Descrizione
L'argomento: profili di costituzionalità del controllo concertato dell'accesso in rete e della posta Interessanti sentenze della Cassazione sul concreto esercizio del potere disciplinare La Corte d'Appello di Bologna e il riconoscimento del rapporto di lavoro giornalisticoAttribuire alle disposizioni testimoniali un contenuto diverso da quello dei verbali costituisce vizio di motivazione
E.C. ha lavorato per le Ferrovie dello Stato dal dicembre del 1969 al dicembre del 1990.Per circa 17 anni, dal 1969 al 1986, egli non è stato inquadrato come dipendente in
quanto ha prestato la sua opera come «incaricato di servizi di accudienza» in base a «convenzioni
» previste dall'art. 26 della legge 30 dicembre 1959 n. 1236. In questo periodo egli
ha provveduto alla pulizia e alla custodia del dormitorio del personale di macchine e
viaggiante presso la stazione di Sulmona. Dal 1° gennaio 1987 al termine del rapporto egli
è stato inquadrato come dipendente, con il profilo professionale di «lavoratore di servizi
' livello V». Dopo la cessazione del rapporto di lavoro E.C. si è rivolto al pretore di Roma,
sostenendo che sin dal 1969 egli aveva lavorato in condizioni di subordinazione, con
orario di lavoro, retribuzione fissa, sottoposizione ai poteri gerarchici e di controllo dei
funzionari dell'ente, impiego di strumenti e mezzi forniti dalle Ferrovie ecc.; egli ha pertanto
chiesto al Giudice di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato anche
nel periodo dal 1969 al 1986, e la condanna dell'azienda al pagamento di differenze di
retribuzione e spettanze di fine rapporto. Le Ferrovie si sono difese sostenendo che il rapporto
di lavoro si era svolto con modalità conformi alla convenzione stipulata a norma dell'art.
26 legge n. 1236/59 e che la qualificazione come lavoro autonomo datane dal legislatore
e dalle stesse parti era vincolante per il Giudice. Il pretore, dopo avere sentito alcuni
testimoni, con sentenza del giugno 1997 ha rigettato le domande. Questa decisione
è stata impugnata davanti al Tribunale di Roma dagli eredi di E.C. nel frattempo deceduto.
Il Tribunale ha rigettato l'appello, affermando che l'istruttoria svolta induceva ad escludere
la presenza di connotati propri della subordinazione. Gli eredi di E.C. hanno proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per vizi di
motivazione e violazione di legge. Essi hanno tra l'altro sostenuto che il Tribunale, nella
motivazione della sentenza, aveva riportato le deposizioni testimoniali in termini difformi
da quelli risultanti dai verbali.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La sentenza impugnata ' ha affermato la Corte '
ha mostrato di operare la verifica delle modalità concrete di svolgimento del rapporto, per
poi raffrontarle con quelle che caratterizzano la nozione legale di subordinazione; senonché,
nel procedere a tale operazione ha individuato una serie convergente di elementi, ritenuti
non comprovanti il carattere subordinato del rapporto, attribuendo, tuttavia, immotivatamente,
a testi affermazioni manifestamente non corrispondenti al loro significato
corrente. In proposito ' ha osservato ' la difesa dei ricorrenti, dopo avere riportato
pressoché testualmente la motivazione della sentenza su tale essenziale profilo, ha riprodotto,
in ottemperanza al principio dei autosufficienza del ricorso per cassazione, il tenore
delle dichiarazioni della teste D'A., evidenziandone la discordanza rispetto all'assunto
del Giudice d'appello. E cosà, secondo il Tribunale, i testi D'A. e C. avrebbero ammesso
che «era lo stesso Ezio C. a predisporre, d'accordo con gli altri lavoratori del dormitorio,
i turni di servizio» e che «il capo deposito vi apponeva poi la firma per presa visione
»; che «in caso di malattia non era prevista alcuna visita medica da parte delle F.S.,
dovendosi, per ogni assenza dovuta a qualunque motivo di ciascun addetto a compiti di
accudienza, stabilire, sempre d'accordo tra i lavoratori, i turni di sostituzione». Inoltre, riguardo
alle ore di lavoro prestate da Ezio C. ' soggiunge il Tribunale ' i testi non erano
stati in grado di riferire alcunché, mentre, in ordine alle ferie, avevano affermato che «gli
addetti a compiti di accudienza erano tenuti, ove non reperito un collega che li sostituisse,
a reperire personalmente personale esterno che veniva compensato direttamente dall'addetto
che fruiva delle ferie» e che, «nel compenso percepito mensilmente, vi era una
voce denominata indennità di sostituzione, che veniva corrisposta soltanto al titolare responsabile
del dormitorio, come era Ezio C.». Fondamentalmente, da tali elementi ' ha osservato
la Corte ' il Giudice ha tratto la conseguenza che il rapporto lavorativo in parola
non presentasse i caratteri propri della subordinazione, ma che si fosse svolto nel rispetto
delle indicazioni fornite dalla convenzione; a fronte di tale assunto, risulta dal verbale
di causa, riportato nel ricorso in esame nel rispetto del principio di autosufficienza, che la
teste D'A. aveva affermato che «era l'azienda F.S. a stabilire i turni e le giornate lavorative
»; che tutto il materiale di lavoro veniva fornito dalle F.S. e che per ogni necessità ci si
rivolgeva al capo deposito, che indicava dove «andare a prendere il materiale»; che gli ordini
riguardanti il servizio di sveglia venivano dati dal capo deposito e che dal capo deposito
venivano anche impartiti gli ordini concernenti i servizi di pulizia; che «i turni erano
dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6», che «era l'azienda F.S. a stabilire i turni
e le giornate lavorative» e che «l'orario di lavoro era di 48 ore settimanali»; che, in caso di
malattia, si provvedeva «ad inviare il certificato all'ufficio del personale delle Ferrovie il
quale inviava un suo medico per il controllo» e ciò «avveniva anche per Ezio C.»; che, per
eventuali permessi occorreva rivolgersi sempre al capo deposito che li accordava o verbalmente
o per iscritto a seconda delle esigenze di servizio, mentre, quanto alle ferie, le
stesse non erano mai state concesse dal capo deposito, per mancanza di personale. È agevole
verificare, da quanto esposto ' ha rilevato la Cassazione ' come il Tribunale abbia
attribuito, senza adeguata motivazione, alla teste D'A. affermazioni il cui tenore risulta
non rapportabile al senso specifico nella impugnata sentenza; è pur vero che il vizio di motivazione
non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme
da quello auspicato dalle parti, perché spetta solo al Giudice del merito di individuare
le fonti del proprio convincimento ed all'uopo valutarne le prove, controllarne l'attendibilità
e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare
i fatti in discussione, dare prevalenza all'uno o all'altro mezzo di prova, salvi i casi
tassativamente previsti dall'ordinamento; ma è anche vero che, quando nell'iter motivazionale
entrano in gioco elementi di prova desunti da dichiarazioni di testi ' nominativamente
indicati ' non rispondenti al loro contenuto, ove il Giudice non argomenti la propria
interpretazione, la sentenza risulta affetta da vizio di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ.
(difetto di motivazione), sempre che tale omissione sia idonea a ripercuotersi sulla decisione.
Non vi è dubbio ' ha concluso la Corte ' che, nella specie, sussiste tale idoneità , da
momento che le dichiarazioni testimoniali riportate smentiscono alcune affermazioni dello
stesso Giudice, volte ad escludere il carattere della subordinazione proprio del rapporto
di lavoro in contestazione. Conseguentemente la Suprema Corte ha cassato l'impugnata
sentenza rinviando la causa, per il riesame, alla Corte d'appello di Roma. Nell'adeguamento
della retribuzione operato per la salvaguardia di diritti costituzionalmente rilevanti
a norma dell'art. 36 Cost., il Giudice di merito, a cui è riservato il relativo apprezzamento,
nell'impossibilità di fare riferimento ad un contratto collettivo stipulato per la specifica
categoria a cui appartiene l'impresa, può individuare una categoria affine, senza essere
vincolato dalle indicazioni delle parti, fermo restando che, ove le indicazioni dell'attore
servano a delimitare precisamente il petitum, il Giudice non può attribuire vantaggi
economici non richiesti.
Il dipendente pubblico con handicap può esercitare la scelta prioritaria fra le sedi disponibili solo al momento dell’assunzi
La prescrizione dei crediti di lavoro non decorre per il dipendente in nero anche se sussista la garanzia del rapporto
Anna Maria L. ha lavorato per le Ferrovie dello Stato in un primo tempo, dal settembre 1985 al dicembre 1987,in base a una convenzione di appalto avente ad oggetto
la prestazione del servizio di pulizia degli uffici e dei dormitori e successivamente, dal
gennaio 1988 con inquadramento come dipendente per lo svolgimento delle stesse mansioni.
Ella ha chiesto al pretore di Roma nel maggio del 1995 di accertare che il rapporto
di lavoro subordinato aveva avuto inizio nel settembre del 1985, per le concrete modalità
di svolgimento dell'attività lavorativa con assoggettamento alle disposizioni dei superiori,
e di condannare l'azienda al pagamento delle differenze di retribuzione dovutele sia per
l'inadeguatezza dei compensi percepiti nel biennio iniziale, sia per gli effetti della maggiore
anzianità sul trattamento economico nel periodo successivo. Il pretore ha accolto le
domande, condannando l'azienda al pagamento della somma di 17 milioni di lire oltre accessori.
La decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma. L'azienda
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale romano
per vizi di motivazione e violazione di legge; essa ha sostenuto, fra l'altro, che la subordinazione
nel periodo iniziale doveva ritenersi esclusa per effetto della qualificazione
data al rapporto dall'art. 26 legge n. 1236/59 concernente l'attività di «accudienza» e che
comunque il Tribunale avrebbe dovuto ritenere estinti i crediti della lavoratrice per effetto
del decorso della prescrizione quinquennale.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale
(sentenza n. 121 del 1993 e n. 115 del 1994), secondo cui non è consentito al legislatore
negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che
oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l'inapplicabilità delle norme inderogabili
previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti
dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato. La Suprema Corte ha ritenuto
privi di fondamento anche i rilievi concernenti il mancato accoglimento dell'eccezione di
prescrizione. In proposito l'azienda sosteneva che, trattandosi di rapporto di lavoro con
garanzia di stabilità , la prescrizione aveva cominciato a decorrere dal settembre 1985. Ai
fini dell'individuazione del regime di prescrizione applicabile ai crediti retributivi ' ha affermato
la Corte ' il presupposto della stabilità reale del rapporto di lavoro deve essere
verificato in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso ed alla configurazione
che di esso danno le parti nell'attualità del suo svolgimento (dipendendo da ciò l'esistenza,
o meno, della effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore) e non già alla
stregua della diversa normativa garantistica che avrebbe dovuto in astratto regolare il
rapporto ove questo fosse sorto con le modalità e la disciplina che il Giudice, con un giudizio
necessariamente ex post, riconosce applicabili nella specie, con effetto retroattivo
per il lavoratore. Il Tribunale di Roma ' ha osservato la Cassazione ' nella sentenza impugnata,
ha applicato tale principio ' rilevando esattamente che il termine di prescrizione
dei crediti non poteva decorrere se non dal momento in cui il rapporto era stato regolarizzato e,
cioè, dal 1° gennaio 1987, come dedotto già in sede di ricorso di primo grado,
sicché la prescrizione è stata interrotta dapprima con lettera del 17 maggio 1988, ricevuta
il 31 maggio 1988, e poi con ulteriore lettera del 24 settembre 1991, ricevuta il 21 ottobre
1991 per cui, alla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio (29 maggio 1995), non
si era ancora consumato il termine quinquennale (art. 2948, n. 4 cod. civ.).
Dequalificazione di un impiegato direttivo per richiesta di un minore apporto di conoscenze professionali specifiche
Gianfranco T., dipendente della Spa Telecom, con mansioni di capoturno, dopo la cessazione del rapporto,avvenuta per esodo incentivato nel 2000, ha chiesto al Giudice
del lavoro di Milano di accertare che a far tempo dal 1997 egli aveva subito una dequalificazione
e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. Egli ha fatto presente
che il livello qualitativo delle sue mansioni si era impoverito perché l'attività degli addetti
al settore cui era preposto, comprendente originariamente i servizi del «187» e del «12»,
era stata limitata, a far tempo dal luglio 1997, al servizio del «12» che richiedeva compiti
di mera ricerca dei numeri telefonici, indirizzi, ecc. reperiti con la consultazione degli elenchi,
mentre l'attività del 187 comportava attività di promozione e vendita dei servizi.
L'azienda si è difesa sostenendo, tra l'altro, che la riduzione dei compiti del settore coordinato
da Gianfranco T. era stata determinata da esigenze organizzative e concordata con
le organizzazioni sindacali, che il ricorrente non aveva titolo a dolersi per un eventuale dequalificazione
subita dal personale da lui coordinato, che la tardività delle sue reazioni escludeva
che egli avesse subito un danno. Il Tribunale di Milano ha accolto la domanda,
condannando l'azienda al risarcimento del danno da dequalificazione, determinato, equitativamente,
in misura pari al 10% della retribuzione recepita dal lavoratore nel periodo
dal luglio 1997 al termine del rapporto. Questa decisione è stata confermata dalla Corte
d'appello di Milano. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte milanese per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'accertamento di fatto della dequalificazione operato
dalla Corte d'appello ' ha rilevato la Corte ' non scaturisce affatto dal mero riscontro
del depauperamento delle mansioni svolte dagli addetti, coordinati dal capo turno
Gianfranco T., bensà è incentrato soprattutto sulle mutate mansioni concretamente
svolte da quest'ultimo, proprio nella sua attività di coordinamento e supervisione. In particolare
' ha precisato la Corte ' l'impugnata sentenza afferma sà che dal luglio 1997 i lavoratori
già addetti al Clsut, comprendente i servizi del «187» e del «12», erano stati adibiti
esclusivamente al secondo servizio, con compiti («mera ricerca dei numeri telefonici,
indirizzi, etc. reperiti con la consultazione degli elenchi») meno qualificanti rispetto al
primo («informazioni, promozione, vendita di servizi e risposte adeguate al riguardo»);
la stessa sentenza, nel contempo, nega però espressamente che per Gianfranco T. vi sia
stato un «mutamento neutro» «per essere rimasta, quella da lui svolta, attività di supervisione
e controllo e per risolversi, prima e dopo, nella gestione delle risorse umane»,
precisando che «proprio per far ciò, infatti, necessita una conoscenza professionale specifica
[â?¦] calibrata sulle esigenze del servizio e che per questo consenta a chi dirige di intervenire
per risolvere i problemi che gli altri non sanno risolvere, di rimediare agli errori,
di dare consigli opportuni, di capire le eventuali origini dei contrasti tra i dipendenti; il
tutto con la autorevolezza, che appunto viene anche dalla conoscenza e che è un requisito
strettamente legato alle mansioni di chi dirige; infatti, agevola moltissimo la conformazione
spontanea e partecipata dei dipendenti alle indicazioni ricevute, la quale è fondamentale
per il funzionamento di qualsiasi organizzazione. Che poi gli interventi del
'capo diretti sul campo possano essere più o meno numerosi conta pochissimo, contando
invece, per compiti siffatti, il possesso degli strumenti per eseguirli. Nel caso concreto
ciò è ancora più vero se si considera che il capo turno aveva compiti anche di addestramento
e aggiornamento inerente il servizio '187».
La Corte d'appello di Milano, quindi, con specifico accertamento di merito e con motivazione
adeguata e priva di vizi logici ' ha osservato la Cassazione ' non ha affatto applicato
un «proprietà transitiva della dequalificazione», ma ha riscontrato, invece, in concreto
la lamentata dequalificazione proprio nei compiti specifici svolti dal capo turno Gianfranco
T. prima e dopo il luglio 1997, in base alle risultanze istruttorie. La Cassazione ha ritenuto
priva di fondamento anche la censura rivolta dall'azienda alla Corte d'appello per avere
escluso che il ritardo del lavoratore nel chiedere il risarcimento costituisse un comportamento
colposo rilevante ai fini dell'art. 1227 cod. civ. per la riduzione del risarcimento.
La Corte milanese ' ha osservato la Cassazione ' ha esattamente rilevato che il solo
ritardo nella reazione non è idoneo di per sé a configurare un comportamento colposo,
in mancanza di altri elementi.
Illiceità dell'apparecchiatura di controllo sulle uscite dall'autorimessa aziendale per accertare l'obbligo di presenza
La sentenza, già commentata brevemente in q. Riv. 4/2007, p. 13, merita un esame più esteso.Sergio P. dipendente dell'Eni Spa è stato sottoposto a procedimento disciplinare
e licenziato per essersi più volte allontanato dal posto di lavoro senza permesso.
L'infrazione è stata scoperta perché il lavoratore, per uscire e rientrare durante l'orario di
lavoro, ha utilizzato la sua autovettura, parcheggiata in un'autorimessa aziendale, azionando,
per superare la sbarra posta ai varchi del locale, un apposito «badge», i cui dati
sono stati registrati da un'apparecchiatura di controllo. Sergio P. ha impugnato il licenziamento
davanti al Tribunale di Milano sostenendo che i dati relativi alle sue uscite non
erano utilizzabili, in quanto ottenuti dall'azienda mediante un'apparecchiatura installata
senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, in violazione dell'art. 4, comma
2, Stat. lav. secondo cui gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da
esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi
anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere installati
soltanto previo accordo con le organizzazioni sindacali aziendali. Il Tribunale ha ritenuto
che in effetti l'azienda sia incorsa nella denunciata violazione dell'art. 4, comma 2,
Stat. lav. e pertanto ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Sergio P.
nel posto di lavoro condannando l'Eni al risarcimento del danno. L'azienda ha proposto
appello sostenendo che l'apparecchiatura installata ai varchi dell'autorimessa non poteva
ritenersi rientrante tra quelle previste dall'art. 4 Stat. lav. La Corte d'appello di Milano
ha accolto l'impugnazione e, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato
legittimo il licenziamento in quanto ha ritenuto che il controllo vietato dall'art. 4 Stat.
lav. sia soltanto quello «continuo del comportamento del lavoratore o comunque attuabile
in qualsiasi momento a discrezione della direzione aziendale». Sergio P. ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. L'art. 4 legge n. 300/70, la cui violazione è penalmente
sanzionata ai sensi dell'art. 38 della stessa legge ' ha affermato la Corte ' fa parte
di quella complessa normativa diretta a contenere in vario modo le manifestazioni del potere
organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti
nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore;
detto art. 4, infatti, sancisce, al suo primo comma, il divieto di utilizzazione di
mezzi di controllo a distanza, tra i quali, in primo luogo, gli impianti audiovisivi, sul presupposto
' espressamente precisato nella «Relazione ministeriale» ' che la vigilanza sul
lavoro, ancorché necessaria nell'organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione
«umana», e cioè non esasperata dall'uso di tecnologie che possono rendere la
vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia
nello svolgimento del lavoro. Lo stesso articolo, tuttavia, al secondo comma, prevede
che esigenze organizzative, produttive ovvero di sicurezza del lavoro possano richiedere
l'eventuale installazione di impianti ed apparecchiature di controllo, dai quali derivi anche
la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. In tal caso ' ha osservato la
Corte ' è prevista una garanzia procedurale a vari livelli, essendo la installazione condizionata
all'accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna,
ovvero, in difetto, all'autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro; in tal modo il legislatore
ha inteso contemperare l'esigenza di tutela del diritto dei lavoratori a non essere controllati
a distanza e quello del datore di lavoro, o, se si vuole, della stessa collettività , relativamente
alla organizzazione, produzione e sicurezza del lavoro, individuando una precisa
procedura esecutiva e gli stessi soggetti ad essa partecipi. Nel caso di specie ' ha rilevato
la Cassazione ' la società , al fine di agevolare i propri dipendenti muniti di autovettura,
aveva predisposto per essi un locale garage ove posteggiarla durante l'orario lavorativo,
inserendo, tuttavia, un congegno di sicurezza volto a consentire l'ingresso a tale
garage solo mediante un meccanismo elettronico attivato da un tesserino badge personale
assegnato a ciascun dipendente, lo stesso che attivava gli ingressi agli uffici; oltre
a consentire l'elevazione della sbarra di ingresso al (e uscita dal) garage, il meccanismo
rilevava e registrava, dal badge, l'identità di chi passava nonché l'orario del passaggio. Il
che permetteva, mediante l'incrocio di tali dati con quelli rilevati elettronicamente all'ingresso
degli uffici, di controllare il rispetto o non degli orari di entrata e uscita e presenza
sul luogo di lavoro da parte dei dipendenti. Questa apparecchiatura di controllo ' ha osservato
la Corte ' pur essendo stata predisposta per il vantaggio dei dipendenti, era utilizzabile
anche in funzione di controllo dell'osservanza da parte di questi dei loro doveri
di diligenza nel rispetto dell'orario di lavoro e della stessa correttezza della esecuzione
della prestazione lavorativa; tale apparecchiatura ' a differenza di quella analoga installata
agli ingressi dell'ufficio ' non era stata concordata con le rappresentanze sindacali,
né era stata autorizzata dall'Ispettorato del lavoro. Secondo la Corte di appello ' ha rilevato
la Cassazione ' la società , nel caso concreto, non avrebbe agito in violazione del
menzionato art. 4, comma 2, poiché «la rilevazione dei medesimi dati da altro varco non
è in sé modalità occulta e insidiosa di controllo, né invade la dignità e la riservatezza del
lavoratore nello svolgimento dell'attività ; non riguarda, inoltre, aspetti della prestazione
diversi da quelli per i quali già avveniva il controllo con il medesimo badge (nominativo,
orario di entrata e uscita al varco)»; tale assunto ' fondamentalmente volto ad escludere
dall'ambito del divieto del controllo a distanza dell'attività lavorativa posto dall'art. 4 citato
i meccanismi di rilevazione dei dati di entrata ed uscita dall'azienda ' non appare condivisibile.
Ed invero ' ha affermato la Suprema Corte ' posto, come sembra indubitabile,
in mancanza di indicazioni di segno contrario, che il riferimento all'attività lavorativa, oggetto
della fattispecie astratta, non riguarda solo le modalità del suo svolgimento, ma anche
il quantum della prestazione, il controllo sull'orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento
circa la quantità di lavoro svolto, si inquadra, per ciò stesso, in una tipologia
di accertamento pienamente rientrante nella fattispecie prevista dal secondo comma del
richiamato art. 4. Né l'insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti
' ha aggiunto la Cassazione ' può assumere portata tale da giustificare un sostanziale
annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore;
consegue a tale rilievo la necessità , ex art. 4, comma 2 dello Stat. lav., che l'installazione
della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le Rsa o consentita dall'intervento
dell'ufficio pubblico, affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza
e possano eventualmente essere stabilite in maniera trasparente misure di tutela della
loro dignità e riservatezza. Nel caso di specie ' ha osservato la Corte ' costituisce circostanza
divenuta pacifica, in seguito alla espletata istruttoria in sede di merito, che nessun
accordo, neppure tacito, è al riguardo intervenuto tra la direzione aziendale e le Rsa,
e non è stato in alcun modo interessato l'ufficio pubblico in sede di istallazione e funzionamento
delle apparecchiature in questione, che consentono, per i rilievi appena esposto,
«la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». Per tale ragione ' ha concluso
la Cassazione ' il controllo operato nei confronti del ricorrente, mediante l'incrocio
dei dati, legittimamente acquisiti in quanto comunque concordati, rilevati agli ingressi
dell'ufficio con quelli registrati alla sbarra di passaggio del garage aziendale, è stato effettuato
illegittimamente e quindi i risultati di tale controllo sull'attività di Sergio P. non
possono essere posti a fondamento dell'intimato licenziamento. La Suprema Corte ha
cassato la sentenza impugnata e pronunciando nel merito, ex art. 384 cod. proc. civ., ha
annullato il licenziamento condannando l'azienda a reintegrare il ricorrente nel suo posto
di lavoro e a risarcirgli il danno. La Corte peraltro ha disposto la compensazione tra le parti
delle spese dell'intero processo in considerazione della condotta tenuta dal lavoratore,
definita «tutt'altro che commendevole».
Una clausola di favore inserita nel contratto di lavoro di un dirigente può essere annullata per conflitto di interessi
Adriano B. è stato assunto dalla Waste Italia Spa come dirigente con contratto del 12 maggio 1999.Nel mese successivo egli ha sottoscritto con il presidente della società
un altro contratto, al quale è stata apposta la stessa data del precedente, il cui originale
è stato distrutto. Nel secondo contratto è stata inserita una clausola, che non figurava
nel precedente, del seguente tenore: «In caso di trasferimento della proprietà dell'azienda,
nel caso in cui Lei non intenda continuare il proprio rapporto di lavoro potrà procedere,
entro 180 giorni dalla data legale dell'avvenuto cambiamento, alla risoluzione del
rapporto stesso senza obbligo di preavviso e con risarcimento, oltre al trattamento di fine
rapporto, di un trattamento pari al costo aziendale di 2 (due) annualità ». Successivamente,
essendosi verificata la cessione dell'azienda, Adriano B., nell'ottobre 2000 si è dimesso
ed ha chiesto il pagamento delle due annualità previste dal suo contratto. Poiché la sua
richiesta non è stata accolta, egli è rivolto al Tribunale di Como. L'azienda si è difesa sostenendo
l'invalidità della clausola invocata dal dirigente. Il Tribunale ha rigettato la domanda
in quanto ha ritenuto che la clausola fatta valere dal dirigente fosse preordinata a
frodare l'azienda. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'appello di Milano, che
ha escluso, tra l'altro, che il presidente della Waste Italia Spa, attribuendo al dirigente, con
il secondo contratto, la richiesta indennità per l'ipotesi di trasferimento d'azienda avesse
agito scorrettamente. La Corte ha ritenuto che l'inserimento nel contratto di tale clausola
rientrava nell'autonomia delle parti e pertanto ha condannato l'azienda al pagamento delle
due annualità . La società ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato
che, se conosciuto o riconoscibile dal terzo, rende annullabile il contratto
concluso dal rappresentante, ai sensi dell'art. 1394 cod. civ. ' ha affermato la Corte ' è
pacificamente applicabile anche ai casi di rappresentanza organica di una persona giuridica;
la fattispecie astratta dell'art. 1394 cod. civ. si riferisce ad un'ipotesi di contrasto
tra l'interesse del rappresentante e l'interesse del rappresentato, per essere il primo
portatore di interessi incompatibili con quelli del secondo, cosicché la salvaguardia dei
detti interessi gli impedisce di tutelare adeguatamente l'interesse del dominus; ne discende
che non ha rilevanza, di per sé, che l'atto compiuto, oggettivamente considerato,
sia vantaggioso o svantaggioso per il rappresentato, con l'ulteriore conseguenza
che non è necessario, perché questi possa domandare o eccepire l'annullabilità del negozio,
provare di aver subito un concreto pregiudizio; ma è indubbio che i detti elementi
(inesistenza di qualsiasi interesse al contratto e pregiudizio non correlato ad alcun vantaggio)
possono essere apprezzati come indizi che, unitamente ad altre circostanze, sono
idonei a comprovare per presunzione l'esistenza del conflitto. Più in particolare ' ha
osservato la Corte ' la posizione di conflitto di interesse si riscontra anche quando l'interesse
cui tenda indebitamente il rappresentante sia mediato o indiretto, come quello
dipendente da vincoli di solidarietà (derivanti da rapporti familiari, societari, di amicizia,
ecc.), tali da spiegare un'influenza deviatrice rispetto al dovere di tutelare esclusivamente
l'interesse del rappresentato; con riguardo a tale ipotesi specifica di conflitto,
la giurisprudenza della Corte ha precisato che i vincoli di solidarietà e di amicizia fra rappresentante
e terzo, unitamente ad altri elementi, sono indizi che consentono al Giudice
del merito di ritenere, secondo l'id quod plerumque accidit, sia il proposito del rappresentante
di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità
della situazione da parte del terzo.
La Suprema Corte ha ritenuto che la sentenza impugnata abbia omesso di valutare vari indizi
idonei a comprovare l'esistenza di un conflitto di interessi (quali la sottoscrizione di
un secondo contratto e la distruzione del primo, il fatto che nel giugno 99 fosse noto il progetto
di trasferimento della proprietà aziendale ad altri). I riscontrati difetti di indagine '
ha affermato la Corte ' impongono la cassazione con rinvio della sentenza impugnata perché
nel nuovo giudizio si proceda ad una nuova valutazione dei fatti al fine di verificare la
sussistenza, anche solo sulla base di presunzione semplice, di una fattispecie di conflitto
d'interessi produttiva dell'annullabilità del contratto. La Cassazione ha rinviato la causa,
per nuovo esame, alla Corte d'appello di Torino.
La rinuncia del lavoratore a ogni pretesa rilasciata a fine rapporto non preclude la richiesta di pagamento per ferie non godute
Biagio F., dipendente dell'Enel, nel 1997 ha risolto consensualmente il suo rapporto di lavoro, ricevendo un'indennità aggiuntiva al trattamento di fine rapporto.Egli ha dichiarato per iscritto di accettare la somma versatagli «anche a transazione
di ogni pretesa», di essere soddisfatto di ogni sua spettanza e di non avere più nulla a
pretendere per alcun altro titolo. Tre mesi dopo la cessazione del rapporto egli ha impugnato
la dichiarazione rilasciata all'azienda, ai sensi dell'art. 2113 cod. civ., chiedendo il
pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute. In base all'art.
2113 cod. civ. le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti
da disposizioni inderogabili della legge e di contratti collettivi non sono valide ove
siano impugnate entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto ovvero dalla data,
successiva alla cessazione, in cui sono avvenute. Essendo stato rifiutato il pagamento,
Biagio F. si è rivolto al Tribunale di Roma, che ha condannato l'Enel al pagamento dell'indennità
richiesta, ritenendo priva di effetti la dichiarazione rilasciata dal lavoratore al momento
della cessazione del rapporto. L'Enel ha proposto appello sostenendo che si era verificata
una transazione valida e non impugnabile in quanto doveva escludersi che la tutela
prevista dall'art. 2113 cod. civ. concernesse anche il diritto risarcitorio relativo alla indennità
sostitutiva delle ferie non godute. La Corte d'appello di Roma ha accolto l'impugnazione,
riformando integralmente la decisione del Tribunale ed affermando che la domanda
proposta dal lavoratore doveva ritenersi preclusa per effetto della dichiarazione
da lui rilasciata. Biagio F. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della
Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, richiamando la sua costante giurisprudenza secondo
cui la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione
di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese
in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione
del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione (che il lavoratore
ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113 cod. civ.) alla condizione
che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre
specifiche circostanze desumibili «aliunde», che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza
di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento
di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti, enunciazioni in tal genere sono assimilabili
alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l'effettiva sussistenza
di una volontà dispositiva dell'interessato. La decisione impugnata ' ha osservato
la Cassazione ' non si è attenuta a questi criteri, perché la Corte territoriale ha ritenuto
che l'espressione «anche a transazione di ogni pretesa» valga a dimostrare l'esistenza di
un negozio transattivo, e non la mera presa d'atto della corresponsione di una somma,
senza svolgere alcuna indagine per individuare, oltre a tale generica enunciazione, e per
il concorso di ulteriori elementi di interpretazione contenuti nel documento o desumibili
da circostanze diverse, la manifestazione della piena e chiara consapevolezza di specifici
diritti e della volontà di abdicare ad essi (nella specie, il diritto alle competenze relative al
trattamento per ferie e festività , al quale il documento non fa alcun riferimento). Risulta
poi non conforme a diritto ' ha affermato la Suprema Corte ' l'affermazione contenuta nella
sentenza impugnata, secondo cui il «diritto risarcitorio» alla indennità sostitutiva delle
ferie può essere oggetto di rinuncia o transazione non soggetta all'applicazione dell'art.
2113 cod. civ.; ai fini dell'applicazione di tale disciplina la qualificazione di indisponibilità
dei diritti del lavoratore (in quanto «derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei
contratti e accordi collettivi») non dipende infatti dalla loro natura retributiva o risarcitoria,
né riguarda solo le situazioni soggettive derivanti dalla lesione di diritti fondamentali
della persona; il diritto alla indennità sostitutiva delle ferie costituisce del resto oggetto di
espressa previsione nella contrattazione collettiva. La Suprema Corte ha cassato la sentenza
impugnata e ha rinviato la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione,
precisando che essa dovrà procedere all'interpretazione della dichiarazione di cui
all'atto del 30 luglio 1997 al fine di stabilire se lo stesso contenga la manifestazione di volontà
di abdicare al diritto in questione, soggetto alla disciplina dell'art. 2113 cod. civ.
La dequalificazione del sindacalista può costituire comportamento antisindacale – In base all’art. 28 Stat. lav.
Il mobbing si esplica nell’attacco concentrico del gruppo sul più debole – L’azienda ne risponde se non lo impedisce
Le deroghe all’omnicomprensività del tfr devono essere stabilite dalla contrattazione collettiva in modo chiaro ed univoco
Regolamento riordino Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna
Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,riordina la Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna che opera presso la Presidenza del
Consiglio dei ministri. La Commissione, composta da venticinque membri dura in carica
tre anni. La Commissione si riunisce almeno nove volte l'anno. I componenti decadono
dalla Commissione per assenze alle riunioni non giustificate anche non continuative superiori
a quattro. La Commissione fornisce consulenza e supporto tecnico-scientifico nell'elaborazione
e nell'attuazione delle politiche di genere, sui provvedimenti di competenza
dello Stato.
(Gazzetta ufficiale n. 177 del 1° agosto 2007)
Attività libero-professionale intramuraria
Ogni azienda sanitaria locale, azienda ospedaliera, azienda ospedaliera universitaria, policlinico universitario a gestione diretta ed Irccs di diritto pubblicopredispone un piano aziendale, da presentare alle regioni, concernente, con riferimento
alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale
intramuraria. Entro diciotto mesi dal 31 luglio 2007 dovranno essere completate, per
garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, da parte delle regioni e
delle province autonome di Trento e di Bolzano le più idonee iniziative volte ad assicurare
gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere,
le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta
e gli Irccs di diritto pubblico, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività .
Tra le iniziative può essere prevista, ove ne sia adeguatamente dimostrata la necessità
e nell'ambito delle risorse disponibili, l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali
e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera
professione intramuraria, i quali corrispondano ai criteri di congruità e idoneità per l'esercizio
delle attività medesime, tramite l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni.
In deroga all'art. 39, comma 18-bis, della legge n. 449/1997, è ammesso il ricorso all'istituto
del lavoro a tempo parziale per i dirigenti sanitari, esclusivamente nei casi in cui risulti
comprovata una particolare esigenza familiare o sociale e fermo restando il rapporto
di lavoro esclusivo, con sospensione, fino al ripristino del rapporto a tempo pieno, dell'attività
libero-professionale intramuraria eventualmente in corso di svolgimento. Il contratto
collettivo nazionale di lavoro stabilisce le circostanze familiari o sociali per le quali
è consentito il ricorso all'istituto del lavoro a tempo parziale, nonché il conseguente trattamento
economico.
(Gazzetta ufficiale n. 181 del 6 agosto 2007)
Previdenza
La legge, che converte il decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, sostituendo l'art. 5 del decreto-legge stabilisceche «a decorrere dall'anno 2007, a favore dei soggetti con
età pari o superiore a sessantaquattro anni e che siano titolari di uno o più trattamenti
pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e delle forme sostitutive, esclusive
ed esonerative della medesima, gestite da enti pubblici di previdenza obbligatoria,
è corrisposta una somma aggiuntiva» in funzione dell'anzianità contributiva complessiva
e della gestione di appartenenza a carico della quale è liquidato il trattamento principale.
«Se il soggetto è titolare sia di pensione diretta sia di pensione ai superstiti, si tiene
conto della sola anzianità contributiva relativa ai trattamenti diretti. Se il soggetto è titolare
solo di pensione ai superstiti» l'anzianità contributiva complessiva è computata al
60 per cento. La somma aggiuntiva sarà corrisposta dall'Inps per l'anno 2007 in sede di erogazione
della mensilità di novembre ovvero della tredicesima mensilità , dall'anno 2008
in sede di erogazione delle mensilità di luglio ovvero dell'ultima mensilità corrisposta nell'anno.
La somma aggiuntiva «spetta a condizione che il soggetto non possieda un reddito
complessivo individuale relativo all'anno stesso superiore a una volta e mezza il trattamento
minimo annuo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti». La somma aggiuntiva
sarà corrisposta fino a concorrenza del suddetto limite. Per la determinazione di tale limite
dovranno essere considerati i redditi di qualsiasi natura, compresi i redditi esenti da imposte
e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, ad
eccezione sia dei redditi derivanti dall'assegno per il nucleo familiare ovvero dagli assegni
familiari e dall'indennità di accompagnamento, sia del reddito della casa di abitazione,
dei trattamenti di fine rapporto comunque denominati e delle competenze arretrate
sottoposte a tassazione separata. Dal 1° gennaio 2008, l'incremento delle pensioni in favore
dei soggetti disagiati di cui all'art. 38, commi da 1 a 5 della legge n. 448/2001, tra i
quali i pensionati di età pari o superiore a settanta anni, sarà determinato fino a garantire
un reddito pari a 580 euro al mese per tredici mensilità . Di conseguenza il limite di reddito
annuo di cui all'art. 38, comma 5, lettera a) e b) della legge n. 448/2001, viene rideterminato
in 7.540 euro. Viene istituito dall'anno 2008 un fondo per il finanziamento di interventi
e misure agevolative in materia di riscatto ai fini pensionistici della durata legale
del corso di laurea e per la totalizzazione dei periodi contributivi maturati in diversi regimi
pensionistici, in particolare per i soggetti per i quali trovi applicazione, in via esclusiva,
il regime pensionistico di calcolo contributivo, al fine di migliorare la misura dei trattamenti
pensionistici.
(Gazzetta ufficiale n. 190 del 17 agosto 2007 ' suppl. ordinario 182)
Tutela della salute e sicurezza sul lavoro
La legge delega il Governo ad adottare, «entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativiper il riassetto e la riforma delle disposizioni
vigenti in materia di salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in
conformità » alle norme comunitarie, alle convenzioni internazionali, all'articolo 117 della
Costituzione e agli statuti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome, e garantendo
l'uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. La legge elenca
i criteri ed i principi direttivi generali che il Governo dovrà seguire per la riforma della
suddetta normativa, tra i quali: a) applicazione della normativa in materia di salute e sicurezza
sul lavoro a tutti i settori di attività , a tutte le tipologie di rischio, e a tutti i lavoratori
e lavoratrici, autonomi e subordinati, nonché ai soggetti ad essi equiparati; b) semplificazione
degli adempimenti meramente formali con particolare riguardo alle piccole, e
medie imprese, con la previsione di forme di unificazione documentale; c) riformulazione
e razionalizzazione dell'apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione
delle norme vigenti e per le infrazioni alle disposizioni contenute nei decreti legislativi
emanati tenendo conto della responsabilità e delle funzioni svolte da ciascun soggetto
obbligato, con riguardo in particolare alla responsabilità del preposto, nonché della natura
sostanziale o formale della violazione; d) revisione dei requisiti, delle tutele, delle attribuzioni
e delle funzioni dei soggetti del sistema di prevenzione aziendale, compreso il
medico competente, anche attraverso idonei percorsi formativi, con particolare riferimento
al rafforzamento del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale,
nonché introducendo la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza di sito
produttivo; e) previsione di un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi,
fondato sulla specifica esperienza, ovvero sulle competenze e conoscenze in materia
di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, acquisite attraverso percorsi formativi mirati;
f) esclusione di qualsiasi onere finanziario per il lavoratore e la lavoratrice subordinati
e per i soggetti ad essi equiparati in relazione all'adozione delle misure relative alla
sicurezza e alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici; g) revisione della normativa in materia
di appalti prevedendo misure dirette a: migliorare l'efficacia della responsabilità solidale
tra appaltante ed appaltatore e il coordinamento degli interventi di prevenzione dei
rischi, considerando il rispetto delle norme relative alla salute e sicurezza dei lavoratori
nei luoghi di lavoro quale elemento vincolante per la partecipazione alle gare relative agli
appalti e subappalti pubblici e per l'accesso ad agevolazioni, finanziamenti e contributi a
carico della finanza pubblica; modificare il sistema di assegnazione degli appalti pubblici
al massimo ribasso; modificare la disciplina del codice dei contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture, prevedendo che i costi relativi alla sicurezza debbano essere specificamente
indicati nei bandi di gara e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei lavori, dei servizi o delle forniture oggetto di appalto.
La legge contiene altresà delle norme immediatamente operative di seguito riportate.
L'art. 2 stabilisce che il Pubblico ministero, in caso di esercizio dell'azione penale per i delitti
di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, qualora siano state commesse in
violazione di norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro
o che abbia determinato una malattia professionale, deve darne immediata notizia
all'Inail ai fini dell'eventuale costituzione di parte civile e dell'azione di regresso. L'art. 3
apporta alcune modifiche al d.lgs. n. 626/1994: il datore di lavoro committente deve promuovere
la cooperazione ed il coordinamento, elaborando un unico documento di valutazione
dei rischi da allegare al contratto di appalto o d'opera; nei contratti di somministrazione,
di appalto e di subappalto, di cui agli articoli 1559, 1655 e 1656 del codice civile,
devono essere specificamente indicati i costi relativi alla sicurezza del lavoro, ai quali
possono accedere, su richiesta, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e le organizzazioni
sindacali dei lavoratori; l'elezione dei rappresentanti per la sicurezza, salvo diverse
determinazioni in sede di contrattazione collettiva, avviene di norma in un'unica
giornata su tutto il territorio nazionale, come individuata con decreto del ministro del Lavoro
e della previdenza sociale; il datore di lavoro è tenuto a consegnare al rappresentante
per la sicurezza, su richiesta e per l'espletamento della sua funzione, copia del documento
di valutazione dei rischi aziendali, nonché il registro degli infortuni sul lavoro; i
rappresentati territoriali o di comparto dei lavoratori esercitano le attribuzioni di cui all'art.
19 del d.lgs. n. 626/1994 con riferimento a tutte le unità produttive del territorio o del
comparto di rispettiva competenza. L'art. 5 prevede che il personale ispettivo del ministero
del Lavoro e della previdenza sociale può adottare provvedimenti di sospensione di
un'attività imprenditoriale qualora riscontri l'impiego di personale non risultante dalle
scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 per cento
del totale dei lavoratori regolarmente occupati, ovvero in caso di reiterate violazioni
della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero e settimanale,
di cui agli artt. 4, 7 e 9 del d.lgs. n. 66/2003, ovvero di gravi e reiterate violazioni
della disciplina in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Le attività
imprenditoriali sospese sono oggetto di un provvedimento interdittivo alla contrattazione
con le pubbliche amministrazioni ed alla partecipazione a gare pubbliche di durata pari alla
sospensione nonché per un eventuale ulteriore periodo di tempo non inferiore al doppio
della durata della sospensione e comunque non superiore a due anni. Il provvedimento
di sospensione dell'attività imprenditoriale può essere revocato qualora: i lavoratori
non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria vengano regolarizzati;
vengano ripristinate le regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di reiterate violazioni
della disciplina in materia di superamento dei tempi di lavoro, di riposo giornaliero
e settimanale, o di gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute
e della sicurezza sul lavoro; venga pagata una sanzione amministrativa aggiuntiva
pari ad un quinto delle sanzioni amministrative complessivamente irrogate. L'art. 6 stabilisce
che i lavoratori occupati presso le imprese appaltatrici o subappaltatrici, ed i lavoratori
autonomi che esercitano la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, deve essere
munito di apposita tessera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le generalità
del lavoratore e l'indicazione del datore di lavoro. I lavoratori sono tenuti ad esporre
detta tessera di riconoscimento. I datori di lavoro con meno di dieci dipendenti possono
assolvere a tale obbligo mediante annotazione, su apposito registro vidimato dalla
direzione provinciale del lavoro territorialmente competente, da tenersi sul luogo di lavoro,
degli estremi del personale giornalmente impiegato nei lavori. Nel computo delle unità
lavorative, si tiene conto di tutti i lavoratori impiegati a prescindere dalla tipologia dei
rapporti di lavoro instaurati, ivi compresi quelli autonomi. L'art. 8, modificando l'art. 86
del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al d.lgs. n.
163/2006, stabilisce che «nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione
dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di
servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico
sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il
quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche
dei lavori, dei servizi o delle forniture». L'art. 11, sostituendo il comma 1198
dell'art. 1 della legge Finanziaria 2007, determina che i datori di lavoro che hanno presentato
l'istanza di regolarizzazione dei rapporti di lavoro non risultanti da scritture o da altra
documentazione obbligatoria, per la durata di un anno non sono assoggettabili ad ispezioni
e verifiche da parte di organi di controllo e vigilanza nelle materie oggetto della regolarizzazione,
con esclusione di quelle concernenti la tutela della salute e la sicurezza dei
lavoratori.
(Gazzetta ufficiale n. 185 del 10 agosto 2007)
Offerta ingannevole di lavoro a domicilio
L'Autorità ha ritenuto che costituisca pubblicità ingannevoledue annunci pubblicati
su giornali nelle pagine dedicate alla sezione «Lavoro» in cui veniva richiesto «personale
per lavoro domiciliare di assemblaggio penne a sfera part-time». Dalle risultanze istruttorie
è, invece, emerso un quadro del rapporto fra l'azienda offerente e coloro che accettano
l'incarico ben diverso da quanto prospettato nel messaggio. Infatti, lungi dall'avere
ad oggetto una prestazione inquadrata organicamente in un'attività di impresa, con
la previsione di un corrispettivo per la manodopera prestata, l'accordo fra le parti si concretizza
innanzitutto nella fornitura di materiale da cartoleria da assemblare nell'ambito
di un rapporto di collaborazione, meramente verbale, senza alcun inquadramento organico.
Infatti, l'incaricato è tenuto a versare alla azienda in anticipo una somma surrettiziamente
a titolo di cauzione per la materia prima ricevuta, oltre che a pagare in anticipo il
valore dei kit di assemblaggio volta in volta ricevuti. La circostanza che i messaggi omettano
di indicare l'effettivo contenuto della proposta e, in via connessa, il suo carattere oneroso,
avvicinando persone con messaggi che sotto l'apparente veste di un'offerta di lavoro
propongono un rapporto di collaborazione, comporta ' ad avviso dell'Autorità garante
' inevitabilmente una induzione in errore nei soggetti raggiunti dai messaggi in questione.
Per tali ragioni l'Autorità garante ha inibito all'azienda di continuare a diffondere
questi messaggi pubblicitari e le ha comminato una sanzione pecuniaria di 10.600 euro.
Clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Divieto di discriminazione – Nozione di «condizioni di im
Politica sociale – Mantenimento dei diritti dei lavoratori – Trasferimento di imprese – Nozione di «trasferimento»
Parità di trattamento tra uomini e donne – Tutela delle lavoratrici gestanti – Diritto al congedo di maternità
Licenziamento disciplinare – Violazione dei doveri di fedeltà – Insufficienza dei motivi contestati – Diritto alla reinte
Associazione in partecipazione – Presupposti – Qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato – Sussistenza
Accertamento legittimità del licenziamento per motivi di ristrutturazione aziendale – Obbligo di repechage
Licenziamento di socia lavoratrice e sua contestuale esclusione
La causa petendi posta a base del ricorso ' art. 414, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. ' è chiara:dedotta la simulazione del rapporto associativo, il cui accertamento è pregiudiziale
all'applicazione, da parte del Giudice del lavoro, della tutela apprestata ai lavoratori
subordinati in caso di licenziamento asseritamente illegittimo. Nell'intero ricorso
di primo grado nessun richiamo viene fatto alla nuova disciplina introdotta dalla legge
n. 142/2001 come mod. ex legge n. 30/2003, pacificamente applicabile ratione temporis,
al rapporto inter partes, né alle complesse problematiche relative alla coesistenza
accanto al rapporto associativo di un «ulteriore» (e non più «distinto», come recitava l'iniziale
formulazione dell'art. 2 legge n. 142/2001, eliminato dall'art. 9 legge n. 30/2003)
rapporto di lavoro ' subordinato ed autonomo '; in particolare nessun riferimento e/o
nessuna deduzione vengono svolti con riguardo al caso in cui ' come nel caso di specie
' siano disposte contemporaneamente la esclusione dalla cooperativa del socio lavoratore
' in forza di delibera dei competenti organi statutari ' e la risoluzione del parallelo
rapporto di lavoro subordinato ' in forza di lettera di licenziamento per condotte disciplinarmente
rilevanti, oltre che statutariamente disciplinate. In ragione, dunque, degli elementi
di diritto enunciati nel ricorso introduttivo e posti a fondamento della domanda
giudiziale proposta, l'appellante, nel rispetto del principio dell'onere della prova ' ex art.
2697 cod. civ., comma 1 ' avrebbe dovuto dimostrare, con opportune allegazioni, produzioni
documentali e/o richieste istruttorie, la natura simulata del rapporto associativo
solo formalmente intrattenuto con la Cooperativa Agorà ed il concreto atteggiarsi del
rapporto, fin dalla sua instaurazione, in termini di subordinazione. Il primo Giudice, nel
rigettare la domanda della N., rilevava che, da un punto di vista formale, la documentazione
depositata dalla convenuta (domanda di adesione a socio, delibera del Cda della
cooperativa ed estratto del libro dei soci) offriva prova della rituale costituzione del rapporto
associativo. Osservava poi che la dedotta simulazione del rapporto associativo da
parte della N., asseritamente concretatasi nel pieno mancato coinvolgimento della stessa
nelle vicende sociali (partecipazione alle assemblee, formazione organi sociali, elaborazione
programmi di sviluppo e decisioni concernenti le scelte strategiche) non è stata
provata dalla ricorrente. Infatti la brevissima durata del rapporto associativo non consente
in alcun modo di apprezzare l'asserita strumentalità del rapporto associativo formalmente
instaurato. L'esiguità del dato temporale di riferimento (durante il quale ben
difficilmente potevano essere emersi elementi sintomatici della simulazione del rapporto)
avrebbe dovuto suggerire alla N. una diversa impostazione della domanda giudiziale,
fondata non già sulla simulazione del rapporto associativo, bensà sulla coesistenza di
un valido rapporto associativo e di un ulteriore rapporto di lavoro subordinato, nel sistema
duale introdotto dalla legge n. 142/2001, cosà come mod. dall'art. 9 legge n.
30/2003, esaminando le complesse problematiche conseguenti alla necessità di armonizzare
e coordinare, da un punto di vista sistematico, i diversi regimi relativi alla natura
dei rapporti, al tipo delle tutele apprestate, al Giudice competente a conoscere le rispettive
controversie, ed al rito ad esse applicabili ecc. Nulla di tutto ciò è rinvenibile nel ricorso
di primo grado. Tale diversa impostazione della domanda non può essere recuperata
in appello. Non è possibile tacere del tutto, nel ricorso introduttivo del secondo grado,
della simulazione del rapporto associativo e sostenere invece che, accanto ad esso,
era stato istaurato un parallelo rapporto di lavoro, che è stato risolto per motivi disciplinari
in assenza di una valida procedura di contestazione ' ex art. 7 legge n. 300/1970 e
della giusta causa indicata a base del recesso. In tal modo, l'appellante più che sottoporre
all'attenzione della Corte delle specifiche censure alla sentenza impugnata ' art.
342 cod. proc. civ. ' introduce una vera e propria domanda nuova, attraverso una mutatio
libelli inammissibile in questa sede ex art. 437, comma 2, cod. proc. civ. La modifica
della causa petendi determina, da un lato, una evidente modifica dei fatti costitutivi del
diritto fatto valere in giudizio (l'asserita mancata partecipazione della ricorrente alla vita
sociale della cooperativa), dall'altro, introduce nel processo nuovi temi di indagine e di
decisione, alterando in maniera sostanziale i termini della controversia, cosà come fissati
dagli atti introduttivi (Cass. n. 14496/2005).
Dimissioni per giusta causa
Il reiterato e sistematico ritardo protrattosi per cinque mesi nel pagamento della retribuzione,coincidente con un periodo di assenza dal lavoro per malattia della
dipendente integra una evidente violazione dei doveri datoriali (ex artt. 1176 e 1218 cod.
civ.) ed è rivelatrice di una condotta «ostruzionistica», verosimilmente finalizzata proprio
alla interruzione del rapporto di lavoro (al di là delle prospettate, ma non specificamente
dedotte, condotte «mobbizzanti» del datore). Il ritardo di 7-10 giorni, che di per sé potrebbe
sembrare modesto, non lo è ove si pensi alla funzione della retribuzione (ex art. 36
Cost.), cioè quella di assicurare al lavoratore un'esistenza libera e dignitosa (soprattutto
quando l'importo della stessa da un lato e il costo della vita dall'altro, spesso rendano difficile
«arrivare in fondo al mese») e quando, poi, il ritardo venga sistematicamente reiterato
per diversi mesi consecutivi. Onere del datore è provare (attraverso la produzione di
idonea documentazione e/o capitolazione di pertinente prova per testi) di avere in maniera
tempestiva provveduto al pagamento della retribuzione alla dipendente oppure di
non avervi potuto fare fronte per giustificabili e giustificate ragioni riferite a tutti i mesi in
cui si verificò il ritardo. La reiterazione di questo, protrattosi per cinque mesi coincidenti
con un periodo di malattia della dipendente, costituisce condotta inadempiente dell'appellato
e sicuramente violatrice del canone di correttezza e buona fede, di cui alla richiamata
fonte codicistica. In presenza di siffatto comportamento, ritiene il Collegio che le dimissioni
presentate dalla F.I. siano assistite da giusta causa (la reiterazione della condotta
ostruzionistica del datore, oggettivamente volta a mettere in difficoltà la dipendente,
rendeva intollerabile la prosecuzione del rapporto di lavoro), cosà che legittimo appare il
recesso in tronco della odierna appellante.
Personale docente – Attività prestata all’estero – Valutazione ai fini dell’anzianità e/o degli aumenti stipendiali
Invio della lettera di licenziamento prima che il lavoratore abbia ricevuto la contestazione disciplinare
Con riferimento a fatti verificatisi il 14 agosto 2003 il datore di lavoro inviava lettera di contestazionedatata 21 agosto 2003 e successivamente licenziava il
dipendente con lettera 1° settembre 2003. Il Tribunale di Parma, respinte le istanze di
prove testimoniali articolate dalle parti, ha dichiarato l'illegittimità del recesso condannando
la ditta ' in ragione delle sue dimensioni occupazionali ' a riassumere il lavoratore
o a pagargli, a titolo risarcitorio, un'indennità pari a quattro mensilità . Il primo
Giudice ha infatti rilevato che il datore di lavoro non aveva fornito la prova della
preventiva contestazione di addebito, in quanto la lettera 21 agosto 2003 risultava
pervenuta solo il 25 settembre 2003 (e quindi dopo il licenziamento) all'indirizzo cui era
stata spedita, dove peraltro il lavoratore aveva precisato di non avere più la sua residenza
e che era diverso da quello dove gli era stata poi recapitata la lettera di licenziamento.
Il Tribunale sottolineava anche che era comunque impossibile identificare a
chi fosse stata consegnata la lettera di contestazione, non essendo stato prodotto il
relativo avviso di ricevimento. Chiamata a pronunciarsi su impugnazione della sentenza
da parte della ditta, la Corte d'appello di Bologna conferma la decisione di primo
grado, richiamandosi ai principi espressi da Corte Cost. n. 427/1989 e Corte Cost. n.
204/1982 che hanno ribadito l'applicabilità delle garanzie procedimentali previste dall'art.
7 della legge n. 300/1970 alla «più grave delle sanzioni disciplinari» principi peraltro
ripetutamente confermati dal Supremo Collegio (Cass. 6/10/2005 n. 19418;
Cass. 27/2/2004 n. 4050; Cass. 21/12/1990 n. 12117; Cass. 13/2/1990 n. 1040; Cass.
5/12/1989 n.5365; Cass. 5/12/1988 n. 6826; Cass. 23/6/1986 n. 4184). Dichiara pertanto
del tutto infondata la tesi della ditta appellante volta ad escludere la necessità
della previa contestazione dei fatti disciplinarmente rilevanti. Per quanto concerne la
tardività del recapito della lettera di contestazione, la Corte osserva che era onere della
ditta ' per una corretta applicazione di quanto sancito dal secondo comma dell'art.
7 della legge 300/70 ' accertarsi della ricezione della stessa da parte dell'appellato, o
comunque del suo arrivo all'indirizzo cui era stata spedita, prima di adottare ogni sanzione
disciplinare. Poiché in mancanza di una previa e valida contestazione va esclusa
la necessità di ogni accertamento in ordine all'eventuale sussistenza dei fatti (Cass.
20/7/1988 n. 7103), la Corte ribadisce l'irrilevanza delle prove testimoniali articolate
in ordine a tali fatti e la conseguente infondatezza di quanto dedotto dalla stessa in
merito alla mancata ammissione di dette prove, non senza evidenziare comunque l'inammissibilità
di tale motivo di appello, a fronte della ' peraltro assorbente ' omessa
specifica impugnazione dell'ordinanza con cui il Tribunale non le ha ammesse.
Contratto di collaborazione coordinata e continuativa - Contratto a progetto – Rapporto di lavoro subordinato
Previsione collettiva – Potere del datore di lavoro di modifica unilaterale della disciplina – Esclusione
Infortunio sul lavoro – Art. 2087 cod. civ. – Obbligo generale di prevenzione del datore di lavoro – Sussiste
Interruzione della prescrizione quinquennale – Richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione – Condizioni
Sequestro conservativo di importi del riscatto anticipato degli accantonamenti presso fondo pensionistico integrativo aziendale
L'art. 11 del d.lgs. n. 252 del 5 dicembre 2005 in materia di «Disciplina delle forme pensionistiche complementari»,introduce elementi di affinità tra previdenza obbligatoria
e complementare, sottoponendo le prestazioni di previdenza complementare al medesimo
regime già previsto per la previdenza obbligatoria in tema di vincoli di cedibilità ,
sequestrabilità e pignorabilità , al fine di incidere nei limiti della ragionevolezza sul trattamento
economico dei pensionati in caso di rivalsa dei creditori sui redditi dei pensionati
stessi. All'ultimo comma, poi, la norma citata specifica che «i crediti relativi alle somme
oggetto di riscatto totale e parziale e le somme oggetto di anticipazione di cui al comma
7, lettere b) e c), non sono assoggettate ad alcun vincolo di cedibilità , sequestrabilità e pignorabilità
». Peraltro, non soggiacciono al limite del «quinto» nemmeno le somme già erogate
a titolo di stipendio o di pensione accumulate od accantonate e rinvenute nella disponibilità
del sequestrato, in quanto i limiti della pignorabilità concernono il credito, e
non le somme che ne sono oggetto. Cosà, nel caso, per esempio, in cui il sequestro (od il
pignoramento) cada sul conto corrente bancario sul quale avviene l'accredito dei ratei del
trattamento, con l'accredito si verifica l'estinzione del rapporto obbligatorio corrente tra il
lavoratore ed il terzo debitore del trattamento economico, mentre, secondo le regole del
rapporto irregolare, la banca acquista la proprietà del denaro depositato, con contestuale
sorgere di un diverso rapporto obbligatorio di natura diversa tra la banca ed il correntista,
per il quale rapporto non è previsto alcun limite di pignorabilità . In sostanza, come argomentato
anche dal magistrato milanese, per effetto di tali mutamenti, le somme conseguite
perdono la loro destinazione all'attuale soddisfazione dei principali bisogni connessi
alle esigenze di vita del lavoratore (art. 36 Cost.) o del pensionato (art. 38 Cost.) e
assumono i connotati di qualunque somma risparmiata, sequestrabile e pignorabile senza
alcun limite.
Gli accordi sindacali a tempo indeterminato sono liberamente disdettabili dalle parti
La Corte di cassazione nel decidere in ordine alla legittimità dell'operato di un'azienda di trasportiche aveva disdettato un accordo sindacale che prevedeva in favore
dei propri dipendenti collocati a riposo alcuni benefici di viaggio, ha precisato che
rientra nei poteri dell'azienda l'esercizio di disdetta di un accordo collettivo. Osserva, infatti,
la Suprema Corte che il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine
non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finisce in tal caso per vanificarsi
la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, alla cui disciplina da
sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su
una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa
la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale
rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato,
che risponde alla esigenza di evitare ' nel rispetto dei criteri di correttezza e
buona fede ' la perpetuità del vincolo obbligatorio.
Il crumiraggio interno è lecito se non viola i diritti dei lavoratori non aderenti allo sciopero
Nell'ambito di un conflitto sindacale veniva proclamato uno sciopero del personale all'interno di un'azienda.L'azienda nel resistere agli effetti dello sciopero disponeva
che i lavoratori non aderenti all'iniziativa sindacale venissero adibiti a svolgere
le mansioni dei lavoratori scioperanti. L'organizzazione sindacale ritenendo sussistere una
lesione del diritto di sciopero proponeva un ricorso per la repressione della condotta
antisindacale. La domanda dell'organizzazione sindacale veniva respinta nei giudizi di
merito. La Suprema Corte nel confermare la decisione della Corte di appello, nel richiamare
alcuni precedenti recentemente intervenuti, ha precisato che il diritto di sciopero
non può ritenersi leso allorché la condotta dell'azienda sia tesa a limitare gli effetti dello
sciopero utilizzando lavoratori non scioperanti senza che risultino violate le norme a tutela
di situazioni soggettive dei lavoratori.
L’impugnativa di licenziamento si presume conosciuta ove venga recapitata presso lo stabilimento di un’azienda
La rinuncia a differenze retributive non preclude al lavoratore di agire per accertare il debitum contributivo sulle stesse
Un lavoratore dopo aver sottoscritto un verbale di accordo transattivo in ordine ad asserite differenze retributiveconveniva in giudizio innanzi al Tribunale
di Napoli sia la propria azienda che l'ente previdenziale al fine di vedere accertato
il proprio diritto al pagamento degli oneri previdenziali delle differenze retributive
che non gli erano state riconosciute dall'azienda nel tempo e che erano state oggetto
della transazione. La domanda del lavoratore veniva respinta nei due gradi di giudizio
sul presupposto che la transazione aveva un carattere novativo. La Corte di cassazione
nell'accogliere il ricorso del lavoratore ha stabilito che la transazione intervenuta
tra il datore di lavoro ed il proprio dipendente è estranea al rapporto previdenziale avente
ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge. A base del credito contributivo
' precisa la Cassazione ' deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella
corrisposta al lavoratore in quanto l'obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste
indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi
retributivi nei confronti del prestatore d'opera, ovvero che questi abbia rinunziato
ai propri diritti. Sulla base di tali osservazioni la Corte di cassazione ha quindi ritenuto
la totale inefficacia sul rapporto contributivo di una eventuale transazione tra il lavoratore
ed il proprio datore di lavoro in quanto incide su un rapporto negoziale del
tutto autonomo e distinto rispetto a quello previdenziale.
Incombe al lavoratore dimostrare la non equivalenza delle mansioni assegnategli
Un lavoratore addetto con mansioni di quadro a funzioni di coordinatore di un impianto di trattamento di acque contestava alla società datrice di lavorodi essere stato assegnato a mansioni dequalificanti nell'ambito di un laboratorio. Nel
corso del giudizio il Tribunale di Torino accoglieva la domanda che veniva riformata
dalla Corte di appello sul presupposto che il lavoratore non aveva dimostrato la non equivalenza
delle mansioni. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso di legittimità
ha affermato, richiamando un proprio precedente, che in caso di contestazione del diritto
dell'azienda di adibire il lavoratore ad altre mansioni, incombe al ricorrente che
assume la non equivalenza delle mansioni affidategli con quelle da ultimo svolte provare
la non equivalenza e la correlata dequalificazione.
Il lavoro prestato oltre il sesto giorno deve essere retribuito in misura maggiore rispetto a quello ordinario
Un lavoratore addetto a funzioni di guardiano presso un istituto bancario adiva l'allora pretore in funzione di Giudice del lavoroallo scopo di ottenere il pagamento di differenze retributive derivanti dallo svolgimento di prestazioni
di lavoro oltre il sesto giorno consecutivo. Il Giudice di primo grado respingeva la domanda
che veniva accolta in grado di appello sul presupposto che ancorché la disciplina collettiva
non prevedesse alcun compenso per l'attività prestata oltre il sesto giorno consecutivo,
al lavoratore dovevano comunque essere riconosciuto un compenso. L'istituto
bancario proponeva ricorso innanzi alla Suprema Corte che rigettava il ricorso richiamando
la propria giurisprudenza in forza della quale, pur sulla base di diverse considerazioni
giuridiche, viene sistematicamente affermato che anche in mancanza di una
espressa previsione contrattuale, il lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo
deve essere retribuito in misura maggiore rispetto a quello ordinario.
La divulgazione di notizie denigratorie nei confronti dell’azienda costituisce giusta causa di licenziamento
Il lavoratore ha diritto di essere ascoltato a propria difesa purché la richiesta sia tempestiva e non abbia carattere dilatori
Una azienda di trasporto marittimo contestava ad un proprio dipendente una grave mancanza contabile.Nel corso del procedimento disciplinare il lavoratore formulava
nei termini una generica difesa richiedendo contestualmente di essere sentito
a sua difesa. L'azienda, disattendendo la richiesta del lavoratore, risolveva il rapporto
di lavoro per giusta causa. Nel corso del giudizio per l'annullamento del licenziamento
promosso dal lavoratore, l'azienda osservava che il lavoratore aveva esaurito il proprio
diritto di difesa nel momento in cui aveva formulato le sue giustificazioni. All'udienza
di comparizione delle parti, inoltre, l'azienda rioffriva in via transattiva al lavoratore
la riassunzione che, tuttavia, veniva da quest'ultimo rifiutata. Il Tribunale di Napoli,
dichiarata l'illegittimità del licenziamento, disponeva la reintegra del lavoratore
condannando la società a risarcire il danno dalla data del licenziamento fino alla reintegra.
La sentenza veniva confermata dalla locale Corte di appello. La Corte di cassazione
ha confermato la decisione dei Giudici di merito affermando che il lavoratore
vanta un diritto che persiste anche allorché risponde alla contestazione con qualche
difesa scritta di richiedere di essere sentito personalmente. La richiesta del lavoratore
deve essere, tuttavia, formalizzata nel termine di cinque giorni dalla ricezione della
contestazione e vincola il datore di lavoro a sentire il proprio dipendente a meno che
la richiesta non abbia carattere dilatorio bensà di protrarre la difesa scritta attraverso
chiarimenti e precisazioni. Nel ritenere congruamente motivata la decisione dei Giudici
di appello che avevano ritenuto non esaurita la difesa nella comunicazione scritta
anche in considerazione della complessità dell'addebito formulato dal ricorrente la
Cassazione ha respinto il ricorso di legittimità . La Suprema Corte, nel rigettare l'ulteriore
motivo di gravame della società , ha ritenuto inoltre che la riassunzione offerta
dall'azienda nell'ambito di un accordo conciliativo non è causa di riduzione o esclusione
del danno.
Contributi di malattia per il datore di lavoro
Il Tribunale di Milano dubita della legittimità costituzionale delle norme impugnatein ragione del fatto che esse impongono a tutti i datori di lavoro il pagamento all'Inps
della contribuzione per l'indennità di malattia, senza escludere dal versamento quei
datori che, in forza di contrattazione collettiva, erogano direttamente al lavoratore il trattamento
in questione (nel caso di specie la società Metro Italia Cash and Carry Spa è vincolata,
con la stipulazione del contratto collettivo aziendale del 12 ottobre 1993, a corrispondere
direttamente a tutti i dipendenti in caso di malattia, non professionale e non dipendente
da infortunio sul lavoro, l'intera retribuzione netta di fatto). La questione deve
trovare soluzione nell'art. 9 della legge n. 138/1943 che, senza alcuna distinzione, onera i
datori di lavoro del pagamento dei contributi per coprire l'indennità di malattia prevista
dal precedente art. 6. Sul punto si è già espressa la Corte di cassazione a Sezioni Unite
che, con la pronuncia 10232/2003, ha definitivamente interpretato la norma nel senso
della sua conformità a Costituzione: il fondamento della previdenza sociale, secondo le
Sezioni Unite della Cassazione, sarebbe riconducibile al principio di solidarietà , con la
conseguenza che non vi è un nesso di reciproca giustificazione causale tra le prestazioni
e i contributi, persistendo quindi l'obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro
anche quando per tutti o per alcuni dei lavoratori dipendenti l'ente previdenziale non sia
tenuto a certe prestazioni. Il sospetto di incostituzionalità deriva dal fatto che l'art. 9 viola
in primo luogo il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, ravvisandosi
una irragionevole discriminazione rispetto ad altre omogenee situazioni nelle quali il
datore di lavoro, che assicura il trattamento economico di malattia ai propri dipendenti,
non è correlativamente tenuto al versamento del contributo previdenziale finalizzato al
trattamento stesso. Inoltre l'art. 9 citato si pone in contrasto anche con l'art. 41 (libertà di
iniziativa economica privata) della Costituzione prevedendo, senza distinzione alcuna, una
imposizione contributiva anche in assenza del rischio tutelabile, ovvero in assenza di
un'esigenza previdenziale da soddisfare. A tale proposito non risulta convincente, a parere
del Giudice milanese, l'affermazione in virtù della quale in materia previdenziale opererebbe
esclusivamente il principio di solidarietà che, come ha affermato la Corte di cassazione,
escluderebbe la necessità di un nesso sinallagmatico tra contribuzione e prestazione;
in tale prospettiva, anche a voler ammettere l'esistenza del principio di solidarietà ,
tuttavia è indiscutibile che almeno una parte del contributo che i datori di lavoro sono
chiamati a corrispondere per l'indennità economica di malattia sia destinato a coprire l'indennità
economica stessa erogata e non può integralmente risolversi nell'ottica della solidarietà .