• I cambiamenti nella protezione sociale degli ultimi venticinque anni hanno ampliato il ruolo dei sistemi di welfare locale, con l’assegnazione ai livelli decentrati di maggiori e più complesse competenze, non sempre accompagnate da un corrispondente accesso alle risorse finanziarie necessarie per un’adeguata offerta di servizi. Diverse analisi hanno cercato di dare spiegazioni plausibili a questo processo. Negli approcci economici hanno prevalso le ragioni che sottostanno alle teorie del federalismo fiscale, mentre i sociologi hanno più insistito sull’adattabilità dell’offerta di servizi di welfare locale, pubblici e privati, come risposta a una domanda di protezione sociale più diversificata e frammentata che caratterizza il periodo post fordista. Alcune analisi politologiche, rilevando la crescente ibridazione degli originali modelli di welfare, sostengono che l’importanza dei livelli locali non è ascrivibile a un particolare modello, ma ha le sue radici in fenomeni culturali e nelle vicende storico politiche che hanno configurato le istituzioni della democrazia e le forme di partecipazione in ogni paese. La crisi di questi ultimi anni ha messo a dura prova i sistemi di welfare locale che si sono trovati nella morsa di una domanda di protezione crescente, in presenza di vincoli finanziari molto più stringenti. Di conseguenza, hanno dato avvio a una serie di sperimentazioni nelle forme di intervento, in cui si è andato ampliando il peso dei soggetti non pubblici, mentre la funzione dell’amministrazione locale si è andata trasformando da un ruolo di governo a un compito di governance. All’analisi di queste trasformazioni è dedicata la sezione monografica del fascicolo, che mette in luce una serie di aspetti particolarmente interessanti, riassunti nella seconda parte di questa nota introduttiva.
  • L’articolo si sofferma sulle ragioni della mancata realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, perlomeno non in forma omogenea nei diversi territori del paese come a suo tempo previsto dalla legge quadro di settore, la 328 del 2000. All’origine di tale insuccesso si identifica l’estrema eterogeneità nella spesa sociale territoriale – forse non nota ai tempi del varo della riforma, perlomeno non nelle dimensioni successivamente rilevate dall’Istat – associata a un impianto normativo fortemente improntato al decentramento amministrativo, vieppiù rafforzato dalla (immediatamente successiva) riforma del Titolo V della Costituzione, che ha ricondotto la materia delle politiche sociali alla esclusiva competenza regionale. La previsione costituzionale (e della 328) di garanzia dell’uniformità nell’esercizio dei diritti sociali nei diversi territori sulla base della definizione di livelli essenziali delle prestazioni non sembra esser stata felice, anche perché di difficile attuazione – come la storia recente ha dimostrato – a fronte di una spesa sociale territoriale non solo estremamente eterogenea, ma anche prevalentemente finanziata a livello locale e con ammontare del finanziamento nazionale non ancorato a scelte di programmazione (competenza esclusiva regionale), ma a mere esigenze complessive di finanza pubblica. Alcuni segnali di cambiamento sono però riscontrabili: dalla discussione parlamentare di riforma della Costituzione ai processi di riforma sull’«infrastruttura» del sistema (riforma dell’Isee e varo del Sistema informativo dei servizi sociali), dall’attenzione al sociale che è stata posta nella programmazione dei fondi strutturali comunitari nel settennio 2014-2020, con la proposta del governo di un «Programma operativo nazionale per l’inclusione sociale», alla scelta dell’ultima Legge di stabilità di rendere strutturale il finanziamento – per quanto ancora lontano, in termini quantitativi, dalle necessità del sistema – del Fondo per le politiche sociali e del Fondo per le non autosufficienze.
  • A fronte della crescente complessità di bisogni e rischi sociali e della contrazione delle risorse disponibili, gli enti locali, sebbene con profonde differenze, hanno intrapreso interessanti percorsi di innovazione sociale che stanno ridisegnando le strutture del welfare locale e il concetto stesso di «politica pubblica». In queste sperimentazioni, ricomprese nello schema del secondo welfare, gli enti locali diventano promotori di reti e attivatori delle risorse presenti sui territori, mantenendo il ruolo di garanti dei diritti sociali in ultima istanza. Il modello che ne deriva non è però immune a rischi, a cominciare da un’accentuazione delle disparità territoriali, e richiede adeguati investimenti e politiche di supporto.
  • La crisi economica e il periodo di austerità che ne è derivato hanno profondamente cambiato il volto del sistema di welfare italiano. A causa dei tagli alla spesa sociale e a fronte dell’aumento dei rischi e dei bisogni, il settore pubblico appare, infatti, incapace di rispondere in modo efficace alle crescenti richieste provenienti dai cittadini. L’analisi tiene conto di questo scenario per interrogarsi su quali scelte possano essere intraprese per il rilancio del welfare e insieme del sistema economico, ma più nello specifico per comprendere quali prospettive di sviluppo ci siano per nuove forme di tutela dentro le aziende. Forme di tutela che non solo abbiano delle forti ricadute sui territori ma che vedano coinvolti i territori stessi e la comunità che li abita. A questo fine l’articolo, dopo aver analizzato il contesto tra crisi economico-finanziaria e nuovi bisogni, si interroga sul ruolo delle imprese nel processo di rinnovamento del welfare state e sulle potenzialità di sviluppo del welfare aziendale e contrattuale tra le piccole e medie imprese. Vengono inoltre approfonditi una serie di casi che si sono sviluppati grazie alla costituzione di reti multi-stakeholder in cui diversi attori, in modo sinergico, sembrano collaborare per offrire non solo ai lavoratori ma a una platea ampia di beneficiari nuovi strumenti e forme di sostegno per fronteggiare le nuove forme di vulnerabilità.
  • I progetti sociali hanno spesso l’obiettivo di sviluppare la coesione e l’innovazione sociale nelle comunità locali. Le attività implementate in questo ambito sono particolarmente eterogene per modalità di realizzazione e per risultati ottenuti. A partire dall’esperienza di un bando sul tema della coesione sociale lanciato nel 2008 e terminato nel 2012 dalla Fondazione Cariplo di Milano, finanziando 13 progetti in altrettanti comunità locali, l’articolo discute le «buone pratiche» emergenti dallo studio di caso. L’articolo discute anche di alcuni tratti salienti, riscontrati trasversalmente tra diversi interventi, che appaiono rilevanti per il buon esito degli stessi nel raggiungere gli obiettivi prefissati. Seppur le conclusioni non possano essere, evidentemente, generalizzabili, esse forniscono diverse indicazioni utili alle istituzioni pubbliche, alle fondazioni e agli enti impegnati con azioni su questo tema.
  • La questione dell’abitare in Italia si presenta come una componente fondamentale delle politiche redistributive e, in molti casi, si intreccia con la lotta per la legalità e il rispetto delle regole. Rispecchia insomma sia la cattiva distribuzione della ricchezza sia il mal funzionamento del nostro sistema di protezione sociale, ed è spesso anche fattore scatenante di conflitti tra poveri. Ancora oggi la politica del governo in materia abitativa è quella del Piano Casa varato dal Governo Berlusconi nell’ormai lontano 2008. Dopo sette anni il cosiddetto Piano nazionale di edilizia sociale è ai blocchi di partenza. Il problema, in Italia, dove si continua a costruire al ritmo di 150 mila unità abitative ogni anno, non è di quantità ma riguarda l’accessibilità a un alloggio. Le misure di carattere ediliziourbanistico servono a poco, se non si sposta il baricentro del mercato dalla proprietà all’affitto. Occorre una risposta efficace a una domanda abitativa nuova per tipologia, dimensione, servizi richiesti e, soprattutto, per livelli di canone compatibili col reddito dei cittadini. In questo contesto diventa urgente la revisione della l. 431/1998 (la legge sugli affitti), la riforma degli ex Iacp (gli enti di gestione delle case popolari), la costituzione di un sistema territoriale di Agenzie per la casa, la sperimentazione e la costruzione di un welfare locale legato ai bisogni dell’abitare.
  • Il sindacato, a tutti i livelli, è chiamato a una nuova e più diffusa capacità di analisi degli avvenimenti sociali, economici, politici, e a costruire intorno alla sua proposta di società, di innovazione sociale e di sviluppo una ricca rete di relazioni. È necessario un coinvolgimento ancora più forte e profondo perché, attraverso l’impegno negoziale e l’alimentazione dei processi partecipativi, si contribuisca a favorire anche la diffusione del potere (anche di genere), anziché la sua concentrazione, si costruiscano rapporti di solidarietà orizzontale, si aumenti la consapevolezza dei propri diritti e delle proprie responsabilità, si rovesci, insomma, la piramide decisionale e si riparta veramente dalla centralità della persona/cittadino, dai suoi bisogni ma anche dalla valorizzazione delle sue competenze, dei suoi saperi.
  • Contrariamente a quanto previsto negli anni novanta, la popolazione residente in Italia non è in calo ma in crescita, anche se rimane il problema dell’invecchiamento. Le previsioni demografiche dell’epoca tendevano a sottostimare la natalità, la longevità e, soprattutto, i flussi migratori, rivelatisi molto più alti di quelli inizialmente previsti. Anche se gli istituti che producono le previsioni demografiche, Istat ed Eurostat in primo luogo, ne evidenziano sempre l’incertezza e affiancano scenari alternativi a quello centrale, per molto tempo gli scenari centrali delle previsioni sono stati gli unici considerati nel dibattito sulle riforme pensionistiche e del welfare a livello nazionale ed europeo. Questo ha fatto sì che si siano individuati problemi e realizzati interventi molto costosi socialmente sulla base di scenari rivelatisi ex post lontani dalla realtà. In particolare, la dinamica della spesa pensionistica e la sua «gobba», che tanta attenzione ha catturato nel dibattito sulle riforme, sarebbero risultate diverse con ipotesi sui saldi migratori più aderenti alla realtà. Da questo punto di vista, il fatto che ancora oggi la spesa pensionistica presenti elementi di criticità non va attribuito a problemi legati all’andamento demografico, bensì, piuttosto, all’insoddisfacente andamento economico e occupazionale.
  • L’articolo richiama l’analisi di Minsky, dalla interpretazione di Keynes alla teoria delle crisi e del money manager capitalism, e la proposta di considerare lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, sottolineando in particolare la severità dei controlli sul lavoro necessari in questo caso come nel caso dell’esercito del lavoro di Ernesto Rossi.
  • La rilevanza del contributo di Minsky per la comprensione della dinamica del capitalismo dei suoi e dei nostri tempi – di quel Wall Street capitalism dalle ormai consolidate dimensioni globali – è ampiamente nota. Tuttavia gli interventi di Minsky raccolti in Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, tradotto e pubblicato dalla Ediesse (2014), affrontano una questione, come combattere la disoccupazione, che sembra distaccarsi dai temi a lui più propri; ma è un’impressione erronea poiché instabilità finanziaria e carenza occupazionale sono questioni tra loro strettamente connesse. La rilettura dei suoi saggi e il confronto tra la sua realtà e quella odierna stimolano un’opportuna riflessione sulla possibilità che la sua proposta per una piena occupazione «in senso stretto» costituisca uno strumento di una «politica per il lavoro» dei nostri giorni.
  • Il contributo introduce la discussione sul libro di Pennacchi (2015) che si caratterizza per il proficuo intreccio tra discipline differenti: economia, filosofia, antropologia, sociologia. Un rapporto quello tra etica ed economia fondamentale per costruire un «nuovo modello di sviluppo» e mostrare che il soggetto non è homo oeconomicus. Dopo una lunga stagione di «disincanto», è possibile dare vita a un nuovo «reincantamento», riarticolando un discorso neoumanistico sui «fini» e liberando il pathos sottostante a una nuova apertura affettiva verso il mondo. Resta da chiedersi quale sinistra abbia la cultura politica in grado di farlo. Una sinistra di massa, fondata su una critica al capitalismo contemporaneo, che ne persegue la riforma radicale ma su una scala sovranazionale e mondiale.
  • L’analisi, dopo aver ricordato brevemente le conseguenze negative provocate nelle ultime decadi dall’affermarsi del paradigma neoliberista, e in particolare la mercificazione che si è impadronita della vita economica e sociale e il restringimento dello spazio dello «Stato di diritto» e della sfera pubblica in generale, si concentra sulla concezione che il neoliberismo ha del «soggetto» dell’azione economica. Nel delineare poi i tratti di un nuovo modello di sviluppo da contrapporre a quello neoliberista, si evidenzia la necessità invocata da Pennacchi di una «mutazione antropologica» della società, in direzione di un ritorno a un soggetto dell’azione integro nei suoi valori. A riguardo il contributo chiude sull’integrazione che la sociologia può suggerire all’economia mainstream.
  • Il volume di Pennacchi (2015) si interroga su come rispondere alla crisi presente e su come riprendere un ragionamento che possa andare nella direzione di una trasformazione della società e della costruzione di un «nuovo modello di sviluppo». Tra gli aspetti più importanti della riflessione di Pennacchi si segnalano la diagnosi dei tratti distintivi del neoliberismo contemporaneo, la critica della concezione liberale dell’individuo, l’insistenza sulla necessità di una nuova politica per il lavoro.
  • Negli anni novanta l’Italia ha intrapreso, insieme ad altri paesi europei, un percorso di riforma delle politiche di welfare, incentrato sull’idea che fosse la dimensione locale quella più adatta a riconoscere e a promuovere le innovazioni possibili. A distanza di oltre venti anni, ci troviamo oggi di fronte a una nuova fase che sembra avere un segno opposto, in virtù della quale si mettono in luce soprattutto i limiti del governo locale delle politiche e si tende a una ricentralizzazione di alcune competenze di programmazione e di gestione dei servizi pubblici, come effetto delle azioni di contenimento della spesa pubblica. In Italia ciò è evidente sia a livello nazionale, con la riforma del Titolo V della Costituzione e con l’istituzione di un’unica Agenzia nazionale per il lavoro, che a livello regionale con la centralizzazione di agenzie sanitarie e socio-sanitarie che prima erano state disseminate sui territori. L’articolo intende discutere alcuni elementi di questo processo, alla luce di due esperienze di welfare locale che sono state praticate nell’area metropolitana milanese nel corso degli ultimi anni: il caso dei Piani di zona nei Comuni della provincia e quello della Fondazione Welfare Ambrosiano.
  • All’inizio di questo secolo siamo entrati in un fenomeno di globalizzazione delle migrazioni che coinvolge la maggior parte dei paesi, perchè luoghi di partenza, di accoglienza, di transito, o per tutti e tre questi elementi. Questo movimento di persone ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti soprattutto a partire dalla fine del XX secolo anche grazie alla generalizzata possibilità di ottenere un passaporto. Ma proprio mentre il diritto di uscita si estendeva, il diritto di ingresso andava drammaticamente restringendosi. L’articolo evidenzia come uno degli elementi centrali del problema sia la trasformazione del fenomeno migratorio in fenomeno legato alla mobilità alla quale si aggiunge l’iniqua distribuzione del diritto di emigrare, la cui mancanza rappresenta oggi una delle più grandi disuguaglianze se si considera che la mobilità è la modalità utilizzata per sfuggire alla povertà e al mal governo del paese in cui si è nati.
  • L’inserimento lavorativo rappresenta il principale meccanismo di integrazione per gli immigrati. Questo articolo si propone di individuare le caratteristiche preminenti dell’integrazione lavorativa degli immigrati in Italia attraverso l’esame delle statistiche dell’Indagine trimestrale delle forze lavoro pubblicate dall’Istituto nazionale di statistica. Il secondo obiettivo è quello di stabilire se queste caratteristiche sono cambiate negli ultimi dieci anni e quali sono le nuove tendenze nell’inserimento lavorativo degli immigrati. Infine, si intendono individuare i limiti e gli ostacoli all’incorporazione nel mercato del lavoro italiano per gli immigrati.
  • L’articolo propone una riflessione sulle nuove schiavitù, intese come una trasformazione di quelle definibili «classiche». Nel far questo vengono proposte le definizioni correnti, una delle quali risale al 1930 – proposta dall’Organizzazione internazionale del lavoro – e le altre a partire dal Protocollo di Palermo contro la tratta di esseri umani del 2000. L’articolo, inoltre, poggia l’attenzione sui settori produttivi dove si registrano forme di lavoro gravemente sfruttato e sui dati ufficiali e su alcuni dati di stima (in particolare nel settore agro-alimentare), nonché sul rapporto imprenditore e caporale quale strumento illegale di intermediazione di manodopera.
  • Fin dall’inizio dei processi migratori il rapporto sindacati e immigrati si è mostrato solido. I sindacati attraverso la loro attività di rappresentanza hanno svolto una funzione di difesa dei diritti degli immigrati e ne hanno rivendicato l’estensione. Allo stesso tempo, attraverso l’erogazione di servizi specifici, i sindacati hanno facilitato i percorsi di integrazione di milioni di immigrati. In altri termini i sindacati hanno immediatamente riconosciuto gli immigrati come una risorsa di potere e hanno investito strategicamente su di loro e non è un caso che il tasso di sindacalizzazione degli immigrati in Italia abbia sempre registrato livelli elevati. L’esperienza italiana in questo senso rappresenta un caso eccezionale nel panorama europeo. Negli ultimi anni, tuttavia, il rapporto tra sindacati e immigrati sembra essere soggetto a crescenti criticità. Il presente articolo ricostruisce l’evoluzione del rapporto che i sindacati e gli immigrati hanno instaurato negli ultimi trentacinque anni. L’obiettivo è cogliere e riflettere sulle linee di continuità/discontinuità del rapporto tra sindacati e immigrati e comprendere se e come è cambiato l’investimento strategico delle organizzazioni sindacali sulla questione immigrazione.
  • Il rapporto tra welfare e immigrazione costituisce una problematica complessa. L’intreccio tra i due processi, lo sviluppo del welfare e i flussi migratori, mette in gioco grandi questioni: il nesso tra diritto alle prestazioni del welfare e cittadinanza; la tematica delle disuguaglianze nell’accesso al welfare che è all’origine del sistema di «stratificazione civica»; la questione della implementazione delle politiche sociali e infine le barriere che interferiscono con l’accesso e la fruibilità dei servizi per gli immigrati. L’estensione dei diritti sociali di cittadinanza (cioè dei benefici del welfare) ai non cittadini è una conquista mai realizzata completamente. E questo sta diventando più difficile per effetto del prevalere della ideologia neoliberista che è alla base delle attuali politiche economiche e sociali. Partendo dalla visione dei migranti come soggetti titolari di un diritto esigibile e non oggetto di una missione umanitaria della società d’arrivo, si propone un percorso di riflessione a partire dal concetto di discriminazione e da come questa influenzi le politiche migratorie e l’accoglienza degli immigrati nel welfare italiano in una fase di progressivo ridimensionamento del welfare pubblico quale garante dei diritti sociali.
  • Dopo oltre un trentennio di immigrazione straniera, la società italiana è ormai da tempo multietnica e multiculturale. Gli stranieri rappresentano circa il 10 per cento della popolazione che vive nel paese e i figli degli immigrati, anch’essi in aumento, costituiscono una componente rilevante degli alunni e studenti delle scuole italiane. Sulla base delle statistiche ufficiali disponibili, questo articolo mostra come il loro inserimento scolastico rimanga una questione aperta. Maggiore dispersione scolastica, minore successo negli studi, frequentissimo ritardo scolastico e concentrazione in percorsi formativi più votati all’immediata immissione nel mercato del lavoro sono segnali evidenti di una difficoltà di inserimento che meriterebbe maggiore attenzione da parte dei policy maker e degli operatori del settore.
  • L’articolo assume come focus di analisi le attività di cura prestate ad anziani e disabili in Italia da lavoratori e lavoratrici migranti, considerato elemento centrale del nuovo welfare state. Esso parte dall’analisi dell’indagine Oil (2012) e delle soluzioni normative elaborate in favore dei lavoratori e delle lavoratrici migranti impegnati nelle varie attività di cura familiare. Si approfondiscono anche gli elementi sostanziali dell’assistenza sociale migrante in Italia, individuandone gli elementi di forza e di debolezza, insieme alle modifiche sociali sostanziali del relativo modello familiare.
  • Il tema della insostenibilità delle migrazioni è tornato al centro del dibattito pubblico in relazione al consistente aumento dei flussi di persone che nel 2014, e ancor più nel 2015, hanno cercato rifugio in Europa. L’analisi della spesa pubblica sostenuta dal nostro paese in questo ambito non giustifica però i toni allarmistici che ricorrono nel discorso pubblico, istituzionale e mediatico. Il tema che l’Italia e l’Europa dovrebbero affrontare oggi non è quello della scelta tra le politiche del rifiuto e quelle dell’accoglienza e dell’inclusione, ma semmai quello della qualità di queste ultime. Sarà questa a determinare l’esito positivo o negativo del progetto migratorio delle migliaia di donne, uomini e bambini, che riusciranno a giungere sani e salvi nel continente europeo e, quindi, anche il «peso» minore o maggiore che la loro presenza comporterà sulla finanza pubblica. È dunque lungimirante una politica europea volta da un lato a garantire la «regolarità» del soggiorno dei cittadini stranieri e, dall’altro, ad allargare il perimetro della cittadinanza sociale, in modo da limitare lo sviluppo dei processi di auto ed etero-ghettizzazione della popolazione straniera.
  • Il fenomeno del maltrattamento sui minori va inquadrato in una prospettiva multidisciplinare. Vi sono evidenze cliniche e di ricerca che mostrano, fra l’altro, come esso aumenti il rischio di esiti disadattivi anche in età adulta. L’impatto del maltrattamento sui minori sulla spesa pubblica è invece tema ancora poco indagato, in quanto raramente viene considerata la gamma complessiva di interventi di protezione del minore, che impegnano strutture e ambiti disciplinari diversi. I poli specialistici del privato sociale per il contrasto al maltrattamento sui minori, come il Centro provinciale Giorgio Fregosi - Spazio sicuro di Roma, costituiscono osservatori privilegiati sul fenomeno. La sfida alle politiche sociali è valorizzare l’investimento per prevenire/ contrastare la vittimizzazione infantile. Nell’articolo vengono esposti i principali elementi della letteratura scientifica sull’impatto negativo del maltrattamento all’infanzia e i costi associati e vengono presentati alcuni dati sull’attività del Centro Fregosi rilevanti in tal senso.
  • L’articolo si concentra sulle logiche sistemiche del capitalismo contemporaneo messe in luce da Saskia Sassen nel suo ultimo libro Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy (2014; trad. it. 2015), sottolineando il doppio contributo, metodologico e di contenuto, offerto dall’autrice. La tesi è che le logiche sistemiche debbano tornare al cuore dell’attenzione politica. Il riconoscimento del loro ruolo non deve, tuttavia, andare a discapito di quello dell’agency, della possibilità del cambiamento.
  • L’ultima opera di Saskia Sassen (2015) nasce dall’ambizioso intento di leggere in chiave nuova, all’altezza delle difficili sfide poste dalla più grave crisi degli ultimi tempi, l’attuale situazione economica, politica e sociale. Nell’articolo si prenderanno in esame le linee guida della ricerca condotta da Sassen in quest’ultimo libro, nel quale l’autrice, sulla base di un’analisi interdisciplinare, coglie gli elementi costituivi dell’«epoca» odierna (il cui inizio data a partire dagli anni ottanta del secolo scorso). In particolare, si metteranno in evidenza i meccanismi che sono alla base della logica organizzativa di alcuni dei principali sistemi di governo e di dominio globali (nell’ambito finanziario e in quello di protezione ambientale), cogliendo gli elementi di novità presenti nella stessa ricerca di Sassen, volta a cartografare i processi in atto e a rendere visibili le complesse geografie del potere contemporaneo. Nell’articolo le analisi di Sassen verranno messe in tensione con quelle di quanti negli ultimi anni si sono a lungo soffermati sulle caratteristiche dell’attuale capitalismo finanziario, dell’attuale ordine neoliberista, sottolineando al contempo il nuovo metro di lettura introdotto dalla nota sociologa. A essere centrale nel volume è infatti una riflessione che ripercorre le ragioni, i mezzi, e i dispositivi degli odierni processi di valorizzazione e accumulazione del capitale e contestualmente ne rilegge le tendenze alla luce di quello che è definito l’inedito allarmante problema dell’emergere della logica dell’espulsione.
  • Le disuguaglianze di reddito sono aumentate in tutti i paesi avanzati e sono un problema centrale del capitalismo di oggi. Nonostante i molti studi apparsi finora, manca ancora una spiegazione convincente delle cause di questo fenomeno. L’articolo riassume i fatti essenziali sull’evoluzione della disuguaglianza, a partire dalla distribuzione del reddito tra salari e profitti, e offre una spiegazione che mette al centro quattro «motori della disuguaglianza»: il potere del capitale sul lavoro, l’ascesa di un «capitalismo oligarchico», l’individualizzazione delle condizioni economiche, l’arretramento della politica. Questi processi stanno cambiando i modi di funzionamento non soltanto del sistema economico ma anche di quello politico: l’economia diventa meno dinamica, la società più ingiusta, la politica meno democratica.
  • L’Italia attraversa ormai da quasi tre decenni una crisi strutturale della crescita economica. Le riforme del mercato del lavoro, la moderazione salariale, le politiche di «austerità espansiva» e la deregolamentazione dei mercati reali e finanziari non sembrano aver contribuito a invertire la rotta declinante tracciata dal sistema produttivo italiano quanto piuttosto ad aggravare un quadro già deficitario di produttività, investimenti e tecnologia. Nell’articolo utilizziamo la cosiddetta «contabilità della crescita» per isolare i fattori che sono alla base di questa deriva. Il quadro macroeconomico che ne emerge mostra che il deterioramento della crescita, maggiormente accentuato dal 2008 in poi, ha carattere strutturale e coinvolge sia i settori produttivi tradizionali che quelli tecnologicamente avanzati.
  • Dopo aver ripercorso sinteticamente la struttura, i contenuti e gli obiettivi della riforma del mercato del lavoro denominata «Jobs Act», l’articolo si sofferma sulle implicazioni che la stessa determinerà su mercato e rapporti di lavoro. A riguardo, se, da un lato, può essere posto in dubbio il raggiungimento dell’annunciato obiettivo di aumentare l’occupazione attraverso la ricetta della flessibilità (in entrata, in uscita e funzionale), dall'altro, certamente non vi sono dubbi che la novella riporti il diritto del lavoro italiano indietro nel tempo, depotenziando proprio quelle norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della libertà e della dignità dei lavoratori.
  • La legge 183/2014, il Jobs Act, ha determinato un profondo cambiamento nelle relazioni industriali italiane. Nel contributo, il Jobs Act viene inquadrato all’interno di un ventennale processo di riforma del mercato del lavoro che ha avuto inizio a metà degli anni novanta. Da una preliminare valutazione dei dati di fonte amministrativa e campionaria, relativi al periodo successivo all’implementazione del Jobs Act, emergono i seguenti risultati: l’atteso incremento occupazionale è stato esiguo, piuttosto si è verificato un aumento della quota di contratti a tempo determinato rispetto a quelli a tempo indeterminato e fra questi ultimi aumentano i contratti a tempo ridotto (part-time).
  • Il saggio guarda agli effetti della crisi sulla partecipazione delle donne nel mercato del lavoro italiano, nelle politiche e nei numeri. A fronte della diffusa convinzione che la crisi abbia colpito prevalentemente la componente maschile, le analisi mostrano gli effetti corrosivi della già debole presenza femminile, la cui recente crescita di offerta è sintomo di un grave affanno più che di una spinta virtuosa. Ciò risulta evidente dagli indicatori del mercato del lavoro, dalla frammentarietà e incoerenza degli interventi attuati da cui non emerge una tensione verso la partecipazione paritaria tra i sessi, come pure dal prefigurarsi di nuovi rischi quali l’accorciamento del percorso di studi delle giovani nella fascia universitaria, che rinunciando così al principale fattore di promozione e protezione, le espone a rischio di esclusione.
  • La forte crescita della disoccupazione e dell’emigrazione giovanili, la questione dei diritti e del welfare sono alcuni dei temi al centro della questione giovanile, che, negli ultimi anni, ha (finalmente) attirato l’attenzione degli studiosi e (in qualche misura) della politica. Tuttavia, ancora non si è sviluppato un vero e proprio dibattito su come la difficile situazione dei giovani – e in particolare il cambiamento delle prospettive riguardo al futuro, che diventano sempre più cupe – ne stia condizionando la costruzione della personalità. Eppure, i giovani, visti attraverso le loro priorità e i loro obiettivi, appaiono protagonisti di un significativo cambiamento generazionale, gravido di implicazioni e conseguenze su più fronti, dalle scelte educative e professionali al rapporto con la sfera politica.