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Le conseguenze economiche e sociali della pandemia richiedono alternative nel modo di guardare e descrivere il Paese. Ciò che viene messo in discussione è soprattutto l’idea dell’agglomerato umano e della metropoli come unico punto di vista appropriato per garantire sviluppo economico, benessere sociale e servizi essenziali adeguati. La crisi dell’egemonia delle metropoli riflette, più in generale, la rottura della linearità del modello di sviluppo imperante del secolo scorso, ovvero l’idea che la diffusione del progresso economico e sociale avvenga lungo traiettorie unidirezionali da Nord a Sud, da città a campagna, dalle grandi alle piccole imprese, dall’industria all’agricoltura. Questa rappresentazione, sebbene finora dominante in letteratura, sottovaluta le complementarità tra le parti: cioè che le condizioni di sicurezza delle pianure dipendono dalla presenza umana sia in collina che in montagna, così come la qualità delle foreste incide sui livelli di salute dei centri abitati situato nella valle. Sono mondi diversi ma interconnessi. Tuttavia, osservare il Paese dai margini non significa ignorare l’importanza delle città e delle metropoli, della loro vitalità creativa e innovativa in campo sociale, produttivo e civile. Al contrario, i fattori di agglomerazione, che favoriscono i luoghi altamente popolati, sono ancora importanti nella società e nell’economia contemporanea. Tuttavia, è essenziale e opportuno guardare alle connessioni e alle complementarità tra città e campagna, tra pianura e montagna, tra luoghi «pieni» e «vuoti».
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L’influenza positiva che un ambiente familiare ha sull’autonomia, l’autostima, la sicurezza e il benessere psico-fisico spiega la volontà degli anziani di voler vivere nella propria abitazione. La tutela di questa positiva relazione, su cui si fonda il valore della domiciliarità, rende necessaria un’azione di adeguamento dell’ambiente di vita degli anziani, in particolare non autosufficienti e soli, ai nuovi standard qualitativi oggi possibili. Questo significa costruire intorno all’anziano un ambiente «amico» capace di fornirgli un tessuto di servizi di prossimità che gli consentano la permanenza nella sua abitazione adeguando-la alle sue esigenze.
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Gli anziani ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) sono stati il gruppo popolazionale più colpito dalla pandemia. A tutt’oggi le istituzioni contentive rappresentano la prevalente risposta ai bisogni di popolazioni non autosufficienti o portatori di disabilità mentale e intellettuale. Questa risposta istituzionale rappresenta la prevalente offerta di «long term care» per anziani e disabili nel nostro paese. Il Coronavirus ha mostrato il fallimento del modello residenziale e ha messo in discussione il modello ospedaliero e quello esclusivamente biomedico: abbiamo bisogno di innovazione ossia di un insieme di interventi che avvengono nei centri di salute territoriali o anche al domicilio del paziente. Il virus non è democratico e colpisce chi sta peggio ma non è il virus che deve diventare più democratico bensì le risposte dei sistemi sanitari e di welfare che devono ristabilire la democrazia.
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La drammatica emergenza scatenata dalla pandemia da Covid-19 ha rivelato la forza e la debolezza del nostro Servizio sanitario nazionale. Da una parte si è vista quanto sia stata importante la presenza di servizio sanitario pubblico e universale nell’arginare i danni che la pandemia altrimenti avrebbe provocato. Dall’altra però si è rivelata tutta la fragilità di un sistema sottoposto, negli ultimi dieci anni, a ripetuti tagli nel finanziamento, che ne hanno indebolito la struttura e impedito le innovazioni necessarie. Ora, con le ingenti risorse messe a disposizione grazie agli accordi raggiunti in sede di Ue, per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), si presenta un’occasione unica per ricostruire e innovare il nostro sistema di welfare sociosanitario. La priorità che propone l’articolo, riprendendo diversi appelli della società civile e le Raccomandazioni dell’Oms, è concentrare le risorse per potenziare la prevenzione e la rete dei ser-vizi sociali e sociosanitari nel territorio e domiciliari, in modo da costruire la risposta più appropriata alla domanda di salute e di cure che proviene dai crescenti bisogni legati alla diffusione delle malattie croniche e delle varie forme di non autosufficienza, connesse con l’invecchiamento della popolazione, e che peraltro riguardano proprio le persone più esposte agli stessi rischi da Covid-19.
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In questo articolo l’attenzione è concentrata sul Piano nazionale di resilienza e ripresa italiano alla luce del paradigma dell’Investimento sociale (Is), la prospettiva di ricalibratura del welfare al centro dei principali tentativi riforma promossi dalle istituzioni europee negli anni passati. L’analisi proposta mira a esaminare se e quanto l’Is sia attrezzato per rispondere alle nuove domande di protezione sociale sorte in seguito alla pandemia, riconsiderando le opzioni percorribili per intervenire sui nodi critici del sistema di welfare italiano, sia quelli di lungo periodo (l’infrastrutturazione sociale e la carenza di servizi di welfare), sia quelli che si sono manifestati più di recente con l’ultima tornata di riforme che hanno riguardato in particolare le politiche di contrasto alla povertà e inserimento attivo nel mercato del lavoro.
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Il contributo ha l’obiettivo di analizzare i vantaggi e i possibili rischi associati all’uso di algoritmi per poter accedere a sempre più servizi in campo sociale. Da un lato si sostiene che gli algoritmi siano sempre più incomprensibili, anche agli stessi progettisti, perché l’algoritmo iniziale diventa altro da sé in seguito ai processi di machine learning. Alcuni autori sostengono che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo ordine capitalista basato sulla sorveglianza digitale e che siamo passati a una condizione di cultura della sorveglianza. Alston (2019) parla di «welfare state digitale» per riferirsi ai tentativi di rendere più efficienti e mirati i servizi prestati, mentre da più parti si richiama il rischio di minare ulteriormente i diritti dei già emarginati, esacerbando la disuguaglianza e la discriminazione, anziché attenuarle – come spesso è suggerito dai fautori dell’estensione dell’automazione anche alle politiche di welfare. Basti pensare al caso PredPol, un software nato con il proposito di prevenire la criminalità perché – si sostiene – in grado di prevedere il comportamento criminale, mentre non fa altro che procedere per inferenza a partire dai dati già in possesso della polizia locale (con tutti i problemi legati alla sovra- o sotto-rappresentazione di alcune categorie sociali nelle statistiche sulla criminalità).
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L’evoluzione dell’imposizione Irpef in Italia non ha avuto le stesse conseguenze per tutte le classi di reddito. Si può individuare una traiettoria in riduzione per i redditi bassi come per quelli molto alti. Per i redditi medi da lavoro, invece, l’imposizione diretta sul reddito è cresciuta dal 7,2% del 1974 fino all’attuale aliquota attorno al 20%. Se si considerano anche i redditi esenti Irpef e tassati separatamente, per i top incomers si arriva ad aliquote paragonabili a quelle che si applicano a redditi da lavoro medio-alti. Alcuni interventi da porre in atto nella prossima riforma fiscale non sono rinviabili, specie in relazione alla base imponibile.
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Questo articolo presenta i risultati di una ricerca qualitativa che ha inteso esplorare il ruolo e le funzioni del servizio sociale nell’ambito delle cure palliative in Italia. I dati raccolti attraverso interviste semi-strutturate evidenziano la complessità dell’esercizio del ruolo, all’interno di contesti organizzativi orientati da assunti più vicini ad una cultura della medicina tradizionale e influenzati da una logica economica, in cui l’orientamento al contenimento dei costi rischia di oscurare il valore della relazione e della cura. La discussione dei risultati è utile a riflettere sul posizionamento del servizio sociale nei servizi per la salute, e consente di evidenziare criticità e nuove possibilità per le attuali politiche sociali e sanitarie.
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Sull’onda degli effetti esplosivi di una crisi economica e sociale ormai più che decennale, il tema della povertà è tornato al centro del discorso pubblico e della produzione culturale. Il successo recente di film come Joker o Parasite sta lì a testimoniarlo. Contestualmente, e in parte indipendentemente, un’altra crisi ha investito il piano politico e simbolico. Il vocabolario politico otto-novecentesco sembra non far più presa su una realtà radicalmente trasformata: così, da più parti, si invoca la sostituzione del concetto di classe con quello di popolo, e conseguentemente dell’opposizione orizzontale destra/sinistra con quella verticale alto/basso. Una tale operazione, solo apparentemente plausibile, risulta tuttavia, a uno sguardo più attento, intimamente problematica e logicamente aporetica. Chi è in basso, e chi in alto? Il «basso» può davvero parlare? E in caso, che valore si deve assegnare alla sua parola? Obiettivo di questo volume è usare la categoria di povertà come grimaldello per esporre e far saltare queste aporie. A questo scopo, vengono qui riuniti i contributi di cinque giovani ricercatrici e ricercatori, tutti provenienti da prospettive disciplinari differenti: diritto, sociologia, etnografia, filosofia politica, critica letteraria. La scommessa è che le questioni metodologiche diverse che il confronto con l’oggetto «povertà» pone nei rispettivi campi possano essere utilmente messe al servizio di un lavoro di concettualizzazione politica. L’analisi di singoli casi studio determina infatti, in primo luogo, un effetto di deontologizzazione: non tanto la povertà, ma i poveri. E non tanto ciò che i poveri sono, ma ciò che i poveri fanno. Nel libro sarà cioè questione di pratiche, e non di essenze. Di qui un ulteriore risultato: mostrare come i confini tra i poveri e «noi» siano molto più labili di quel che si crede. E come, dunque, la categoria di povertà possa rivelarsi l’indice di una nuova politica dell’emancipazione.
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