1 / 2013
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Descrizione
Dichiarate incostituzionali norme regionali discriminatorie nei confronti di stranieri nell'accesso a servizi sociali La tutela da licenziamenti illegittimi costituisce espressione dell'ordine pubblico interno e comunitario La Cassazione estende alla «conversione" di un rapporto interinale l'indennizzo limitato e onnicomprensivo
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È responsabile di abuso di ufficio il medico ospedaliero che effettua presso il suo studio professionale, a pagamento, le visit
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Il trasferimento del ramo d’azienda presuppone che vengano ceduti i beni materiali destinati all’esercizio dell’impresa
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Il datore di lavoro può essere chiamato a rispondere anche di un solo atto vessatorio che non costituisce mobbing
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A. C. dipendente di una farmacia si è rivolta al Tribunale di Napoli sostenendo di essere stata sottoposta a un'azione di mobbing da parte del titolare e dei colleghi,mediante una serie di vessazioni che le avevano cagionato una depressione con tentativo di suicidio e l'avevano indotta a chiedere anticipatamente il pensionamento. Per tali motivi ella ha chiesto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni riportati. Il Tribunale ha rigettato la domanda, rilevando tra l'altro che la depressione e il tentativo di suicidio erano da collegare alla particolare risposta soggettiva della ricorrente rispetto all'utilizzazione di un nuovo sistema informatizzato di organizzazione del lavoro e dell'ingresso di nuovi collaboratori nella farmacia, conseguenti all'intervenuto cambio di gestione. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli. La lavoratrce ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte napoletana per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. In base a un consolidato e condiviso orientamento di legittimità  ' ha osservato la Corte ' nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l'integrità  fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell'art. 2087 cod. civ.), ma deve altresà rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti. Tali comportamenti, anche ove non siano determinati ex ante da norme di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice del merito, in quale, senza duplicare le voci del risarcimento (con l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i meri pregiudizi ' concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità , come tali non risarcibili ' dai danni che vanno invece risarciti. Fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate ' ha rilevato la Corte ' rientra il mobbing che designa (essendo stato mutuato da una branca dell'etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Ai fini della configurabilità  del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio ' illeciti o anche leciti se considerati singolarmente ' che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l'evento lesivo della salute, della personalità  o della dignità  del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità  psico-fisica e/o nella propria dignità ; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi. Alla base della responsabilità  per mobbing lavorativo ' ha affermato la Corte ' si pone normalmente l'art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutela l'integrità  psico-fisica e la personalità  morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità  e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.; d'altra parte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongono in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità , ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accomunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto. E a ciò non è di ostacolo neppure la eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell'azione che il giudice è tenuto a effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia e anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto. Inoltre, al fine della corretta individuazione della potenzialità  lesiva (nei detti termini) delle indicate condotte ' ha precisato la Corte ' si deve tenere conto anche degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato Ce, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Tale processo, poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diritto o indiretto). I contorni di questa complessa normativa sono divenuti più netti soprattutto a partire dall'entrata in vigore dei d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, nei quali sono stati specificatamente individuati alcuni fattori di discriminazione (orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età , razza, origine etnica) e, per l'onere della prova, si è stabilito che, quando la vittima fornisca elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori per una delle ragioni prese in considerazione, spetta al convenuto l'onere della prova sull'insussistenza della discriminazione, cioè principalmente della insussistenza dell'elemento psicologico (riproducendo cosà la analoga disposizione contenuta nella legge 10 aprile 1991, n. 125, in materia di discriminazione di genere). In ordinamenti come il nostro che già  prevedono a livello costituzionale norme di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore ' ha osservato la Corte ' il suindicato elenco di fattori discriminatori e/o vessatori non è da considerare tassativo (ed è anzi destinato ad acquisire particolare rilevanza ai fini dell'applicazione della speciale forma di tutela prevista dalla legge n. 92 del 2012 in caso di licenziamento discriminatorio) cosà come, per quel che riguarda l'onere della prova, anche prima dell'entrata in vigore dei citati d.lgs. nn. 215 e 216 del 2003, nel nostro ordinamento processuale era già  previsto che, nel rito del lavoro, il principio dispositivo deve essere contemperato con quello della ricerca della verità  materiale, con l'utilizzazione da parte del giudice anche di poteri officiosi oltre che della prova per presunzioni, alla quale, specialmente in casi come quello in oggetto, va attribuito precipuo rilievo, secondo la giurisprudenza di questa Corte. Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) ' che esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell'istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il giudice, avendo a disposizione una pluralità  di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità  di prova singolarmente, consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità , frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di prova del danno da demansionamento, oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing. La Corte partenopea ' ha affermato la Cassazione ' si è discostata dai suddetti principi in quanto ' dopo aver riferito che la domanda azionata non è stata formulata come richiesta di risarcimento del danno da mobbing, ma nei più ampi termini di richiesta di «risarcimento del danno esistenziale e del danno dovuto all'anticipato conseguimento del trattamento di quiescenza e di ogni altro danno patito in conseguenza delle azioni vessatorie» poste in essere dai soggetti appartenenti alla farmacia in qualità  di dipendenti o titolari della farmacia stessa ' ha impostato tutta la propria decisione sulla insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dalla ricorrente. Quindi, una volta escluso il suddetto intento e quindi il mobbing ' sulla base di una valutazione delle prove raccolte effettuata sempre nell'ottica della ricerca una «strategia persecutoria» ' la Corte territoriale ha respinto la domanda, peraltro interpretata in modo scorretto sà da al terarne il senso e il contenuto sostanziale, in relazione alle finalità  perseguite dalla ricorrente. Prima di arrivare alla suddetta conclusione la Corte di Appello non si è neppure posta il problema di valutare se alcuni dei comportamenti denunciati ' esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri ' pur non essendo accomunati da medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per la ricorrente e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità  del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili. Ciò, da un lato, significa che se tra i diversi episodi addotti si accerti che qualcuno ha carattere vessatorio questo non necessariamente implica l'attribuzione al comportamento datoriale del ruolo di causa o concausa dello stato depressivo della ricorrente culminato nel tentativo di suicidio, ma non per questo esclude che possa configurarsi un danno giuridicamente apprezzabile. E, d'altra parte, comporta che la determinazione, in ipotesi, dell'eventuale efficacia causale diretta o indiretta di una condotta vessatoria datoriale rispetto al suindicato stato patologico sia effettuata sulla base di un adeguato accertamento della situazione psichica della ricorrente prima dell'insorgere della depressione culminata nel tentativo di suicidio. La Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata e ha rinviato la causa per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, enunciando il seguente principio di diritto: «Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento dal danno patito alla propria integrità  psico-fisica in conseguenza di una pluralità  di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità  del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati ' esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri ' pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità  del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente c nei soli limiti dei danni a lui imputabili.»
Legittima l’astensione dal lavoro per reazione a inadempimenti aziendali in materia di sicurezza
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Il dovere di esclusività della prestazione lavorativa per la pubblica amministrazione sussiste anche per il lavoro nell’azien
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In caso di licenziamento illegittimo il dirigente pubblico ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro in base all’art.
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Eziologia professionale del carcinoma polmonare in rapporto concausale alla forte abitudine tabagica
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La fattispecie concerne la domanda di rendita diretta nel vecchio regimeproposta in vita dal de cuius e coltivata in giudizio dagli eredi dopo il suo decesso, determinato da neoplasia polmonare. L'attività  di lavoro espletata era di operaio tubista calderaio, a bordo delle unità  navali e in presenza di comprovata esposizione al rischio da amianto. La Corte individua come fattori efficienti nel determinismo eziologico della malattia tanto la noxa lavorativa quanto quella extralavorativa, escludendo il ricorso a percentuali di tipo matematico per quantificare il ruolo causale o concausale dell'amianto: afferma la Corte, assumendo per proprie le valutazioni espresse del Ctu in sede di rinnovo, «ciò per l'approssimazione e la grossolanità  con le quali una siffatta sintesi renderebbe un ragionamento invece complesso quale quello sul nesso di causalità  in presenza di più antecedenti causali». Sarebbero invece da considerare il comprovato periodo di esposizione professionale all'amianto, il sicuro effetto cancerogeno di tale esposizione, l'effetto sinergico del fumo di sigaretta e l'aumento di rischio per i soggetti non fumatori per concludere accertando una «significativa rilevanza tanto dell'esposizione all'amianto quanto dell'abitudine tabagica nell'origine della neoplasia polmonare che aveva colpito il de cuius». Non condivide, però, la Corte, la decisione del Tribunale, che aveva erroneamente valorizzato il tabagismo del lavoratore sino ad attribuire a tale fattore pari dignità  eziologica rispetto all'esposizione all'amianto «ignorando il principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen.». In sede di appello la decisione del primo grado è stata pertanto integralmente riformata disponendo in favore degli eredi la liquidazione della rendita diretta che sarebbe spettata al de cuius.
Il giudizio di compatibilità dell’evento nella determinazione del nesso causale della tecnopatia
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Esautoramento dagli incarichi, danno da demansionamento
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La ricorrente, dirigente di struttura complessa, denunciache a seguito di una modifica dei precedenti assetti organizzativi disposta dall'amministrazione ha subito una concreta variazione in peius della sua posizione professionale essendole stato affidato solo formalmente l'incarico di dirigere una struttura semplice che in buona sostanza esisteva solo sulla carta. Deduceva cosà di avere subito una dequalificazione professionale, con attribuzione di compiti tali da costringerla a una inattività  che evidenzia uno svuotamento del contenuto professionale della sua attività  lavorativa e tali da non consentire, in ogni caso, l'utilizzo del bagaglio professionale e delle capacità  acquisite. Sosteneva che nell'ambito dei danni da demansionamento va inquadrato anche il danno da inattività  incidente sulla dignità  professionale del lavoratore, sul sentimento di autostima personale, sulla mancata possibilità  di perfezionamento e aggiornamento, sulla mancata pratica della propria professione, sulla possibilità  di ulteriori ricollocazioni, sulla vita relazionale e di essere stata di fatto relegata in una stanza dalla quale non doveva né poteva uscire e che le era stata materialmente preclusa ogni partecipazione all'attività  dell'amministrazione. Si costituiva la Asl affermando che la vicenda doveva essere invece ricondotta alla corretta applicazione dei principi in materia di ius variandi nell'ambito dirigenziale e che in particolare, verificato il dirigente più idoneo, gli incarichi erano stati attribuiti e variati con articolata valutazione che (in conformità  alla legge e al Ccnl) attribuisce (preminente) rilievo alla natura e alle caratteristiche dei programmi da realizzare (ossia alla cd. mission e alle aree di responsabilità , al contenuto professionale derivante dall'analisi dei cd. job profile, ai programmi e agli obiettivi, alla tipicità  e complessità  del sistema relazionale), con i quali devono armonizzarsi le attitudini e le capacità  professionali (area e disciplina di appartenenza, attitudini personali e capacità  professionali specialistiche, risultati conseguiti). Esperita la prova testimoniale e ammessa la Ctu, si accertava che la ricorrente era stata in effetti demansionata, ma non aveva patito alcun danno alla salute a cagione del comportamento datoriale. Afferma però il giudice del lavoro di Taranto che il lavoratore ha diritto di esercitare in concreto le sue mansioni, dunque che il diritto al lavoro corrisponde al diritto di lavorare. In particolare che neanche la pubblica amministrazione può decidere di tenere inattivo un suo dipendente, perché ciò determina lesione della sua dignità . Il danno è stato liquidato in euro 23.400,00 oltre rivalutazione e interessi dal 30 dicembre 2002, corrispondendo solo alla lesione della dignità , bene costituzionalmente protetto sotto il profilo del danno alla professionalità , in quanto non è stato riconosciuto alla ricorrente, per difetto di obiettiva lesione del suo stato di salute, nulla a titolo di danno biologico e, conseguentemente, nulla a titolo di danno morale.
Il trasferimento di ramo d’azienda presuppone la preesistenza di un complesso produttivo organizzato ai fini dell’applicazio
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L’associazione sindacale deve essere ritenuta nazionale se opera sulla totalità o su ampia parte del territorio della repubbl
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Il danno da demansionamento è adeguatamente accertato con riferimento alla sostanziale inattività e all’avvilimento
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Assegno mensile per assistenza continuativa
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Il Tribunale rispolvera un istituto affatto desueto ' ritenuto abrogato da qualcunoche attribuisce ai tecnopatici un'ulteriore prestazione a carico dell'Inail, nelle ipotesi in cui possa accertarsi il presupposto che il lavoratore sia affetto da «malattie o infermità  che rendono necessaria la continua o la quasi continua degenza a letto». Al ricorrente la decisione in esame attribuisce maggiori postumi nella misura del 100% (a fronte dell'80% riconosciuto in via amministrativa, su denuncia di mesotelioma) e il diritto all'assegno mensile per assistenza continuativa ex art. 76 d.P.R. n. 1124/1965. Questa particolare forma di tutela è incumulabile con l'indennità  di accompagnamento, ma è erogabile in presenza di presupposti meno rigorosi e non coincidenti con la prestazione assistenziale. Nel caso di specie, il ricorrente, dimostrato l'aggravamento delle sue condizioni di salute e di non essere mai stato assistito in istituti con oneri a carico dell'Inail o di altri enti e di non avere mai percepito la indennità  di accompagnamento, si è visto accogliere integralmente la sua domanda: l'Inail è stato pertanto condannato a corrispondergli le differenze di rendita e l'assegno ex art. 76 T.U.
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2013)
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La legge n. 228/2012, in vigore dal 1° gennaio 2013, all'art. 1, comma 98, detta una nuova disciplina per il trattamento di fine servizioper i dipendenti pubblici a seguito della sentenza n. 223/2012 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità  costituzionale dell'art. 12, comma 10, della legge n. 122/2010, nella parte in cui non esclude l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,5% della base contributiva, prevista dall'art. 37, comma 1, del d.P.R. n. 1032/1973. In forza del comma 98 citato, dunque, tale disposizione è abrogata dal 1° gennaio 2011 e i Tfs liquidati sulla base di tale disposizione sono riliquidati d'ufficio entro un anno dalla data di entrata in vigore del d.l. n. 185/2012, senza alcun recupero delle somme erogate prima. Il successivo comma 99 prevede l'estinzione di diritto, dichiarata con decreto, anche d'ufficio, dei processi pendenti relativi alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,5% prevedendo, altresà, che le sentenze emesse, se non passate in giudicato, sono prive di effetti. Invece l'art. 1, commi da 231 a 235, detta una nuova disciplina per i cd. lavoratori salvaguardati. Precisamente il comma 231 prevede che le disposizioni in materia di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze vigenti prima dell'entrata in vigore dell'art. 24 del d.l. n. 201/2011 (convertito dalla legge n. 214/2011), ferme restando le salvaguardie di cui ai decreti del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 1° giugno 2012 e 5 ottobre 2012, si applicano anche ai seguenti lavoratori che maturano i requisiti per il pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011: a) ai lavoratori cessati dal rapporto di lavoro entro il 30 settembre 2012 e collocati in mobilità  ordinaria o in deroga a seguito di accordi governativi o non governativi, stipulati entro il 31 dicembre 2011, e che abbiano perfezionato i requisiti utili al trattamento pensionistico entro il periodo di fruizione dell'indennità  di mobilità  ovvero durante il periodo di godimento dell'indennità  di mobilità  in deroga e in ogni caso entro il 31 dicembre 2014; b) ai lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre 2011, con almeno un contributo volontario accreditato o accreditabile alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011, ancorché abbiano svolto, successivamente alla data del 4 dicembre 2011, qualsiasi attività , non riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato dopo l'autorizzazione alla prosecuzione volontaria, a condizione che: 1) abbiano conseguito successivamente alla data del 4 dicembre 2011 un reddito annuo lordo complessivo riferito a tali attività  non superiore a euro 7.500; 2) perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011; c) ai lavoratori che hanno risolto il rapporto di lavoro entro il 30 giugno 2012, in ragione di accordi individuali sottoscritti anche ai sensi degli artt. 410, 411 e 412 del cod. proc. civ. ovvero in applicazione di accordi collettivi di incentivo all'esodo stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale entro il 31 dicembre 2011, ancorché abbiano svolto, dopo la cessazione, qualsiasi attività  non riconducibile a rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, a condizione che: 1) abbiano conseguito successivamente alla data del 30 giugno 2012 un reddito annuo lordo complessivo riferito a tali attività  non superiore a euro 7.500; 2) perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011; d) ai lavoratori autorizzati alla prosecuzione volontaria della contribuzione entro il 4 dicembre 2011 e collocati in mobilità  ordinaria alla predetta data, i quali, in quanto fruitori della relativa indennità , devono attendere il termine della fruizione della stessa per poter effettuare il versamento volontario, a condizione che perfezionino i requisiti utili a comportare la decorrenza del trattamento pensionistico entro il trentaseiesimo mese successivo alla data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011. Il successivo comma 233 afferma che spetta all'Inps il monitoraggio sulle domande di pensionamento inoltrate dai lavoratori che intendono avvalersi dei requisiti di accesso e del regime delle decorrenze vigenti prima della data di entrata in vigore del d.l. n. 201/2011. Il comma 236, invece, interviene sulla rivalutazione degli importi pensionistici escludendolo, per il 2014, per le fasce superiori a sei volte il trattamento minimo Inps e per i cd. «vitalizi» percepiti da coloro che sono stati parlamentari nazionali o regionali. I commi da 238 a 249, poi, hanno a oggetto le ricongiunzioni e il cumulo dei periodi assicurativi. Con i commi da 250 a 252 sono state introdotte modifiche alla legge n. 92/2012 in tema di ASpI e mini-ASpI. I commi 336 e 337 intervengono sul d.lgs. n. 151/2001 includendo le pescatrici autonome della piccola pesca marittima e delle acque interne, all'interno delle disposizioni che tutelano la maternità  per le lavoratrici autonome. Invece il comma 338 apporta modifiche al d.lgs. n. 198/2006 introducendo l'obbligo, a carico degli organismi di parità , dello scambio di informazioni disponibili con gli altri organismi europei ed estendendo il divieto di qualsiasi discriminazione in materia di accesso al lavoro anche alle ipotesi di ampliamento di un'impresa o avvio e ampliamento di ogni altra forma di attività  autonoma. Il comma 339 interviene sul d.lgs. n. 151/2001 in materia di congedi parentali, recependo la Direttiva Ce 2010/18. L'art. 1, comma 400, della legge n. 228/2012, in tema di contratti a tempo determinato stipulati con la pubblica amministrazione, afferma che, ferme restando le previsioni di cui all'art. 36 del d.lgs. n. 165/2001, le amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto stesso, possono prorogare i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, in essere al 30 novembre 2012, che superano il limite dei trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi o il diverso limite previsto dai Contratti collettivi nazionali del relativo comparto, fino e non oltre il 31 luglio 2013, previo accordo decentrato con le organizzazioni sindacali rappresentative del settore interessato. Infine si segnala il comma 522 che interviene su alcune specifiche disposizioni contenute nella legge n. 146/1990 dimezzando le sanzioni a carico di chi non rispetta l'obbligo di erogazione dei servizi ritenuti essenziali in caso di sciopero. (Supplemento Ordinario n. 212 della Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 2012)
LEGGE 24 DICEMBRE 2012 N. 231
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Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, recanterecante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale. La legge n. 231/2012 ha convertito il d.l. n. 207/2012 con cui sono state introdotte disposizioni volte ad assicurare, in presenza di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale e qualora vi sia la necessità  di salvaguardare l'occupazione e la produzione, l'immediata esecuzione di misure finalizzate alla tutela della salute e alla protezione ambientale e la adozione di graduali ulteriori interventi finalizzati al risanamento progressivo degli impianti. (Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 2013)
D.L. 18 OTTOBRE 2012 N. 179 CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA LEGGE 17 DICEMBRE 2012 N. 221
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L'art. 7 del d.l. n. 179/2012in tema di trasmissione telematica delle certificazioni di malattia nel settore pubblico e privato, prevede che a decorrere dal sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore del decreto, in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti del settore pubblico non soggetti al regime del d.lgs. n. 165/2001, per il rilascio e la trasmissione delle certificazioni di malattia, si applicano le disposizioni di cui all'art. 55-septies del decreto legislativo citato. Il comma 1-bis dell'art. 7, introdotto in sede di conversione del d.l. n. 179/2012, ha aggiunto un periodo all'art. 55-septies, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 stabilendo che il medico o la struttura sanitaria devono inviare telematicamente la certificazione all'indirizzo di posta elettronica personale del lavoratore qualora questo ne faccia espressa richiesta fornendo un valido indirizzo. L'art. 7, comma 3, poi introduce modifiche all'art. 47 del T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e di sostegno della maternità  e della paternità  (d.lgs. n. 151/2001) dettando la disciplina per la trasmissione telematica della certificazione di malattia necessaria al genitore per fruire dei congedi. Gli artt. 25 e seguenti del d.l. n. 179/2012 disciplinano le cd. imprese start-up innovative. Per quanto riguarda i rapporti di lavoro che possono essere instaurati da dette imprese l'art. 28 prevede che per un periodo di 4 anni dalla data di costituzione di una start-up innovativa di cui all'art. 25, comma 2, ovvero per il più limitato periodo previsto dal comma 3, le ragioni giustificative di cui all'art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 368/2001, nonché le ragioni di cui all'art. 20, comma 4, del d.lgs. n. 276/2003 debbono intendersi sussistenti qualora il contratto a tempo determinato, anche in somministrazione, sia stipulato da una start-up innovativa per lo svolgimento di attività  inerenti o strumentali all'oggetto sociale della stessa. Il comma 3 dell'art. 28 precisa che il contratto a tempo determinato può essere stipulato per una durata minima di sei mesi e una massima di trentasei mesi, ferma restando la possibilità  di stipulare un contratto a termine di durata inferiore a sei mesi. Inoltre, entro il limite di durata massima, possono essere stipulati più successivi contratti a tempo determinato senza l'osservanza dei termini di cui all'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 368/2001, o anche senza soluzione di continuità . In deroga al limite di durata massima di trentasei mesi, può essere stipulato tra gli stessi soggetti e per lo svolgimento delle attività  di cui al comma 2 un ulteriore successivo contratto a tempo determinato per la durata residua rispetto al periodo di cui al comma 1, a condizione che la stipulazione avvenga presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio. Il comma 4 stabilisce che qualora, per effetto di successione di contratti a termine, il rapporto di lavoro tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi, comprensivi di proroghe o rinnovi, o la diversa maggiore durata stabilita dal comma 3, e indipendentemente dagli eventuali periodi di interruzione tra un contratto e l'altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato. Il successivo comma 5 prevede che la prosecuzione o il rinnovo dei contratti a termine oltre la durata massima prevista dal medesimo articolo ovvero la loro trasformazione in contratti di collaborazione privi dei caratteri della prestazione d'opera o professionale, determinano la trasformazione degli stessi contratti in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La retribuzione dei lavoratori assunti da tali società , in forza di quanto previsto dal comma 7, è costituita da una parte che non può essere inferiore al minimo tabellare previsto, per il rispettivo livello di inquadramento, dal contratto collettivo applicabile, e da una parte variabile, consistente in trattamenti collegati all'efficienza o alla redditività  dell'impresa, alla produttività  del lavoratore o del gruppo di lavoro, o ad altri obiettivi o parametri di rendimento concordati tra le parti, incluse l'assegnazione di opzioni per l'acquisto di quote o azioni della società  e la cessione gratuita delle medesime quote o azioni. Il comma 8, invece, prevede che i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale possono definire in via diretta ovvero in via delegata ai livelli decentrati con accordi interconfederali o di categoria o avvisi comuni: a) criteri per la determinazione di minimi tabellari specifici funzionali alla promozione dell'avvio delle start-up innovative, nonché criteri per la definizione della parte variabile; b) disposizioni finalizzate all'adattamento delle regole di gestione del rapporto di lavoro alle esigenze delle start-up innovative, nella prospettiva di rafforzarne lo sviluppo e stabilizzarne la presenza nella realtà  produttiva. Il comma 9, infine, stabilisce che qualora venga stipulato un contratto a termine secondo le disposizioni citate da una società  che non risulta avere i requisiti di start-up innovativa, il contratto si considera stipulato a tempo indeterminato con applicazione della disciplina derogata. L'art. 34, comma 54, del d.l. n. 179/2012, cosà come modificato in sede di conversione dalla legge n. 221/2012, ha apportato una modifica all'art. 1, comma 21, lettera b), capoverso 3-bis, della legge n. 92/2012, comportante l'abrogazione del fax dalle comunicazioni della «chiamata» per lavoro intermittente. (Supplemento Ordinario n. 208 della Gazzetta Ufficiale n. 294 del 18 dicembre 2012)
Obbligo di comunicazione dello sciopero agli utenti
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a Commissione ha valutato negativamente e ha sanzionato la condotta della Trenord Srl,che ha omesso di dare comunicazione agli utenti, nelle forme adeguate, almeno cinque giorni prima dell'inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero, in occasione degli scioperi proclamati dall'organizzazione sindacale Orsa Lombardia ed effettuati in data 26 luglio e 5 settembre 2012. Secondo il consolidato orientamento della Commissione, è possibile che le aziende non effettuino alcuna comunicazione all'utenza, qualora, sulla base di un giudizio prognostico circa il grado di adesione allo sciopero, prevedano che lo sciopero non incida sul funzionamento del servizio pubblico. Tuttavia, qualora l'esercizio dello sciopero crei un disservizio all'utenza di cui la stessa non sia stata preavvisata, l'azienda dovrà  esser sanzionata ai sensi dell'articolo 4, comma 4, come nel caso in esame in cui l'istruttoria ha consentito di accertare che gli utenti hanno subito gravi disagi subiti a causa dell'inadempimento, da parte dell'azienda, dell'obbligo di fornire preventiva informazione all'utenza.
Schema di convenzione per la concessione di prodotti di finanziamento a pensionati Inps
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L'Autorità  ha espresso il suo parere in merito alla bozza di Convenzione finalizzata alla concessione di prodotti di finanziamento a pensionati Inps ed ex Inpdap.L'Autorità  ha richiamato la segnalazione S736 del 27 giugno 2006, in cui aveva indicati i più importanti principi applicabili nell'ottica di assicurare incentivi alla concorrenza tra le imprese aderenti alla Convenzione, ovvero tra le banche erogatrici i finanziamenti, e, al tempo stesso, effetti positivi a vantaggio dei consumatori finali in termini di migliori condizioni economiche e maggiore informazione. In merito ai livelli massimi nei tassi applicabili a tutela dei pensionati dalle Banche/Intermediari finanziari, l'Autorità  ha rilevato l'esigenza che tale obbiettivo sia perseguito, da un punto di vista sostanziale individuando una metodologia chiara per la definizione di tali condizioni che devono essere chiaramente migliorative rispetto a quelle di mercato. Inoltre, la Convenzione deve esplicitare che le banche aderenti saranno libere e incentivate a formulare condizioni economiche anche più convenienti, a vantaggio del soggetto pensionato che richiede il finanziamento, potendo profilare il rischio e quindi offrire condizioni anche migliorative a quelle della Convenzione. Inoltre, ad avviso dell'Autorità , in un'ottica di promozione della concorrenza, Inps dovrebbe informare i propri pensionati delle condizioni di offerta, anche indicando, almeno annualmente, in un apposito elenco facilmente accessibile, le Banche e gli Intermediari finanziari aderenti alla convenzione e la graduatoria delle offerte migliorative formulate rispetto ai tetti massimi. Un ulteriore profilo di rilevo connesso all'offerta dei servizi di finanziamento in esame è il possibile effetto anticoncorrenziale che potrebbe derivare dal legame del servizio di finanziamento previsto dalla Convenzione con altri servizi bancari e assicurativi. In merito ai servizi bancari, in considerazione del fatto che numerosi pensionati hanno già  l'accredito della pensione sul c/c di una specifica banca e che i servizi di finanziamento spesso comportano l'apertura di un c/c presso il soggetto erogatore, l'Autorità  ha criticato la scelta che l'Inps intende effettuare nel nuovo Schema di Convenzione di eliminare la seguente precisazione attualmente presente «al fine di ottenere il prestito non è necessario che il destinatario sia titolare di un conto corrente presso la banca che concede il finanziamento». Ad avviso dell'Autorità , infatti, è essenziale fornire adeguata informativa al pensionato sull'assenza di eventuali vincoli tra il finanziamento connesso alla Convenzione e l'accensione di servizi bancari e, in primis, di un conto corrente. In merito ai servizi assicurativi, l'Autorità  ha preso atto che il nuovo Schema di Convenzione non prevede più che la garanzia per il recupero del credito residuo in caso di decesso del mutuatario sia costituita da fondi previdenziali, bensà sia costituita da polizze assicurative offerte sul mercato. Al riguardo, essendo la polizza assicurativa a copertura del rischio premorienza un requisito essenziale per accedere al contratto di finanziamento, l'Autorità  ha auspicato che l'offerta di tale servizio avvenga a favore dei pensionati con le stesse cautele previste per l'offerta del servizio di finanziamento e con l'obbiettivo di garantire, anche per questo servizio, condizioni migliorative rispetto alla prassi di mercato, considerando soprattutto il fattore età  dei richiedenti. L'Autorità  ha ritenuto anche opportuno fornire ai pensionati una chiara e trasparente informativa sulle condizioni economiche delle polizze assicurative (in termini di premi e commissioni) nonché sugli esistenti divieti per le banche e gli intermediari finanziari di essere nel contempo beneficiari della polizza e soggetti intermediari del relativo contratto.
Trattamento di dati sensibili riferiti ai partecipanti ad una manifestazione sindacale
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Il garante per la privacy ha vietato a una Casa circondariale il trattamento dei dati personali dei partecipanti a una manifestazione sindacaleautorizzata che si è svolta, senza incidenti, all'esterno della struttura carceraria e al di fuori dall'orario di servizio. Dagli accertamenti avviati dall'Autorità , su segnalazione di un segretario sindacale regionale, è emerso infatti che la Casa circondariale, temendo la diffusione di informazioni su una circolare oggetto della protesta e quindi una violazione del segreto d'ufficio sanzionabile a livello disciplinare, ha raccolto i nominativi dei partecipanti, dati idonei a rivelarne l'appartenenza sindacale. La Casa circondariale è cosà incorsa in un trattamento illecito perché, non essendo state riscontrate le violazioni temute, non è mai stato avviato alcun procedimento disciplinare, né nei confronti del segretario del sindacato che ha indetto la manifestazione, né nei confronti dei partecipanti. Ulteriore profilo di illiceità  ravvisato dal Garante consiste nei prolungati e immotivati tempi di conservazione, eccedenti rispetto alla finalità  di un loro impiego nell'ambito di un procedimento disciplinare, peraltro mai avviato.
Contratto apprendistato – Nullità – Sussistenza
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Libera circolazione dei lavoratori – Aiuto all’assunzione dei lavoratori anziani disoccupati e dei lavoratori disoccupati di
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Licenziamento individuale – Impugnativa – Questione del rito
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Licenziamento disciplinare – Genericità e difetto di tempestività – Inefficacia – Reintegrazione in sede cautelare
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Contratto a tempo determinato – Nullità della clausola temporale – Sussistenza
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Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro
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I ricorrenti sono funzionari federali della Repubblica federale tedesca legati ai propri rispettivi partner sulla base della legge sulle unioni civili registratee, avendo presentato richiesta di sussidio per spese mediche sostenute, hanno ottenuto un diniego dall'amministrazione datrice di lavoro, in quanto i partner di un'unione civile non rientrano nel novero dei familiari che possono essere presi in considerazione in relazione al sussidio richiesto. Secondo il tribunale tedesco che ha sollevato la questione sottoposta alla Corte di Giustizia, tuttavia, non sussiste dubbio in ordine al fatto che, secondo la giurisprudenza della Corte (sentenza del 1° aprile 2008, Maruko, C-267/06, Racc. p. I1757), il sussidio erogato ai funzionari in caso di malattia debba essere qualificato come «retribuzione» ai sensi della direttiva 2000/78, poiché il sussidio è erogato solo sulla base del rapporto di servizio e non a titolo di prestazione del regime statale generale di sicurezza sociale o di protezione sociale. La Corte ha ritenuto che: l'articolo 3, paragrafi 1, lettera c), e 3, della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità  di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che un sussidio concesso ai funzionari in caso di malattia, quale quello accordato ai funzionari della Bundesrepublik Deutschland ai sensi della legge sui funzionari federali (Bundesbeamtengesetz), rientra nell'ambito di applicazione di detta direttiva qualora il suo finanziamento incomba allo Stato nella sua veste di datore di lavoro pubblico, circostanza questa che deve essere accertata dal giudice nazionale.
Obbligo dell’azienda di partecipare alle procedure di raffreddamento e conciliazione
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Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Divieto di qualsiasi discriminazione fondata sull
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Trasferimento di ramo d’azienda – Requisito della preesistenza
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Inapplicabilità ai dirigenti Anas delle riduzioni stipendiali, nonché del blocco triennale delle progressioni automatiche
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Il Tribunale di Roma, a seguito della richiesta di alcuni dirigenti di Anas di disapplicazione della circolare interpretativa n. 40 del 23 dicembre 2010del ministero dell'Economia e Finanza con la quale si sostiene l'applicabilità  ai dipendenti dell'Anas delle decurtazioni stipendiali stabilite per i dirigenti pubblici dall'art. 9, comma 2, d.l. n. 78/2010, nonché del blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio e della sterilizzazione delle progressioni di carriera per tutti i dipendenti Anas (ex art. 9, comma 21, del d.l. n. 78/2010), ha accolto il ricorso dei lavoratori con la seguente motivazione. Con riferimento alla riduzione degli stipendi dei dirigenti sulla base dell'art. 9, comma 2, d.l. n. 7/2010, il giudice ha richiamato la recente dichiarazione di incostituzionalità  della norma avvenuta con la sentenza della Corte Cost. n. 223/2011, ritenendola applicabile al caso di specie in base all'art. 136 Cost. e all'art. 30, comma 3, della legge n. 87/1953. Riguardo invece al blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio e della sterilizzazione delle progressioni di carriera operata dall'azienda in base all'art. 9, comma 21, del d.l. n. 78/2010, il Tribunale di Roma ha rilevato la natura privatistica di Anas e ha quindi giudicato illegittima l'interpretazione estensiva operata dall'azienda nei confronti del proprio personale sulla base del comma 1 dell'art. 9 del d.l. n. 78/2010, che prevede un tetto massimo di spesa ordinaria. Ciò in quanto la norma in questione trova applicazione nei confronti del personale il cui rapporto di lavoro è disciplinato dal d.lgs. n. 165/2001, e cosa ben diversa è, invece, l'introduzione attraverso il comma 21 dell'art. 9 del d.l. n. 78/2010 del blocco triennale delle progressioni automatiche di stipendio previste dal legislatore con un'apposita norma. Il Tribunale capitolino ha altresà rilevato l'incongruenza della successiva circolare interpretativa della manovra correttiva n. 12 del 15 aprile 2011: «Che ha precisato che 'tra le progressioni di carriera comunque denominate che si riferiscono al personale contrattualizzato di cui al d.lgs. n. 165/2001 ' nel quale non rientra il personale degli enti di cui all'elenco Istat stante il mancato richiamo al terzo periodo del comma 21 dell'art. 9 legge n. 122/2010 ', non rientrano i meccanismi di progressione automatica dello stipendio e quindi anche gli scatti di anzianità , disciplinati nel secondo periodo del comma 21 art. 9, che fa riferimento esclusivamente al personale della p.a. non contrattualizzato. Alla stregua di tali argomentazioni il giudice romano ha ritenuto l'illegittimità  della circolare n. 40/2010 nella parte in cui ritiene di estendere l'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 9 comma 21 d.l. n. 78/2010, conv. in legge n. 122/2010 al personale dirigente Anas in violazione della volontà  espressa dal legislatore e in contrasto con le disposizioni della normativa contrattuale che disciplina la materia degli scatti di anzianità  e progressione economica automatica di tale personale.
ricusazione dello stesso giudice che aveva pronunciato l’ordinanza nel procedimento secondo il «rito Fornero
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Impugnazione di licenziamento dopo la legge Fornero – Possibilità di rinuncia alla fase sommaria su accordo delle parti – S
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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Collegamento economico funzionale tra imprese – Unicità del centro di imp
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Licenziamento individuale – ricorso da parte del datore di lavoro – ammissibilità
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Licenziamento del socio lavoratore – Competenza per materia – Appartiene al giudice del lavoro
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L’illegittimità della Cigs che non specifica i criteri di scelta e le ragioni della mancata rotazione non può essere sanata
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La mancata indicazione di un piano di esuberi determina l’illegittimità della procedura di mobilità
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La mancanza di trasparenza del «capo» giustifica uno scatto d’ira del dipendente
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Estensione anche alle «conversioni» dei rapporti interinali a termine dell’indennizzo onnicomprensivo
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Nullità del patto di non concorrenza la cui risoluzione è rimessa a una scelta del datore di lavoro
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Un lavoratore che aveva sottoscritto un patto di non concorrenza che lo vincolava ad astenersi dallo svolgere attività  lavorativain concorrenza con la propria azienda dopo la cessazione del rapporto adiva il Tribunale di Roma al fine di vedere condannare la società  al pagamento del compenso pattuito. L'azienda nel costituirsi in giudizio negava il debito affermando che il patto prevedeva che il diritto in capo al beneficiario fosse in realtà  sottoposto a una condizione potestativa risolutiva, idonea a liberare il lavoratore dall'obbligo e l'azienda dalla correlata corresponsione dell'indennità . La domanda di condanna, accolta in primo grado dal Tribunale di Roma, veniva riformata dalla locale Corte di Appello. La Corte di Cassazione nell'accogliere il gravame del lavoratore che lamentava la nullità  della clausola di recesso, pur dando atto di un risalente difforme orientamento, ha affermato che non può essere «attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, cosà vanificando la previsione della fissazione di un termine certo». L'eventuale clausola che rimetta alla sola volontà  del datore di lavoro il riconoscimento dell'attribuzione patrimoniale pattuita deve infatti ritenersi nulla atteso che la grave ed eccezionale limitazione alla libertà  di impiego delle energie lavorative risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si presume accettato dal lavoratore all'esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività  dopo la cessazione del rapporto. La clausola che attribuisce un diritto di incidere unilateralmente sulla durata del vincolo che impone l'astensione dallo svolgere attività  lavorativa deve essere, infatti, interpretata alla stregua dei principi costituzionali che impongono di non vanificare la previsione di un termine certo atteso che la limitazione del diritto a svolgere un'attività  lavorativa implica una certezza del vincolo negoziale.
l lavoratore che rifiuta la riassunzione ha diritto al risarcimento minimo
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Un lavoratore poco dopo essere stato licenziato riceveva dal proprio ex datore di lavoro una nuova offerta di reimpiego che veniva, tuttavia, declinata dal dipendente.Il lavoratore, nonostante il rifiuto, adiva il Tribunale di Salerno richiedendo la reintegra nel posto di lavoro. Il Tribunale accoglieva la domanda di annullamento del licenziamento ma, limitato il risarcimento del danno a sole cinque mensilità , escludeva l'istituto della reintegra sul rilievo che il dipendente aveva rifiutato l'offerta lavorativa dell'azienda manifestando in tal modo un disinteresse alla prosecuzione del rapporto. La Corte di Appello di Salerno nell'accogliere parzialmente il gravame del lavoratore disponeva la reintegra confermando la misura del risarcimento sul rilievo che il rifiuto della nuova assunzione non costituiva una rinuncia al ripristino del rapporto ma semmai si poneva come causa estintiva di un maggior danno. La Corte di Cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  promosso dal lavoratore ha chiarito che la motivazione della Corte salernitana è logicamente corretta e conforme a diritto, posto che il risarcimento del danno è istituto ontologicamente distinto dalla reintegrazione nel posto di lavoro, pur potendo concorrere con essa, ed è suscettibile, a determinate condizioni, di subire una riduzione, nell'arco compreso tra il minimo e il massimo legale di cui al quarto comma dell'art. 18 legge n. 300/1970. Ferma, infatti, la penale pari alle cinque mensilità  previste dalla normativa statutaria, l'ulteriore risarcimento trova fondamento nel principio della imputabilità  del danno al datore di lavoro inadempiente che richiede la persistenza del nesso di causalità  fra danno e licenziamento e di tale principio costituisce corretta applicazione il rilievo dato dai giudici di merito all'offerta di riassunzione, quale condotta idonea a produrre l'interruzione di tale correlazione causale.
La riforma della legge Fornero non trova applicazione nei confronti dei licenziamenti intimati prima della sua entrata in vigore
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A seguito di un giudizio promosso da alcuni lavoratori che lamentavano la collocazione in mobilità ,il Tribunale di Milano dichiarava illegittimi i licenziamenti sul rilievo che nella comunicazione iniziale l'azienda, pur avendo una pluralità  di filiali non interessate dalla procedura, non aveva informato le organizzazioni sindacali delle ragioni in forza delle quali non era possibile reimpiegare i lavoratori nelle altre strutture. La decisione è stata confermata dalla locale Corte di Appello. La Corte di Cassazione nel confermare la decisione dei giudici territoriali con riferimento all'illegittimità  della procedura di mobilità , ha inoltre rilevato che gli effetti della Riforma Fornero sull'apparato sanzionatorio dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori non trovano applicazione nei confronti dei licenziamenti intimati prima della riforma. I giudici di legittimità  hanno, infatti, chiarito che con riferimento alla tutela reale regolata dallo Statuto dei lavoratori va esclusa, ratione temporis, l'applicabilità  dello ius superveniens rappresentato dall'art. 1 della legge 28 giugno 2012 n. 92. Il fatto che il complesso normativo di cui ai commi dal 37 al 69 di tale articolo innovi la disciplina anche del licenziamento e, ancor prima, introduca l'obbligo di una fase procedimentale preparatoria dell'eventuale licenziamento per giustificato motivo oggettivo, modificando poi, anche in tali ipotesi, il regime delle conseguenze del licenziamento dichiarato nullo, privo di giustificazione o inefficace, rende infatti comunque insostenibile una sua applicazione ai licenziamenti avvenuti in data antecedente alla entrata in vigore della legge medesima.
Illegittima una collocazione in mobilità dopo un precedente licenziamento per giusta causa
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Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa a fronte di un'asserita assenza ingiustificata;la società , poco dopo aver intimato tale licenziamento (tempestivamente impugnato dal lavoratore), apriva una procedura di mobilità  che si chiudeva con un secondo licenziamento del medesimo lavoratore; licenziamento «sospeso in attesa dell'esito del giudizio sul precedente licenziamento disciplinare». La Corte di Cassazione nel confermare l'illegittimità  del primo licenziamento disciplinare ha altresà confermato la decisione di secondo grado che riteneva illegittimo anche il secondo licenziamento. Per quel che riguarda il secondo licenziamento, intimato nell'area della tutela reale, la Suprema Corte, dando atto dell'evoluzione giurisprudenziale che ha portato la Cassazione ad ammettere l'intimazione di un secondo licenziamento «cautelativamente sospeso» negli effetti, ha, precisato, tuttavia, che la motivazione sottesa al secondo licenziamento, oltre a essere diversa rispetto al primo licenziamento, deve anche essere sopravvenuta e non nota al datore all'atto di intimazione della prima risoluzione del rapporto. La Suprema Corte ha altresà affermato che dopo un primo licenziamento individuale, il secondo licenziamento, in ogni caso, non può essere collettivo o dovuto a una procedura di mobilità , trattandosi di procedure che non consentono l'inserimento di lavoratori licenziati sub condicione.
La divulgazione di materiale riservato al sindacato legittima il licenziamento
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Un lavoratore dopo aver inoltrato al proprio sindacato una mail interna all'azienda di natura confidenziale,testimoniata dalla dicitura «Riservato» nell'oggetto della mail, riguardante margini, strategie e costi di un potenziale contratto di interesse per la propria azienda, veniva licenziato per motivi disciplinari. Il Tribunale di Milano, con sentenza confermata in sede di appello, respingeva la domanda sul rilievo che la condotta posta in essere dal dipendente aveva minato in radice il rapporto fiduciario nonostante l'intendimento del lavoratore non fosse quello di diffondere un segreto industriale. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame del lavoratore, ha confermato la decisione dei giudici territoriali
Licenziamento per giusta causa e principio della immutabilità della contestazione
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Una lavoratrice dopo aver usufruito di un periodo di congedo obbligatorio dal lavoro per effetto di una maternità non rientrava al lavoro omettendo di informare la propria azienda dell'intenzione di astenersi dal lavoro per effetto della fruizione del periodo di astensione facoltativa tempestivamente richiesto all'ente previdenziale. A fronte di una contestazione per assenza ingiustificata l'azienda intimava alla lavoratrice un licenziamento per giusta causa sul rilievo che la dipendente aveva «violato le procedure previste dalla legge». Il Tribunale di Perugia accoglieva la domanda della ricorrente con sentenza poi riformata dalla locale Corte di Appello di Perugia. La Corte di Cassazione, nell'accogliere parzialmente il ricorso di legittimità  promosso dalla lavoratrice, ha rilevato l'invalidità  della sentenza della Corte di Appello laddove non ha riscontrato che il provvedimento di licenziamento si basava su un fatto diverso da quello in precedenza indicato nella lettera di contestazione. Nel ribadire il principio dell'immutabilità  della contestazione, la Corte di Cassazione ha infatti precisato che il datore non può porre a fondamento del recesso motivi diversi da quelli in precedenza contestati
Il licenziamento per superamento del periodo di comporto deve specificare i giorni di assenza anche in difetto di richiesta
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La Corte di Appello di Milano nel riformare la sentenza del locale Tribunale ha dichiarato l'illegittimità  del licenziamentointimato a un lavoratore per superamento del periodo di comporto tramite un telegramma che preannunciava una lettera esplicativa delle assenze mai pervenuta al lavoratore. I giudici della Corte territoriale ritenevano l'inefficacia del recesso per mancata specificazione delle assenze anche in difetto di una espressa richiesta del lavoratore. La Corte di Cassazione, nel respingere il gravame proposto dalla società  che riteneva sufficiente il semplice richiamo all'avvenuto superamento del periodo di comporto, ha precisato che al licenziamento che trovi giustificazione nelle assenze per malattia del lavoratore, si applicano le regole dettate dall'art. 2 della legge n. 604 del 1966 sulla forma dell'atto e la comunicazione dei motivi del recesso, poiché nessuna norma speciale è al riguardo dettata dall'art. 2110 cod. civ. Conseguentemente ' concludono i giudici di legittimità  ' qualora l'atto di intimazione del licenziamento per il quale sussiste l'onere di specificare le assenze, non precisi i giorni di assenza dal lavoro in base ai quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il recesso deve ritenersi inefficace. La Cassazione ha inoltre confermato la decisione dei giudici di merito per la quale l'onere di richiedere le motivazioni non poteva ritenersi subordinato alla richiesta da parte del lavoratore atteso che l'azienda aveva preannunciato l'intenzione di esplicitare le assenze.
La tutela avverso i licenziamenti illegittimi costituisce espressione dell’ordine pubblico interno e comunitario
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Tirocini formativi non curriculari
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La Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima la recente disciplina relativa ai tirocini formativi e di orientamento non curriculari,perché la stessa si pone in contrasto con l'art. 117, quarto comma, Costituzione, andando a invadere un territorio di competenza normativa residuale delle Regioni. Secondo le autonomie locali ricorrenti, la norma in questione detta una disciplina che rientra nella materia di competenza regionale residuale inerente l'istruzione e la formazione professionale. In particolare l'intervento statale ' anche se si ritenesse riguardante i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ' non potrebbe consistere nella uniforme e rigida unilaterale determinazione uguale per tutto il territorio nazionale, dovendo, viceversa, sostanziarsi nell'istituzione di una procedura di collaborazione per le singole determinazioni in sede locale. La Corte Costituzionale, accogliendo il ricorso, ha ricordato che, dopo la riforma costituzionale del 2001, la competenza esclusiva delle Regioni in materia di istruzione e formazione professionale riguarda l'istruzione e la formazione professionale pubbliche che possono essere impartite sia negli istituti scolastici a ciò destinati, sia mediante strutture proprie che le singole Regioni possano approntare in relazione alle peculiarità  delle realtà  locali, sia in organismi privati con i quali vengano stipulati accordi (sentenza n. 50 del 2005). Viceversa, la disciplina della formazione interna ' ossia quella formazione che i datori di lavoro offrono in ambito aziendale ai propri dipendenti ' di per sé non rientra nella menzionata materia, né in altre di competenza regionale; essa, è connessa con il sinallagma contrattuale e per questo attiene all'ordinamento civile, per cui spetta allo Stato stabilire la relativa normativa (sentenza n. 24 del 2007). La giurisprudenza successiva ha chiarito che i due titoli di competenza non sempre appaiono «allo stato puro» (vedi sentenza n. 176/2010 in relazione al regime dell'apprendistato), e ha chiarito che il nucleo di tale competenza, che in linea di principio non può venire sottratto al legislatore regionale [â?¦] ' al di fuori del sistema scolastico secondario superiore, universitario e post-universitario ' cade sull'addestramento teorico e pratico offerto o prescritto obbligatoriamente (sentenza n. 372 /1989) al lavoratore o comunque a chi aspiri al lavoro: in tal modo, la sfera di attribuzione legislativa regionale di carattere residuale viene a distinguersi sia dalla competenza concorrente in materia di istruzione (sentenza n. 309/2010), sia da quella, anch'essa ripartita, in materia di professioni (art. 117, terzo comma, Cost.), nel quadro della esclusiva potestà  statale di dettare le norme generali sull'istruzione (art. 117, secondo comma, lettera n, Cost.)» (vedi sentenza n. 108/2012). Quindi, alla luce del suddetto costante orientamento del giudice delle leggi, appare evidente che l'art. 11 del d.l. n. 138/2011, si pone in contrasto con l'art. 117, quarto comma, Cost., poiché va a invadere un territorio di competenza normativa residuale delle Regioni. Il comma 1 della disposizione, infatti, interviene a stabilire i requisiti che devono essere posseduti dai soggetti che promuovono i tirocini formativi e di orientamento, mentre la seconda parte del medesimo comma, dispone che, fatta eccezione per una serie di categorie ivi indicate, i tirocini formativi e di orientamento non curricolari non possono avere una durata superiore a 6 mesi, proroghe comprese, e possono essere rivolti solo a una determinata platea di beneficiari. In questo modo la legge statale ' pur rinviando, nella citata prima parte del comma 1, ai requisiti «preventivamente determinati dalle normative regionali» ' interviene comunque in via diretta in una materia che non ha nulla a che vedere con la formazione aziendale.
Sostegno alle persone non autosufficienti extracomunitarie
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È illegittimo stabilire che i cittadini extracomunitari possono beneficiare degli interventi di sostegno previsti dalla legge esclusivamente se in possesso di «regolare carta di soggiorno».L'impugnazione statale avverso la legge calabrese, censurava in primo luogo la normativa regionale poiché essa, nell'individuare i requisiti dei destinatari delle prestazioni sociali di sostegno, in riferimento ai cittadini extracomunitari, prevedeva, oltre al requisito della residenza nel territorio regionale, anche quello del possesso di un titolo di legittimazione qualificato come «carta di soggiorno», introducendo in tal modo una discriminazione illegittima. La Corte Costituzionale ha ritenuto fondata la questione di legittimità  costituzionale proposta rilevando, anzitutto, come il riferimento alla «carta di soggiorno», già  prevista dal testo originario dell'art. 9 del d.lgs. n. 286/1998, sia del tutto inattuale, stante la modifica intervenuta per effetto dell'art. 1, comma 1, lettera a) del d.lgs. n. 3/2007, che ha sostituito a essa il «permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo», concesso agli extracomunitari in possesso da almeno cinque anni di un regolare permesso di soggiorno. La Corte, inoltre, ha ritenuto lesive dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza le limitazioni previste relativamente ai soggetti possibili fruitori delle provvidenze. Ciò in quanto, se il legislatore regionale ha la possibilità  di modulare in vario modo la disciplina per l'accesso a determinate prestazioni sociali, eccedenti il limite dell'essenziale, per bilanciare al meglio l'esigenza di garantire la massima fruibilità  dei benefici con quella della limitatezza delle risorse a disposizione, tale circostanza non lo esime dal dover adottare canoni selettivi ragionevoli poiché, secondo quanto previsto dalla giurisprudenza costituzionale, «è consentito introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una «causa» normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria » (sentenza n. 432 del 2005). L'elemento di distinzione introdotto dalla normativa censurata, invece, a parere della Corte, è del tutto arbitrario poiché non è possibile presumere, se non in modo aprioristico, che gli stranieri non autosufficienti, titolari di un permesso di soggiorno di lungo periodo, in quanto già  presenti sul territorio nazionale sulla base di un permesso di soggiorno protratto per cinque anni, possano trovarsi in una condizione di bisogno o di disagio maggiore rispetto agli stranieri pur regolarmente presenti, ma per un periodo ancora insufficiente a far conseguire loro tale titolo legittimante. D'altra parte la Corte, in diverse sentenze, aveva già  rilevato che mentre è ragionevolmente possibile subordinare la fruizione di determinate prestazioni sociali, eccedenti il limite dell'essenziale, alla circostanza del possesso, da parte dello straniero, di un titolo legittimante che ne attesti la presenza non episodica e non di breve durata nel territorio nazionale, non si può, una volta accertato il diritto a soggiornare, differenziare l'accesso a una misura sociale in base alla «necessità  di uno specifico titolo di soggiorno» (sentenza n. 61 del 2011) o alla presenza di «particolari tipologie di residenza volte a escludere proprio coloro che risultano i soggetti più esposti alle condizioni di bisogno e di disagio che un siffatto sistema di prestazioni e servizi si propone di superare perseguendo una finalità  eminentemente sociale» (sentenza n. 40 del 2011).
Servizi sociali per cittadini stranieri
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Sono illegittime le norme altoatesine che prevedono un periodo di residenza minima affinché gli stranieri possano accedere ai servizi sociali.La Corte Costituzionale, accogliendo il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri che aveva proposto questioni di legittimità  costituzionale in via principale di plurime disposizioni della legge della Provincia autonoma di Bolzano 28 ottobre 2011, n. 12, ha stabilito che richiedere un periodo di residenza minima per poter beneficiare dei servizi sociali appare irragionevole in quanto lo stato di «bisogno» prescinde dalla durata di permanenza minima sul territorio e si pone in contrasto con il principio di uguaglianza. Più nel dettaglio, la Corte rileva, infatti, come nella sua giurisprudenza sia già  stato sottolineato che il requisito del-la residenza o della dimora stabile possa costituire «un criterio non irragionevole» per l'accesso a una provvidenza regionale o provinciale (sent. n. 432 del 2005), ma esso non è più tale laddove venga richiesta la sua durata per un predeterminato e significativo periodo minimo di tempo, nella specie quinquennale. Un tale criterio introduce, pertanto, un'arbitraria discriminazione, non potendosi presumere che lo stato di bisogno degli stranieri immigrati nella Provincia da meno di cinque anni, ma ivi stabilmente residenti o dimoranti, possa essere minore rispetto a quello di chi vi risiede da un tempo più lungo e non sussistendo alcun ragionevole collegamento tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, relative alla persona in quanto tale e integranti i soli presupposti di fruibilità  delle provvidenze in questione (sent. n. 40 del 2011).
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