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Il reddito minimo come strumento di intervento su diseguaglianza, povertà, frammentazione del mercato del lavoro
Il reddito minimo (o di cittadinanza) è un’idea di politica di sostegno del reddito che può assumere la veste universale di un’erogazione di welfare con effetti redistributivi oppure essere concepita come strumento di lotta alla povertà o infine come strumento di garanzia di fronte al crescente impoverimento e alla frammentazione di ampi segmenti del mercato del lavoro. Tranne Grecia e Italia tutti i paesi della Ue hanno avviato politiche di sostegno universale del reddito, ma quasi tutte sono condizionate da politiche attive per l’inserimento sul mercato del lavoro. In Italia l’esperimento del Reddito minimo di inserimento (1998) è stato abbandonato ma si è allargata la platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali e dei sussidi di disoccupazione. A livello regionale e comunale le esperienze sono ancora circoscritte e dipendono dalle risorse disponibili, però confermano l’esistenza del desiderio di esplorare questa strada.
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Quanto è locale il welfare locale? Spunti per lo studio comparato della territorializzazione del welfare italiano
L’attenzione sulla regionalizzazione del welfare, specie in Italia, ha portato alla costruzione di diverse tipologie di welfare locale, che spesso vengono lette come forme «bonsai» dei regimi di welfare à la Esping-Andersen. Tramite una contestualizzazione sulla ristrutturazione dei rapporti territoriali nel welfare e un’analisi della letteratura italiana e internazionale dell’ultimo decennio sulla regionalizzazione del welfare, questo articolo intende evidenziare le criticità emergenti nella classificazione dei welfare regionali in Italia. In particolare, si noterà come un’inadeguata considerazione del frame nazionale nello strutturare la variazione locale costituisca una carenza significativa. L’articolo si conclude proponendo un’agenda di ricerca che, considerando la dimensione scalare, congiunga comparazione intranazionale e internazionale per contestualizzare il «regime di decentramento» italiano.
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Differenze di governance e disuguaglianze istituzionali nelle politiche di long-term care
La crisi economica finanziaria con le relative politiche di austerity ha acuito i processi di differenziazione regionale delle politiche sociali e sanitarie. Focalizzandosi sulle politiche di long-term care, lo studio analizza le esperienze di governance regionali attraverso l’esame dei piani di programmazione regionale di Veneto, Emilia-Romagna e Marche. Le regioni presentano contesti regolativi molto eterogenei, caratterizzati da differenti livelli di integrazione tra le varie politiche di welfare, ma anche tra i servizi territoriali all’interno delle stesse aree di intervento, e di integrazione tra cure formali offerte dai servizi e cure informali della famiglia. Differenze nelle esperienze di governance dell’integrazione nelle politiche di long-term care si trasformano in disuguaglianze istituzionali nelle risposte ad analoghi bisogni.
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Migranti e cittadinanza al tempo delle crisi globali
Il lavoro ha come oggetto il tema dell’immigrazione a partire dalla più ampia problematica della cittadinanza, nelle sue diverse concezioni: giuridica, culturale, democratica. Il processo di inclusione degli immigrati viene inserito nella cornice delle diverse crisi – non solo quella economica e finanziaria – che segnano il mondo globale. Dopo un’analisi dei fenomeni migratori e delle procedure di acquisizione della cittadinanza in alcuni paesi europei, l’articolo si focalizza sul caso nazionale. Attraverso serie storiche di inchieste campionarie viene studiata la percezione dello «straniero», chiedendosi se la fase di crisi economica abbia minato le basi culturali e di atteggiamento del processo di inclusione in Italia. Nelle considerazioni conclusive si sottolinea la necessità di governare, attraverso politiche adeguate e lungimiranti, la questione dell’immigrazione e la più ampia tematica della cittadinanza alle quali si intrecciano gli andamenti dell’opinione pubblica. Le crisi della democrazia rappresentativa, dell’economia e della finanza, insieme alle implicazioni della società del rischio, definiscono lo scenario nel quale si inseriscono queste dinamiche.
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Ascesa e declino del benessere sostenibile in Italia, 1960-2013
Questo articolo presenta un nuovo indicatore alternativo al Pil – l’Indice di benessere sostenibile (Ibs) – una versione modificata dell’Isew sviluppato da Daly e Cobb (1989). Si propone una misura sintetica di flussi che approssima in termini monetari il livello di benessere aggregato, inglobando i principali aspetti economici, ambientali e sociali in un’ottica di sostenibilità. Calcolato per l’Italia per il periodo 1960-2013, l’Ibs descrive l’ascesa e il declino del benessere sostenibile nazionale. I risultati empirici mostrano che nelle prime tre decadi il Pil pro-capite e l’Ibs pro-capite sono cresciuti in parallelo. Laddove il primo ha continuato a crescere fino al 2007, l’Ibs pro-capite ha raggiunto il picco massimo nel 1991, dopo si è stabilizzato con alcune oscillazioni rilevanti e infine dall’inizio della crisi economicofinanziaria del 2008 è diminuito in maniera preoccupante.
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Soddisfatti? Il benessere soggettivo in Europa
L’approccio multidisciplinare allo studio del benessere ha permesso di affiancare al Pil nuovi strumenti per stabilire quanto stiamo bene. Il concetto di qualità della vita, in particolare, ha arricchito l’analisi del benessere attraverso l’utilizzo di un’ampia gamma di indicatori sociali, consentendo un’osservazione non solo oggettiva ma anche soggettiva del fenomeno. Su questo approccio innovativo è basato il focus dell’articolo, che presenta un’analisi del benessere soggettivo in Europa, delle sue determinanti principali, e un approfondimento sul rapporto tra ricchezza e benessere. L’obiettivo è evidenziare il contributo che lo studio soggettivo aggiunge alle informazioni di carattere oggettivo per le politiche sociali.
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Innovare «dal basso» le politiche attive tra formazione e lavoro: un’analisi delle esperienze italiane
Il rapporto tra formazione e lavoro è centrale nella strategia europea ma l’emergenza occupazionale attuale impone un ripensamento delle politiche. L’analisi delle transizioni ha evidenziato che il successo del lavoratore non dipende solo dalle competenze possedute ma anche dalla capacità di attivare e combinare risorse identitarie e sociali in un momento in cui le carriere si fanno più frammentate e incerte, con elevati rischi di intrappolamento, over-education e over skilling. Ciò ha contribuito a una crescente assunzione di responsabilità dei sistemi educativi, valorizzando la dimensione formale e informale dei processi di apprendimento. Pur in assenza di analisi puntuali, la valutazione delle recenti politiche attive nel paese, come il Progetto Neet o Youth Guarantee, conferma però i deficit delle politiche top down e incoraggia l’ampliamento del dibattito sull’innovazione partendo da esperienze alternative di tipo bottom up. Il contributo individua i tratti di iniziative «dal basso», riflettendo criticamente sulle loro caratteristiche di innovazione e sul rapporto tra formazione ed employability.
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Sistema duale e apprendistato: modello tedesco e italiano a confronto all’epoca del Jobs Act
Nel decreto legislativo n. 81/2015 (Jobs Act), il legislatore ha riscritto la disciplina dei contratti di apprendistato ispirandosi al sistema duale tedesco. Pertanto, viene esaminato tale ultimo modello per cogliere «assonanze» e «discrasie» con il sistema italiano, considerando che quello tedesco è una variante d’eccellenza nei sistemi di apprendistato in Europa. Posto che sarà compito degli enti deputati monitorare i dati occupazionali della tipologia in commento, l’articolo propone in ottica giuridica un esame della normativa italiana in raffronto con quella tedesca, fornendo altresì una panoramica introduttiva sulle politiche europee in materia, con l’auspicio che i pregi di una regolamentazione «duale» dell’apprendistato forniscano maggiori livelli occupazionali giovanili. Si analizza, pertanto, la tipologia di apprendistato collegata al sistema dell’istruzione: il contratto di apprendistato per la qualifica e diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore.
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Redistribuzione e struttura: la complessa visione della diseguaglianza di Atkinson
L’articolo discute dell’ultimo libro di Anthony Atkinson (2015), mettendone in evidenza i molti meriti a partire dalla costruzione di una serie di proposte concrete e specifiche su un tema – la disuguaglianza – che, fuoriuscito analiticamente dal dimenticatoio in cui l’aveva confinato il neoliberismo dominante solo in conseguenza dei gravi effetti della crisi globale del 2007-2008 e solo grazie a lavori d’eccezione come quello di Piketty, politicamente tarda ancora a imporsi con la forza che sarebbe auspicabile e necessaria. In secondo luogo, Atkinson risale alle origini del deplorevole «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard, invoca «proposte più radicali» della semplice insistenza sull’innalzamento dell’istruzione della forza lavoro. Si spiega così come le proposte concrete di Atkinson siano disegnate con un mix stupefacente di radicalità e di pacatezza, il che conferisce loro il senso di un’audacia inconsueta e tuttavia realistica.
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Disuguali e disintegrati. L’Italia al tempo della crisi
Nella prima parte dell’articolo si evidenziano i principali pregi dell’ultimo libro – Inequality: what can be done? – di Tony Atkinson, l’autore a cui, più di ogni altro, si deve il merito di aver portato il tema delle diseguaglianze al centro dell’attenzione degli economisti. In questo libro Atkinson, dopo aver chiarito come la diseguaglianza non sia determinata da un singolo fattore, ma discenda da un processo complesso con molteplici meccanismi, delinea un’articolata strategia di policy necessaria per ridurre sia le diseguaglianze che si formano nei mercati, sia quelle dei redditi disponibili (ovvero, tenendo conto anche dell’azione redistributiva pubblica). Prendendo spunto da alcuni insegnamenti contenuti nel libro, nella seconda parte dell’articolo si discutono criticamente alcuni «luoghi comuni» che spesso riecheggiano nel dibattito sulle diseguaglianze, anche nel nostro paese, e che andrebbero confutati per delineare le basi di una visione condivisa di contrasto alla diseguaglianza.
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Le metapolitiche per la città. Una introduzione
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La rigenerazione urbana: welfare e workfare? Uno studio comparativo tra Francia e Stati Uniti
In Francia e negli Stati Uniti il degrado del patrimonio immobiliare di edilizia pubblica e la concentrazione della povertà in alcuni quartieri popolari hanno promosso, a partire dall’inizio degli anni 2000, la progettazione di programmi di rigenerazione urbana di ampia portata. Una questione rimane ancora in sospeso: quale profilo dare a questi programmi urbani caratterizzati da finalità sociali? L’articolo si occupa dell’ambiguità che riguarda tali programmi, in particolare nei casi delle città di Parigi e Chicago, osservando l’emergere del workfare come modello principale delle iniziative osservate.
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Politiche, crisi e socialità nelle periferie europee e italiane. Uno sguardo di sintesi
I quartieri popolari sono divenuti la «nuova questione sociale». Luoghi stigmatizzati dove vivono soggetti e gruppi maggiormente colpiti dai mutamenti degli assetti socio-economici. L’interazione tra processi di esclusione e segregazione spaziale alimenta un circolo vizioso che enfatizza una logica d’emergenza. In tali contesti la presenza di nuclei immigrati rappresenta un ulteriore fattore critico che rafforza l’idea di uno «spazio altro». La risposta dell’azione pubblica è di promuovere le cosiddette «area-based policies» focalizzate sull’assunto di ricostruire il legame sociale e una sorta di socialità positive. Gli effetti di queste politiche risultano deboli poiché non affrontano le cause strutturali della segregazione sociospaziale e, soprattutto, non riducono la distanza tra la periferia e il centro. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche.
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Senza politiche. Il cambiamento del centro storico cosentino: abbandono e periferizzazione
Nell’articolo si presentano i principali risultati di una ricerca sui processi di cambiamento e sulle condizioni di vita degli abitanti dei quartieri storici della città di Cosenza. L’ipotesi interpretativa è quella della periferizzazione (Magatti, 2007), realizzatasi attraverso forme progressive di abbandono e di degrado per cui il centro storico appare, oggi, svuotato della popolazione residente, delle funzioni e delle relative strutture politicoamministrative, economiche e culturali. Una parte consistente della popolazione residente vive condizioni di disagio sociale e povertà, a fronte della carenza dei servizi pubblici e privati. L’agire delle élite politiche appare contraddistinto da una scarsa attenzione istituzionale ai quartieri storici e al loro vissuto, fatta eccezione per alcune fasi di vita politica della città. Nel complesso, è assente una strategia integrata di recupero (Vitale, 2009) e di contrasto ai processi di abbandono e di marginalità sociale.
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La riconversione della spesa pubblica come terreno di innovazione. Soluzioni residenziali per l’emergenza abitativa a Milano
Mutamenti strutturali e recessione economica hanno impatti significativi sulle condizioni di vita, specie nei sistemi di welfare familisti dell’Europa del Sud comparativamente meno redistributivi e inclusivi. Tra le implicazioni più evidenti vi è una fatica crescente a mantenere l’alloggio di abitazione, l’incremento delle morosità in relazione sia agli affitti sia ai mutui, l’aumento e l’accelerazione delle procedure di sfratto. Chi perde la casa e non trova soluzioni nelle proprie reti primarie si rivolge ai servizi sociali dei Comuni. In assenza di soluzioni adeguate, questi ricorrono tipicamente a strutture ad alta intensità assistenziale (come Rsa e comunità) o a stanze d’albergo, soluzioni al tempo stesso costose e inappropriate. Per far fronte all’aumento dei bisogni nel quadro di risorse decrescenti, molti enti locali sperimentano – in ordine sparso – soluzioni innovative. Questo contributo analizza la recente sperimentazione di un programma di «Residenzialità sociale temporanea» promosso dal Comune di Milano, che, insieme a una riconversione e maggiore efficacia della spesa corrente, mira a configurare soluzioni residenziali più appropriate.
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Tra innovazione e nuova rappresentanza: la sfida del sindacato nelle politiche urbane milanesi
I temi del territorio, dello sviluppo locale e della tutela delle condizioni di vita dei lavoratori e dei cittadini sono da sempre al centro dell’azione del sindacato milanese. Tale attenzione si è tradotta nel tempo in varie esperienze e pratiche sindacali all’interno del contenitore della contrattazione territoriale. In questo contesto, obiettivo dell’articolo è, in primo luogo, quello di analizzare il ruolo giocato dal sindacato milanese negli anni delle crisi e delle trasformazioni sociali, economiche e demografiche che l’hanno accompagnata. In particolare ci si concentrerà su alcune esperienze innovative per temi trattati, destinatari e modalità d’azione. In secondo luogo ci si chiederà se e in che modo la contrattazione territoriale può rappresentare una strada da seguire per rappresentare vecchi e nuovi bisogni sociali.
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Le aree militari nelle città italiane: patrimonio pubblico e rendita urbana nell’era dell’austerity e della crisi
Le aree militari nelle città italiane sono ormai da alcuni anni al centro di politiche contrastanti. Quattro ordini di tensioni permettono di rendere conto delle negoziazioni, dei disaccordi e dei frequenti fallimenti nel riuso di tali patrimoni pubblici: sull’oggetto di intervento, come attivi di bilancio o beni territoriali; sulle procedure, tra riforma costante e politica dello status quo; sugli obiettivi per le città, tra massimizzazione e redistribuzione della rendita fondiaria; e infine sulle risorse da mobilizzare per il riuso, legate all’aspettativa e all’assenza di un mercato per tali beni. Lo studio delle aree militari, riunendo analisi delle riforme dello Stato e economia politica delle città, permette di riflettere sui nodi della trasformazione della città pubblica in un’epoca di riforme di austerity, contrazione del pubblico e crisi economica.
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Dalla città rossa alla città «subprime». La crisi industriale e sociale di Livorno
Livorno continua a essere una città decisiva per la storia d’Italia: la nascita del Partito comunista, l’imponente passato industriale, la mobilitazione operaia e adesso la ristrutturazione industriale e la rielaborazione identitaria. Tra cambiamento e persistenza, Livorno si pone come laboratorio per tutte le ex città industriali italiane, almeno su due piani: a livello strutturale, la città «esplode» la transizione dall’industria portuale e cantieristica alla rendita finanziaria e alla rigenerazione urbana, mentre – sul piano della governance – le rappresentanze della classe operaia (il partito, che a Livorno mantiene una linea di continuità ideale con l’epoca comunista, la Camera del Lavoro e le cooperative dei lavoratori) dismettono la conflittualità di classe e contribuiscono prima all’aumento della produttività, poi alla gestione dello sviluppo urbano nella città deindustrializzata. L’articolo riassume sessanta anni di storia livornese, tra economia, politica e società.
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Le politiche urbane e gli stadi
Da almeno due decenni gli stadi europei hanno intrapreso la strada di una profonda trasformazione. Oltre che nelle esigenze del calcio contemporaneo, tale trasformazione ha radici anche nei cambiamenti in atto nel campo delle politiche urbane. Gli stadi moderni sono oggi assai più che un mero spazio all’interno del quale assistere alla partita. Sempre più essi divengono luoghi privati, costruiti come efficienti cash machine destinate a un ampio spettro di attività di consumo. Questi cambiamenti promuovono nuovi pubblici di clienti con ampie capacità di spesa, assai diversi dai tifosi tradizionali. Lo stadio è dunque un luogo entro cui si affermano dinamiche commerciali e di gentrification, in un quadro ben più ampio e generalizzato di mercificazione dello spazio pubblico comune a molte città contemporanee.
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Un nuovo sviluppo in risposta ai bisogni delle persone e del territorio
L’Unione europea a 28 paesi membri è il maggior produttore di ricchezza del mondo: il più grande importatore e il più grande esportatore di beni e servizi. È un gigante economico inconsapevole (e un nano politico). Le politiche economiche fondate sulla «austerità accrescitiva» e il fiscal compact condannano l’Europa a una bassa crescita e a una disoccupazione strutturale. La specializzazione manifatturiera europea è progressivamente in competizione con quella asiatica (sia nella gamma alta della produzione che in quella bassa). Nel frattempo la crisi ha cambiato i bisogni sociali e ridotto gli investimenti sul welfare. L’assenza di politiche industriali di indirizzo e il contenimento della spesa pubblica hanno portato a un impoverimento progressivo del territorio: per crescita inquinamento e scarsità di manutenzione. L’Europa ha bisogno di un nuovo «modello di sviluppo» basato sulle sue caratteristiche e le sue vocazioni storico-economiche e orientato ai bisogni delle persone e dei territori (sostenibilità sociale e ambientale). Questo salto di politica non è realistico si compia a partire da decisioni top down. La nuova crescita nasce da risposte locali ai nuovi bisogni (delle persone e dei territori). Da questa domanda si creeranno nuovi mercati su cui orientare le produzioni innovative di merci e servizi. «La domanda locale determinerà l’offerta globale». Il sindacato può essere agente e protagonista di questa svolta con la contrattazione sociale territoriale e la microconcertazione con i governi locali, a partire dalle città.
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Welfare aziendale o contrattuale? Rischi e opportunità
Per lungo tempo il tema del welfare contrattuale ha attraversato il dibattito interno alla Cgil, alimentando sospetti, reticenze, contraddizioni che non hanno consentito una riflessione approfondita sulla natura del fenomeno e sulle sue possibili evoluzioni, ritardando così l’elaborazione di una propria visione autonoma. Oggi il tema del welfare contrattuale è diventato centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale. In particolare, sul welfare aziendale la recente Legge di stabilità ha previsto ulteriori misure di sostegno e agevolazioni di natura fiscale. Solo un solido sistema di welfare pubblico e universale consente di sviluppare esperienze di welfare integrativo sostenibili anche in termini di costi e convenienze contrattuali. Anche per questo il welfare contrattuale (nazionale o aziendale) pur se rivolto solo ai lavoratori dipendenti e ai loro familiari deve contribuire a quello universale e in questo senso è decisivo il rapporto tra il welfare contrattuale/aziendale e il territorio dove opera l’impresa.
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Come rendere più inclusivo il welfare contrattuale e aziendale
In questi anni a fronte di una minore tutela offerta dal welfare pubblico, è cresciuto il peso del welfare aziendale e contrattuale, e con esso, anche il rischio di accrescere le distorsioni già esistenti, in particolare quelle distributive e territoriali. È stato invece poco esaminato il ruolo dello Stato sulla crescita del welfare contrattuale e aziendale, in particolare attraverso le misure fiscali. È questo il tema su cui si concentra l’articolo, analizzando in particolare le misure di agevolazione contributiva e fiscale, introdotte a partire dal 2007, con l’obiettivo di favorire la diffusione della contrattazione di secondo livello e la crescita della produttività. Con il recente intervento del Governo Renzi sono state inserite alcune modifiche in grado di generare anche effetti diretti sulla crescita del welfare aziendale e contrattuale. Dopo aver esaminato le caratteristiche di queste misure dal 2007 a oggi, le risorse stanziate e il loro possibile impatto sulla diffusione della contrattazione decentrata e sulla crescita del welfare contrattuale e aziendale, vengono messi in evidenza alcuni effetti negativi e si avanzano alcune proposte per favorire la crescita di un welfare aziendale e contrattuale più inclusivo.
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Ciò che è e ciò che potrebbe essere. Riflettendo sull’ultimo libro di Luciano Gallino
Il Denaro, il Debito e la Doppia Crisi, spiegati ai nostri nipoti è l’ultimo libro di Luciano Gallino, pubblicato circa un mese prima della sua scomparsa a novembre dello scorso anno1. Il motto che Gallino ha posto in esergo al libro (riprendendolo da Rosa Luxemburg) è questo: «Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario». «Ciò che è» Gallino vuole dirlo soprattutto ai giovani, rappresentati dai suoi nipoti, ai quali il libro è rivolto. E «ciò che è», nel mondo contemporaneo agli occhi di Gallino – non possiamo sorprendercene – ha i colori del grigio scuro, se non del nero. Però c’è anche quel che potrebbe essere e qui Gallino si sforza di vedere altri, più rasserenanti, colori; su di essi vuole attirare lo sguardo dei giovani. Questo indirizzamento dello sguardo verso nuovi orizzonti raggiungibili ha il valore di un messaggio speciale (non direi testamento, e non solo perché la parola non è tra quelle che preferisco) da parte di uno studioso per molti versi unico. A quel messaggio è bene prestare tutta l’attenzione che merita. Queste note sono un tentativo di farlo.
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