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Il contributo ragiona sulla dialettica tra istituzioni chiuse e aperte e sulla necessità di abbattere i muri – tra saperi, discipline, poteri, ambiti – per costruire un sistema che vada verso i bisogni e i diritti delle persone, verso una «città che cura», una città capace di trovare risposte ai bisogni individuali, affrontandoli come laboratori di risposte a problemi e a domande collettivi. Si tratta di una prospettiva concreta che potrà arricchirsi nei prossimi anni se i distretti sociali e sanitari sapranno diventare luoghi aperti, istituzioni mobili e flessibili entro cui organizzare risposte intersettoriali ai bisogni di salute.
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A fronte della crescente complessità di bisogni e rischi sociali e della contrazione delle risorse disponibili, gli enti locali, sebbene con profonde differenze, hanno intrapreso interessanti percorsi di innovazione sociale che stanno ridisegnando le strutture del welfare locale e il concetto stesso di «politica pubblica». In queste sperimentazioni, ricomprese nello schema del secondo welfare, gli enti locali diventano promotori di reti e attivatori delle risorse presenti sui territori, mantenendo il ruolo di garanti dei diritti sociali in ultima istanza. Il modello che ne deriva non è però immune a rischi, a cominciare da un’accentuazione delle disparità territoriali, e richiede adeguati investimenti e politiche di supporto.
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L’integrazione europea ha cominciato a svilupparsi dalla fondazione della Comunità europea per il carbone e l’acciaio e il Trattato di Roma degli inizi e della metà degli anni cinquanta, ed è sostanzialmente e principalmente di natura economica. Le quattro note libertà che il processo di integrazione intende promuovere riguardano fattori economici – beni, manodopera, servizi, capitali – grazie ai quali si crea un mercato comune. Nel corso della storia la creazione di mercati liberi ha sempre provocato – da parte dei protagonisti politici a livello nazionale – reazioni volte a limitare...
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L’elaborato analizza la storia e il ruolo svolto dall’Istituto di promozione dei lavoratori della Provincia autonoma di Bolzano. Ci si sofferma, in particolare, sul legame tra l’Istituto altoatesino e le Arbeiterkammer austriache, dalle quali l’Istituto trae ispirazione. Viene analizzata la struttura dell’Istituto a partire dalla legge istitutiva e dallo Statuto che ne disciplina gli organi e il funzionamento. Vengono quindi illustrate le materie di cui si occupa l’Istituto e le attività svolte, che sono principalmente la formazione, la ricerca e la consulenza. L’analisi della realtà dell’Istituto di promozione dei lavoratori conduce a un ragionamento più generale sull’importanza di un buon sistema di relazioni industriali, basato sulla partecipazione, per poter coniugare le esigenze delle imprese che chiedono maggiore produttività e innovazione e le esigenze dei lavoratori che, attraverso la contrattazione decentrata, possono ottenere benefit economici legati all’andamento della produzione. Si analizzano, infine, punti di forza e di debolezza dell’Istituto per rendere l’Alto Adige un nuovo modello di relazioni industriali partecipative.
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Più 142%: è stato questo l’incremento degli individui in povertà assoluta nel nostro paese tra il 2005 e il 2015, saliti dal 3,3% (1,9 milioni) sino al 7,6% del totale (4,6 milioni), con un parallelo aumento dei nuclei familiari coinvolti dal 3,6% (820 mila) al 6,1% (1,58 milioni). L’ampiezza della crescita quantitativa della povertà, però, rischia di distogliere l’attenzione dall’elemento di maggiore novità dell’ultimo decennio, cioè i cambiamenti distributivi che si sono accompagnati alla salita del tasso complessivo. In una prospettiva di medio-lungo periodo, infatti, emerge una profonda modificazione non solo nell’incidenza della povertà assoluta, ma anche nella sua distribuzione tra i diversi gruppi sociali interessati e, di conseguenza, nella composizione complessiva della popolazione colpita. Tuttavia, non sono stati ancora pubblicati – a conoscenza di chi scrive – lavori scientifici dedicati all’analisi delle trasformazioni menzionate. L’articolo intende contribuire a colmare questa lacuna.
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Questo Rapporto si occupa principalmente del diritto dell’Unione Europea, cercando di offrire prospettive giuridiche alla questione controversa degli accordi transnazionali d’impresa (Tca, Transnational company agreements), così da suggerire un quadro giuridico opzionale entro cui collocare gli accordi applicabili all’interno dei confini dell’Unione. Al fine di ampliare l’orizzonte del nostro lavoro, e con esso le possibili scelte legislative da operare, saranno proposti alcuni riferimenti anche a fonti di diritto internazionale. Il metodo suggerito è collegato al fatto che i Tca sono firmati da imprese transnazionali, e che queste operano sia nell’Unione sia al di fuori di essa.
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In questo articolo ci si interroga su come dare maggiore incisività alla governance dell’Agenda sociale europea e maggiore «socializzazione» all’attuale strategia verso gli obiettivi di Europa 2020. Le autrici sostengono che le carenze del Metodo aperto di coordinamento europeo sono legate alla vaghezza del legame tra obiettivi e politiche degli Stati membri. In questo quadro il coordinamento sociale europeo si riduce a programmi di lavoro tecnici senza un fattivo collegamento con gli input delle politiche. Come primo passo in questa direzione la proposta delle autrici è quella di integrare i cosiddetti «indicatori ausiliari di risultato (output)» con i relativi «indicatori di input». L’inserimento di input di questo tipo consentirebbe alla governance europea di emanare raccomandazioni più equilibrate e coerenti, sostenendo gli sforzi dei paesi membri nell’elevare gli standard delle politiche di contrasto della povertà.
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Il contributo ha l’obiettivo di analizzare i vantaggi e i possibili rischi associati all’uso di algoritmi per poter accedere a sempre più servizi in campo sociale. Da un lato si sostiene che gli algoritmi siano sempre più incomprensibili, anche agli stessi progettisti, perché l’algoritmo iniziale diventa altro da sé in seguito ai processi di machine learning. Alcuni autori sostengono che stiamo assistendo alla nascita di un nuovo ordine capitalista basato sulla sorveglianza digitale e che siamo passati a una condizione di cultura della sorveglianza. Alston (2019) parla di «welfare state digitale» per riferirsi ai tentativi di rendere più efficienti e mirati i servizi prestati, mentre da più parti si richiama il rischio di minare ulteriormente i diritti dei già emarginati, esacerbando la disuguaglianza e la discriminazione, anziché attenuarle – come spesso è suggerito dai fautori dell’estensione dell’automazione anche alle politiche di welfare. Basti pensare al caso PredPol, un software nato con il proposito di prevenire la criminalità perché – si sostiene – in grado di prevedere il comportamento criminale, mentre non fa altro che procedere per inferenza a partire dai dati già in possesso della polizia locale (con tutti i problemi legati alla sovra- o sotto-rappresentazione di alcune categorie sociali nelle statistiche sulla criminalità).
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Roma 2016: 170.000 residenti nelle case popolari, 73.000 alloggi pubblici per un valore stimabile in 22 miliardi di euro, 16.000 famiglie in lista di attesa, 8.000 in emergenza abitativa, 30.000 in difficoltà con il pagamento degli affitti di cui 10.000 con sfratto esecutivo, 10.000 occupanti abusivi, 5.000 assegnatari decaduti, 1.000 case popolari occupate ogni anno, 30 milioni di spesa per i residence, 500 milioni di debito ICI da parte degli enti gestori e 700 milioni di deficit manutentivo. Sebbene il problema casa appaia inestricabile e numericamente insormontabile, questa pubblicazione si propone di porre ordine nella materia, al di là dei luoghi comuni e dei proclami scandalistici che troppo spesso ne avvelenano il dibattito. Un sistema in crisi in cui la Capitale d’Italia incarna tutti i mali della nazione, ma ha anche tutte le potenzialità che, dopo un riassetto organico della materia, potrebbero finalmente riuscire a dare delle risposte concrete alla pressante emergenza abitativa.
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