
Descrizione
Dichiarate incostituzionali norme regionali discriminatorie nei confronti di stranieri nell'accesso a servizi sociali La tutela da licenziamenti illegittimi costituisce espressione dell'ordine pubblico interno e comunitario La Cassazione estende alla «conversione" di un rapporto interinale l'indennizzo limitato e onnicomprensivoÈ responsabile di abuso di ufficio il medico ospedaliero che effettua presso il suo studio professionale, a pagamento, le visit
Il trasferimento del ramo d’azienda presuppone che vengano ceduti i beni materiali destinati all’esercizio dell’impresa
Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche di un solo atto vessatorio che non costituisce mobbing
A. C. dipendente di una farmacia si è rivolta al Tribunale di Napoli sostenendo di
essere stata sottoposta a un'azione di mobbing da parte del titolare e dei colleghi,mediante una serie di vessazioni che le avevano cagionato una depressione con tentativo
di suicidio e l'avevano indotta a chiedere anticipatamente il pensionamento. Per
tali motivi ella ha chiesto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni riportati. Il
Tribunale ha rigettato la domanda, rilevando tra l'altro che la depressione e il tentativo
di suicidio erano da collegare alla particolare risposta soggettiva della ricorrente rispetto
all'utilizzazione di un nuovo sistema informatizzato di organizzazione del lavoro e dell'ingresso
di nuovi collaboratori nella farmacia, conseguenti all'intervenuto cambio di gestione.
Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli. La lavoratrce ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte napoletana
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. In base a un consolidato e condiviso orientamento
di legittimità ' ha osservato la Corte ' nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose
disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento
di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente
obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità
fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), ma
deve altresà rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti
che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual
volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.
Tali comportamenti, anche ove non siano determinati ex ante da norme di legge, sono
suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice
del merito, in quale, senza duplicare le voci del risarcimento (con l'attribuzione di
nomi diversi a pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i meri pregiudizi ' concretizzatisi
in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità , come tali
non risarcibili ' dai danni che vanno invece risarciti. Fra le situazioni potenzialmente dannose
e non normativamente tipizzate ' ha rilevato la Corte ' rientra il mobbing che designa
(essendo stato mutuato da una branca dell'etologia) un complesso fenomeno consistente
in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere
nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito
o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato
all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ai fini della configurabilità
del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di
comportamenti di carattere persecutorio ' illeciti o anche leciti se considerati singolarmente
' che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo
miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro
o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo
dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima
nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità ; d) il suindicato elemento
soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Alla base
della responsabilità per mobbing lavorativo ' ha affermato la Corte ' si pone normalmente
l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie
a tutela l'integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la
salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.; d'altra parte, come
risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate
dal lavoratore non si ricompongono in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente
e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore
o a mortificare la sua dignità , ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché
finalisticamente non accomunate, possano risultare, se esaminate separatamente
e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati,
di cui si è detto. E a ciò non è di ostacolo neppure la eventuale originaria prospettazione
della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto
di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell'azione che il giudice è tenuto
a effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia e anche applicando
norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati
sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello
domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto. Inoltre, al fine
della corretta individuazione della potenzialità lesiva (nei detti termini) delle indicate
condotte ' ha precisato la Corte ' si deve tenere conto anche degli esiti del lungo processo
evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere
e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato
Ce, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Tale processo, poi proseguito in sede
comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto
del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento
condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto
una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diritto o indiretto). I
contorni di questa complessa normativa sono divenuti più netti soprattutto a partire dall'entrata
in vigore dei d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, nei quali sono stati specificatamente
individuati alcuni fattori di discriminazione (orientamento sessuale, religione, convinzioni
personali, handicap, età , razza, origine etnica) e, per l'onere della prova, si è stabilito
che, quando la vittima fornisca elementi di fatto desunti anche da dati di carattere
statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza
di atti, patti o comportamenti discriminatori per una delle ragioni prese in considerazione,
spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione,
cioè principalmente della insussistenza dell'elemento psicologico (riproducendo cosà la
analoga disposizione contenuta nella legge 10 aprile 1991, n. 125, in materia di discriminazione
di genere). In ordinamenti come il nostro che già prevedono a livello costituzionale
norme di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore ' ha osservato la Corte ' il
suindicato elenco di fattori discriminatori e/o vessatori non è da considerare tassativo
(ed è anzi destinato ad acquisire particolare rilevanza ai fini dell'applicazione della speciale
forma di tutela prevista dalla legge n. 92 del 2012 in caso di licenziamento discriminatorio)
cosà come, per quel che riguarda l'onere della prova, anche prima dell'entrata in
vigore dei citati d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, nel nostro ordinamento processuale era già
previsto che, nel rito del lavoro, il principio dispositivo deve essere contemperato con
quello della ricerca della verità materiale, con l'utilizzazione da parte del giudice anche
di poteri officiosi oltre che della prova per presunzioni, alla quale, specialmente in casi
come quello in oggetto, va attribuito precipuo rilievo, secondo la giurisprudenza di questa
Corte. Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) ' che esige che il giudice prenda in esame
tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni
per mezzo degli altri e quindi esclude che il giudice, avendo a disposizione una pluralità
di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione
che nessuno di essi assurga a dignità di prova singolarmente, consente attraverso la
complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità , frustrazione
personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente,
con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno,
facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti
dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione
delle prove. Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento giurisprudenziale in
materia di prova del danno da demansionamento, oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza
amministrativa in materia di mobbing.
La Corte partenopea ' ha affermato la Cassazione ' si è discostata dai suddetti principi in
quanto ' dopo aver riferito che la domanda azionata non è stata formulata come richiesta
di risarcimento del danno da mobbing, ma nei più ampi termini di richiesta di «risarcimento
del danno esistenziale e del danno dovuto all'anticipato conseguimento del trattamento
di quiescenza e di ogni altro danno patito in conseguenza delle azioni vessatorie» poste
in essere dai soggetti appartenenti alla farmacia in qualità di dipendenti o titolari della
farmacia stessa ' ha impostato tutta la propria decisione sulla insussistenza di un intento
persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dalla ricorrente. Quindi, una
volta escluso il suddetto intento e quindi il mobbing ' sulla base di una valutazione delle
prove raccolte effettuata sempre nell'ottica della ricerca una «strategia persecutoria» ' la
Corte territoriale ha respinto la domanda, peraltro interpretata in modo scorretto sà da al terarne il senso e il contenuto sostanziale, in relazione alle finalità perseguite dalla ricorrente.
Prima di arrivare alla suddetta conclusione la Corte di Appello non si è neppure posta
il problema di valutare se alcuni dei comportamenti denunciati ' esaminati singolarmente
ma sempre in relazione agli altri ' pur non essendo accomunati da medesimo fine
persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per la ricorrente e, come
tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a
risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili. Ciò, da un lato, significa
che se tra i diversi episodi addotti si accerti che qualcuno ha carattere vessatorio questo
non necessariamente implica l'attribuzione al comportamento datoriale del ruolo di causa
o concausa dello stato depressivo della ricorrente culminato nel tentativo di suicidio,
ma non per questo esclude che possa configurarsi un danno giuridicamente apprezzabile.
E, d'altra parte, comporta che la determinazione, in ipotesi, dell'eventuale efficacia
causale diretta o indiretta di una condotta vessatoria datoriale rispetto al suindicato stato
patologico sia effettuata sulla base di un adeguato accertamento della situazione psichica
della ricorrente prima dell'insorgere della depressione culminata nel tentativo di suicidio.
La Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata e ha rinviato la causa per nuovo
esame, alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, enunciando il seguente
principio di diritto: «Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento dal danno patito
alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del
datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del
merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare tutti
gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto
a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati ' esaminati singolarmente ma sempre
in relazione agli altri ' pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano
essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili
alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente c
nei soli limiti dei danni a lui imputabili.»
Il dovere di esclusività della prestazione lavorativa per la pubblica amministrazione sussiste anche per il lavoro nell’azien
In caso di licenziamento illegittimo il dirigente pubblico ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in base all’art.
Eziologia professionale del carcinoma polmonare in rapporto concausale alla forte abitudine tabagica
La fattispecie concerne la domanda di rendita diretta nel vecchio regimeproposta
in vita dal de cuius e coltivata in giudizio dagli eredi dopo il suo decesso, determinato
da neoplasia polmonare. L'attività di lavoro espletata era di operaio tubista calderaio,
a bordo delle unità navali e in presenza di comprovata esposizione al rischio da amianto.
La Corte individua come fattori efficienti nel determinismo eziologico della malattia
tanto la noxa lavorativa quanto quella extralavorativa, escludendo il ricorso a percentuali
di tipo matematico per quantificare il ruolo causale o concausale dell'amianto: afferma
la Corte, assumendo per proprie le valutazioni espresse del Ctu in sede di rinnovo, «ciò
per l'approssimazione e la grossolanità con le quali una siffatta sintesi renderebbe un ragionamento
invece complesso quale quello sul nesso di causalità in presenza di più antecedenti
causali». Sarebbero invece da considerare il comprovato periodo di esposizione
professionale all'amianto, il sicuro effetto cancerogeno di tale esposizione, l'effetto
sinergico del fumo di sigaretta e l'aumento di rischio per i soggetti non fumatori per concludere
accertando una «significativa rilevanza tanto dell'esposizione all'amianto quanto
dell'abitudine tabagica nell'origine della neoplasia polmonare che aveva colpito il de
cuius». Non condivide, però, la Corte, la decisione del Tribunale, che aveva erroneamente
valorizzato il tabagismo del lavoratore sino ad attribuire a tale fattore pari dignità eziologica
rispetto all'esposizione all'amianto «ignorando il principio di cui agli artt. 40 e
41 cod. pen.». In sede di appello la decisione del primo grado è stata pertanto integralmente
riformata disponendo in favore degli eredi la liquidazione della rendita diretta che
sarebbe spettata al de cuius.
Esautoramento dagli incarichi, danno da demansionamento
La ricorrente, dirigente di struttura complessa, denunciache a seguito di una modifica
dei precedenti assetti organizzativi disposta dall'amministrazione ha subito una
concreta variazione in peius della sua posizione professionale essendole stato affidato
solo formalmente l'incarico di dirigere una struttura semplice che in buona sostanza esisteva
solo sulla carta. Deduceva cosà di avere subito una dequalificazione professionale,
con attribuzione di compiti tali da costringerla a una inattività che evidenzia uno svuotamento
del contenuto professionale della sua attività lavorativa e tali da non consentire,
in ogni caso, l'utilizzo del bagaglio professionale e delle capacità acquisite. Sosteneva
che nell'ambito dei danni da demansionamento va inquadrato anche il danno da inattività
incidente sulla dignità professionale del lavoratore, sul sentimento di autostima personale,
sulla mancata possibilità di perfezionamento e aggiornamento, sulla mancata
pratica della propria professione, sulla possibilità di ulteriori ricollocazioni, sulla vita relazionale
e di essere stata di fatto relegata in una stanza dalla quale non doveva né poteva
uscire e che le era stata materialmente preclusa ogni partecipazione all'attività dell'amministrazione.
Si costituiva la Asl affermando che la vicenda doveva essere invece ricondotta
alla corretta applicazione dei principi in materia di ius variandi nell'ambito dirigenziale
e che in particolare, verificato il dirigente più idoneo, gli incarichi erano stati attribuiti
e variati con articolata valutazione che (in conformità alla legge e al Ccnl) attribuisce
(preminente) rilievo alla natura e alle caratteristiche dei programmi da realizzare (ossia
alla cd. mission e alle aree di responsabilità , al contenuto professionale derivante
dall'analisi dei cd. job profile, ai programmi e agli obiettivi, alla tipicità e complessità del
sistema relazionale), con i quali devono armonizzarsi le attitudini e le capacità professionali
(area e disciplina di appartenenza, attitudini personali e capacità professionali specialistiche,
risultati conseguiti). Esperita la prova testimoniale e ammessa la Ctu, si accertava
che la ricorrente era stata in effetti demansionata, ma non aveva patito alcun
danno alla salute a cagione del comportamento datoriale. Afferma però il giudice del lavoro
di Taranto che il lavoratore ha diritto di esercitare in concreto le sue mansioni, dunque
che il diritto al lavoro corrisponde al diritto di lavorare. In particolare che neanche la
pubblica amministrazione può decidere di tenere inattivo un suo dipendente, perché ciò
determina lesione della sua dignità . Il danno è stato liquidato in euro 23.400,00 oltre rivalutazione
e interessi dal 30 dicembre 2002, corrispondendo solo alla lesione della dignità ,
bene costituzionalmente protetto sotto il profilo del danno alla professionalità , in
quanto non è stato riconosciuto alla ricorrente, per difetto di obiettiva lesione del suo
stato di salute, nulla a titolo di danno biologico e, conseguentemente, nulla a titolo di
danno morale.
Il trasferimento di ramo d’azienda presuppone la preesistenza di un complesso produttivo organizzato ai fini dell’applicazio
L’associazione sindacale deve essere ritenuta nazionale se opera sulla totalità o su ampia parte del territorio della repubbl
Il danno da demansionamento è adeguatamente accertato con riferimento alla sostanziale inattività e all’avvilimento
Assegno mensile per assistenza continuativa
Il Tribunale rispolvera un istituto affatto desueto ' ritenuto abrogato da qualcunoche attribuisce ai tecnopatici un'ulteriore prestazione a carico dell'Inail, nelle ipotesi
in cui possa accertarsi il presupposto che il lavoratore sia affetto da «malattie o
infermità che rendono necessaria la continua o la quasi continua degenza a letto». Al ricorrente
la decisione in esame attribuisce maggiori postumi nella misura del 100% (a
fronte dell'80% riconosciuto in via amministrativa, su denuncia di mesotelioma) e il diritto
all'assegno mensile per assistenza continuativa ex art. 76 d.P.R. n. 1124/1965. Questa
particolare forma di tutela è incumulabile con l'indennità di accompagnamento, ma
è erogabile in presenza di presupposti meno rigorosi e non coincidenti con la prestazione
assistenziale. Nel caso di specie, il ricorrente, dimostrato l'aggravamento delle sue
condizioni di salute e di non essere mai stato assistito in istituti con oneri a carico dell'Inail
o di altri enti e di non avere mai percepito la indennità di accompagnamento, si è visto
accogliere integralmente la sua domanda: l'Inail è stato pertanto condannato a corrispondergli
le differenze di rendita e l'assegno ex art. 76 T.U.
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2013)
La legge n. 228/2012, in vigore dal 1° gennaio 2013, all'art. 1, comma 98, detta una
nuova disciplina per il trattamento di fine servizioper i dipendenti pubblici a seguito
della sentenza n. 223/2012 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 12, comma 10, della legge n. 122/2010, nella parte in cui non
esclude l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,5% della base contributiva,
prevista dall'art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032/1973. In forza del comma 98 citato,
dunque, tale disposizione è abrogata dal 1° gennaio 2011 e i Tfs liquidati sulla base di
tale disposizione sono riliquidati d'ufficio entro un anno dalla data di entrata in vigore del
d.l. n. 185/2012, senza alcun recupero delle somme erogate prima. Il successivo comma
99 prevede l'estinzione di diritto, dichiarata con decreto, anche d'ufficio, dei processi pendenti
relativi alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5% prevedendo,
altresà, che le sentenze emesse, se non passate in giudicato, sono prive di effetti.
Invece l'art. 1, commi da 231 a 235, detta una nuova disciplina per i cd. lavoratori salvaguardati.
Precisamente il comma 231 prevede che le disposizioni in materia di requisiti di
accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima dell'entrata in vigore dell'art. 24 del d.l.
n. 201/2011 (convertito dalla legge n. 214/2011), ferme restando le salvaguardie di cui ai
decreti del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 1° giugno 2012 e 5 ottobre 2012,
si applicano anche ai seguenti lavoratori che maturano i requisiti per il pensionamento
successivamente al 31 dicembre 2011: a) ai lavoratori cessati dal rapporto di lavoro entro
il 30 settembre 2012 e collocati in mobilità ordinaria o in deroga a seguito di accordi governativi
o non governativi, stipulati entro il 31 dicembre 2011, e che abbiano perfezionato
i requisiti utili al trattamento pensionistico entro il periodo di fruizione dell'indennità di
mobilità ovvero durante il periodo di godimento dell'indennità di mobilità in deroga e in
ogni caso entro il 31 dicembre 2014; b) ai lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria
della contribuzione entro il 4 dicembre 2011, con almeno un contributo volontario accreditato
o accreditabile alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011, ancorché abbiano
svolto, successivamente alla data del 4 dicembre 2011, qualsiasi attività , non riconducibile
a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato dopo l'autorizzazione alla
prosecuzione volontaria, a condizione che: 1) abbiano conseguito successivamente alla
data del 4 dicembre 2011 un reddito annuo lordo complessivo riferito a tali attività non superiore
a euro 7.500; 2) perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento
pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore
del d.l. n. 201/2011; c) ai lavoratori che hanno risolto il rapporto di lavoro entro il 30 giugno
2012, in ragione di accordi individuali sottoscritti anche ai sensi degli artt. 410, 411 e
412 del cod. proc. civ. ovvero in applicazione di accordi collettivi di incentivo all'esodo stipulati
dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale entro
il 31 dicembre 2011, ancorché abbiano svolto, dopo la cessazione, qualsiasi attività non
riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a condizione che: 1)
abbiano conseguito successivamente alla data del 30 giugno 2012 un reddito annuo lordo
complessivo riferito a tali attività non superiore a euro 7.500; 2) perfezionino i requisiti
utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo
mese successivo alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011; d) ai lavoratori autorizzati
alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre 2011 e collocati in
mobilità ordinaria alla predetta data, i quali, in quanto fruitori della relativa indennità , devono
attendere il termine della fruizione della stessa per poter effettuare il versamento volontario,
a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento
pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore
del d.l. n. 201/2011. Il successivo comma 233 afferma che spetta all'Inps il monitoraggio
sulle domande di pensionamento inoltrate dai lavoratori che intendono avvalersi
dei requisiti di accesso e del regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011. Il comma 236, invece, interviene sulla rivalutazione degli importi
pensionistici escludendolo, per il 2014, per le fasce superiori a sei volte il trattamento
minimo Inps e per i cd. «vitalizi» percepiti da coloro che sono stati parlamentari nazionali
o regionali. I commi da 238 a 249, poi, hanno a oggetto le ricongiunzioni e il cumulo
dei periodi assicurativi. Con i commi da 250 a 252 sono state introdotte modifiche alla legge
n. 92/2012 in tema di ASpI e mini-ASpI. I commi 336 e 337 intervengono sul d.lgs. n.
151/2001 includendo le pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque
interne, all'interno delle disposizioni che tutelano la maternità per le lavoratrici autonome.
Invece il comma 338 apporta modifiche al d.lgs. n. 198/2006 introducendo l'obbligo, a carico
degli organismi di parità , dello scambio di informazioni disponibili con gli altri organismi
europei ed estendendo il divieto di qualsiasi discriminazione in materia di accesso al
lavoro anche alle ipotesi di ampliamento di un'impresa o avvio e ampliamento di ogni altra
forma di attività autonoma. Il comma 339 interviene sul d.lgs. n. 151/2001 in materia
di congedi parentali, recependo la Direttiva Ce 2010/18. L'art. 1, comma 400, della legge
n. 228/2012, in tema di contratti a tempo determinato stipulati con la pubblica amministrazione,
afferma che, ferme restando le previsioni di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001,
le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto stesso, possono prorogare
i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, in essere al 30 novembre
2012, che superano il limite dei trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi o il diverso
limite previsto dai Contratti collettivi nazionali del relativo comparto, fino e non oltre il
31 luglio 2013, previo accordo decentrato con le organizzazioni sindacali rappresentative
del settore interessato. Infine si segnala il comma 522 che interviene su alcune specifiche
disposizioni contenute nella legge n. 146/1990 dimezzando le sanzioni a carico di chi non
rispetta l'obbligo di erogazione dei servizi ritenuti essenziali in caso di sciopero.
(Supplemento Ordinario n. 212 della Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2012)
LEGGE 24 DICEMBRE 2012 N. 231
Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, recanterecante disposizioni
urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso
di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale. La legge n. 231/2012 ha
convertito il d.l. n. 207/2012 con cui sono state introdotte disposizioni volte ad assicurare,
in presenza di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale e qualora vi sia
la necessità di salvaguardare l'occupazione e la produzione, l'immediata esecuzione di
misure finalizzate alla tutela della salute e alla protezione ambientale e la adozione di graduali
ulteriori interventi finalizzati al risanamento progressivo degli impianti.
(Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 2013)
D.L. 18 OTTOBRE 2012 N. 179 CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA LEGGE 17 DICEMBRE 2012 N. 221
L'art. 7 del d.l. n. 179/2012in tema di trasmissione telematica delle certificazioni di malattia
nel settore pubblico e privato, prevede che a decorrere dal sessantesimo giorno dalla
data di entrata in vigore del decreto, in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti
del settore pubblico non soggetti al regime del d.lgs. n. 165/2001, per il rilascio e la trasmissione
delle certificazioni di malattia, si applicano le disposizioni di cui all'art. 55-septies
del decreto legislativo citato. Il comma 1-bis dell'art. 7, introdotto in sede di conversione
del d.l. n. 179/2012, ha aggiunto un periodo all'art. 55-septies, comma 2, del d.lgs.
n. 165/2001 stabilendo che il medico o la struttura sanitaria devono inviare telematicamente
la certificazione all'indirizzo di posta elettronica personale del lavoratore qualora
questo ne faccia espressa richiesta fornendo un valido indirizzo. L'art. 7, comma 3, poi introduce
modifiche all'art. 47 del T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e di
sostegno della maternità e della paternità (d.lgs. n. 151/2001) dettando la disciplina per
la trasmissione telematica della certificazione di malattia necessaria al genitore per fruire
dei congedi. Gli artt. 25 e seguenti del d.l. n. 179/2012 disciplinano le cd. imprese start-up innovative. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro che possono essere instaurati da
dette imprese l'art. 28 prevede che per un periodo di 4 anni dalla data di costituzione di
una start-up innovativa di cui all'art. 25, comma 2, ovvero per il più limitato periodo previsto
dal comma 3, le ragioni giustificative di cui all'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368/2001,
nonché le ragioni di cui all'art. 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003 debbono intendersi
sussistenti qualora il contratto a tempo determinato, anche in somministrazione, sia stipulato
da una start-up innovativa per lo svolgimento di attività inerenti o strumentali all'oggetto
sociale della stessa. Il comma 3 dell'art. 28 precisa che il contratto a tempo determinato
può essere stipulato per una durata minima di sei mesi e una massima di trentasei
mesi, ferma restando la possibilità di stipulare un contratto a termine di durata inferiore
a sei mesi. Inoltre, entro il limite di durata massima, possono essere stipulati più
successivi contratti a tempo determinato senza l'osservanza dei termini di cui all'art. 5,
comma 3, del d.lgs. n. 368/2001, o anche senza soluzione di continuità . In deroga al limite
di durata massima di trentasei mesi, può essere stipulato tra gli stessi soggetti e per
lo svolgimento delle attività di cui al comma 2 un ulteriore successivo contratto a tempo
determinato per la durata residua rispetto al periodo di cui al comma 1, a condizione che
la stipulazione avvenga presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio.
Il comma 4 stabilisce che qualora, per effetto di successione di contratti a termine, il
rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente
superato i trentasei mesi, comprensivi di proroghe o rinnovi, o la diversa maggiore
durata stabilita dal comma 3, e indipendentemente dagli eventuali periodi di interruzione
tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
Il successivo comma 5 prevede che la prosecuzione o il rinnovo dei contratti a termine oltre
la durata massima prevista dal medesimo articolo ovvero la loro trasformazione in
contratti di collaborazione privi dei caratteri della prestazione d'opera o professionale,
determinano la trasformazione degli stessi contratti in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
La retribuzione dei lavoratori assunti da tali società , in forza di quanto previsto
dal comma 7, è costituita da una parte che non può essere inferiore al minimo tabellare
previsto, per il rispettivo livello di inquadramento, dal contratto collettivo applicabile,
e da una parte variabile, consistente in trattamenti collegati all'efficienza o alla redditività
dell'impresa, alla produttività del lavoratore o del gruppo di lavoro, o ad altri obiettivi
o parametri di rendimento concordati tra le parti, incluse l'assegnazione di opzioni
per l'acquisto di quote o azioni della società e la cessione gratuita delle medesime quote
o azioni. Il comma 8, invece, prevede che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni
sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono definire
in via diretta ovvero in via delegata ai livelli decentrati con accordi interconfederali o
di categoria o avvisi comuni: a) criteri per la determinazione di minimi tabellari specifici
funzionali alla promozione dell'avvio delle start-up innovative, nonché criteri per la definizione
della parte variabile; b) disposizioni finalizzate all'adattamento delle regole di gestione
del rapporto di lavoro alle esigenze delle start-up innovative, nella prospettiva di
rafforzarne lo sviluppo e stabilizzarne la presenza nella realtà produttiva. Il comma 9, infine,
stabilisce che qualora venga stipulato un contratto a termine secondo le disposizioni
citate da una società che non risulta avere i requisiti di start-up innovativa, il contratto
si considera stipulato a tempo indeterminato con applicazione della disciplina derogata.
L'art. 34, comma 54, del d.l. n. 179/2012, cosà come modificato in sede di conversione dalla
legge n. 221/2012, ha apportato una modifica all'art. 1, comma 21, lettera b), capoverso
3-bis, della legge n. 92/2012, comportante l'abrogazione del fax dalle comunicazioni
della «chiamata» per lavoro intermittente.
(Supplemento Ordinario n. 208 della Gazzetta Ufficiale n. 294 del 18 dicembre 2012)
Obbligo di comunicazione dello sciopero agli utenti
a Commissione ha valutato negativamente e ha sanzionato la condotta della
Trenord Srl,che ha omesso di dare comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate,
almeno cinque giorni prima dell'inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione
dei servizi nel corso dello sciopero, in occasione degli scioperi proclamati dall'organizzazione
sindacale Orsa Lombardia ed effettuati in data 26 luglio e 5 settembre 2012. Secondo
il consolidato orientamento della Commissione, è possibile che le aziende non effettuino
alcuna comunicazione all'utenza, qualora, sulla base di un giudizio prognostico
circa il grado di adesione allo sciopero, prevedano che lo sciopero non incida sul funzionamento
del servizio pubblico. Tuttavia, qualora l'esercizio dello sciopero crei un disservizio
all'utenza di cui la stessa non sia stata preavvisata, l'azienda dovrà esser sanzionata
ai sensi dell'articolo 4, comma 4, come nel caso in esame in cui l'istruttoria ha consentito
di accertare che gli utenti hanno subito gravi disagi subiti a causa dell'inadempimento,
da parte dell'azienda, dell'obbligo di fornire preventiva informazione all'utenza.
Schema di convenzione per la concessione di prodotti di finanziamento a pensionati Inps
L'Autorità ha espresso il suo parere in merito alla bozza di Convenzione finalizzata
alla concessione di prodotti di finanziamento a pensionati Inps ed ex
Inpdap.L'Autorità ha richiamato la segnalazione S736 del 27 giugno 2006, in cui aveva
indicati i più importanti principi applicabili nell'ottica di assicurare incentivi alla
concorrenza tra le imprese aderenti alla Convenzione, ovvero tra le banche erogatrici i
finanziamenti, e, al tempo stesso, effetti positivi a vantaggio dei consumatori finali in
termini di migliori condizioni economiche e maggiore informazione. In merito ai livelli
massimi nei tassi applicabili a tutela dei pensionati dalle Banche/Intermediari finanziari,
l'Autorità ha rilevato l'esigenza che tale obbiettivo sia perseguito, da un punto di
vista sostanziale individuando una metodologia chiara per la definizione di tali condizioni
che devono essere chiaramente migliorative rispetto a quelle di mercato. Inoltre,
la Convenzione deve esplicitare che le banche aderenti saranno libere e incentivate a
formulare condizioni economiche anche più convenienti, a vantaggio del soggetto
pensionato che richiede il finanziamento, potendo profilare il rischio e quindi offrire condizioni anche migliorative a quelle della Convenzione. Inoltre, ad avviso dell'Autorità ,
in un'ottica di promozione della concorrenza, Inps dovrebbe informare i propri
pensionati delle condizioni di offerta, anche indicando, almeno annualmente, in un apposito
elenco facilmente accessibile, le Banche e gli Intermediari finanziari aderenti alla
convenzione e la graduatoria delle offerte migliorative formulate rispetto ai tetti
massimi. Un ulteriore profilo di rilevo connesso all'offerta dei servizi di finanziamento
in esame è il possibile effetto anticoncorrenziale che potrebbe derivare dal legame del
servizio di finanziamento previsto dalla Convenzione con altri servizi bancari e assicurativi.
In merito ai servizi bancari, in considerazione del fatto che numerosi pensionati
hanno già l'accredito della pensione sul c/c di una specifica banca e che i servizi di finanziamento
spesso comportano l'apertura di un c/c presso il soggetto erogatore,
l'Autorità ha criticato la scelta che l'Inps intende effettuare nel nuovo Schema di Convenzione
di eliminare la seguente precisazione attualmente presente «al fine di ottenere
il prestito non è necessario che il destinatario sia titolare di un conto corrente
presso la banca che concede il finanziamento». Ad avviso dell'Autorità , infatti, è essenziale
fornire adeguata informativa al pensionato sull'assenza di eventuali vincoli tra il
finanziamento connesso alla Convenzione e l'accensione di servizi bancari e, in primis,
di un conto corrente. In merito ai servizi assicurativi, l'Autorità ha preso atto che il nuovo
Schema di Convenzione non prevede più che la garanzia per il recupero del credito
residuo in caso di decesso del mutuatario sia costituita da fondi previdenziali, bensà
sia costituita da polizze assicurative offerte sul mercato. Al riguardo, essendo la polizza
assicurativa a copertura del rischio premorienza un requisito essenziale per accedere
al contratto di finanziamento, l'Autorità ha auspicato che l'offerta di tale servizio
avvenga a favore dei pensionati con le stesse cautele previste per l'offerta del servizio
di finanziamento e con l'obbiettivo di garantire, anche per questo servizio, condizioni
migliorative rispetto alla prassi di mercato, considerando soprattutto il fattore età dei
richiedenti. L'Autorità ha ritenuto anche opportuno fornire ai pensionati una chiara e
trasparente informativa sulle condizioni economiche delle polizze assicurative (in termini
di premi e commissioni) nonché sugli esistenti divieti per le banche e gli intermediari
finanziari di essere nel contempo beneficiari della polizza e soggetti intermediari
del relativo contratto.
Trattamento di dati sensibili riferiti ai partecipanti ad una manifestazione sindacale
Il garante per la privacy ha vietato a una Casa circondariale il trattamento dei
dati personali dei partecipanti a una manifestazione sindacaleautorizzata che si è
svolta, senza incidenti, all'esterno della struttura carceraria e al di fuori dall'orario di servizio.
Dagli accertamenti avviati dall'Autorità , su segnalazione di un segretario sindacale
regionale, è emerso infatti che la Casa circondariale, temendo la diffusione di informazioni
su una circolare oggetto della protesta e quindi una violazione del segreto d'ufficio
sanzionabile a livello disciplinare, ha raccolto i nominativi dei partecipanti, dati idonei a
rivelarne l'appartenenza sindacale. La Casa circondariale è cosà incorsa in un trattamento
illecito perché, non essendo state riscontrate le violazioni temute, non è mai stato avviato
alcun procedimento disciplinare, né nei confronti del segretario del sindacato che
ha indetto la manifestazione, né nei confronti dei partecipanti. Ulteriore profilo di illiceità
ravvisato dal Garante consiste nei prolungati e immotivati tempi di conservazione, eccedenti
rispetto alla finalità di un loro impiego nell'ambito di un procedimento disciplinare,
peraltro mai avviato.
Libera circolazione dei lavoratori – Aiuto all’assunzione dei lavoratori anziani disoccupati e dei lavoratori disoccupati di
Licenziamento disciplinare – Genericità e difetto di tempestività – Inefficacia – Reintegrazione in sede cautelare
Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
I ricorrenti sono funzionari federali della Repubblica federale tedesca legati ai
propri rispettivi partner sulla base della legge sulle unioni civili registratee,
avendo presentato richiesta di sussidio per spese mediche sostenute, hanno ottenuto
un diniego dall'amministrazione datrice di lavoro, in quanto i partner di un'unione civile
non rientrano nel novero dei familiari che possono essere presi in considerazione in relazione
al sussidio richiesto. Secondo il tribunale tedesco che ha sollevato la questione
sottoposta alla Corte di Giustizia, tuttavia, non sussiste dubbio in ordine al fatto che, secondo
la giurisprudenza della Corte (sentenza del 1° aprile 2008, Maruko, C-267/06,
Racc. p. I1757), il sussidio erogato ai funzionari in caso di malattia debba essere qualificato
come «retribuzione» ai sensi della direttiva 2000/78, poiché il sussidio è erogato
solo sulla base del rapporto di servizio e non a titolo di prestazione del regime statale generale
di sicurezza sociale o di protezione sociale.
La Corte ha ritenuto che: l'articolo 3, paragrafi 1, lettera c), e 3, della direttiva
2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per
la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere
interpretato nel senso che un sussidio concesso ai funzionari in caso di malattia, quale
quello accordato ai funzionari della Bundesrepublik Deutschland ai sensi della legge sui
funzionari federali (Bundesbeamtengesetz), rientra nell'ambito di applicazione di detta
direttiva qualora il suo finanziamento incomba allo Stato nella sua veste di datore di lavoro
pubblico, circostanza questa che deve essere accertata dal giudice nazionale.
Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Divieto di qualsiasi discriminazione fondata sull
Inapplicabilità ai dirigenti Anas delle riduzioni stipendiali, nonché del blocco triennale delle progressioni automatiche
Il Tribunale di Roma, a seguito della richiesta di alcuni dirigenti di Anas di disapplicazione
della circolare interpretativa n. 40 del 23 dicembre 2010del ministero
dell'Economia e Finanza con la quale si sostiene l'applicabilità ai dipendenti dell'Anas delle
decurtazioni stipendiali stabilite per i dirigenti pubblici dall'art. 9, comma 2, d.l. n.
78/2010, nonché del blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio e della
sterilizzazione delle progressioni di carriera per tutti i dipendenti Anas (ex art. 9, comma
21, del d.l. n. 78/2010), ha accolto il ricorso dei lavoratori con la seguente motivazione.
Con riferimento alla riduzione degli stipendi dei dirigenti sulla base dell'art. 9, comma 2,
d.l. n. 7/2010, il giudice ha richiamato la recente dichiarazione di incostituzionalità della
norma avvenuta con la sentenza della Corte Cost. n. 223/2011, ritenendola applicabile al
caso di specie in base all'art. 136 Cost. e all'art. 30, comma 3, della legge n. 87/1953. Riguardo
invece al blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio e della sterilizzazione
delle progressioni di carriera operata dall'azienda in base all'art. 9, comma 21,
del d.l. n. 78/2010, il Tribunale di Roma ha rilevato la natura privatistica di Anas e ha quindi
giudicato illegittima l'interpretazione estensiva operata dall'azienda nei confronti del
proprio personale sulla base del comma 1 dell'art. 9 del d.l. n. 78/2010, che prevede un
tetto massimo di spesa ordinaria. Ciò in quanto la norma in questione trova applicazione
nei confronti del personale il cui rapporto di lavoro è disciplinato dal d.lgs. n. 165/2001, e
cosa ben diversa è, invece, l'introduzione attraverso il comma 21 dell'art. 9 del d.l. n.
78/2010 del blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio previste dal legislatore
con un'apposita norma. Il Tribunale capitolino ha altresà rilevato l'incongruenza
della successiva circolare interpretativa della manovra correttiva n. 12 del 15 aprile 2011:
«Che ha precisato che 'tra le progressioni di carriera comunque denominate che si riferiscono
al personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165/2001 ' nel quale non rientra il
personale degli enti di cui all'elenco Istat stante il mancato richiamo al terzo periodo del
comma 21 dell'art. 9 legge n. 122/2010 ', non rientrano i meccanismi di progressione automatica
dello stipendio e quindi anche gli scatti di anzianità , disciplinati nel secondo periodo
del comma 21 art. 9, che fa riferimento esclusivamente al personale della p.a. non
contrattualizzato. Alla stregua di tali argomentazioni il giudice romano ha ritenuto l'illegittimità
della circolare n. 40/2010 nella parte in cui ritiene di estendere l'ambito soggettivo
di applicazione dell'art. 9 comma 21 d.l. n. 78/2010, conv. in legge n. 122/2010 al personale
dirigente Anas in violazione della volontà espressa dal legislatore e in contrasto con
le disposizioni della normativa contrattuale che disciplina la materia degli scatti di anzianità
e progressione economica automatica di tale personale.
ricusazione dello stesso giudice che aveva pronunciato l’ordinanza nel procedimento secondo il «rito Fornero
Impugnazione di licenziamento dopo la legge Fornero – Possibilità di rinuncia alla fase sommaria su accordo delle parti – S
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Collegamento economico funzionale tra imprese – Unicità del centro di imp
L’illegittimità della Cigs che non specifica i criteri di scelta e le ragioni della mancata rotazione non può essere sanata
Estensione anche alle «conversioni» dei rapporti interinali a termine dell’indennizzo onnicomprensivo
Nullità del patto di non concorrenza la cui risoluzione è rimessa a una scelta del datore di lavoro
Un lavoratore che aveva sottoscritto un patto di non concorrenza che lo vincolava
ad astenersi dallo svolgere attività lavorativain concorrenza con la propria
azienda dopo la cessazione del rapporto adiva il Tribunale di Roma al fine di vedere condannare
la società al pagamento del compenso pattuito. L'azienda nel costituirsi in giudizio
negava il debito affermando che il patto prevedeva che il diritto in capo al beneficiario
fosse in realtà sottoposto a una condizione potestativa risolutiva, idonea a liberare
il lavoratore dall'obbligo e l'azienda dalla correlata corresponsione dell'indennità . La
domanda di condanna, accolta in primo grado dal Tribunale di Roma, veniva riformata
dalla locale Corte di Appello. La Corte di Cassazione nell'accogliere il gravame del lavoratore
che lamentava la nullità della clausola di recesso, pur dando atto di un risalente
difforme orientamento, ha affermato che non può essere «attribuito al datore di lavoro il
potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, cosà vanificando la
previsione della fissazione di un termine certo». L'eventuale clausola che rimetta alla sola
volontà del datore di lavoro il riconoscimento dell'attribuzione patrimoniale pattuita
deve infatti ritenersi nulla atteso che la grave ed eccezionale limitazione alla libertà di impiego
delle energie lavorative risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si
presume accettato dal lavoratore all'esito di una valutazione della sua convenienza, sulla
quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto.
La clausola che attribuisce un diritto di incidere unilateralmente sulla durata del
vincolo che impone l'astensione dallo svolgere attività lavorativa deve essere, infatti, interpretata
alla stregua dei principi costituzionali che impongono di non vanificare la previsione
di un termine certo atteso che la limitazione del diritto a svolgere un'attività lavorativa
implica una certezza del vincolo negoziale.
l lavoratore che rifiuta la riassunzione ha diritto al risarcimento minimo
Un lavoratore poco dopo essere stato licenziato riceveva dal proprio ex datore
di lavoro una nuova offerta di reimpiego che veniva, tuttavia, declinata dal dipendente.Il lavoratore, nonostante il rifiuto, adiva il Tribunale di Salerno richiedendo la
reintegra nel posto di lavoro. Il Tribunale accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento
ma, limitato il risarcimento del danno a sole cinque mensilità , escludeva l'istituto
della reintegra sul rilievo che il dipendente aveva rifiutato l'offerta lavorativa dell'azienda
manifestando in tal modo un disinteresse alla prosecuzione del rapporto. La
Corte di Appello di Salerno nell'accogliere parzialmente il gravame del lavoratore disponeva
la reintegra confermando la misura del risarcimento sul rilievo che il rifiuto della
nuova assunzione non costituiva una rinuncia al ripristino del rapporto ma semmai si poneva
come causa estintiva di un maggior danno. La Corte di Cassazione nel respingere il
ricorso di legittimità promosso dal lavoratore ha chiarito che la motivazione della Corte
salernitana è logicamente corretta e conforme a diritto, posto che il risarcimento del danno
è istituto ontologicamente distinto dalla reintegrazione nel posto di lavoro, pur potendo
concorrere con essa, ed è suscettibile, a determinate condizioni, di subire una riduzione,
nell'arco compreso tra il minimo e il massimo legale di cui al quarto comma dell'art.
18 legge n. 300/1970. Ferma, infatti, la penale pari alle cinque mensilità previste
dalla normativa statutaria, l'ulteriore risarcimento trova fondamento nel principio della
imputabilità del danno al datore di lavoro inadempiente che richiede la persistenza del
nesso di causalità fra danno e licenziamento e di tale principio costituisce corretta applicazione
il rilievo dato dai giudici di merito all'offerta di riassunzione, quale condotta idonea
a produrre l'interruzione di tale correlazione causale.
La riforma della legge Fornero non trova applicazione nei confronti dei licenziamenti intimati prima della sua entrata in vigore
A seguito di un giudizio promosso da alcuni lavoratori che lamentavano la collocazione
in mobilità ,il Tribunale di Milano dichiarava illegittimi i licenziamenti sul rilievo
che nella comunicazione iniziale l'azienda, pur avendo una pluralità di filiali non interessate
dalla procedura, non aveva informato le organizzazioni sindacali delle ragioni
in forza delle quali non era possibile reimpiegare i lavoratori nelle altre strutture. La decisione
è stata confermata dalla locale Corte di Appello. La Corte di Cassazione nel confermare
la decisione dei giudici territoriali con riferimento all'illegittimità della procedura
di mobilità , ha inoltre rilevato che gli effetti della Riforma Fornero sull'apparato sanzionatorio
dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione nei confronti
dei licenziamenti intimati prima della riforma. I giudici di legittimità hanno, infatti, chiarito
che con riferimento alla tutela reale regolata dallo Statuto dei lavoratori va esclusa,
ratione temporis, l'applicabilità dello ius superveniens rappresentato dall'art. 1 della legge
28 giugno 2012 n. 92. Il fatto che il complesso normativo di cui ai commi dal 37 al 69
di tale articolo innovi la disciplina anche del licenziamento e, ancor prima, introduca l'obbligo
di una fase procedimentale preparatoria dell'eventuale licenziamento per giustificato
motivo oggettivo, modificando poi, anche in tali ipotesi, il regime delle conseguenze
del licenziamento dichiarato nullo, privo di giustificazione o inefficace, rende infatti
comunque insostenibile una sua applicazione ai licenziamenti avvenuti in data antecedente
alla entrata in vigore della legge medesima.
Illegittima una collocazione in mobilità dopo un precedente licenziamento per giusta causa
Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa a fronte di un'asserita assenza
ingiustificata;la società , poco dopo aver intimato tale licenziamento (tempestivamente
impugnato dal lavoratore), apriva una procedura di mobilità che si chiudeva con
un secondo licenziamento del medesimo lavoratore; licenziamento «sospeso in attesa
dell'esito del giudizio sul precedente licenziamento disciplinare». La Corte di Cassazione nel confermare l'illegittimità del primo licenziamento disciplinare ha altresà confermato
la decisione di secondo grado che riteneva illegittimo anche il secondo licenziamento.
Per quel che riguarda il secondo licenziamento, intimato nell'area della tutela reale, la
Suprema Corte, dando atto dell'evoluzione giurisprudenziale che ha portato la Cassazione
ad ammettere l'intimazione di un secondo licenziamento «cautelativamente sospeso»
negli effetti, ha, precisato, tuttavia, che la motivazione sottesa al secondo licenziamento,
oltre a essere diversa rispetto al primo licenziamento, deve anche essere sopravvenuta
e non nota al datore all'atto di intimazione della prima risoluzione del rapporto. La
Suprema Corte ha altresà affermato che dopo un primo licenziamento individuale, il secondo
licenziamento, in ogni caso, non può essere collettivo o dovuto a una procedura
di mobilità , trattandosi di procedure che non consentono l'inserimento di lavoratori licenziati
sub condicione.
La divulgazione di materiale riservato al sindacato legittima il licenziamento
Un lavoratore dopo aver inoltrato al proprio sindacato una mail interna all'azienda
di natura confidenziale,testimoniata dalla dicitura «Riservato» nell'oggetto
della mail, riguardante margini, strategie e costi di un potenziale contratto di interesse
per la propria azienda, veniva licenziato per motivi disciplinari. Il Tribunale di
Milano, con sentenza confermata in sede di appello, respingeva la domanda sul rilievo
che la condotta posta in essere dal dipendente aveva minato in radice il rapporto fiduciario
nonostante l'intendimento del lavoratore non fosse quello di diffondere un
segreto industriale. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame del lavoratore,
ha confermato la decisione dei giudici territoriali
Licenziamento per giusta causa e principio della immutabilità della contestazione
Una lavoratrice dopo aver usufruito di un periodo di congedo obbligatorio dal
lavoro per effetto di una maternità non rientrava al lavoro omettendo di informare
la propria azienda dell'intenzione di astenersi dal lavoro per effetto della fruizione del periodo
di astensione facoltativa tempestivamente richiesto all'ente previdenziale. A fronte
di una contestazione per assenza ingiustificata l'azienda intimava alla lavoratrice un
licenziamento per giusta causa sul rilievo che la dipendente aveva «violato le procedure
previste dalla legge». Il Tribunale di Perugia accoglieva la domanda della ricorrente con
sentenza poi riformata dalla locale Corte di Appello di Perugia. La Corte di Cassazione,
nell'accogliere parzialmente il ricorso di legittimità promosso dalla lavoratrice, ha rilevato
l'invalidità della sentenza della Corte di Appello laddove non ha riscontrato che il provvedimento
di licenziamento si basava su un fatto diverso da quello in precedenza indicato
nella lettera di contestazione. Nel ribadire il principio dell'immutabilità della contestazione,
la Corte di Cassazione ha infatti precisato che il datore non può porre a fondamento
del recesso motivi diversi da quelli in precedenza contestati
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto deve specificare i giorni di assenza anche in difetto di richiesta
La Corte di Appello di Milano nel riformare la sentenza del locale Tribunale ha
dichiarato l'illegittimità del licenziamentointimato a un lavoratore per superamento
del periodo di comporto tramite un telegramma che preannunciava una lettera esplicativa
delle assenze mai pervenuta al lavoratore. I giudici della Corte territoriale ritenevano
l'inefficacia del recesso per mancata specificazione delle assenze anche in difetto
di una espressa richiesta del lavoratore. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame
proposto dalla società che riteneva sufficiente il semplice richiamo all'avvenuto superamento
del periodo di comporto, ha precisato che al licenziamento che trovi giustificazione
nelle assenze per malattia del lavoratore, si applicano le regole dettate dall'art.
2 della legge n. 604 del 1966 sulla forma dell'atto e la comunicazione dei motivi del recesso,
poiché nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall'art. 2110 cod. civ. Conseguentemente
' concludono i giudici di legittimità ' qualora l'atto di intimazione del licenziamento
per il quale sussiste l'onere di specificare le assenze, non precisi i giorni di
assenza dal lavoro in base ai quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del
posto di lavoro, il recesso deve ritenersi inefficace. La Cassazione ha inoltre confermato
la decisione dei giudici di merito per la quale l'onere di richiedere le motivazioni non poteva
ritenersi subordinato alla richiesta da parte del lavoratore atteso che l'azienda aveva
preannunciato l'intenzione di esplicitare le assenze.
La tutela avverso i licenziamenti illegittimi costituisce espressione dell’ordine pubblico interno e comunitario
Tirocini formativi non curriculari
La Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima la recente
disciplina relativa ai tirocini formativi e di orientamento non curriculari,perché la stessa si pone in contrasto con l'art. 117, quarto comma, Costituzione,
andando a invadere un territorio di competenza normativa residuale delle Regioni.
Secondo le autonomie locali ricorrenti, la norma in questione detta una disciplina che
rientra nella materia di competenza regionale residuale inerente l'istruzione e la formazione
professionale. In particolare l'intervento statale ' anche se si ritenesse riguardante
i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ' non
potrebbe consistere nella uniforme e rigida unilaterale determinazione uguale per
tutto il territorio nazionale, dovendo, viceversa, sostanziarsi nell'istituzione di una
procedura di collaborazione per le singole determinazioni in sede locale. La Corte Costituzionale,
accogliendo il ricorso, ha ricordato che, dopo la riforma costituzionale
del 2001, la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione
professionale riguarda l'istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono
essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture
proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità delle
realtà locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi (sentenza
n. 50 del 2005). Viceversa, la disciplina della formazione interna ' ossia quella formazione
che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti ' di per
sé non rientra nella menzionata materia, né in altre di competenza regionale; essa, è
connessa con il sinallagma contrattuale e per questo attiene all'ordinamento civile,
per cui spetta allo Stato stabilire la relativa normativa (sentenza n. 24 del 2007). La
giurisprudenza successiva ha chiarito che i due titoli di competenza non sempre appaiono
«allo stato puro» (vedi sentenza n. 176/2010 in relazione al regime dell'apprendistato),
e ha chiarito che il nucleo di tale competenza, che in linea di principio
non può venire sottratto al legislatore regionale [â?¦] ' al di fuori del sistema scolastico
secondario superiore, universitario e post-universitario ' cade sull'addestramento
teorico e pratico offerto o prescritto obbligatoriamente (sentenza n. 372 /1989) al lavoratore
o comunque a chi aspiri al lavoro: in tal modo, la sfera di attribuzione legislativa
regionale di carattere residuale viene a distinguersi sia dalla competenza concorrente
in materia di istruzione (sentenza n. 309/2010), sia da quella, anch'essa ripartita,
in materia di professioni (art. 117, terzo comma, Cost.), nel quadro della esclusiva
potestà statale di dettare le norme generali sull'istruzione (art. 117, secondo
comma, lettera n, Cost.)» (vedi sentenza n. 108/2012). Quindi, alla luce del suddetto
costante orientamento del giudice delle leggi, appare evidente che l'art. 11 del d.l. n.
138/2011, si pone in contrasto con l'art. 117, quarto comma, Cost., poiché va a invadere
un territorio di competenza normativa residuale delle Regioni. Il comma 1 della
disposizione, infatti, interviene a stabilire i requisiti che devono essere posseduti dai
soggetti che promuovono i tirocini formativi e di orientamento, mentre la seconda
parte del medesimo comma, dispone che, fatta eccezione per una serie di categorie
ivi indicate, i tirocini formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una
durata superiore a 6 mesi, proroghe comprese, e possono essere rivolti solo a una
determinata platea di beneficiari. In questo modo la legge statale ' pur rinviando,
nella citata prima parte del comma 1, ai requisiti «preventivamente determinati dalle
normative regionali» ' interviene comunque in via diretta in una materia che non ha
nulla a che vedere con la formazione aziendale.
Sostegno alle persone non autosufficienti extracomunitarie
È illegittimo stabilire che i cittadini extracomunitari possono beneficiare degli
interventi di sostegno previsti dalla legge esclusivamente se in possesso di «regolare
carta di soggiorno».L'impugnazione statale avverso la legge calabrese, censurava
in primo luogo la normativa regionale poiché essa, nell'individuare i requisiti dei
destinatari delle prestazioni sociali di sostegno, in riferimento ai cittadini extracomunitari,
prevedeva, oltre al requisito della residenza nel territorio regionale, anche quello del
possesso di un titolo di legittimazione qualificato come «carta di soggiorno», introducendo
in tal modo una discriminazione illegittima. La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata
la questione di legittimità costituzionale proposta rilevando, anzitutto, come il riferimento
alla «carta di soggiorno», già prevista dal testo originario dell'art. 9 del d.lgs. n.
286/1998, sia del tutto inattuale, stante la modifica intervenuta per effetto dell'art. 1,
comma 1, lettera a) del d.lgs. n. 3/2007, che ha sostituito a essa il «permesso di soggiorno
Ce per soggiornanti di lungo periodo», concesso agli extracomunitari in possesso da
almeno cinque anni di un regolare permesso di soggiorno. La Corte, inoltre, ha ritenuto
lesive dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza le limitazioni previste relativamente
ai soggetti possibili fruitori delle provvidenze. Ciò in quanto, se il legislatore regionale
ha la possibilità di modulare in vario modo la disciplina per l'accesso a determinate
prestazioni sociali, eccedenti il limite dell'essenziale, per bilanciare al meglio l'esigenza
di garantire la massima fruibilità dei benefici con quella della limitatezza delle risorse a
disposizione, tale circostanza non lo esime dal dover adottare canoni selettivi ragionevoli
poiché, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza costituzionale, «è consentito introdurre
regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto
in presenza di una «causa» normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria
» (sentenza n. 432 del 2005). L'elemento di distinzione introdotto dalla normativa censurata,
invece, a parere della Corte, è del tutto arbitrario poiché non è possibile presumere,
se non in modo aprioristico, che gli stranieri non autosufficienti, titolari di un permesso
di soggiorno di lungo periodo, in quanto già presenti sul territorio nazionale sulla
base di un permesso di soggiorno protratto per cinque anni, possano trovarsi in una
condizione di bisogno o di disagio maggiore rispetto agli stranieri pur regolarmente presenti,
ma per un periodo ancora insufficiente a far conseguire loro tale titolo legittimante.
D'altra parte la Corte, in diverse sentenze, aveva già rilevato che mentre è ragionevolmente
possibile subordinare la fruizione di determinate prestazioni sociali, eccedenti il
limite dell'essenziale, alla circostanza del possesso, da parte dello straniero, di un titolo
legittimante che ne attesti la presenza non episodica e non di breve durata nel territorio
nazionale, non si può, una volta accertato il diritto a soggiornare, differenziare l'accesso
a una misura sociale in base alla «necessità di uno specifico titolo di soggiorno» (sentenza
n. 61 del 2011) o alla presenza di «particolari tipologie di residenza volte a escludere
proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio
che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una
finalità eminentemente sociale» (sentenza n. 40 del 2011).
Servizi sociali per cittadini stranieri
Sono illegittime le norme altoatesine che prevedono un periodo di residenza minima
affinché gli stranieri possano accedere ai servizi sociali.La Corte Costituzionale,
accogliendo il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri che aveva proposto
questioni di legittimità costituzionale in via principale di plurime disposizioni della legge
della Provincia autonoma di Bolzano 28 ottobre 2011, n. 12, ha stabilito che richiedere un
periodo di residenza minima per poter beneficiare dei servizi sociali appare irragionevole
in quanto lo stato di «bisogno» prescinde dalla durata di permanenza minima sul territorio
e si pone in contrasto con il principio di uguaglianza. Più nel dettaglio, la Corte rileva,
infatti, come nella sua giurisprudenza sia già stato sottolineato che il requisito del-la residenza o della dimora stabile possa costituire «un criterio non irragionevole» per
l'accesso a una provvidenza regionale o provinciale (sent. n. 432 del 2005), ma esso non
è più tale laddove venga richiesta la sua durata per un predeterminato e significativo periodo
minimo di tempo, nella specie quinquennale. Un tale criterio introduce, pertanto,
un'arbitraria discriminazione, non potendosi presumere che lo stato di bisogno degli
stranieri immigrati nella Provincia da meno di cinque anni, ma ivi stabilmente residenti o
dimoranti, possa essere minore rispetto a quello di chi vi risiede da un tempo più lungo
e non sussistendo alcun ragionevole collegamento tra la durata della residenza e le situazioni
di bisogno o di disagio, relative alla persona in quanto tale e integranti i soli presupposti
di fruibilità delle provvidenze in questione (sent. n. 40 del 2011).