• L’integrazione rappresenta una questione centrale della politica migratoria, in particolare rispetto al riconoscimento di diritti agli stranieri presenti in un territorio, riconoscimento che di fatto, oltre che di diritto, traccia le traiettorie dei migranti e le modalità di inserimento nelle società di accoglienza. Le scelte di politica sociale in questi ultimi anni sembrano andare in una direzione opposta a quella di un welfare universale, nel quale contemperare in modo equo le esigenze di tutte le persone, cittadini o migranti. La scarsità delle risorse disponibili e l’introduzione dei conseguenti meccanismi di preferenza limitano sempre più i possibili beneficiari (attraverso l’inasprimento dei requisiti di accesso), mettendo a forte rischio il riconoscimento della pari dignità sociale e i diritti fondamentali degli stranieri. La riflessione sulla dimensione etico-politica delle politiche di welfare più recenti si offre come spunto per guardare al futuro dell’intervento sociale, nell’ambito dell’integrazione dei migranti, pensando come inscindibili la promozione di politiche di integrazione, il ripensamento dell’organizzazione dei servizi sul territorio e la coesione sociale come fine ultimo di ogni intervento.
  • L’impoverimento delle famiglie è anche povertà crescente per tanti bambini. A fronte della drammaticità dei dati statistici l’indagine nazionale rivolta agli assistenti sociali che operano nell’area bambini 0-6 anni (Fondazione Zancan, 2015b), di cui si dà conto nell’articolo, si interroga su chi sono, come vivono, quali sono i bisogni prioritari, perché l’accesso alle risposte non è tempestivo, perché vengono penalizzati i più piccoli (0-3). Assistenti sociali che affrontano quotidianamente questi problemi hanno evidenziato ciò che aiuta e non aiuta, quello che viene erogato e non erogato, se e come combinare trasferimenti e servizi, quanto le mancate integrazioni creano vuoti operativi, se e come la formazione può consentir loro di meglio operare. I risultati sono preziosi perché vengono dalla conoscenza diretta dei problemi, dall’esperienza professionale, dalle condizioni di utilità della loro azione malgrado la ristrettezza delle risorse e delle disfunzioni organizzative.
  • Le politiche per gli anziani non autosufficienti stanno vivendo in Italia una fase segnata da una profonda incertezza e non è affatto chiaro quale traiettoria seguiranno nel prossimo futuro. Se si vuole passare dall’attuale età dell’incertezza a una stagione di rinnovato sviluppo del settore si devono, innanzitutto, ridefinire i termini del dibattito, partendo da uno sguardo sulla realtà del nostro paese. Bisogna, in altre parole, fermarsi a chiedersi quali sono gli ostacoli da superare per costruire un sistema di sostegno agli anziani non autosufficienti, e alle loro famiglie, adatto alla società attuale e futura. È ciò che prova a fare questo articolo, dedicandosi ad alcuni nodi di fondo: la scarsa attenzione dedicata dalla politica; l’accompagnamento di anziani e famiglie nel loro percorso come obiettivo molto dichiarato ma poco raggiunto; la necessità di articolare maggiormente la rete delle risposte a livello locale; il legame sempre più stretto tra non autosufficienza e impoverimento; la radicata immobilità sulla riforma dell’indennità di accompagnamento; l’esigenza di trovare nuovi mix tra il finanziamento pubblico, primario, e quello privato complementare.
  • L’assistenza agli anziani non autosufficienti è ancora in larga parte in carico alle famiglie, che vi fanno fronte con un ampio ricorso alle assistenti familiari. La frammentazione delle competenze tra Stato, Regioni ed enti locali e le difficoltà di integrare le varie fonti di finanziamento fanno affermare che non basta aumentare le risorse. Il rifinanziamento pluriennale del Fondo nazionale per la non autosufficienza lo rende strutturale e permette di avviare la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali. Per essere efficace il Fondo deve far convergere le politiche molto diversificate che le Regioni hanno avviato, puntando sulla qualità della presa in carico, dei piani individuali di assistenza e dell’a integrazione socio-sanitaria. Il prevalere dei trasferimenti monetari non aiuta il decollo di una rete integrata e qualificata di servizi orientati alla domiciliarità. È sempre più urgente una legge quadro nazionale per superare la frammentazione delle competenze, rapportare l’assegno di accompagno al fabbisogno assistenziale e ricondurlo al piano di assistenza individuale. In attesa della legge lo Spi ha deciso di costituire un Osservatorio nazionale sulle residenze per anziani.
  • Nel passaggio dalla prevalenza di malattie acute alla maggiore incidenza di malattie croniche si sono rese evidenti le difficoltà del campo medico e di quello sociale nell’affrontarne la gestione e le ricadute sociali. Nel caso di patologie come le demenze o l’Alzheimer la scarsa visibilità nel dibattito pubblico appare una spia della difficoltà di affrontarne la gestione, nonostante le stime ipotizzino un loro aumento consistente nei prossimi decenni e, attualmente, si contino circa un milione e mezzo di pazienti, quasi la metà dei quali con Alzheimer. L’articolo ricostruisce l’attenzione altalenante alla condizione della non autosufficienza e delle demenza in Italia per riflettere sulle possibili ragioni di quanto accade e sui rischi che tale rimozione può determinare nella gestione sociale di questo articolato insieme di patologie.
  • Il contributo sviluppa una riflessione sulle prospettive di sviluppo dei diversi modelli di capitalismo europei di fronte alle grandi sfide contemporanee. Muovendo dall’importante contributo di Burroni (2016), gli autori discutono all’interno di un quadro teorico di impronta polanyiana il concetto di «sviluppo insostenibile» come elemento intrinseco del capitalismo. Il capitalismo in generale, ma in modo ancora più evidente quello europeo, si dimostra sempre più in difficoltà nel rendere compatibili esigenze diverse ma essenziali come la crescita, la protezione sociale, la partecipazione democratica. Gli autori approfondiscono poi il caso italiano, mostrando le difficoltà di rigenerazione del sistema sociale ed economico di un paese caratterizzato da limiti intrinseci del proprio sviluppo, a partire dal dualismo Nord/Sud.
  • A partire dalla ricostruzione che Burroni (2016) opera sul piano storico ed empirico di quattro modelli di capitalismo, il contributo riflette sulla drammatica esigenza di una «riforma del capitalismo». Ridare legittimità al dibattito sui vari «tipi di capitalismo» consente di portare l’attenzione alle caratteristiche di strutture economiche alternative e di contrastare l’idea di una ineluttabile convergenza verso un unico modello economico. Il contributo si sofferma sulla questione cruciale della riformabilità del capitalismo di cui si confermano assi fondamentali occupazione e investimenti. Al centro debbono, quindi, tornare le domande sul ruolo del «lavoro» e sui «fini» di un «nuovo modello di sviluppo» che rilanci la piena e buona occupazione, soddisfi bisogni trascurati, produca beni pubblici, beni comuni, beni sociali, nella consapevolezza che tali beni sono fragili e hanno bisogno di istituzioni che se ne prendano cura.
  • Che cosa deve fare il sindacato per essere ancora, nello straordinario mutamento di fase che si è aperto con la crisi del 2008, un attore sociale e istituzionale di prima grandezza? Da tempo svariati movimenti neopopulisti insidiano, in vario modo e con diversi argomenti, la pretesa del sindacato di rappresentare monopolisticamente gli interessi generali dei governati e, persino, quelli particolari dei lavoratori. Per far fronte a questa sfida esistenziale, il sindacato è chiamato, prima di tutto, a comprendere il nucleo di verità sotteso alle domande di sicurezza patrimoniale e identitaria di cui i neopopulismi sono espressione. Le pericolose derive sovraniste, nazionaliste, xenofobe del neopopulismo possono essere combattute solo radicalizzando il loro contenuto e portando il conflitto a una nuova fase costituente.
  • Al fine di aumentare la competitività diversi paesi hanno recentemente rafforzato la contrattazione decentrata, legando l’andamento dei salari con quello della produttività: in Francia, si è aumentata la possibilità per le imprese di discostarsi dalla stringente contrattazione centralizzata, in Portogallo, Grecia e Spagna, quello aziendale è ora il livello privilegiato per la contrattazione. In Italia, nelle ultime due Leggi di stabilità (per il 2016 e per il 2017), sono stati inseriti importanti interventi in materia di detassazione di premi di produttività e welfare aziendale. L’obiettivo primario di questa norma è quello di favorire la contrattazione decentrata, costruendo le condizioni fiscali favorevoli affinché aziende e lavoratori negozino salari integrativi; il risultato è stato anche quello di aumentare i salari netti di un gran numero di lavoratori. In secondo luogo si è permesso ai singoli lavoratori di scegliere liberamente se fruire di premi in denaro o in welfare benefits (condizionatamente alla presenza di un piano di welfare contrattato nell’accordo sindacale). In questo modo si è creato un incentivo ulteriore a negoziare in azienda. Ma si è anche sollevato un problema di potenziale sostituibilità del welfare nazionale con quello aziendale.
  • Nell’arena pubblica è diffusa la tendenza a considerare le agevolazioni fiscali al welfare aziendale una win-win solution, una misura che produce benefici senza causare costi. Obiettivo dell’articolo è mettere in discussione questa posizione, focalizzando l’attenzione sulla sanità complementare. La tesi è che le agevolazioni fiscali alla sanità complementare, lungi dal rappresentare una win-win solution, comportino due insiemi di costi. Da un lato, creano iniquità fra coloro che ne beneficiano e coloro che, pur non beneficiandone, devono contribuire al loro finanziamento. Dall’altro lato, potrebbero generare ripercussioni negative sul Ssn.
  • Con le novità introdotte dalle Leggi di stabilità 2016 e 2017 i lavoratori hanno la possibilità di convertire l’importo del premio di risultato in beni e servizi di welfare. La conversione è favorita da agevolazioni fiscali e contributive, vantaggiose sia per i dipendenti sia per le aziende. In particolare, alle somme convertite in welfare non si applica l’obbligo di versamento dei contributi previdenziali. L’articolo si pone come obiettivo l’analisi di vantaggi e svantaggi, per dipendenti e datori di lavoro, di tale provvedimento attraverso l’elaborazione di un calcolo della «perdita previdenziale» che il lavoratore subirà, una volta pensionato, a seguito della conversione annuale di tutto o parte del premio in welfare.
  • L’articolo discute potenzialità e criticità degli schemi pensionistici integrativi privati in Italia. Si presentano i principali indicatori sullo sviluppo di tali schemi e alcune elaborazioni sulle performance dei fondi pensione privati e al contempo si ragiona sulle future potenzialità della previdenza integrativa nel contesto attuale in cui, da un lato, il continuo innalzamento dell’età pensionabile riduce la necessità di un’integrazione da fonte privata da parte dei lavoratori con carriere stabili e, dall’altro, vincoli di liquidità impediscono la partecipazione ai fondi pensione da parte di chi avrebbe invece bisogno di accrescere il futuro reddito da pensione, ovvero i lavoratori precari e più svantaggiati.
  • L’articolo analizza l’espansione in Italia dei fondi sanitari integrativi, finalizzati (teoricamente) a fornire prestazioni aggiuntive rispetto a quelle erogate dal Servizio sanitario nazionale. Tale espansione è stata sostenuta da vari fattori, fra cui lo sviluppo significativo degli schemi di welfare occupazionale nel corso degli ultimi anni. L’ipotesi principale avanzata nell’articolo è che aspetti positivi e negativi sembrano essere associati a questo fenomeno. Infatti, da un lato, i fondi sanitari integrativi hanno garantito una più ampia copertura nell’accesso alle cure per una parte significativa della popolazione italiana. Dall’altro lato, tuttavia, è emerso un impatto negativo in termini di differenziazione e dualizzazione fra categorie, a cui si aggiunge il rischio che, dato il crescente ruolo sostitutivo delle prestazioni erogate dai fondi sanitari integrativi, tali schemi possano trasformarsi in uno strumento per scardinare l’universalismo del Servizio sanitario nazionale, attraverso una dinamica di policy drift.
  • Le politiche di conciliazione vita-lavoro hanno effetti non solo sull’occupazione femminile ma anche sulla distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne e, di conseguenza, sull’uguaglianza di genere. Analogamente, anche le iniziative di welfare aziendale in ambito di work-life balance possono avere implicazioni differenti sulle opportunità di conciliazione vita-lavoro e di carriera dei lavoratori a cui si rivolgono, e in particolare della componente femminile all’interno delle organizzazioni. Il presente contributo analizza le politiche implementate dalle aziende attraverso lo studio dei contenuti di 148 accordi aziendali siglati nel periodo 2004-2014, nel tentativo di individuare le implicazioni di diverse «strategie» aziendali in ottica di genere.
  • Il «welfare bilaterale» potrebbe rivelarsi una strada promettente per offrire «welfare in azienda» ai lavoratori impiegati in settori produttivi frammentati, tendenzialmente esclusi dallo sviluppo di welfare occupazionale su base strettamente aziendale. Ma quali sono, oggi, le prestazioni di welfare offerte ai lavoratori iscritti alla bilateralità? Per rispondere a tale quesito, l’articolo propone una mappatura delle misure messe in campo dagli enti bilaterali territoriali attivi nei settori economici dell’edilizia, dell’agricoltura, dell’artigianato, del terziario (commercio e servizi) e del turismo, focalizzandosi su due aree di policy che, per motivi diversi, presentano aspetti problematici nel contesto del welfare state italiano: l’assistenza sanitaria e le misure a sostegno della famiglia. L’analisi delle evidenze empiriche raccolte consente di avanzare alcune riflessioni su limiti e prospettive del welfare bilaterale quale tassello delle dinamiche di riconfigurazione del sistema italiano di protezione sociale.
  • In un periodo di sostanziale assenza della concertazione e di tendenza all’azione unilaterale dei governi, si assiste a una ripresa dell’unità sindacale, da cui consegue anche un generale allineamento delle posizioni delle principali confederazioni sindacali circa l’opportunità di sviluppare il welfare occupazionale. Sviluppo che sembra essere per il sindacato sempre più legato alla configurazione della contrattazione collettiva: dalle spinte al decentramento alle dinamiche di concession bargaining. In queste tendenze si osservano le differenze principali tra le confederazioni e le categorie che mostrano visioni diverse, ma non conflittuali, circa il potenziamento del livello aziendale del welfare integrativo e il dibattito relativo alla possibile «erosione» dei premi di produzione.
  • Per lungo tempo, l’approccio prevalente negli studi sul welfare ha ipotizzato che le organizzazioni datoriali siano contrarie alle politiche sociali o tendano a limitarne al minimo l’introduzione e l’espansione. Negli ultimi quindici anni, però, un corpo crescente di letteratura scientifica ha iniziato ad analizzare il ruolo dei datori di lavoro in maniera più puntuale, articolando maggiormente il ragionamento attorno al ruolo di tali attori, evitando eccessive semplificazioni. Una serie di ricerche sottolinea come l’interesse di una parte degli imprenditori di disporre di una forza lavoro qualificata possa spingere le associazioni datoriali a sostenere riforme espansive nel campo del welfare. L’idea principale dietro questa nuova letteratura è che non necessariamente gli imprenditori e le loro associazioni sono contro le politiche sociali. Al contrario, essi potrebbero avere una serie di ragioni (economiche e strategiche) per sostenerle attivamente. In questo articolo analizziamo il ruolo delle associazioni imprenditoriali in particolare in relazione allo sviluppo di politiche di conciliazione fra attività di cura verso i figli e lavoro in due paesi: Germania e Italia.
  • Se fino a ieri il welfare contrattuale era questione interna alle vicende contrattuali delle singole categorie del sindacato e si trattava di un fenomeno alimentato prevalentemente da contribuzione «aggiuntiva» rispetto alle dinamiche salariali, oggi, costituisce un fenomeno sostanzialmente diverso, caratterizzato da due elementi nuovi: da una parte, il definanziamento della spesa pubblica in tutti i settori legati alla salute, all’assistenza e ai servizi alle persone con un contemporaneo finanziamento pubblico delle forme di welfare privato prodotto dalla contrattazione; dall’altra, l’individuazione delle principali attività del welfare, a partire dalla sanità, quali terreni di vero e proprio business. È evidente che nel momento in cui il welfare contrattuale intreccia la sfera universale dei diritti delle persone non può più essere considerato una questione dei singoli attori negoziali, ma va ricondotto ad un progetto condiviso da tutti i soggetti, inclusi ed esclusi o a rischio di esclusione dai diritti e dalle politiche di tutela. Ecco perché è necessario che il sindacato elabori un proprio, autonomo progetto di welfare territoriale, sul quale innestare la contrattazione delle categorie e sviluppare la contrattazione confederale sulle politiche sociali.
  • Le disuguaglianze sociali nella salute, ovverosia gli eccessi sistematici ed evitabili negli indicatori di salute a carico delle fasce meno avvantaggiate della popolazione, hanno in Italia un’intensità moderata, soprattutto grazie alla distribuzione socialmente equa di una serie di fattori protettivi, quali la dieta mediterranea e il capitale sociale, e il ruolo compensativo del Servizio sanitario. Tuttavia, la crisi economica e il trend sociale di alcuni fattori di rischio hanno messo a repentaglio questo vantaggio e hanno reso urgente lo sviluppo di una strategia nazionale di contrasto, come tra l’altro richiesto dall’Unione europea. E in effetti, trainato dal commitment iniziale della Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e dalla pubblicazione di un Libro verde, si è innescato nel 2011 il tentativo di aumentare la consapevolezza riguardo a questo problema tra i decisori politici e gli stakeholder sanitari e no, di identificare le priorità verso le quali orientare le policy di riduzione delle disuguaglianze e di delineare azioni efficaci e innovative. L’articolo ne ripercorre le tappe principali.
  • Le disuguaglianze di salute sono importanti non solo per il danno al benessere della popolazione, ma anche perché rappresentano indicatori del grado di giustizia sociale e della civiltà di un paese. Nella letteratura nazionale e internazionale ci sono prove che dimostrano l’efficacia di specifici interventi nel produrre effetti positivi sulla salute: sono azioni che i governi dovrebbero adottare come priorità, anche e soprattutto durante periodi di crisi economica. Al contrario, come attesta anche la letteratura internazionale, quasi tutti i paesi colpiti dalla recessione non hanno adottato tempestivamente programmi per monitorare gli effetti delle restrizioni economiche in ambito sanitario. E a fronte di una generalizzata scarsità di risorse destinate ai sistemi pubblici di tutela della salute, si fanno strada nuovi strumenti finanziari per sostenere i bisogni sociali e socio-sanitari. Tale collaborazione tra settore pubblico e finanza privata potrebbe rappresentare uno degli strumenti per affrontare la mancanza di risorse pubbliche, ma ancora mancano evidenze in tal senso. I rischi e le criticità di questo approccio sono discussi nell’articolo.
  • In questo articolo si guarda a due visioni teoriche della famiglia, quelle di Friedrich Engels e Gary Becker, entrambe criticate dalla letteratura economica di stampo femminista. Nello scrivere, le autrici si ispirano a una frase presente nell’introduzione del libro di Chiara Saraceno: «Il lettore non troverà» – nel libro come nel nostro articolo – «definizioni univoche di cosa sia, o dovrebbe essere, la famiglia, piuttosto interrogativi, dubbi, suggerimenti per cambiamenti di prospettiva».
  • L’articolo prende spunto dal dibattito pubblico e scientifico sul tema al centro dell’ultimo libro di Chiara Saraceno (L’equivoco della famiglia, 2017) sull’ovvietà del concetto di famiglia, spesso oggetto di ambiguità. L’equivoco, infatti, nasce dal fatto che, pur essendo in continua trasformazione, la famiglia in Italia continua ad assumere un ruolo prioritario a livello sociale, mentre le politiche sociali e i diritti normativi restano ancorati a precedenti equilibri, diversamente da quanto avviene in altri contesti europei.