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Il contributo propone una riflessione su alcuni recenti importanti mutamenti del quadro economico-sociale e sulla loro incidenza sul sistema di regole, introdotto dalla normativa sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. In particolare, l’esigenza di regole certe in materia di rappresentatività sindacale per un efficace governo del conflitto, a opera dell’autonomia collettiva, in relazione al recente Testo Unico sulla rappresentanza, siglato lo scorso gennaio; nonché le prospettive di concertazione e composizione del conflitto, con la mediazione dell’Autorità di garanzia, alla luce delle attuali maggiori cause di insorgenza. Viene riproposta, altresì, una riflessione sulla possibile regolamentazione dello sciopero nei servizi in ambito trans-nazionale.
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Da uno dei più influenti studiosi nel campo della political economy, che nel corso della sua carriera ha fornito analisi sofisticate del ruolo delle istituzioni nel differente funzionamento delle economie avanzate, viene ora il tentativo più importante e sistematico di spiegare la crisi economica recente come il prodotto degli elementi costitutivi di un’economia capitalistica e delle sue contraddizioni interne. Nel libro Tempo guadagnato Streeck riscopre l’importanza delle analisi longitudinali del capitalismo, cioè dell’enfasi sulle tendenze storiche comuni a tutte le economie avanzate, piuttosto che sulle «varietà» dei loro attuali assetti istituzionali. La sua analisi è convincente quando discute i diversi stadi attraverso cui la crisi si è manifestata: l’inflazione degli anni settanta, il debito pubblico degli anni ottanta, infine l’esplosione dell’indebitamento privato negli anni duemila. Lo è di meno quando interpreta questi sviluppi come l’esito di una strategia consapevole dei capitalisti, o dei governi che li sostengono, di «guadagnare tempo», rinviando gli effetti della crisi. Nel porre l’accento esclusivamente sulle conseguenze deleterie della vittoria dell’ideologia neo-liberista del libero mercato, Streeck sottovaluta fortemente la legittimazione che a questa ideologia e al predominio delle sue ricette è venuta dagli effetti perversi prodotti a sua volta dal welfare state keynesiano, che aveva dominato nel periodo precedente.
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Tempo guadagnato di Wolfgang Streeck è un importante contributo alla nostra comprensione della crisi dei debiti sovrani europei e del funzionamento della democrazia europea contemporanea. Non a caso è uno dei libri più discussi degli ultimi due anni, in un dibattito che ha visto anche il coinvolgimento diretto di Jürgen Habermas. Streeck sottolinea come l’abbandono da parte del capitale del patto sociale fordista sia andato di pari passo a uno svuotamento delle democrazie europee, gestito tramite la delega di importanti fette di sovranità nazionale alle istituzioni dell’Unione Europea. Gli alti debiti sovrani sarebbero il risultato di un mancato controllo pubblico sulla finanza e di un fallimento nell’evitare l’aumento delle disuguaglianze economiche attraverso la tassazione. Tuttavia le tesi di Streeck non tengono conto degli eccessi della spesa pubblica nei paesi maggiormente indebitati. Inoltre, l’assenza dalla sua riflessione del ruolo di un attore storicamente importante come il sindacato porta a interrogarsi su quali siano gli errori passati del sindacalismo e quale possa essere il suo posto nella società odierna.
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Richiamandosi al rapporto redatto da Silvana Sciarra, Maximilian Fuchs e André Sobczak, la Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha adottato una risoluzione in cui ha fatto propria la proposta di un quadro giuridico opzionale in materia di contratti collettivi transnazionali d’impresa. Nella sua introduzione a entrambi i documenti, Stefano Giubboni sintetizza le ragioni che militano in favore di una tale ipotesi di riscoperta della legislazione promozionale a livello europeo.
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Questo Rapporto si occupa principalmente del diritto dell’Unione Europea, cercando di offrire prospettive giuridiche alla questione controversa degli accordi transnazionali d’impresa (Tca, Transnational company agreements), così da suggerire un quadro giuridico opzionale entro cui collocare gli accordi applicabili all’interno dei confini dell’Unione. Al fine di ampliare l’orizzonte del nostro lavoro, e con esso le possibili scelte legislative da operare, saranno proposti alcuni riferimenti anche a fonti di diritto internazionale. Il metodo suggerito è collegato al fatto che i Tca sono firmati da imprese transnazionali, e che queste operano sia nell’Unione sia al di fuori di essa.
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Sulla scorta dei dati empirici raccolti da una ricerca condotta nel 2012 in 15 imprese appartenenti prevalentemente al settore automotive della provincia di Torino, l’articolo si pone la domanda di quali siano le caratteristiche di una politica formativa congruente con il modello della «produzione snella». Si constata che l’applicazione di questo nuovo modello produttivo comporta una profonda ridefinizione delle politiche formative. In proposito sono stati individuati sei principi caratterizzanti la politica formativa lean, la cui applicazione, però, varia significativamente in relazione al contesto aziendale. Le nuove politiche di formazione in parte conservano e in parte ridefiniscono i tradizionali dualismi della formazione continua. Il sistema di relazioni industriali sembra possedere potenzialmente la capacità di attenuare i vecchi e nuovi dualismi sociali, tuttavia, il sindacato sembra dotato di una modesta capacità propositiva e di iniziativa; nel contempo, sono molte le imprese che non ritengono, almeno in via di fatto, la negoziazione collettiva una risorsa del nuovo processo di razionalizzazione.
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Il saggio è incentrato sul «Manifesto per la promozione sociale e la diffusione dell’apprendimento della lingua e della cultura italiana nel mondo», promosso dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio, in concorso con la Cgil, la Flc Cgil, l’Inca Cgil, lo Spi Cgil e l’Associazione Proteo-Fare-Sapere. L’iniziativa si pone l’obiettivo di dare corpo a un progetto politico per il futuro della lingua italiana nel mondo, rinnovandone anche le fonti normative e legislative, e dunque promuovere una svolta profonda nella politica culturale del paese per la promozione e la diffusione della lingua, dell’arte e della cultura italiana all’estero. La proposta, infatti, si inserisce all’interno di una cornice più ampia, che presuppone la riconquista da parte della politica di una sua autonomia, anche culturale, nella prefigurazione del futuro dell’Italia e dell’Europa.
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Il saggio rappresenta un approfondimento specifico della mia tesi di laurea magistrale «Tra conflitti e diritti: saperi e lavoro nel pensiero di Bruno Trentin» (relatore Lorenzo Bertucelli, Unimore) e – attraverso un’analisi di carte personali e materiali di studio perlopiù inediti rinvenuti presso l’Archivio storico Cgil – concentra la sua attenzione sul ruolo avuto da Trentin nell’esperienza delle «150 ore per il diritto allo studio» durante la prima metà degli anni settanta. Le tracce di quella riflessione sono rinvenibili anche nell’elaborazione successiva di Trentin, fino agli anni duemila, e intrecciano i temi dell’istruzione e dell’informazione lungo l’intero arco della vita delle persone; l’originalità di Trentin sta nel credere che questa priorità – all’altezza della società postfordista, precarizzata e della conoscenza – possa rappresentare un potenziale di emancipazione concreta per la persona che lavora, riscoprendo quindi anche la tensione utopica che stava alla base delle 150 ore.
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Basato su interviste con i principali attori tedeschi e su un’analisi della letteratura, l’articolo analizza lo sviluppo recente dell’economia tedesca e la strategia tedesca nell’affrontare la crisi dell’eurozona. La Germania è uno stato commerciale (trading state), la cui crescita è fortemente trainata dalle esportazioni. Fino agli anni novanta, rigidità istituzionali forti, nel sistema di relazioni industriali e nel sistema di protezione sociale, contribuivano a conciliare lo sviluppo delle esportazioni con una crescita armonica dei consumi interni, contribuendo cosi a ingabbiare la «tigre» tedesca. A partire dagli anni novanta, sia le relazioni industriali sia la protezione sociale sono state fortemente liberalizzate, stimolando ulteriormente la competitività estera e indebolendo i consumi interni. Il modello economico tedesco, cosi come è venuto profilandosi negli ultimi dieci anni, è alla base delle politiche di austerità che la Germania impone all’Europa. Tali politiche sono fortemente condivise dai partiti politici, dagli attori sociali e dall’opinione pubblica, e le probabilità che la strategia tedesca cambi sono minime.
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La Legge di stabilità 2014-2016 elaborata dal governo italiano e approvata dal Parlamento è volta al rispetto dei vincoli previsti dai trattati europei, e non alla crescita del reddito e dell’occupazione. Ciò nonostante, la Commissione europea non ha ritenuto di dare «semaforo verde», in quanto il rientro dal debito non è garantito nel breve e nel medio periodo. La proposta governativa non viene giudicata soddisfacente dai tecnocrati europei perché non coerente con le politiche di rigore e di austerità espansiva, ma neppure soddisfa le parti sociali, che chiedono interventi non simbolici per la riduzione del cuneo fiscale, quindi per la crescita e l’occupazione. Ma siamo certi che impegnare tutte le risorse disponibili per la riduzione del cuneo sia la politica più adatta per far uscire il paese dalla crisi, in presenza di una trappola della produttività che caratterizza il nostro paese da venti anni?