• Durante il regime nazionalsocialista si verificò una certa eclissi della classe operaia tedesca come soggetto sociale autonomo in grado di condizionare, seppur parzialmente, la politica e la guerra. La classe operaia tedesca per certi versi perdette consistenza come forza autonoma e venne integrata in misura importante nei meccanismi totalitari, di cui condivise alcuni indubbi vantaggi, sottoposta a un livellamento sociale e culturale che ne alterò il profilo e ne ridefinì parzialmente valori e modelli di comportamento. Lo sfruttamento delle risorse, materiali e umane, dei popoli sottomessi a vantaggio della popolazione tedesca modificò sensibilmente anche le condizioni sotto le quali il mondo del lavoro affrontava la guerra, almeno fin quando i bombardamenti strategici degli Alleati sulla Germania non renderanno le condizioni di vita della popolazione durissime. Inoltre, il regime fu capace di introdurre misure riguardanti il diritto del lavoro che mostravano un’attenzione reale e non solo retorica al mondo del lavoro: a titolo esemplificativo possiamo citare la protezione contro i licenziamenti ingiustificati, il salario garantito in caso di malattia, miglioramenti della previdenza sociale, l’equiparazione tra operai e impiegati ecc. Le reazioni alle difficoltà della guerra per la classe operaia non si tradussero in un protagonismo collettivo quanto piuttosto nell’accentuazione di una tendenza già avvertibile negli anni di pace: il ritiro nel privato, l’isolamento dall’esterno e la limitazione dell’interesse alle cose di importanza più immediata. Il movimento nazionalsocialista, inoltre, avviò nella società una mobilità verticale sostanzialmente sconosciuta alla Germania. Il regime, a maggior ragione negli anni della guerra, puntò decisamente sulla razionalità e la modernità in campo tecnico ed economico a dispetto di un’ideologia strettamente legata all’antimodernismo völkisch. Questo favorì come non mai la concentrazione industriale conferendo una spinta decisiva al concentramento della forza lavoro nelle grandi industrie. Le tradizionali barriere professionali e i limiti geografici del mercato del lavoro vennero letteralmente spazzati via dal controllo statale sull’impiego di manodopera favorendo una mobilità enorme sia territoriale che sociale.
  • L’attenzione politica verso i sistemi elettorali è giustificata dall’ipotesi discutibile che esercitino un’influenza decisiva sul grado di frammentazione del sistema partitico e quindi sulla durata dei governi. Di fatto, secondo questo argomento, il grado di frammentazione di un sistema partitico sarebbe determinato dal sistema elettorale, e questo ultimo dunque sarebbe Le leggi elettorali e il falso mito deQlla loro influenza sulla «governabilità» 225 la causa principale della presenza dei partiti anti-sistema, dell’instabilità del governo e della coesione variabile della maggioranza che lo sostiene nell’arena parlamentare. Dopo aver discusso e criticato questa ipotesi generale, questo articolo presenta un quadro comparativo di dati sulla durata dei governi nelle democrazie europee, suggerendo delle spiegazioni alternative. In effetti, lo status dei governi nelle democrazie europee varia a seconda del loro grado di integrazione nell’arena parlamentare. Viene formulata una nuova ipotesi generale, in base alla quale quanto più un governo è integrato nell’arena parlamentare, tanto più estesa risulta la sua durata in carica. I dati comparativi supportano quest’ipotesi e gettano nuova luce sul legame tra governo e processo democratico.
  • L’articolo è un commento dell’ultimo lavoro di Guido Baglioni La disuguaglianza e il suo futuro nei paesi ricchi. Dopo aver discusso la contrapposizione tra differenze e disuguaglianze, rilevando il ruolo decisivo della valutazione sociale, la tesi della relativa autonomia delle disuguaglianze nelle condizioni di vita dalla disuguaglianza economica viene messa in relazione con il filone di ricerche sul benessere sociale, secondo il quale la qualità della vita non dipende semplicemente dal Pil pro capite. Questo nuovo approccio, elaborato dal noto rapporto di Stiglitz, Sen e Fituossi (2009) e adottato anche da Oecd e Istat, fornisce un sostegno anche alla tesi di una tendenza all’avvicinamento delle diseguaglianze nelle condizioni di vita. Tendenza che però sembra destinata ad arrestarsi, se non a invertirsi, per la crescente polarizzazione della struttura occupazionale, che frena la mobilità sociale ascendente e provoca anche rischi di mobilità discendente.
  • In questo articolo si analizzano i mutamenti nei profili di rischio povertà in alcuni paesi europei, con una particolare attenzione all’Italia e alla Germania, nella stretta connessione tra politiche di contrasto della povertà e i cambiamenti intervenuti nella struttura produttiva. La tesi sostenuta è che il rischio povertà non sia da mettere in relazione solo alla limitatezza o agli orientamenti delle politiche sociali, ma anche alle trasformazioni che hanno investito la struttura produttiva, a partire dal processo di terziarizzazione dell’economia. Troppo spesso il dibattito sul reddito minimo e le varie forme di sostegno del reddito trascura questi aspetti, come se il problema del rischio povertà associato al lavoro potesse essere affrontato solo dal lato delle politiche sociali. Le determinanti della domanda di lavoro rivestono invece una importanza cruciale, anche ai fini di ipotesi di riforma delle politiche di reddito minimo. L’articolo è organizzato come segue. Nella prima parte viene presentato il quadro relativo alle trasformazioni del rischio povertà in Italia e in alcuni paesi europei. Nella seconda il focus è spostato sulla Germania, esaminando i cambiamenti che hanno riguardato le politiche e la struttura del mercato del lavoro. Da qui, nell’ultima parte, il caso tedesco viene confrontato con quello italiano, presentando alcune considerazioni finali sulle politiche di reddito minimo.
  • Negli ultimi decenni le politiche di reddito minimo in Europa hanno cambiato poco a poco la loro impostazione originaria. Nate nel secondo dopoguerra come strumenti passivi di protezione del reddito dei poveri, si sono evolute negli anni novanta in politiche di inclusione sociale, capaci di affiancare servizi di inserimento socio-lavorativo al trasferimento monetario, fino a diventare negli ultimi anni vere e proprie politiche di attivazione dei beneficiari. L’articolo prova a chiedersi se la recente influenza dell’approccio del Social Investment nelle politiche sociali europee, sostenuta a livello comunitario, possa aver contribuito a intensificare questa tendenza, oppure se sia il sentiero di policy intrapreso in ogni paese ad aver segnato le singole traiettorie di trasformazione delle politiche di reddito minimo. L’analisi del caso inglese, apripista dell’introduzione del reddito minimo e delle sue trasformazioni in Europa servirà per provare a rispondere a questi interrogativi.
  • Il presente articolo si propone l’obiettivo di fornire un inquadramento generale dello stato delle politiche di reddito minimo nell’Unione europea. A tal fine vengono analizzati due aspetti principali. Innanzitutto si presentano l’evoluzione storica e i tratti fondamentali degli schemi di reddito minimo nei paesi membri. Inoltre si esamina il ruolo delle politiche di contrasto alla povertà nel dibattito europeo, ritracciando il percorso delle politiche di reddito minimo nelle fonti del diritto europeo (di hard e soft law). Alla luce dei principi idealmente indicati dall’Unione europea dagli anni novanta ad oggi, l’articolo delinea dunque un breve quadro comparativo dello stato dell’arte degli schemi effettivamente vigenti nei paesi membri.
  • Il contributo affronta il tema del contrasto alla povertà nella prospettiva del diritto del lavoro. Il principio lavoristico che permea la Costituzione osta, di principio, all’erogazione di un reddito a carico della fiscalità generale in assenza di una controprestazione di lavoro. Né tale assunto, ad oggi, è scalfito dalle disposizioni del diritto dell’Unione europea. L’attuale disciplina del cosiddetto reddito di inclusione, peraltro, non appare idonea a favorire l’inclusione sociale, anche per l’ineffettività degli strumenti di condizionalità. Non sembrano poi sufficientemente valorizzati, nella lotta alla povertà, il ruolo conferito dalla stessa Costituzione alla famiglia e agli enti della società civile.
  • Il lavoro ricostruisce sul piano storico-analitico le politiche di reddito minimo in Italia dell’ultimo ventennio. Delle varie misure introdotte si analizzano le caratteristiche distintive, mettendone in rilievo i pro e i contro. Il lavoro si conclude con un esame sintetico delle principali questioni che il consolidamento di una misura di reddito minimo pone all’attenzione del policy maker, anche alla luce dell’accelerazione che il governo Conte intende dare a tali politiche con il progettato reddito di cittadinanza.