
Cronache da un “migranticidio”
Su “Rassegna bibliografica” (Franco Angeli editore), la recensione di Mariagrazia Rossilli al libro di Pamela Marelli “Archivi dell’acqua salata”, pubblicato nel 2021, ma più che mai di drammatica attualità.
Aumentano i morti nel Mediterraneo anche a fronte della diminuzione del numero di rifugiati e migranti che affrontano la traversata: così il Report dell’Unhcr pubblicato lo scorso 10 giugno. Dal milione di migranti e rifugiati, soprattutto in fuga dalla Siria, che provarono a raggiungere l’Europa via mare nel 2015 si è passati ai 121.000 nel 2021, ma in quest’anno il numero di morti e dispersi ha raggiunto la cifra di 3.231, più alta di quella del 2017. Dai dati di organismi internazionali risulta che sono circa 35.000 le donne, gli uomini e i bambini che dal 2000 a oggi hanno trovato sepoltura nel grande cimitero a cielo aperto che è il Mediterraneo. Questo “migranticidio” è ricostruito, attraverso documentatissime e lunghe ricerche, in quella specie di archivio politico ed emozionale che è il libro di Pamela Marelli. Ripercorrendo decine di naufragi di migranti avvenuti tra il 1990 e il 2020, il racconto di dispersi e morti restituisce pure le testimonianze e le storie di vita di chi al naufragio è sopravvissuto portandone i danni irreversibili nei corpi (basti pensare alle ustioni sugli arti nel contatto tra il carburante sul fondo della barca e l’acqua salata del mare) e nella psiche per gli abusi e le violenze subite. La narrazione si snoda a partire dalla “strage di stato” del 1997, con gli 81 albanesi morti nel naufragio della nave Kater I Rades speronata dalla corvetta militare italiana “Sibilla”, e dal “naufragio fantasma” del 1996 con 283 morti che solo anni dopo venne portato alla luce, grazie alle testimonianze dei superstiti e dei pescatori che avevano continuato a trovarne tracce nel canale di Sicilia. Il racconto continua con quelli che l’autrice chiama naufragi “postcoloniali” di somali, libici, eritrei ed etiopi e con le stragi che più hanno segnato l’opinione pubblica, come il naufragio del 3 ottobre 2013 che, con i suoi 368 morti, fu seguito dall’operazione Mare Nostrum e dall’istituzione del 3 ottobre della “Giornata nazionale della memoria delle vittime dell’immigrazione”. L’istituzione di questa Giornata della Memoria ha definitivamente iscritto nel dibattito pubblico il tema della morte alle nostre frontiere. Tuttavia la privazione di una tomba con il proprio nome ha rappresentato e continua a rappresentare l’espressione ultima della violenza del regime migratorio italiano ed europeo. Le salme, infatti, per lo più non vengono identificate né rimpatriate. Fu solo grazie alla mobilitazione della corposa e storicamente forte comunità somala in Italia, in specie delle donne che pretesero le esequie e il riconoscimento dei corpi, se nel 2003, per la prima volta, furono organizzati funerali ufficiali con la commemorazione in piazza del Campidoglio delle persone arrivate morte in un barcone fatiscente, con 13 bare avvolte nella bandiera somala. Non è stato così per tanti altri naufragi e morti. Benché il diritto internazionale obbligherebbe a adoperarsi per la loro identificazione, il 65% dei morti non viene identificato dalle autorità responsabili (“Deathsat Borders Database for the Southern Eu External Borders”). A seguito dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 il governo italiano ha tuttavia sottoscritto uno speciale protocollo per promuovere il riconoscimento e l’identificazione dei corpi appartenenti a cittadini stranieri recuperati in mare. Il 2015 è l’anno dell’esplosione di 1,8 milioni illegal border-crossings in Europa per lo più siriani (590.000) e della definitiva chiusura della Fortezza Europa. È il 2 settembre 2015 quando il naufragio della piccola imbarcazione diretta in Grecia da Bodrum (Turchia) lascia sulla spiaggia il corpicino del bimbo di tre anni Alan Kurdi, fuggito con la sua famiglia da Kobane, la cui immagine provocò un enorme impatto mediatico. Ne seguì l’accoglienza dei profughi siriani da parte della Germania e poi l’accordo tra l’Ue e la Turchia per il blocco della rotta balcanica in cambio di tre miliardi di euro. Analogo accordo con la Libia del 2017 impegna l’Italia a fornire sostegno economico militare e tecnologico al governo libico al fine di bloccare le partenze di migranti — accordo giudicato dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull›Immigrazione (Asgi) come una violazione della civiltà giuridica, aggravata dal trattamento disumano riservato nelle prigioni libiche agli immigrati irregolari di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile dalla Corte Cedu. Alle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e potenziale complicità con i trafficanti hanno fatto seguito ostacoli e restrizioni imposte dai governi alle navi umanitarie delle Ong negli interventi di ricerca e salvataggio, con il divieto di entrare nelle acque territoriali libiche. Il libro ripercorre criticamente le politiche sull’immigrazione dei governi italiani dalla legge Turco-Napolitano del 1998 ai recenti decreti sicurezza del ministro Salvini, improntati esclusivamente al respingimento dei migranti e richiedenti asilo fino a vietarne lo sbarco nel più vicino porto sicuro. Pone, quindi, parimenti sotto accusa le politiche dei governi di centro sinistra e quelle dei governi Berlusconi e della Lega, sottolineandone la continuità con una eccessiva linearità che azzera differenze, che pure nella comune condanna vanno però riconosciute, tra la legge Turco Napolitano da un lato, e dall’altro, la legge Bossi Fini e l’introduzione del reato penale d’ingresso e soggiorno illegale, così come tra l’operazione Mare Nostrum, che in un anno portò al salvataggio di 160.000 persone e perciò fu considerata da Frontex come indiretto pull factor, e l’operazione Triton che la sostituì con l’esclusivo scopo della lotta contro i trafficanti. Senza cancellare le differenze, sono tuttavia evidenti le comuni linee di fondo nelle politiche migratorie italiane degli ultimi decenni all’interno della fortezza Europa. L’approccio securitario di chiusura delle frontiere e la dominante preoccupazione per la riduzione dei flussi delle politiche europee, oltre a essere evidentemente inefficaci a governare il fenomeno migratorio, dimostrano, con i respingimenti di massa e i rimpatri anche di chi avrebbe diritto all’asilo, l’estrema violabilità di questo diritto, come molte volte denunciato dall’Asgi e dalle Ong umanitarie. Nelle conclusioni, il libro delinea brevemente possibili politiche in grado di porre fine al “migranticidio”, di governare il fenomeno migratorio e smantellare le reti di trafficanti: l’Ue dovrebbe predisporre canali legali d’ingresso e norme rispettose del diritto d’asilo, ponendo fine alla situazione per cui l’unica via per tentare di approdare in Europa è l’affidarsi ai trafficanti, e dovrebbe gestire i flussi mediante accordi tra gli stati membri per una equa redistribuzione rispettosa dei diritti fondamentali, come richiamato nelle linee guida dell’Unhcr del 2022 e dimostrato realisticamente possibile dall’accoglienza garantita nei diversi paesi a milioni di Ucraini. Il libro non è solo il racconto di un’immane mattanza, ma, attraverso una grande mole di testimonianze, articoli di quotidiani e riviste, saggi, testi letterari, rappresentazioni teatrali, opere artistiche e una vasta filmografia, cerca anche di ricostruirne i segni lasciati nelle emozioni, memorie e immaginazione pubbliche, le tracce depositate nelle culture e nell’insieme del contesto pubblico. Questa ricostruzione osserva il cordoglio pubblico e mediatico esibito per le stragi di migranti e si chiede se non sia diventato solo un vuoto rituale nella generale assuefazione.
Mariagrazia Rossilli