• L’articolo analizza le traiettorie dei sistemi «mediterranei» di relazioni industriali, identificando due tendenze comuni: l’unilateralismo del governo e il decentramento in deroga della contrattazione collettiva. Dopo avere preso in esame l’efficacia dei cambiamenti imposti in Spagna e in Italia, l’autore si concentra sul caso francese. Qui la vitalità della contrattazione collettiva e della consultazione tripartita ha attenuato il tradizionale predominio della regolazione pubblica. Tuttavia è ancora il governo a fissare le scadenze della consultazione, che dal 2000 si basa sulla richiesta di decentramento in deroga da parte dei datori di lavoro. Dopo il fallimento del 2015, il governo cerca di imporre un’iniziativa legislativa unilaterale.
  • La possibilità di applicazione dei contratti collettivi coordinati multi-employer, caposaldo della regolamentazione del mercato del lavoro nei paesi dell’Europa occidentale, è stata ulteriormente indebolita con l’avvento della crisi. La spinta continua al decentramento aveva già nel tempo ridotto la capacità degli accordi di settore di definire standard universali applicabili a livello aziendale. I meccanismi procedurali di articolazione tra i due livelli di contrattazione sono, infatti, divenuti progressivamente più deboli e incerti. Con l’avvento della crisi, nei paesi dell’Europa settentrionale questo processo si è spinto ulteriormente avanti; nell’Europa meridionale è invece in corso un vero e proprio attacco – sostenuto dalle istituzioni europee – nei confronti degli accordi di contrattazione multi-employer. Le misure di rafforzamento della governance economica europea indotte dalla crisi rendono più urgente la necessità di un coordinamento transnazionale della contrattazione; tuttavia l’indebolimento delle capacità di coordinamento effettivo dei sistemi nazionali di contrattazione indebolisce questa prospettiva.
  • CM 6-2019

    12.00 
    Editoriale
    Aldo Tortorella, L’eredità di un trentennio 
     
    Osservatorio
    Giulio Marcon, L’economia italiana vaso di coccio tra i giganti globali 
    Giorgio Mele, L’Umbria e l’Italia
    E. Igor Mineo, L’occasione perduta di una nuova sinistra europea
    Vittorio Sergi, Il Rojava tra confederalismo democratico e monoculture autoritarie
    Paolo Soldini, Trent’anni dopo: Berlino in cerca di una vera leadership europea 
    Guido Liguori, Per la difesa della storia e della memoria, contro l’equiparazione di comunismo e nazismo 
     
    Laboratorio politico
    Roberto Finelli, Nuove tecnologie, mente orizzontale e diritto al riconoscimento
    Eleonora Piromalli, Una teoria critica della società capitalistica da Nancy Fraser e Rahel Jaeggi
    Sergio Dalmasso, Sartre e la rivolta d’Ungheria del 1956
     
    Ripensando il passato
    Aldo Tortorella, La rivoluzione russa e lo Stato sovietico 
     
    Schede critiche
    Sergio Caserta, Sindrome 1933 e sindrome leghista 
    Alberto Leiss, Una via digitale al “NeoSocialismo”? 
  • Agli inizi degli anni duemila ci si attendeva che il regime di governance associato alla moneta unica potesse «salvare l’Italia» costringendo gli attori economici e la classe politica a ristrutturarsi e a cambiare. A distanza di 15 anni è opportuno prendere atto che tali aspettative non si sono realizzate e interrogarsi lucidamente sul da farsi. Non solo l’adesione ai vincoli europei non ha salvato l’Italia, ma ha contribuito probabilmente (per quanto la prova controfattuale non sia disponibile) alla sua stagnazione. I sindacati e le associazioni imprenditoriali farebbero bene a rendersi conto che un sistema istituzionalizzato di relazioni industriali è difficilmente compatibile con l’imperativo di «svalutazione interna» – l’unico meccanismo di aggiustamento dell’eurozona – e che piani alternativi di distribuzione più equa dei costi dell’aggiustamento tra paesi forti e paesi deboli sono politicamente poco probabili.
  • L’attuale modello di sviluppo è insostenibile, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Conflitti, cambiamenti climatici, disuguaglianze crescenti che determinano povertà e migrazioni di massa sono sfide che mettono in discussione la tenuta stessa del pianeta, non in un futuro ipotetico, ma da qui a poche decine di anni. Ecco allora che il concetto di «sostenibilità» diventa la chiave di volta per ripensare le direttrici dello sviluppo, tanto che l’Onu ha individuato in un documento («Agenda 2030») i 17 obiettivi da raggiungere entro i prossimi 12 anni per evitare il collasso. L’Italia, pur avendo fatto alcuni passi avanti nell’ultimo periodo, è ancora ben lontana dal raggiungimento degli standard previsti. Per questo quella attuale deve necessariamente essere «la legislatura dello sviluppo sostenibile». Questa è almeno la convinzione di Pierluigi Stefanini ed Enrico Giovannini, rispettivamente presidente e portavoce di ASviS, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, nata proprio per far crescere nella società italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 e degli obiettivi in essa contenuti. Ma come stanno andando le cose? Il governo è sensibile a questo tipo di tematiche? Quella della «sostenibilità» può essere una battaglia intorno alla quale coalizzare una nuova esperienza politica anche a sinistra? Su questi grandi interrogativi, ma anche su molte altre tematiche (dal ruolo della cooperazione a quello dei corpi sociali, dal cambiamento del lavoro alla rivoluzione tecnologica), si confrontano Enrico Giovannini e Pierluigi Stefanini, dando vita a una conversazione schietta e vivace, capace di offrire spunti interessanti per la costruzione di una visione politica nuova.