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Sullo sfondo di processi di internazionalizzazione le organizzazioni sindacali devono fare i conti con la loro limitata capacità di azione che è principalmente circoscritta entro i confini nazionali. Alla luce delle possibilità limitate di fissare delle norme giuridiche a livello transnazionale, l’opzione più incisiva a disposizione per creare un quadro di riferimento di diritti e standard di lavoro sembra consistere nelle forme di auto-regolamentazione attraverso la conclusione di Accordi aziendali transnazionali (Aat). Per comprendere meglio l’impatto effettivo di questi accordi sulle relazioni industriali nazionali è necessario cercare di capire se e in quale modo gli Aat siano stati applicati a livello nazionale. In questo articolo analizzeremo l’implementazione della Carta globale dei rapporti di lavoro firmata nel 2009 nel Gruppo Volkswagen. Lo studio di caso suggerisce che ciò che conta nel processo di implementazione è il coinvolgimento attivo dei diversi attori ai vari livelli.
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L’Europa è un terreno fertile per l’esplorazione di un sistema di relazioni industriali nuovo e transnazionale perché qui l’europeizzazione delle relazioni industriali agisce da decenni e muove in quadri normativi armonizzati, sicuramente più che in ogni altra macroregione del mondo. È naturale quindi che si guardi con interesse agli accordi transnazionali con le imprese multinazionali, per riconfigurarli in una dimensione amplificata negli obiettivi e nel tenore. Dalla logica dello scambio di esperienze per la diffusione delle buone pratiche, ci si dirige verso una concettualizzazione del fenomeno che deve portare a proposte volte a costruire un ambiente idoneo alla negoziazione, agendo sul coordinamento, rafforzando le procedure interne decise dai sindacati nella loro autonomia, fino alla proposta legislativa di un quadro opzionale di regole per la negoziazione transnazionale. Gi autori sostengono l’idea che l’intervento del legislatore europeo deve essere promozionale e non invasivo rispetto all’autonomia delle parti di impegnarsi. Un’eventuale normativa quadro dovrebbe creare un ambiente favorevole per coloro che fino a oggi hanno trovato nell’indeterminatezza delle regole un fattore disincentivante. Il quadro legale opzionale dovrà individuare i soggetti titolati a firmare gli accordi, il rapporto tra gli accordi europei e quelli di diritto nazionale, alcuni aspetti delle procedure negoziali (compresa la formazione del mandato), la protezione dei lavoratori, gli elementi formali necessari a rendere valido l’accordo (data, luogo, scadenza, firma), i meccanismi per la soluzione delle dispute e dei conflitti relativi all’applicazione dell’accordo. Resterebbe aperta la possibilità di sottoscrivere Efa in altre modalità, ma a questo punto in assenza delle garanzie e della fluidità garantita dal quadro legale opzionale.
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A partire da un recente volume di Silvana Sciarra, si tenta di individuare le chances e il contesto in cui si potrebbe rilanciare l’idea di un’Europa sociale. L’intensificarsi dell’integrazione tra Stati per fronteggiare la crisi economica, e in particolare quella del debito sovrano, ha sino a oggi riguardato solo il gruppo dell’eurozona, dando luogo a nuove istituzioni e a una governance più forte, ma all’insegna di discutibili politiche di austerity e con regole estranee al diritto dell’Unione. I diritti sociali e le politiche di sviluppo e di occupazione sono rimaste estranee, se non soccombenti, di fronte a tali trasformazioni. Come recuperare oggi (e per quali paesi) la dimensione sociale del «progetto europeo»?
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Fino a poco tempo fa quasi tutti i sindacati irlandesi hanno accettato la massima del «corporativismo competitivo»: accontentarsi di una fetta minore della torta per ricevere una torta più grande. Tuttavia, quando la bolla della «tigre celtica» è scoppiata e la social partnership è collassata, è divenuto evidente come gli anni della social partnership e di una crescita economica rivelatasi insostenibile avessero creato un movimento sindacale privo della sua capacità di agire in maniera indipendente. Il modello della «tigre celtica» può essere perciò compreso in maniera migliore se inserito nel contesto di un’applicazione pragmatica ed efficace dell’agenda neoliberale, nonostante l’inclusione dei patti sociali al suo interno sembri contraddire la teoria neoliberista.
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Produttività e salari stagnanti, domanda effettiva in contrazione, crescita ormai un miraggio, contrattazione in declino. Come riprendere un percorso virtuoso, anche ripensando obiettivi e metodi della contrattazione collettiva. La proposta di produttività programmata e contrattata può essere una ricetta? Condizione essenziale è la ripresa delle politiche keynesiane dal lato della domanda, con un forte ruolo pubblico.
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La tesi iniziale dello scritto è che la deludente dinamica nella produttività del lavoro, che caratterizza l’economia italiana dalla metà degli anni novanta, sia dovuta all’insufficiente realizzazione di innovazioni organizzative da parte delle nostre imprese nella manifattura e nei servizi. Pertanto, per recuperare i conseguenti divari di competitività, risulta necessario spingere le imprese di medio-piccola e piccola dimensione verso il cambiamento. Lo strumento scelto, che si basa sull’articolazione fra contrattazione nazionale e aziendale, è quello della cosiddetta «produttività programmata».
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Competere sui costi, precarizzando il lavoro e puntando esclusivamente al pareggio di bilancio, o rilanciare la crescita, sostenendo la domanda interna, l’occupazione e i redditi da lavoro? Solo questa seconda opzione ha un futuro, corredata da una politica industriale, come quella indicata nel nuovo Piano del Lavoro della Cgil, e da una riforma del sistema contrattuale più inclusivo, capace di estendere e riqualificare il secondo livello, entro regole democratiche certe, per ridare voce ai lavoratori.
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L’articolo esamina condizioni e problemi dell'ipotesi di legare la contrattazione salariale agli andamenti programmati a livello nazionale della produttività e argomenta le ragioni per le quali la produttività dovrebbe invece essere contrattata a livello aziendale. Nella seconda parte si espongono gli aspetti essenziali che, dal punto di vista delle imprese, caratterizzano il modello contrattuale definito dalle parti sociali negli ultimi anni.
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Il saggio prende in esame il tema della produttività, analizzandolo nei suoi vari e complessi risvolti, quantitativi e qualitativi; di misurazione statistica e di concettualizzazione teorica. In una prospettiva comparativa si approfondisce il caso italiano, rilevandone le criticità e i problemi, sia strutturali sia contingenti. Si sottolinea l’importanza del sistema delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva per favorire una crescita e un miglioramento della produttività. Infine vengono ripercorse le tappe che, nel corso dell’ultimo periodo, hanno registrato l’impegno dei governi e delle parti sociali per trovare rimedi alle scarse performance del nostro sistema produttivo. Con un’attenzione particolare agli ultimi accordi siglati dalle parti sociali.