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Dopo alcune chiarificazioni sul concetto di produttività, l’articolo sottolinea la necessità di operare una chiara distinzione tra i fattori determinanti della dinamica della produttività interni all’impresa e quelli esterni all’impresa. Una seconda necessaria distinzione è quella tra conseguenze e cause della crescita di produttività. La contrattazione collettiva dovrebbe riguardare tutti questi elementi, ma per essere più efficace dovrebbe essere inquadrata nell’ambito di un più comprensivo patto sociale che includa il governo. Infine, viene raccomandata l’adozione di un tasso programmato di crescita della produttività per evitare che il legame tra salari e produttività diventi un disincentivo per le imprese a investire in innovazione.
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Semplificando, la contrattazione nazionale è parte della politica macroeconomica: serve a evitare che il naturale egoismo delle imprese, volto a massimizzare il profitto, e dei lavoratori, volti a massimizzare il salario, distrugga l’economia, l’occupazione, lo standard di vita. La contrattazione decentrata è invece politica microeconomica, perché anche applicata a un gran numero di imprese e di territori non implica nulla per l’economia nel suo complesso. Il declino della prima non serve a fare della seconda un successo, anche perché, in tempi di crisi, il prodotto per addetto, se cresce ora qui ora lì nella geografia imprenditoriale, in media non cresce: perciò non cresceranno nemmeno i salari. Il terreno è quello giusto per l’intervento dello Stato, ma ciò può avvenire solo se si riesce a battere il mercantilismo dei paesi nordici dell’Eurozona.
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Per oltre vent’anni la contrattazione aziendale della produttività si è concentrata sulla retribuzione. La crisi, lo stallo della produttività e la competizione globale indicano alle relazioni industriali che la strada da percorrere è quella della contrattazione dell’innovazione organizzativa finalizzata agli incrementi di performance, e che i premi aziendali e gli incentivi pubblici alla contrattazione vanno indirizzati a questo obiettivo. Pratiche efficaci di innovazione nei luoghi di lavoro – la formazione, la flessibilità e la de-standardizzazione degli orari, il lavoro in team, il coinvolgimento dei lavoratori – possono aumentare enormemente sia la performance e la competitività aziendali sia la qualità del lavoro. È però necessario che le relazioni industriali a livello d’impresa riconquistino fiducia, recuperino competenza e si aprano alla partecipazione sindacale.
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Vari suggerimenti sono stati espressi negli ultimi anni per un Patto di produttività programmata articolato su due livelli, nazionale e aziendale. In questo lavoro si sostiene che la dinamica della produttività va contrattata a livello decentrato. Il carattere incentivante della proposta non è superiore a quello di altri sistemi già sperimentati con esito negativo. La mancata indicazione degli strumenti che ogni parte stipulante dovrebbe porre in atto può tradursi in un pericoloso loro atteggiamento parassitario o indurre le imprese a esasperare i ritmi della produzione, attuare un demansionamento delle qualifiche, allungare l’orario di lavoro o adottare strumenti comunque peggiorativi delle condizioni di lavoro.
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L’articolo parte dalla presa d’atto che la fase di crescita dell’economia che abbiamo conosciuto per cinquant’ anni è finita. Suggerisce poi una tesi insolita, cioè che il calo di produttività sia un effetto e non la causa della crisi. Propone quindi di concentrare l’azione sindacale sulla redistribuzione del lavoro (riduzione e flessibilizzazione dell’orario) e del reddito (detassazione dei salari e introduzione di una patrimoniale). Si dice infine favorevole a insistere sull’adeguamento organizzativo delle aziende e contrario a nuovi accordi centralizzati.
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Fino a poco tempo fa quasi tutti i sindacati irlandesi hanno accettato la massima del «corporativismo competitivo»: accontentarsi di una fetta minore della torta per ricevere una torta più grande. Tuttavia, quando la bolla della «tigre celtica» è scoppiata e la social partnership è collassata, è divenuto evidente come gli anni della social partnership e di una crescita economica rivelatasi insostenibile avessero creato un movimento sindacale privo della sua capacità di agire in maniera indipendente. Il modello della «tigre celtica» può essere perciò compreso in maniera migliore se inserito nel contesto di un’applicazione pragmatica ed efficace dell’agenda neoliberale, nonostante l’inclusione dei patti sociali al suo interno sembri contraddire la teoria neoliberista.
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Produttività e salari stagnanti, domanda effettiva in contrazione, crescita ormai un miraggio, contrattazione in declino. Come riprendere un percorso virtuoso, anche ripensando obiettivi e metodi della contrattazione collettiva. La proposta di produttività programmata e contrattata può essere una ricetta? Condizione essenziale è la ripresa delle politiche keynesiane dal lato della domanda, con un forte ruolo pubblico.
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La tesi iniziale dello scritto è che la deludente dinamica nella produttività del lavoro, che caratterizza l’economia italiana dalla metà degli anni novanta, sia dovuta all’insufficiente realizzazione di innovazioni organizzative da parte delle nostre imprese nella manifattura e nei servizi. Pertanto, per recuperare i conseguenti divari di competitività, risulta necessario spingere le imprese di medio-piccola e piccola dimensione verso il cambiamento. Lo strumento scelto, che si basa sull’articolazione fra contrattazione nazionale e aziendale, è quello della cosiddetta «produttività programmata».
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Competere sui costi, precarizzando il lavoro e puntando esclusivamente al pareggio di bilancio, o rilanciare la crescita, sostenendo la domanda interna, l’occupazione e i redditi da lavoro? Solo questa seconda opzione ha un futuro, corredata da una politica industriale, come quella indicata nel nuovo Piano del Lavoro della Cgil, e da una riforma del sistema contrattuale più inclusivo, capace di estendere e riqualificare il secondo livello, entro regole democratiche certe, per ridare voce ai lavoratori.
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Il saggio si propone di illustrare come sia necessario, accanto a uno studio delle regole che caratterizzano la contrattazione collettiva a livello comunitario, un approfondimento sui soggetti che stipulano i contratti collettivi a livello europeo. Partendo da una breve disamina delle norme che a livello comunitario si occupano di diritti e rappresentanza sindacale, il saggio illustra la necessità di superare la nota tendenza del diritto comunitario di astensione dal legiferare in materia di relazioni sindacali e di predisporre una legislazione di implementazione e di sostegno al diritto fondamentale, di cui all’art. 28 della Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea relativo al diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei propri interessi, compreso lo sciopero.
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Sullo sfondo di processi di internazionalizzazione le organizzazioni sindacali devono fare i conti con la loro limitata capacità di azione che è principalmente circoscritta entro i confini nazionali. Alla luce delle possibilità limitate di fissare delle norme giuridiche a livello transnazionale, l’opzione più incisiva a disposizione per creare un quadro di riferimento di diritti e standard di lavoro sembra consistere nelle forme di auto-regolamentazione attraverso la conclusione di Accordi aziendali transnazionali (Aat). Per comprendere meglio l’impatto effettivo di questi accordi sulle relazioni industriali nazionali è necessario cercare di capire se e in quale modo gli Aat siano stati applicati a livello nazionale. In questo articolo analizzeremo l’implementazione della Carta globale dei rapporti di lavoro firmata nel 2009 nel Gruppo Volkswagen. Lo studio di caso suggerisce che ciò che conta nel processo di implementazione è il coinvolgimento attivo dei diversi attori ai vari livelli.