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L’articolo sviluppa il dibattito sulle possibili riforme delle relazioni industriali in Italia in tre distinte ma collegate aree di discussione: la struttura della contrattazione collettiva, le modalità di partecipazione diretta dei lavoratori alle decisioni riguardanti l’organizzazione del lavoro in azienda, e il sistema di rappresentanza, collegato alla validità erga omnes dei contratti nazionali e aziendali. L’articolo sviluppa proposte in ciascuno di questi campi di indagine. Innanzitutto mostra come sia possibile riformare il sistema di contrattazione collettiva, lasciando al contratto nazionale il ruolo di determinare i salari minimi, con il contratto aziendale che determina invece la dinamica dei salari di fatto. In secondo luogo si auspica l’applicazione di un metodo di partecipazione diretta dei lavoratori all’organizzazione del lavoro che in qualche modo ricalca il modello duale tedesco, con la contrattazione che deve essere separata dalle pratiche partecipative.
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L’articolo prende spunto dalla presentazione del rapporto commissionato dal primo ministro francese a un gruppo di esperti al fine di indicare un percorso di riforma della contrattazione collettiva volto a rendere più dinamica tale forma di regolazione sociale rispetto alla complessità delle nuove sfide economico-sociali. Malgrado le differenze strutturali, le sfide con cui i sistemi di contrattazione collettiva francese e italiano si confrontano nei due paesi sono simili: l’analisi delle criticità rilevate e le proposte avanzate in quel contesto possono quindi fornire alcune indicazioni utili anche per la riforma del sistema contrattuale nel nostro paese.
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L’articolo analizza un campione di 20 accordi concessivi sottoscritti nell’industria metalmeccanica lombarda nel quadriennio 2008-2013. L’analisi si concentra sulle determinan- ti, sulle caratteristiche e sul metodo della contrattazione concessiva. Dal punto di vista qualitativo, i contenuti negoziali non implicano una disarticolazione degli assetti contrattuali: le concessioni generalmente assumono la forma di azioni di retrenchment volte ad allineare i contenuti della contrattazione aziendale agli standard minimi del Ccnl. Questo processo sembra tuttavia essere determinato, in molti casi, più dal maggior potere negoziale che alcuni tipi di aziende possono vantare nei confronti del sindacato, che da un orientamento fisiologico della contrattazione verso obiettivi condivisi di produttività e competitività. Il principale elemento di criticità di simili esperienze contrattuali sembra dunque essere l’approccio metodologico, posto che la maggior parte degli accordi scaturisce da strategie mana- geriali di tipo coercitivo e minaccioso («prendere o lasciare», pratiche di whipsawing, minaccia di disinvestimento o di spostamento della produzione all’estero).
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Fra le ricette che compongono la nuova governance economica europea, la revisione dei sistemi contrattuali ricopre un ruolo di forte preminenza. Grazie a essa, è l’assunto, i paesi più colpiti dalla crisi potrebbero recuperare quote di competitività, agendo sulla leva dei prezzi, e dunque dei costi del lavoro. Nella severa cornice dei Trattati, e sotto la vigile regia del Semestre europeo, le istituzioni europee hanno letteralmente dettato l’elenco delle riforme da adottarsi in tema di lavoro e relazioni industriali. L’obiettivo è quello di dotare le aziende della facoltà di determinare flessibilmente le condizioni salariali e di lavoro dei propri dipendenti. Ciò ha richiesto l’allentamento della tradizionale gerarchia delle fonti, ampliando le prerogative del contratto aziendale, congelando le procedure di estensione erga omnes e/o i salari minimi legali, dove vigenti, bloccando la contrattazione del settore pubblico. Fra i paesi che più hanno patito il combinato disposto di queste misure vi sono Spagna, Portogallo e Italia, storicamente accomunati da certo grado di coordinamento della contrattazione, e oggi costretti a fare i conti con una spinta al decentramento, inedita anche per il carattere unilaterale e non concertato dell’interventismo pubblico. L’articolo ne ricostruisce tappe, contenuti e criticità, rilevandone analogie e divergenze, sotto il profilo dei risultati e del diverso rapporto fra Stato e autonomia collettiva.
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Agli inizi degli anni duemila ci si attendeva che il regime di governance associato alla moneta unica potesse «salvare l’Italia» costringendo gli attori economici e la classe politica a ristrutturarsi e a cambiare. A distanza di 15 anni è opportuno prendere atto che tali aspettative non si sono realizzate e interrogarsi lucidamente sul da farsi. Non solo l’adesione ai vincoli europei non ha salvato l’Italia, ma ha contribuito probabilmente (per quanto la pro- va controfattuale non sia disponibile) alla sua stagnazione. I sindacati e le associazioni imprenditoriali farebbero bene a rendersi conto che un sistema istituzionalizzato di relazioni industriali è difficilmente compatibile con l’imperativo di «svalutazione interna» – l’unico meccanismo di aggiustamento dell’eurozona – e che piani alternativi di distribuzione più equa dei costi dell’aggiustamento tra paesi forti e paesi deboli sono politicamente poco probabili.
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