• Nell’articolo – frutto di un intervento in un corso di formazione – l’Autore pone al centro della propria riflessione il passaggio cruciale che affronta oggi il sindacato, laddove per la pri- ma volta nella sua storia centenaria ne vengono poste in discussione il ruolo e la struttura. Funzionale a questa analisi è la ricostruzione delle tappe principali della storia del sindaca- lismo confederale dalle origini, passando per l’età liberale fino alla prima guerra mondiale e soffermandosi in particolare sul complesso rapporto sindacato-istituzioni e sindacato-partito.
  • Il background teorico che sottostà al ritorno d’attenzione alle questioni della politica industriale contiene elementi analitici nuovi che si discostano drasticamente da approcci tradizionali, sostanzialmente coincidenti con l’idea di limitarsi a fornire alle imprese e al mondo produttivo nuova attività regolatoria e incentivi indiretti (tra cui spiccano quelli fiscali) e con l’invito a stimolare la concorrenza. L’approccio maggiormente di rottura con le analisi e le pratiche invalse con il lungo ciclo neoliberista è quello dello Stato «strategico» e dei suoi rapporti con l’«innovazione», uno Stato più avventuroso e più disponibile ad assumere rischi della stessa iniziativa privata (certamente nella ricerca scientifica e tecnologica ma pure nei campi delle nuove domande sociali o del risanamento ambientale, del riassetto dei territori e della riqualificazione urbana), uno Stato il quale, oltre che indirettamente – mediante incentivi, disincentivi e regolazione –, interviene direttamente, cioè guidando e indirizzando intenzionalmente ed esplicitamente con strumenti appositi. Proprio l’estensione del cam- biamento tecnologico e l’emergenza di nuovi settori – come internet, le biotecnologie, le nanotecnologie, l’economia «verde» – mostrano che lo Stato non interviene solo per contrastare le market failures o per farsi carico della generazione di esternalità, ma rispondendo a motivazioni e obiettivi strategici. Infatti, l’operatore pubblico è l’unico in grado di porsi la do- manda: «Che tipo di economia vogliamo?». L’emergenza di nuovi complessi di attività si deve a un intervento pubblico che non si limita a neutralizzare le market failures, ma che inventa, idea, crea lungo tutta la catena dell’innovazione.
  • La transizione verso l’economia della conoscenza è molto più accidentata di quanto fosse stato anticipato. La comprensione dei cambiamenti strutturali che caratterizzano la transizione verso l’economia della conoscenza è indispensabile sia per distinguere tra dinamiche di breve e di lungo termine sia per identificare i caratteri emergenti dei sistemi economici avanzati. La tradizione schumpeteriana è fondamentale per capire i caratteri e le conseguenze del profondo processo di trasformazione strutturale in corso. La sua integrazione con la tradizione keynesiana consente di mettere a fuoco la nozione di domanda pubblica compe- tente come strumento efficace per «uscire» dalla crisi che è determinata dai cambiamenti dal lato dell’offerta. La crescita della domanda pubblica deve essere finanziata con l’inclusione dei redditi da capitale nei redditi assoggettati alla progressività. Allo scopo di sostenere e accelerare la transizione è indispensabile accompagnare l’uso della domanda pubblica competente con una vera e propria politica economica della conoscenza basata su: i) il rafforzamento dell’infrastruttura di ricerca pubblica; ii) sostegno selettivo all’educazione terziaria finalizzato alla crescita dell’offerta di specifiche capacità Ict; iii) la fornitura di una capillare infrastruttura digitale che aiuti a ridurre i costi di accesso e assimilazione dell’esistente riserva di conoscenza quasi-pubblica; iv) il rafforzamento dell’interazione tra ricerca pubblica e privata; v) una forte domanda pubblica competente di beni e servizi capace di soste- nere la crescita dei Kibs; vi) il sostegno attivo agli investimenti intangibili e alla domanda derivata dei Kibs.
  • Il capitalismo non ristagna in generale, ma in Europa e ancor più in Italia. La risposta va in primo luogo ricercata nell’investimento pubblico. Esso può avere effetti rilevanti sia sulla domanda globale sia sulla produttività delle imprese. La carenza degli investimenti pubblici – scemati ovunque nelle economie avanzate – è particolarmente grave in Italia, non solo nel Mezzogiorno.
  • Gli ultimi decenni hanno visto una estesa privatizzazione della conoscenza che è diventata una delle componenti più importanti del capitale delle imprese. Le rendite monopolistiche della conoscenza privata hanno fatto crescere i profitti ma hanno avuto effetti negativi sulla crescita economica e sulla distribuzione della ricchezza. Nuove economie di scala e di scopo hanno favorito imprese di grandi dimensioni. Questo contesto ha visto un declino dell’eco- nomia italiana che richiede interventi pubblici adeguati alla natura monopolistica dell’economia della conoscenza.
  • In questo articolo sono proposte alcune riflessioni circa la natura e l’evoluzione della politica industriale e il ruolo dello Stato quale attore capace di indirizzare in modo «strategico» lo sviluppo delle economie, così come descritto da Pennacchi (2016). Viene discussa, inoltre, la relazione tra la politica industriale e il contesto macroeconomico e istituzionale – con specifico riferimento alle istituzioni del mercato del lavoro – nell’ambito del quale la stessa politica è disegnata e implementata. Si sottolinea come l’efficacia della politica industriale può essere minata allorquando il contesto macroeconomico si caratterizzi per una debole dinamica della domanda aggregata (e, in particolare, della componente pubblica della stessa domanda) e per istituzioni del mercato del lavoro che tendano a facilitare l’adozione di strategie competitive basate sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità, l’innovatività dei prodotti e sull’investimento in capitale umano. Infine, si discute criticamente l’approccio di politica economica sin qui adottato in Europa identificando nell’adozione di grandi progetti «mission oriented» (a guida pubblica) una strada alternativa per stimolare efficace- mente la crescita economica e la trasformazione tecnologica dell’economia europea. L’analisi condotta si basa su una serie di recenti contributi sugli stessi temi (Cimoli, Dosi, Stiglitz 2009; Mazzucato et al. 2015; Dosi et al. 2016; Fana, Guarascio, Cirillo 2016; Guarascio, Simonazzi 2016).
  • La stagnazione che continua a caratterizzare la zona dell’euro, e le vecchie e nuove incertezze rappresentate dall’uscita dell’Inghilterra dall’Unione europea, dalla difficile situazione patrimoniale delle banche, non solo italiane, dalla irrisolta crisi greca, tratteggiano un orizzonte cupo per il futuro dell’area, e soprattutto per la sua periferia meridionale. È qui infatti che la crisi ha colpito più duramente, sia a seguito delle fragilità con cui questi paesi sono entrati nell’Unione, sia per le politiche seguite prima e nella crisi. Mentre un’inversione delle politiche macroeconomiche è certamente indispensabile, cresce la consapevolezza che le sole politiche di espansione della domanda non sono sufficienti per fare ripartire una crescita sostenibile. Sono tuttavia grandi le divergenze su quali «politiche dell’offerta» e che tipo di «riforme strutturali» siano necessarie. Se da un lato si sottolinea la necessità di ancora maggiore de-regolamentazione dei mercati del lavoro e dei prodotti, dall’altro cresce il consenso sulla necessità di una «nuova» politica industriale. Diverse sono però le interpretazioni sul come attuarla. Dopo un breve richiamo dell’evoluzione della teoria dello sviluppo, il saggio analizza le diverse possibili modalità attuative di una nuova politica industriale che vada a sostenere la crescita e lo sviluppo dei paesi della «periferia» dell’eurozona.
  • Gli investimenti pubblici sono stati una delle voci maggiormente sacrificate nella stretta fiscale del triennio 2010-2013, che origina da fattori teorici, istituzionali e politici profondi. Dopo le elezioni europee del 2014 i Socialisti e democratici hanno avviato una correzione delle politiche di austerità che si è concretizzata nella Comunicazione sulla flessibilità e nel Piano Juncker. La fragilità della ripresa e i venti contrari alla crescita rendono ora necessario un orientamento più marcatamente espansivo della politica fiscale europea e in partico- lare di un’azione più forte a sostegno degli investimenti pubblici e privati.
  • L’articolo analizza le traiettorie dei sindacati in Trentino e la loro interazione con gli altri attori. Il ritratto che emerge dalla survey, basata su interviste a sindacalisti e delegati, è quello di un sindacato molto solido tanto sul piano sociale che su quello dell’accesso all’arena politico-istituzionale. La variabile chiave usata per spiegare questo relativo maggior successo consiste nel processo di concertazione istituzionalizzata che aiuta le relazioni industriali e supplisce ai loro limiti.
  • Il tema proposto dalla ricerca, di cui questo saggio è parte integrante, è relativo all’analisi comportamentale dei soggetti che svolgono lavori ad alto rischio in cantieri socialmente sensibili blindati – come quello dell’Alta Velocità della Val di Susa. Il saggio, oltre a far «conoscere» i lavoratori applicati nel cantiere, analizza sia il grado di relazioni esistenti con la popolazione della vallata, avversa all’opera, sia il rapporto con le forze dell’ordine e i media. Emerge ad esempio, una contrapposizione tra il valore attribuito all’opera dal movimento NoTav e quello dato dai lavoratori. In sintesi: il senso, il valore il contenuto per un’opera che la popolazione non vuole in quanto costosa, non utile e devastante per l’ambiente contrapposto alla necessità di reddito per i lavoratori applicati alla costruzione della Tav. Una contrapposizione che ha portato alla militarizzazione del cantiere, a militarizzare il lavoro. Il saggio cerca di rispondere anche a una domanda: perché nessuno parla di questi lavoratori? e anche: perché il loro silenzio? e come leggere la mancanza del racconto della comunità del lavoro del cantiere? Si può considerare il cantiere della Val di Susa simile ad altri cantieri edili e di conseguenza «chiuderlo e leggerlo» solamente nel perimetro contrattuale; oppure il cantiere Tav rappresenta un paradigma, quello dell’attuale sviluppo basato sulle grandi opere che divide l’opinione pubblica, e quindi si sta da una parte o dall’altra. Un vero conflitto pertanto che impedisce una possibile saldatura tra due diverse comunità.
  • Dieci anni fa, a Vienna, nasceva la Confederazione internazionale dei sindacati (Csi), dalla fusione delle precedenti Cisl internazionale e Cmt. Pochi mesi dopo cominciava la grande crisi globale, che tuttora attanaglia l’economia mondiale, con il suo portato di disoccupazione, diseguaglianze, ulteriore spinta a politiche neoliberiste contrarie ai diritti sociali e del lavoro. Come ha operato, in questi dieci anni, la Csi? Il presente lavoro – suddiviso in due parti – cerca di dare una panoramica dell’azione della Csi, soprattutto nei confronti delle istituzioni internazionali e della «leadership» globale, facendo la cronaca delle sue posizioni e dei suoi rapporti verso Ilo, G8-G20, Fmi e Banca mondiale, Ocse, Omc.
  • Il saggio illustra lo stato di salute della partecipazione dei soci e dei lavoratori in alcune a- ziende cooperative. La crisi economica della prima metà di questo decennio ha colpito pe- santemente le imprese cooperative, causando rilevanti danni alla loro capacità competitiva. La crisi ha pesato anche sulla partecipazione: in molti casi, amministratori e management hanno creduto di poter affrontare le difficoltà riducendo gli spazi della partecipazione, e in qualche caso perfino nascondendo la gravità delle situazioni critiche. Le procedure parteci- pative sono state formalmente rispettate, ma è stata sottovalutata la risorsa che la partecipa- zione può rappresentare proprio nei momenti difficili per imprese che hanno la partecipa- zione nel loro dna fondativo. Il saggio si conclude con alcune osservazioni e proposte sulle modalità per rivitalizzare la partecipazione dei soci e dei lavoratori, e alcune osservazioni sul ruolo giocato dai sindacati.
  • Mimmo Carrieri è docente di Sociologia economica presso l’Università di Roma «Sapienza».
  • Durante gli ultimi tre decenni è profondamente mutato il quadro normativo nazionale italiano della contrattazione collettiva. Il contratto nazionale ha visto ridurre i suoi confini a favore di un decentramento di secondo livello di natura aziendale, settoriale e territoriale. Nel presente lavoro ripercorriamo i tratti salienti di questa trasformazione e analizziamo le conseguenze economiche di tale mutamento. Dai dati aggregati emerge un impatto complessivamente negativo della deregolamentazione del mercato del lavoro su produttività, accumulazione e progresso tecnologico.
  • Nella prima parte l’articolo analizza la contraddizione presente nel sistema italiano di con- trattazione collettiva tra, da un lato, l’incentivazione del decentramento, che implica una sempre più ampia devoluzione di competenze dal contratto di categoria al secondo livello negoziale e indebolisce la funzione dei contratti nazionali sia di definire i minimi di trat- tamento economico e normativo, sia di coordinare la contrattazione decentrata; e, dall’altro lato, la limitata estensione di questa contrattazione, soprattutto di ambito aziendale. In questa luce l’articolo esamina, poi, il documento Un moderno sistema di relazioni indu- striali, presentato da Cgil, Cisl e Uil il 14 gennaio 2016, per valutare se le modifiche in materia di struttura della contrattazione collettiva in esso proposte siano o meno idonee a risolverne i problemi preservando, però, il modello di sistema contrattuale finora prevalente in Italia: quello del decentramento organizzato e coordinato dal centro.
  • Il saggio analizza le recenti forme di autoregolazione concordate fra le parti collettive su te- mi centrali delle relazioni industriali, rappresentatività sindacale a livello nazionale, rap- presentanze aziendali, rapporti fra i livelli contrattuali, formazione ed effetti degli accordi aziendali, e discute dei possibili interventi legislativi su questi temi. Si sostiene la possibilità di un rinvio legislativo ai criteri di rappresentatività concordati dalle parti nel T.U. del gennaio 2014 e di un simile rinvio all’autoregolazione anche riguardo alla configurazione delle rappresentanze sindacali aziendali e alla formazione degli accordi aziendali. Sono invece rilevati limiti alla possibile regolazione per legge dei rapporti fra di- versi livelli della contrattazione collettiva e dell’efficacia generale dei contratti nazionali. In- fine si esaminano le norme della legge di stabilità 2016 che incentivano i premi di produt- tività e il welfare aziendale e prevedono incentivi aumentati in presenza di forme di parte- cipazione dei lavoratori.
  • Il lavoro propone un’analisi storico-economica del ruolo dell’applicazione incompleta e di- storta del modello contrattuale del Protocollo ’93 nel declino dell’economia italiana. Oltre all’abbandono del primo pilastro (la concertazione della politica economica) e alla totale di- sapplicazione del quarto (la modernizzazione delle imprese e il potenziamento del lavoro), il mancato sviluppo della contrattazione decentrata ha comportato la sistematica rottura della «regola d’oro» dei salari (crescita dei salari reali nella stessa misura della produttività del lavoro), costituendo un’insostenibile tutela de facto dei profitti al di là dei meriti di mercato, che ha frenato i consumi delle famiglie e rallentato l’ammodernamento delle im- prese. Una quantificazione controfattuale della redistribuzione dai salari ai profitti operata dal «Protocollo più che dimezzato» stima in 1.069 miliardi di euro a prezzi 2005 l’importo totale del flusso dal 1993 al 2012. Da allora le parti sociali, e soprattutto il sindacato con- federale, hanno fatto significativi passi avanti per recuperare alle relazioni industriali un ruolo propulsivo dello sviluppo, ma sono necessarie ancora importanti riforme in linea con il documento sindacale unitario del 25 gennaio 2016. Anzitutto ristabilire una forma di coordinamento tra la contrattazione e gli obiettivi di politica economica del governo; poi contrattare l’ammodernamento e riorganizzare i luoghi di lavoro; programmare obiettivi di crescita del valore aggiunto e dei salari reali; contrattare l’entità della quota del lavoro nel valore aggiunto; diffondere la contrattazione decentrata, soprattutto sviluppando la contrat- tazione territoriale.
  • Qualsiasi riflessione sui temi della democrazia e della partecipazione in tutti i luoghi di la- voro necessita di un’analisi dell’intreccio tra l’art. 39 della Costituzione, l’art. 19 dello Sta- tuto dei lavoratori e il ruolo della rappresentanza e della rappresentatività oggi. I padri costituenti conferirono al lavoro un «valore fondativo per tutto l’assetto costituzio- nale italiano». La Costituzione repubblicana tutela il lavoro, lo sostiene come diritto indi- viduale e collettivo e ne afferma il diritto per ciascun cittadino ad averlo e l’obbligo per le istituzioni di tutelarlo. È emersa in questi anni una Costituzione «materiale» attraverso un’attuazione di fatto della norma che riconosceva una rappresentanza unitaria assunta co- me paritetica di Cgil-Cisl-Uil, considerata attraverso il principio della maggiore rappresen- tatività, investita dell’autorità e del potere di stipulare non solo contratti ma anche accordi con imprese e governo validi per tutti i lavoratori. In questa fase particolare si registra un passaggio dalla contrattazione collettiva a quella in- dividuale, una cancellazione del conflitto sociale e delle forme collettive di governo nel con- flitto stesso e una riproposizione del rapporto individuale tra lavoratore e datore, tipico degli albori dello Stato liberale. Per queste ragioni non è più rinviabile l’applicazione dell’art. 39 della Costituzione se si vuole ritenere ancora il lavoro un valore e uno strumento centrale per l’affermazione della promessa di eguaglianza della Costituzione. La risposta delle parti sociali (endo-sindacale) è quella del Testo unico sottoscritto da Confin- dustria e Cgil, Cisl e Uil, e successive analoghe intese con Confservizi-Cispel, Alleanza coo- perative e Confcommercio per porre fine alla «extratteritorialità democratica».
  • È in gioco una concezione della democrazia che emargina i «corpi intermedi» attraverso il rapporto diretto tra il governo (o chi lo presiede) e i cittadini. Una prassi che evoca il mo- dello peronista nel rivolgersi direttamente al popolo e quello thatcheriano nel non riconoscere il ruolo della rappresentanza sociale. Il sindacato può essere preso come riferimento di de- mocrazia: non è il solo voto congressuale che legittima un dirigente eletto. Esiste, infatti, un processo costante di confronto, di dibattito e di verifica: ad esempio, i percorsi di costruzione e approvazione dei contratti collettivi ai vari livelli o l’articolazione della rappresentanza che arriva fino ai livelli aziendali (Rsu e Rsa). Il ruolo delle parti sociali, del dialogo sociale e della contrattazione è essenziale. Un arretramento su questo terreno ci colloca fuori dal dettato costituzionale e ci allontana dal modello sociale europeo. L’accordo del 10 gennaio 2014 (Testo unico sulla Rappresentanza) tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria e il documento unitario per un moderno sistema di relazioni industriali – presentato il 14 gennaio 2016 – stabiliscono regole per l’esercizio della rappresentanza e della contrattazione come fattori di democrazia e di crescita.
  • Nel saggio vengono prese in esame le attuali iniziative volte a rafforzare la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, allo scopo di valutare la conformità delle soluzioni proposte con l’attuale cornice normativa. L’Autore esamina innanzitutto la possibile intro- duzione di forme di partecipazione cd. «strategica» che prevedano la nomina da parte dei lavoratori di uno o più membri degli organi di controllo o di gestione delle società di capitali di maggiori dimensioni, sulla scia del modello tedesco. In secondo luogo, vengono esplorate le potenzialità di un collegamento tra decentramento contrattuale, produttività e partecipazione cd. «organizzativa» in grado di costituire il prologo per lo sviluppo in futuro di forme partecipative anche in ambito gestionale. In seguito, l’Autore si interroga sul tipo di intervento maggiormente in linea con il quadro normativo, come pure sulle sue eventuali ricadute sistemiche, dedicando le riflessioni conclusive alle caratteristiche e alla posizione della forza lavoro che da più parti si vorrebbe vedere maggiormente coinvolta nelle scelte azien- dali all’interno dell’attuale mercato del lavoro.
  • Fino a pochissimo tempo fa, la leadership imprenditoriale e politica europea non reputava necessario introdurre qualsivoglia forma di coordinamento delle relazioni industriali a li- vello Ue. Tuttavia, nel novembre 2011 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato un nuovo sistema di governance economica europea che rende le politiche sul lavoro degli Stati membri passibili di procedure multilaterali di sorveglianza. Il saggio esamina questa «rivoluzione silenziosa» dall’alto e valuta in che modo il mondo del lavoro organizzato ha risposto a questa sfida. Il testo spiega come il nuovo sistema di governance non segua il clas- sico modello di Stato federale, ma riproduca piuttosto le strutture di governance delle im- prese multinazionali, che controllano le loro filiali locali mettendole l’una contro l’altra e o- perando raffronti coercitivi. La difficoltà dei sindacati e dei movimenti sociali europei a po- liticizzare la governance economica europea trova allora migliore spiegazione nella capacità del nuovo sistema sovranazionale Ue di nazionalizzare i conflitti sociali.
  • Dieci anni fa, a Vienna, nasceva la Confederazione internazionale dei sindacati (Csi), dal- la fusione delle precedenti Cisl internazionale e Cmt. Pochi mesi dopo cominciava la grande crisi globale, che tuttora attanaglia l’economia mondiale, con il suo portato di disoccupazio- ne, diseguaglianze, ulteriore spinta a politiche neoliberiste contrarie ai diritti sociali e del lavoro. Come ha operato, in questi dieci anni, la Csi? Il presente lavoro – suddiviso in due parti – cerca di dare una panoramica dell’azione della Csi, soprattutto nei confronti delle istituzioni internazionali e della «leadership» globale, facendo la cronaca delle sue posizioni e dei suoi rapporti verso Ilo, G8-G20, Fmi e Banca mondiale, Ocse, Omc.
  • Fra le ricette che compongono la nuova governance economica europea, la revisione dei sistemi contrattuali ricopre un ruolo di forte preminenza. Grazie a essa, è l’assunto, i paesi più colpiti dalla crisi potrebbero recuperare quote di competitività, agendo sulla leva dei prezzi, e dunque dei costi del lavoro. Nella severa cornice dei Trattati, e sotto la vigile regia del Semestre europeo, le istituzioni europee hanno letteralmente dettato l’elenco delle riforme da adottarsi in tema di lavoro e relazioni industriali. L’obiettivo è quello di dotare le aziende della facoltà di determinare flessibilmente le condizioni salariali e di lavoro dei propri dipendenti. Ciò ha richiesto l’allentamento della tradizionale gerarchia delle fonti, ampliando le prerogative del contratto aziendale, congelando le procedure di estensione erga omnes e/o i salari minimi legali, dove vigenti, bloccando la contrattazione del settore pubblico. Fra i paesi che più hanno patito il combinato disposto di queste misure vi sono Spagna, Portogallo e Italia, storicamente accomunati da certo grado di coordinamento della contrattazione, e oggi costretti a fare i conti con una spinta al decentramento, inedita anche per il carattere unilaterale e non concertato dell’interventismo pubblico. L’articolo ne ricostruisce tappe, contenuti e criticità, rilevandone analogie e divergenze, sotto il profilo dei risultati e del diverso rapporto fra Stato e autonomia collettiva.
  • Agli inizi degli anni duemila ci si attendeva che il regime di governance associato alla moneta unica potesse «salvare l’Italia» costringendo gli attori economici e la classe politica a ristrutturarsi e a cambiare. A distanza di 15 anni è opportuno prendere atto che tali aspettative non si sono realizzate e interrogarsi lucidamente sul da farsi. Non solo l’adesione ai vincoli europei non ha salvato l’Italia, ma ha contribuito probabilmente (per quanto la pro- va controfattuale non sia disponibile) alla sua stagnazione. I sindacati e le associazioni imprenditoriali farebbero bene a rendersi conto che un sistema istituzionalizzato di relazioni industriali è difficilmente compatibile con l’imperativo di «svalutazione interna» – l’unico meccanismo di aggiustamento dell’eurozona – e che piani alternativi di distribuzione più equa dei costi dell’aggiustamento tra paesi forti e paesi deboli sono politicamente poco probabili.
  • La possibilità di applicazione dei contratti collettivi coordinati multi-employer, caposaldo della regolamentazione del mercato del lavoro nei paesi dell’Europa occidentale, è stata ulteriormente indebolita con l’avvento della crisi. La spinta continua al decentra- mento aveva già nel tempo ridotto la capacità degli accordi di settore di definire stan- dard universali applicabili a livello aziendale. I meccanismi procedurali di articolazio- ne tra i due livelli di contrattazione sono, infatti, divenuti progressivamente più deboli e incerti. Con l’avvento della crisi, nei paesi dell’Europa settentrionale questo processo si è spinto ulteriormente avanti; nell’Europa meridionale è invece in corso un vero e pro- prio attacco – sostenuto dalle istituzioni europee – nei confronti degli accordi di contrattazione multi-employer. Le misure di rafforzamento della governance economica europea indotte dalla crisi rendono più urgente la necessità di un coordinamento transnazionale della contrattazione; tuttavia l’indebolimento delle capacità di coordinamento effettivo dei sistemi nazionali di contrattazione indebolisce questa prospettiva.
  • Questo articolo si basa su quattro argomentazioni. In primo luogo la contrattazione collettiva è in grado di mitigare gli effetti negativi generati dalla volatilità del mercato e dal processo di adattamento alle sue regole, attraverso la definizione di intese che garantiscono certezza sostanziale e procedurale sia ai lavoratori sia ai datori di lavoro, e una maggiore sicurezza ai lavoratori. In secondo luogo le intese contrattuali multi-employer sono più idonee a svolgere questa funzione rispetto a quelle single-employer. In terzo luogo vi sono differenze istituzionali fra le intese contrattuali multi-employer relative alla governance della contrattazione aziendale che influenzano in misura notevole la loro capacità di promuovere certezza e sicurezza del lavoro. In quarto luogo la pressione dovuta alla crisi sta accelerando l’adattamento al mercato della contrattazione collettiva multi-employer, con effetti potenzialmente dannosi sulla sua capacità di attenuare le spinte negative.