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Attraverso l’indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia, l’articolo analizza l’andamento della ricchezza in Italia dal 1991 al 2014. Si valuterà inoltre in che dimensione la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza è associata a fattori quali differenze nel livello di reddito familiare permanente oppure quanto è forte il peso dell’eredità nel determinare gli esiti distributivi
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L’articolo propone un esame critico delle recenti politiche contro la povertà in Italia e dei loro possibili sviluppi. Dopo aver sintetizzato le tendenze del fenomeno dell’indigenza durante la recessione iniziata nel 2008, ci si sofferma sull’evoluzione delle politiche e ci si concentra sugli atti compiuti dal Governo Renzi, con particolare riferimento alla presentazione di un disegno di legge delega in materia di povertà. Successivamente viene esaminata la platea dei beneficiari del Sostegno per l’inclusione attiva (Sia), prestazione transitoria in attesa dell’introduzione del Reddito d’inclusione (Rei) previsto dalla delega. Il target di utenza del Rei non è stato – al momento di scrivere – definito. Il contributo presenta infine, pertanto, una discussione dei possibili profili della platea interessata dalla nuova misura, per verificare, nelle varie alternative, la distanza rispetto all’obiettivo di un intervento universalistico contro la povertà assoluta.
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Sulla base di un insoddisfacente sistema italiano tax benefit (contributi sociali, Irpef, addizionali, assegni e bonus) è stata qui proposta una riforma con l’obiettivo di aliquote gradualmente e regolarmente crescenti, un sostegno per i nuclei poveri o con figli, un’azione redistributiva efficace con cuneo fiscale ridotto a bassi redditi. I risultati sembrano mostrare un raggiungimento degli obiettivi, con una riduzione della concentrazione dei redditi, della povertà e del cuneo fiscale, e un incremento del supporto monetario per la cura dei figli.
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L’articolo presenta una panoramica delle riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia a partire dalla fine degli anni Novanta, evidenziando una sostanziale linea di continuità, costituita dall’ampliamento del ricorso a tipologie contrattuali atipiche nei rapporti di lavoro. Se l’introduzione del Jobs Act lasciava presagire il passaggio a una tipologia contrattuale unica, il contratto a tutele crescenti, l’ampliamento della deregolamentazione dei contratti a termine ha disatteso questa aspettativa. Mentre nel 2015 lo sgravio contributivo concesso alle imprese sulle nuove assunzioni con il contratto a tutele crescenti sembra aver prodotto un effetto importante, già nei primi otto mesi del 2016, quando lo sgravio è stato ridotto al 40%, l’andamento dei flussi sembra tornato in linea con il trend degli anni precedenti. Inoltre, l’aumento del ricorso a forme contrattuali atipiche si è registrato in maniera più forte nei settori produttivi dove il livello di flessibilità era già alto. Se si guarda anche alla distribuzione territoriale, emerge che le regioni che presentano situazioni più critiche in termini di occupazione sono quelle che sperimentano una diminuzione più consistente nel ricorso a contratti a tempo indeterminato.
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In questo articolo si esaminano le politiche adottate in Italia per affrontare i problemi congiunti della bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e dell’iniqua distribuzione tra i generi del carico di lavoro domestico e di cura. Se le iniziative di gender mainstreaming possono influenzare il «senso comune», un cambiamento più profondo richiede interventi volti a rimuovere gli ostacoli materiali che si oppongono all’emancipazione femminile. In Italia, in particolare, è importante la realizzazione di un sistema di servizi di cura di buona qualità per bambini e anziani, in tutte le regioni, a tariffe accessibili.
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Le dimensioni complessive del sistema italiano di welfare non sfigurano nel confronto internazionale, ma i servizi sociali, programmati a livello regionale e operati a livello locale, mostrano un’evidente arretratezza e una forte disomogeneità territoriale. Se, in generale, fanno fatica a offrire adeguate risposte a coloro che si trovano in stato di bisogno, in alcune aree del paese la probabilità di non ricevere aiuto è elevata, il che alimenta le diseguaglianze. Di fatto, i servizi sociali hanno assunto un ruolo marginale nelle politiche nazionali, sono diventati bersaglio di tagli di spesa e non sono riusciti a legittimarsi come sistema di protezione. Anche quando la crisi economica e l’aumento della domanda sociale hanno imposto di dare maggiore attenzione agli strumenti di contrasto alla povertà e all’inclusione sociale, le politiche si sono focalizzate prevalentemente sui trasferimenti monetari, piuttosto che sul potenziamento della rete dei servizi.
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Alla luce di recenti studi condotti dalla Fondazione di Vittorio sui temi del welfare, l’articolo analizza i bilanci comunali rispetto alla spesa sociale, agli ambiti di compartecipazione, alle entrate fiscali e tributarie, alle criticità e rigidità economicofinanziarie, provando inoltre a connettere tali vincoli con le opportunità per il sindacato nella contrattazione sociale e territoriale. In tal modo si mette in evidenza il nesso tra i due pilastri della contrattazione sociale stessa: la fiscalità locale, da una parte, e il sistema dei servizi dall’altro. Rispetto ai bilanci comunali, l’articolo approfondisce la dinamica della spesa a partire dal 2007, in particolare per i servizi residenziali per anziani, i servizi per minori e i servizi di assistenza e beneficenza pubblica.
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L’aumento delle disuguaglianze è un tratto che caratterizza l’attuale modello di sviluppo ed è alla radice della crisi globale. In Italia, il progressivo aumento delle disuguaglianze, soprattutto nella distribuzione primaria del reddito, ha portato al declino che ha preceduto la crisi e alla maggiore intensità recessiva tra tutte le principali economie industrializzate. Tale debolezza strutturale dell’economia nazionale va attribuita a una politica economica fondata sulla deregolazione e sulla svalutazione competitiva del lavoro, importante causa del disallineamento tra salari e produttività. Per una migliore predistribuzione e redistribuzione del reddito occorrono nuovi lineamenti di politica economica, un moderno sistema di relazioni industriali e un nuovo Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici. Creare, rappresentare e tutelare il lavoro, per ridurre le disuguaglianze e aumentare la crescita.
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Il verbale di sintesi del 28 settembre 2016 intervenuto tra il governo e Cgil-Cisl-Uil segna un primo passo d’interventi sui tema della previdenza. Parte da alcune emergenze, come i lavoratori precoci e gli addetti ai lavori usuranti e l’intervento a sostegno delle pensioni in essere, per arrivare a definire una griglia di materie che saranno oggetto del confronto nei primi mesi del 2017. Non tutte le soluzioni individuate sono a nostro giudizio all’altezza delle problematiche presenti, a partire dalla scelta del governo di non percorrere la strada dell’intervento in ambito previdenziale per anticipare le uscite per le pensioni di vecchiaia ma quella di uno strumento di anticipo finanziario. Negli interventi e nella prospettiva sono però presenti novità positive come il riconoscimento della diversità dei lavori ai fini dell’accesso al pensionamento e dell’adeguamento dei requisiti all’attesa di vita. Siamo davanti a primi passi, la valutazione non potrà che realizzarsi al termine del percorso di confronto che nella «fase 2» riguarderà in particolare gli interventi sulla necessità di correttivi al sistema contributivo.
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Negli ultimi vent’anni il sistema pensionistico italiano è stato oggetto di continui interventi di riforma che hanno modificato il metodo di calcolo, con il passaggio al contributivo, elevato i requisiti di età per il pensionamento e rallentato l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione. Scopo principale delle riforme è stato contenere nell’immediato la spesa pensionistica e renderla finanziariamente sostenibile nel medio lungo periodo. L’articolo fa una sintesi degli andamenti economici e finanziari del sistema previdenziale, in chiave retrospettiva e nelle proiezioni di lungo termine. Ciò che emerge conferma come gli interventi del legislatore abbiamo conseguito importanti risultati sul piano della sostenibilità finanziaria. Tuttavia, il venir meno di alcuni elementi qualificanti del progetto originale alla base della riforma del 1995, la cui gradualità si è scontrata con i vincoli stringenti di bilancio, ha acuito i problemi di protezione per i giovani, le donne e i lavoratori più svantaggiati. Anche gli interventi dell’ultima Legge di bilancio, pur adottando misure per ridare un po’ di flessibilità all’età di ritiro, non affrontano il problema sostanziale dei meccanismi ridistributivi idonei a ridurre i rischi di reddito e a proteggere i lavoratori più deboli.
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La riforma pensionistica licenziata con la Legge di stabilità 2017 contiene numerose misure che segnano una significativa discontinuità rispetto ai provvedimenti anti-crisi adottati nel periodo 2009-11. Ciò non soltanto per il carattere espansivo dell’intervento, che mira in primo luogo a contrastare le più dure conseguenze sociali delle riforme precedenti, ma anche perché la riforma riconosce il principio che, ove giustificate sul piano dell’equità, regole previdenziali diverse possano sussistere per differenti figure professionali e categorie di lavoratori. Fino a che punto, tuttavia, le misure adottate possono ritenersi adeguate, ed efficaci, nell’affrontare le principali criticità del sistema pensionistico italiano, quale emerso da due decenni di riforme prevalentemente sottrattive, e che ne hanno ridisegnato l’architettura in senso multi-pilastro? L’articolo mira dunque a rispondere al quesito valutando i provvedimenti contenuti nella Riforma Poletti-Renzi rispetto a quattro fondamentali dimensioni: sostenibilità economicofinanziaria, inclusività del sistema e avanzamento del processo di riconfigurazione multi-pilastro, adeguatezza delle prestazioni, equità del sistema.