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L’attenzione sulla regionalizzazione del welfare, specie in Italia, ha portato alla costruzione di diverse tipologie di welfare locale, che spesso vengono lette come forme «bonsai» dei regimi di welfare à la Esping-Andersen. Tramite una contestualizzazione sulla ristrutturazione dei rapporti territoriali nel welfare e un’analisi della letteratura italiana e internazionale dell’ultimo decennio sulla regionalizzazione del welfare, questo articolo intende evidenziare le criticità emergenti nella classificazione dei welfare regionali in Italia. In particolare, si noterà come un’inadeguata considerazione del frame nazionale nello strutturare la variazione locale costituisca una carenza significativa. L’articolo si conclude proponendo un’agenda di ricerca che, considerando la dimensione scalare, congiunga comparazione intranazionale e internazionale per contestualizzare il «regime di decentramento» italiano.
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La crisi economica finanziaria con le relative politiche di austerity ha acuito i processi di differenziazione regionale delle politiche sociali e sanitarie. Focalizzandosi sulle politiche di long-term care, lo studio analizza le esperienze di governance regionali attraverso l’esame dei piani di programmazione regionale di Veneto, Emilia-Romagna e Marche. Le regioni presentano contesti regolativi molto eterogenei, caratterizzati da differenti livelli di integrazione tra le varie politiche di welfare, ma anche tra i servizi territoriali all’interno delle stesse aree di intervento, e di integrazione tra cure formali offerte dai servizi e cure informali della famiglia. Differenze nelle esperienze di governance dell’integrazione nelle politiche di long-term care si trasformano in disuguaglianze istituzionali nelle risposte ad analoghi bisogni.
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Il lavoro ha come oggetto il tema dell’immigrazione a partire dalla più ampia problematica della cittadinanza, nelle sue diverse concezioni: giuridica, culturale, democratica. Il processo di inclusione degli immigrati viene inserito nella cornice delle diverse crisi – non solo quella economica e finanziaria – che segnano il mondo globale. Dopo un’analisi dei fenomeni migratori e delle procedure di acquisizione della cittadinanza in alcuni paesi europei, l’articolo si focalizza sul caso nazionale. Attraverso serie storiche di inchieste campionarie viene studiata la percezione dello «straniero», chiedendosi se la fase di crisi economica abbia minato le basi culturali e di atteggiamento del processo di inclusione in Italia. Nelle considerazioni conclusive si sottolinea la necessità di governare, attraverso politiche adeguate e lungimiranti, la questione dell’immigrazione e la più ampia tematica della cittadinanza alle quali si intrecciano gli andamenti dell’opinione pubblica. Le crisi della democrazia rappresentativa, dell’economia e della finanza, insieme alle implicazioni della società del rischio, definiscono lo scenario nel quale si inseriscono queste dinamiche.
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Questo articolo presenta un nuovo indicatore alternativo al Pil – l’Indice di benessere sostenibile (Ibs) – una versione modificata dell’Isew sviluppato da Daly e Cobb (1989). Si propone una misura sintetica di flussi che approssima in termini monetari il livello di benessere aggregato, inglobando i principali aspetti economici, ambientali e sociali in un’ottica di sostenibilità. Calcolato per l’Italia per il periodo 1960-2013, l’Ibs descrive l’ascesa e il declino del benessere sostenibile nazionale. I risultati empirici mostrano che nelle prime tre decadi il Pil pro-capite e l’Ibs pro-capite sono cresciuti in parallelo. Laddove il primo ha continuato a crescere fino al 2007, l’Ibs pro-capite ha raggiunto il picco massimo nel 1991, dopo si è stabilizzato con alcune oscillazioni rilevanti e infine dall’inizio della crisi economicofinanziaria del 2008 è diminuito in maniera preoccupante.
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L’approccio multidisciplinare allo studio del benessere ha permesso di affiancare al Pil nuovi strumenti per stabilire quanto stiamo bene. Il concetto di qualità della vita, in particolare, ha arricchito l’analisi del benessere attraverso l’utilizzo di un’ampia gamma di indicatori sociali, consentendo un’osservazione non solo oggettiva ma anche soggettiva del fenomeno. Su questo approccio innovativo è basato il focus dell’articolo, che presenta un’analisi del benessere soggettivo in Europa, delle sue determinanti principali, e un approfondimento sul rapporto tra ricchezza e benessere. L’obiettivo è evidenziare il contributo che lo studio soggettivo aggiunge alle informazioni di carattere oggettivo per le politiche sociali.
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Il rapporto tra formazione e lavoro è centrale nella strategia europea ma l’emergenza occupazionale attuale impone un ripensamento delle politiche. L’analisi delle transizioni ha evidenziato che il successo del lavoratore non dipende solo dalle competenze possedute ma anche dalla capacità di attivare e combinare risorse identitarie e sociali in un momento in cui le carriere si fanno più frammentate e incerte, con elevati rischi di intrappolamento, over-education e over skilling. Ciò ha contribuito a una crescente assunzione di responsabilità dei sistemi educativi, valorizzando la dimensione formale e informale dei processi di apprendimento. Pur in assenza di analisi puntuali, la valutazione delle recenti politiche attive nel paese, come il Progetto Neet o Youth Guarantee, conferma però i deficit delle politiche top down e incoraggia l’ampliamento del dibattito sull’innovazione partendo da esperienze alternative di tipo bottom up. Il contributo individua i tratti di iniziative «dal basso», riflettendo criticamente sulle loro caratteristiche di innovazione e sul rapporto tra formazione ed employability.
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Nel decreto legislativo n. 81/2015 (Jobs Act), il legislatore ha riscritto la disciplina dei contratti di apprendistato ispirandosi al sistema duale tedesco. Pertanto, viene esaminato tale ultimo modello per cogliere «assonanze» e «discrasie» con il sistema italiano, considerando che quello tedesco è una variante d’eccellenza nei sistemi di apprendistato in Europa. Posto che sarà compito degli enti deputati monitorare i dati occupazionali della tipologia in commento, l’articolo propone in ottica giuridica un esame della normativa italiana in raffronto con quella tedesca, fornendo altresì una panoramica introduttiva sulle politiche europee in materia, con l’auspicio che i pregi di una regolamentazione «duale» dell’apprendistato forniscano maggiori livelli occupazionali giovanili. Si analizza, pertanto, la tipologia di apprendistato collegata al sistema dell’istruzione: il contratto di apprendistato per la qualifica e diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore.
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L’articolo discute dell’ultimo libro di Anthony Atkinson (2015), mettendone in evidenza i molti meriti a partire dalla costruzione di una serie di proposte concrete e specifiche su un tema – la disuguaglianza – che, fuoriuscito analiticamente dal dimenticatoio in cui l’aveva confinato il neoliberismo dominante solo in conseguenza dei gravi effetti della crisi globale del 2007-2008 e solo grazie a lavori d’eccezione come quello di Piketty, politicamente tarda ancora a imporsi con la forza che sarebbe auspicabile e necessaria. In secondo luogo, Atkinson risale alle origini del deplorevole «stato del pensiero economico contemporaneo» tutto concentrato sul mercato del lavoro e assai disattento al mercato dei capitali, denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard, invoca «proposte più radicali» della semplice insistenza sull’innalzamento dell’istruzione della forza lavoro. Si spiega così come le proposte concrete di Atkinson siano disegnate con un mix stupefacente di radicalità e di pacatezza, il che conferisce loro il senso di un’audacia inconsueta e tuttavia realistica.
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Nella prima parte dell’articolo si evidenziano i principali pregi dell’ultimo libro – Inequality: what can be done? – di Tony Atkinson, l’autore a cui, più di ogni altro, si deve il merito di aver portato il tema delle diseguaglianze al centro dell’attenzione degli economisti. In questo libro Atkinson, dopo aver chiarito come la diseguaglianza non sia determinata da un singolo fattore, ma discenda da un processo complesso con molteplici meccanismi, delinea un’articolata strategia di policy necessaria per ridurre sia le diseguaglianze che si formano nei mercati, sia quelle dei redditi disponibili (ovvero, tenendo conto anche dell’azione redistributiva pubblica). Prendendo spunto da alcuni insegnamenti contenuti nel libro, nella seconda parte dell’articolo si discutono criticamente alcuni «luoghi comuni» che spesso riecheggiano nel dibattito sulle diseguaglianze, anche nel nostro paese, e che andrebbero confutati per delineare le basi di una visione condivisa di contrasto alla diseguaglianza.
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In Francia e negli Stati Uniti il degrado del patrimonio immobiliare di edilizia pubblica e la concentrazione della povertà in alcuni quartieri popolari hanno promosso, a partire dall’inizio degli anni 2000, la progettazione di programmi di rigenerazione urbana di ampia portata. Una questione rimane ancora in sospeso: quale profilo dare a questi programmi urbani caratterizzati da finalità sociali? L’articolo si occupa dell’ambiguità che riguarda tali programmi, in particolare nei casi delle città di Parigi e Chicago, osservando l’emergere del workfare come modello principale delle iniziative osservate.