
Storia e futuro del conflitto sociale
Intervista al professor Luca Baccelli, autore del volume “Il conflitto sociale”, uno studio appena pubblicato nella collana “Fondamenti” di Futura editrice.
Professor Baccelli, dove affonda le sue radici la natura e la struttura di questo studio?
L’idea di base, costruita insieme a Chiara Giorgi del comitato scientifico della collana “Fondamenti”, è stata quella di un ragionamento che potesse offrire un quadro generale sulla questione del conflitto sociale, partendo anche da un mio rovello, in particolare dagli studi compiuti sul pensiero di Machiavelli, che oggi sembra una funzione smarrita, anche perché gli storici sociali ed economici del Novecento si sono incrociati con la lettura del conflitto da parte di Karl Marx nella produzione del lavoro. Ma già gli “umori”, come li chiamava Machiavelli, sono da collocare nel processo produttivo, là dove la sua idea generale di conflitto si combina con l’apertura democratica, nel far sentire il popolo incluso nelle istituzioni. D’altronde già nella Roma repubblicana esistevano diverse forme di conflitto, con gruppi sociali strutturati, interessi definiti, e conflitti anche di carattere degenerativo. Poi, in qualità di studioso di Filosofia del diritto della politica, ho tentato anche un inquadramento storico e teorico, così come si è sviluppato nel tempo.
Nel libro viene descritto molto bene, ma volendo sintetizzare quali sono state le funzioni del conflitto sociale nel corso della storia, e quali sono oggi?
Se torniamo al Machiavelli, lì c’è anche un’idea dei corpi politici tesi verso la corruzione, propensione che può essere frenata dall’ingresso del popolo nelle istituzioni. Altre forme di conflitto sociale possono invece contribuire alla corruzione stessa. Quali? Beh, c’è chi pensa che Machiavelli sia stato un moderato, e che il popolo forse sia meglio ammaestrarlo… In realtà, per specificare l’accenno alle forme di conflitto degenerative, ci sono quelle fatte in funzione dell’interesse dei singoli, un tema generale ritrovato poi nel Novecento, e che arriva sino ai nostri giorni.
Ma il Novecento è stato anche altro…
Non c’è dubbio. Nel Novecento c’è stata non una rivoluzione, ma certo una profonda ristrutturazione del capitalismo che conosciamo, in particolare nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale, che ha determinato un certo tipo di mobilitazione, legata in particolare alla lotta di classe. Allo stesso tempo, gli studi sociologici del Novecento hanno rotto con la tradizione organicista della sociologia finalizzata a individuare solo “ordine”: l’ordine conta, ma in un conflitto può assumere la forma di produzione di un ordine che si evolve. In quegli anni il conflitto ha un ruolo fondamentale per l’affermazione della democrazia e per il suo mantenimento, anche se, come scritto da Norberto Bobbio, lo sviluppo della democrazia del Novecento è malinconico, un allontanamento da promesse non mantenute, per le quali il concetto di sovranità popolare può intervenire nel sistema politico con mediazione delle istituzioni, presupponendo una mobilitazione pre-istituzionale. C’è poi il tema del diritto, o meglio dei diritti: diritto come pace sociale, ordine, e altro ancora. In realtà altri autori hanno riconosciuto come il diritto permetta di organizzare il conflitto e la sua evoluzione presupponga il conflitto sociale. Per lo stesso Bobbio, o per un altro pensatore del Novecento come Ernst Bloch, l’idea del diritto come espressione di rivendicazione, anche dei diritti soggettivi, presuppone processi sociali conflittuali. Oggi sembra questo non accada.
E cosa accade?
Dopo aver attraversato esperienze importanti, dal ’68 agli anni successivi, arriviamo nel millennio in cui la sensazione è che le ondate di mobilitazioni importanti, di movimenti di carattere anche internazionale, che sino al 2011 manifestavano una loro presenza in risposta alla crisi economica mondiale 2007-2009 e ancora in corso, abbiano progressivamente perso i loro caratteri. L’impressione è che nelle società occidentali, in quelle più sviluppate e condizionate dall’attuale sistema capitalistico, questa dinamica non avvenga più, almeno nelle forme a cui eravamo abituati in Europa. I motivi richiedono una riflessione sulla società del lavoro, sulla frammentazione anche fisica dei luoghi di lavoro, dove prima si creavano spazi di connessione per la costituzione di un soggetto politico e sociale, come la classe operaia. Il più generico concetto di società liquida indica come non si costituiscano più classi sociali, gruppi organizzati. Dunque la domanda oggi è: si tratta di un destino ineluttabile? Le funzioni svolte in questo senso nel corso del Novecento sono definitivamente perdute? Pensiamo ai diritti dei lavoratori e alla stessa idea di democrazia. Credo che non a caso oggi si parli sempre più spesso di post-democrazia.
A questo proposito, nelle conclusioni torna il riferimento già citato a Niccolò Machiavelli, e si scrive come il capitalismo globale stia conducendo il pianeta verso un’ecatombe ecologica, se non nucleare, ma non si vedono soggetti politici e sociali in grado di contrastare realmente questo fenomeno. Quali possono essere gli orizzonti comuni in questo senso?
Nel libro vengono citati alcuni studi in proposito, come quelli di Axel Honneth sulla “dialettica del riconoscimento”, o di Jürgen Habermas in merito al concetto del “sovraccarico morale”, secondo il quale le lotte dovrebbero condensarsi intorno a principi, per l’appunto, di tipo morale. E in tema di movimenti si recupera anche il classico binomio Hardt-Negri, sulle moltitudini spontanee nelle dinamiche di un movimento globale, con il coinvolgimento del soggetto-lavoratore-cognitivo all’interno di un sovvertimento rivoluzionario. Mi pare però, dopo oltre vent’anni di questo nuovo millennio, che le cose non siano andate così… Di contro un altro binomio, Laclau-Mouffe, ci propone una lettura di radice gramsciana della contemporaneità, dove le classi sociali non si compongono spontaneamente, automaticamente o meccanicamente ma hanno bisogno di costruzione scientifica, come accaduto con il movimento operaio e non solo, e dove il lavoro sindacale ha avuto un ruolo fondamentale per mettere insieme i contadini con i mezzadri delle campagne, gli artigiani con gli operai specializzati delle città. Tra gli studi più recenti voglio citare il lavoro di Nancy Fraser, “Capitalismo cannibale”, che mi dà qualche fiducia, riconnettendo le varie dimensioni dello sfruttamento quotidiano del lavoro, fatto di oppressione e disuguaglianze, attorno a una nozione complessa e allargata di capitalismo, che non si basa soltanto come radice unica sullo sfruttamento nei luoghi di lavoro nei confronti delle donne, o a sfondo razzista, ma collega il tutto a una generale crisi ecologica, un epifenomeno di elementi strutturalmente connessi non solo all’economia capitalista ma a un sistema più articolato dell’economia stessa. Alla fine, però, si ripropone la consueta domanda, vale a dire se si potranno formare nuovi soggetti collettivi plurali, non per riprodurre i modelli del Novecento, ma per una trasformazione che guardi al “conflitto necessario” per la sopravvivenza del pianeta.
E.S.