  • La rilevanza del contributo di Minsky per la comprensione della dinamica del capitalismo dei suoi e dei nostri tempi – di quel Wall Street capitalism dalle ormai consolidate dimensioni globali – è ampiamente nota. Tuttavia gli interventi di Minsky raccolti in Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, tradotto e pubblicato dalla Ediesse (2014), affrontano una questione, come combattere la disoccupazione, che sembra distaccarsi dai temi a lui più propri; ma è un’impressione erronea poiché instabilità finanziaria e carenza occupazionale sono questioni tra loro strettamente connesse. La rilettura dei suoi saggi e il confronto tra la sua realtà e quella odierna stimolano un’opportuna riflessione sulla possibilità che la sua proposta per una piena occupazione «in senso stretto» costituisca uno strumento di una «politica per il lavoro» dei nostri giorni.
  • Il contributo introduce la discussione sul libro di Pennacchi (2015) che si caratterizza per il proficuo intreccio tra discipline differenti: economia, filosofia, antropologia, sociologia. Un rapporto quello tra etica ed economia fondamentale per costruire un «nuovo modello di sviluppo» e mostrare che il soggetto non è homo oeconomicus. Dopo una lunga stagione di «disincanto», è possibile dare vita a un nuovo «reincantamento», riarticolando un discorso neoumanistico sui «fini» e liberando il pathos sottostante a una nuova apertura affettiva verso il mondo. Resta da chiedersi quale sinistra abbia la cultura politica in grado di farlo. Una sinistra di massa, fondata su una critica al capitalismo contemporaneo, che ne persegue la riforma radicale ma su una scala sovranazionale e mondiale.
  • L’analisi, dopo aver ricordato brevemente le conseguenze negative provocate nelle ultime decadi dall’affermarsi del paradigma neoliberista, e in particolare la mercificazione che si è impadronita della vita economica e sociale e il restringimento dello spazio dello «Stato di diritto» e della sfera pubblica in generale, si concentra sulla concezione che il neoliberismo ha del «soggetto» dell’azione economica. Nel delineare poi i tratti di un nuovo modello di sviluppo da contrapporre a quello neoliberista, si evidenzia la necessità invocata da Pennacchi di una «mutazione antropologica» della società, in direzione di un ritorno a un soggetto dell’azione integro nei suoi valori. A riguardo il contributo chiude sull’integrazione che la sociologia può suggerire all’economia mainstream.