2 / 2008
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Descrizione
La Corte costituzionale ripristina la prevalenza del rito del lavoro su quello societario Rilevanza della presunzione nella prova del danno da dequalificazione per particolari professionalità I Tribunali di Bologna e di Parma su casi di lavoro interinale e di somministrazione
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Il dipendente della P. A. non ha diritto al risarcimento dei danni per l’assegnazione a mansioni inferiori a quelle precedenti
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Il licenziamento per cumulo di assenze-malattia può ritenersi illegittimo se il lavoratore ha prestato servizio dopo il comport
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S. L. dipendente dell'Amiat Azienda multiservizi igiene ambientale si è ripetutamente assentato dal lavoro per malattia.Il 23 gennaio 2002 l'azienda gli ha comunicato che egli aveva cumulato 345 giorni di assenza per malattia, ossia 21 giorni meno del limite massimo previsto dal contratto collettivo. Il lavoratore ha ripreso servizio il 29 gennaio 2002 ed ha lavorato ininterrottamente fino al 15 maggio 2002. Si è quindi assentato per infortunio sino al 9 settembre 2002; ha poi ottenuto un congedo parentale di un mese ed ha ripreso servizio il 10 ottobre 2002. Egli è stato licenziato l'11 ottobre 2002, con motivazione riferita al superamento del periodo di comporto di malattia scaduto il 26 gennaio 2002. Il Tribunale di Torino al quale il lavoratore si è rivolto, ha annullato il licenziamento. La Corte d'Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione proposta dall'azienda, osservando che il lavoratore, dopo il superamento del periodo di comporto, aveva lavorato per circa quattro mesi e che aveva successivamente ottenuto un congedo parentale; pertanto la condotta dell'azienda doveva ritenersi incompatibile con la volontà  di risolvere il rapporto. L'Amiat ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Il giudice di appello ' ha osservato la Corte ' si è dato cura di ricostruire con diligenza lo svolgimento dei fatti ed il comportamento di entrambe le parti, puntualizzando che il susseguirsi delle date di assenze dal lavoro e relative riprese dimostra in maniera univoca come il lavoratore, dopo il superamento del periodo di comporto, lavorò per quasi quattro mesi e, quando doveva tornare in servizio, ottenne un congedo per motivi parentali; la conclusione del giudice di appello è stata pertanto nel senso che tutta la complessiva vicenda è incompatibile con una volontà  rescissoria del datore di lavoro, in quanto un periodo ininterrotto di servizio di oltre tre mesi non avrebbe potuto non considerarsi rilevante ai fini della tempestività  del recesso, ben potendo in detto periodo essere esperito ogni utile controllo. In questo modo ' ha osservato la Corte ' il giudice di appello, nel procedere alla verifica della tempestività  del recesso, si è attenuto all'orientamento, espresso dalle sentenze Cass. n. 7047 del 2003 e n. 6057 del 1998, secondo il quale nell'ipotesi di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, il tempo decorso tra la data di detto superamento e quella di licenziamento può consentire di stabilire se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà  di porre fine al rapporto; la valutazione va operata apprezzando l'intero contesto delle circostanze all'uopo significative, in modo tale da poter contemperare le esigenze del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale con quelle dell'impresa per i necessari controlli.
Il giudice non deve limitarsi a considerare il significato letterale delle norme ma deve accertare la volontà delle parti
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M. G. è stato ripetutamente assunto, fra il 1991 e il 1996, con contratti a tempo determinato, dalla Spa Autostrade dei Parchi e successivamente dalla Spa Strade dei Parchi,per i periodi da giugno a settembre e da dicembre a gennaio di ciascun anno, con la qualifica di addetto alla esazione dei pedaggi. Nei contratti era indicata, come causale, la necessità  di sostituzione di personale in ferie, in base all'art. 2, par. 3 del contratto nazionale di categoria, che prevedeva la possibilità  di assunzioni a termine in concomitanza con i periodi di ferie. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di Roma di dichiarare la nullità  dei termini di scadenza apposti ai vari contratti, sostenendo di non avere sostituito personale in ferie, in quanto la sua assunzione era stata finalizzata a sopperire a carenze di organico. Le aziende si sono difese sostenendo che la norma del contratto collettivo relativa alle assunzioni a termine andava interpretata nel senso che esse potevano essere effettuate anche per far fronte a esigenze organizzative connesse all'intensificazione del traffico in determinati periodi estivi ed invernali; a supporto della loro tesi esse hanno fatto riferimento a contratti aziendali e al comportamento tenuto dalle parti collettive. In proposito le aziende hanno chiesto al Tribunale di pronunciare in base all'art. 420-bis cod. proc. civ., una sentenza interpretativa dell'art. 2 par. 3 del contratto collettivo nazionale al fine di stabilire: «Se il richiamo alla concomitanza delle ferie nei periodi indicati operi un richiamo solo alle ragioni meramente sostitutive delle assenze per ferie ovvero se era intenzione delle parti sociali operare un riferimento anche alle esigenze di carattere oggettivo/organizzativo connesse a tale periodo dell'anno, come tra l'altro per sopperire alle maggiori esigenze di esazione connesse all'intensificarsi del traffico in ragione di un dato oggettivo concomitante con il periodo feriale». L'art. 420-bis cod. proc. civ., introdotto dal decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40, prevede che: «Quando per la definizione di una controversia di cui all'articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità  o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza ». Il Tribunale di Roma ha ritenuto applicabile l'art. 420-bis cod. proc. civ. in considerazione della «serietà » della questione e della opportunità  di un intervento della Suprema Corte al fine di stabilire un indirizzo anche per altri giudici investiti dallo stesso tipo di controversie. Decidendo quindi con sentenza la questione postagli, il Tribunale ha affermato che, in applicazione del criterio dell'interpretazione letterale previsto dall'art. 1362 cod. civ. la norma contrattuale doveva essere interpretata nel senso che essa consentiva le assunzioni a termine solo per la sostituzione di personale in ferie e non anche per altre esigenze organizzative. Le aziende hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Roma per avere interpretato la clausola di cui all'art. 2, punto 3, del contratto collettivo sulla base della sola dizione letterale, senza tenere conto della comune volontà  dei contraenti quale emergeva anche dagli accordi aziendali e dal comportamento delle parti e senza avere per di più proceduto ad un approfondito esame di tutte le disposizioni contenute nella suddetta clausola e nelle altre statuizioni pattizie. Le aziende inoltre, con apposito quesito di diritto formulato in base all'art. 366-bis cod. proc. civ. hanno chiesto alla Corte di «statuire se l'art. 2, punto 3 del contratto collettivo per il personale dipendente da società  e consorzi concessionari di autostrade e trafori, nel richiamare l'assunzione in concomitanza nel periodo di ferie abbia inteso conferire al datore di lavoro il diritto di apporre un termine al contratto di lavoro subordinato con riferimento al periodo giugnosettembre e dicembre-gennaio di ciascun anno, nel solo rispetto della aliquota media annua del 25% dei contratti a tempo indeterminato in essere al 31 dicembre dell'anno precedente». La Suprema Corte ha accolto il ricorso, riconoscendo peraltro che il Tribunale ha fatto uso appropriato dell'art. 420-bis cod. proc. civ., stante la serietà  della questione richiedente una soluzione di portata tendenzialmente generale. Tuttavia la Corte ha ritenuto che il Tribunale sia incorso in errore applicando soltanto il criterio interpretativo fondato sulla lettera della norma contrattuale, in base all'art. 1362 cod. civ. In materia di contrattazione collettiva ' ha osservato la Corte ' la comune volontà  delle parti contrattuali non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento al senso letterale delle parole, atteso che la natura di detta contrattazione, spesso articolata in diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), la vastità  e la complessità  della materia trattata in ragione della interdipendenza dei molteplici profili della posizione lavorativa, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni industriali non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, il carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi, costituiscono elementi tutti che rendono indispensabile nella materia della contrattazione collettiva un'utilizzazione dei generali criteri di ermeneutica che di detta specificità  tenga conto, con conseguente assegnazione di un preminente rilievo al canone interpretativo logico-sistematico dettato dall'art. 1363 cod. civ. Il Tribunale di Roma, ha rilevato la Corte, si è limitato a fare applicazione del canone di interpretazione letterale della clausola stessa, senza dare atto in alcun modo di avere svolto una qualsiasi attività  istruttoria suscettibile di accreditare ' in un contesto quale quello della contrattazione collettiva, in cui la volontà  delle parti sociali è meglio decifrabile attraverso un approccio ermeneutico che vada al di là  della mera lettura della singola disposizione patrizia ' la soluzione accolta nella sentenza impugnata. In altri termini ' ha aggiunto la Corte ' il Tribunale, nel non fare alcun accenno ad una qualsiasi risultanza istruttoria svolta, non ha spiegato in modo sufficiente perché un più completo accertamento dei fatti di causa ed una indagine istruttoria suscettibile di articolarsi in forme diverse (interrogatorio delle parti; acquisizione di prove documentali, acquisizioni di contratti o accordi collettivi successivi o antecedenti a quello oggetto da interpretare; richiesta di informazioni e osservazioni sindacali ex art. 425 cod. proc. civ., ecc.), lasciate alla autonoma scelta del giudice di merito ma non sperimentabili in sede di legittimità , portasse ad escludere, all'esito di una interpretazione logico-sistematica, una lettura della clausola contrattuale nei sensi patrocinati dalla società  nei suoi atti difensivi. Pertanto la Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rimesso gli atti al Tribunale di Roma formulando il seguente principio di diritto: «La ratio informatrice dello speciale procedimento ex art. 420-bis cod. proc. civ di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità  ed interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale di diritto privato va individuata nell'esigenza di assicurare l'uniforme applicazione di tali clausole e di prevenire il rischio della polverizzazione dell'interpretazione in materia, e di agevolare nel frattempo ' attraverso l'esercizio della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione ' anche l'attuazione del principio a rilevanza costituzionale della «ragionevole durata» del processo. Risulta, pertanto, funzionale al perseguimento di tali fini che la sentenza emessa dal giudice ai sensi della citata norma di rito venga preceduta dall'espletamento di una istruttoria che consenta, da un lato, di valutare la natura della c.d. questione pregiudiziale nei termini di una sua generalizzata portata e di una sua forza estintiva di tutte le ragioni del contendere esistenti in materia, e permetta dall'altro al giudice di pervenire in base alle acquisite risultanze processuali ad una decisione che dia una lettura del dato pattizio esaustiva ed univoca, capace cioè di definire in termini chiari e conclusivi anche le problematiche consequenziali alla interpretazione accolta. Ne deriva che la carenza dei presupposti caratterizzanti l'iter procedurale di cui all'art. 420-bis cod. proc. civ e la mancanza dell'espletamento della necessaria istruttoria da parte del giudice di merito, non rimediabile in sede di legittimità , comporta l'accoglimento del ricorso per cassazione che sia stato proposto ai sensi del comma 3 del citato art. 420-bis cod. proc. civ., con la consequenziale cassazione della impugnata sentenza e la remissione degli atti al primo giudice». La Corte ha rimesso la causa al Tribunale di Roma, precisando che esso «potrà  se vorrà , nel rispetto dei principi enunciati, ripercorrere su nuove basi l'iter procedurale prescritto dall'art. 420-bis cod. proc. civ per la risoluzione della questione attinente alla interpretazione della clausola controversa».
La giusta causa di licenziamento non può essere motivata con un generico riferimento alle risultanze di un processo penale
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U. E., dipendente dell'Anas, dopo essere stato sottoposto a processo penale ha subito un licenziamento disciplinare, per «giusta causa»,motivato con riferimento ai fatti oggetto di tale processo. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Campobasso, che ha rigettato il ricorso. Questa sentenza è stata confermata dalla Corte d'Appello di Campobasso, che ha motivato la sua decisione affermando che «la prova sulla sussistenza degli addebiti disciplinari può essere attinta agli atti di altri procedimenti, penali e contabili». Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte d'Appello per vizio di motivazione. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nella valutazione sulla legittimità  di una sanzione disciplinare ' ha osservato la Cassazione ' il giudice non è chiamato a decidere sulla colpevolezza dell'incolpato in ordine a fatti-reato e ciò in quanto, in generale, il giudice civile deve procedere ad un'autonoma valutazione dell'episodio illecito al fine di stabilire se esso possa essere posto a fondamento della sanzione-licenziamento (cfr. Cass. n. 11500/1995), posto che il reato commesso dal lavoratore, che costituisca giusta causa di licenziamento, può dar luogo al recesso del datore di lavoro anche prima della sentenza penale di condanna (Cass. n. 2626/1998). In particolare ' ha ricordato la Suprema Corte ' sull'assoluta autonomia fra la valutazione di un fatto in sede penale e la valutazione della stessa fatta in sede di accertamento della sussistenza della giusta causa, deve essere rispettato il seguente principio: «Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell'accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito del procedimento penale; inoltre, in ogni caso, la valutazione della gravità  del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità  del licenziamento per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della ratio degli art. 2119 cod. civ. e 1 della legge n. 604 del 1966, e cioè tenendo conto dell'incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità  delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali» (Cass. n. 10315/2000). Nel caso in esame ' ha osservato la Cassazione ' la Corte territoriale si è limitata ad affermare che «la prova sulla sussistenza degli addebiti disciplinari può essere attinta agli atti di altri procedimenti, penali e contabili» senza precisare quali fossero tali «atti», né tantomeno quali gli «altri provvedimenti penali e contabili» e, quindi, in quale modo fosse stato effettivamente adempiuto all'onere probatorio sull'accertamento del fatto costituente la giusta causa del licenziamento. Di conseguenza ' ha affermato la Suprema Corte ' la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione a tale carenza motivazionale, con rinvio della causa ad altro giudice di pari grado per il riesame della controversia limitatamente al rilevato profilo di annullamento e per la relativa decisione ' alla stregua di una corretta motivazione ' in ordine alla prova dei fatti oggetto della contestazione disciplinare e del successivo licenziamento per giusta causa. La causa è stata rinviata, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Salerno.
L’esistenza del danno da demansionamento può provarsi mediante presunzioni fondate su nozioni generali derivanti dall’esper
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Il dipendente che vende azioni della società datrice di lavoro a un’azienda concorrente non viene meno al dovere di fedeltà
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Chi lavora sette giorni consecutivi ha diritto a un compenso aggiuntivo per il mancato riposo nel settimo giorno
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N. E. ed altri 11 lavoratori, dipendenti dell'azienda tipografica Nigi Srl nel periodo fra il 1986 e il 1990 hanno lavorato normalmente per sette giorni consecutivisenza fruire del riposo settimanale, essendo impegnati in attività  di stampa di giornali quotidiani. Essi hanno percepito la maggiorazione per il lavoro domenicale prevista dal contratto di categoria, secondo il quale l'orario settimanale è di 36 ore, distribuite in sei giorni, compresa la domenica. Essi hanno chiesto al pretore di Roma il riconoscimento del loro diritto a percepire un compenso ulteriore per la mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Roma, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. Il Tribunale ha ritenuto che la prestazione di lavoro per sette giorni consecutivi fosse consentita sia dalla legge che dal contratto collettivo e che il compenso per la mancata fruizione del riposo nel settimo giorno dovesse ritenersi inclusa nel trattamento economico complessivo. I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il lavoro prestato oltre il settimo giorno determina non solo, a causa della prestazione lavorativa nel giorno di domenica, la limitazione di specifiche esigenze familiari, personali e culturali alle quali il riposo domenicale è finalizzato, bensà una distinta ulteriore «sofferenza»: la privazione della pausa destinata al recupero delle energie psicofisiche (il fondamento di questa esigenza di recupero è da ricercare in una cadenza che ' anche ove non si ritenga di risalire alla Torah ' è iscritta, come fatto lungamente protrattosi nel tempo, nella nostra coscienza e nella nostra biologia). L'esigenza ha giuridico riconoscimento nell'art. 36 Cost., nonché in disposizioni di legge ed in norme collettive. Nell'ipotesi di protrazione del lavoro oltre il sesto giorno, l'indicata «sofferenza» del lavoratore esige tuttavia un compenso normativamente giustificato dallo stesso art. 36 Cost.: la qualità  del lavoro è funzione non solo ' pur prevalentemente ' del livello della prestazione (positivamente: quale valore intrinseco all'atto e fruito dal destinatario), bensà dell'oggettivo onere che, anche per il suo «valore marginale», la prestazione esige (negativamente, quale costo causato dall'atto: ciò è ovvio nel lavoro straordinario). Avendo legittima causa nello stesso rapporto di lavoro e specificamente nella particolare onerosità  della prestazione (effettuata nel settimo giorno consecutivo di lavoro), il compenso ha natura di retribuzione (dell'onerosità  della specifica prestazione). Ove la norma collettiva non lo preveda, questo specifico compenso deve essere determinato dal giudice, attraverso integrazione della norma (che, avendo per oggetto la specificazione delle legittime «conseguenze» del contratto, ha il suo fondamento nell'art. 1374 cod. civ.), sulla base d'una motivata valutazione che tenga conto dell'onerosità  della prestazione lavorativa, e di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale, od altro (per la determinazione del compenso da parte del giudice, Cass. 11 aprile 2007 n. 8709). La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Roma, enunciando il seguente principio di diritto: «La prestazione effettuata nel settimo giorno consecutivo di lavoro esige, per la sua particolare onerosità , specifico compenso, da differenziarsi dal (pur spettante) compenso del lavoro prestato nel giorno di domenica, e che non si esaurisce in un distinto giorno di riposo dopo il settimo giorno consecutivo di lavoro. Questo compenso, che ha natura di retribuzione, può essere espressamente previsto dalla norma collettiva, come casualmente connesso alla prestazione resa nel settimo giorno consecutivo di lavoro. Ove questa espressa previsione manchi, il giudice, sulla base d'una motivata valutazione che tenga conto dell'onerosità  della prestazione lavorativa, determina la misura del compenso applicando come parametro anche eventuali forme di retribuzione normativamente previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale, od altro».
L’affitto di un ramo d’azienda può dichiararsi nullo perché in frode alla legge se priva i lavoratori della tutela dell'ar
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Il «responsabile del servizio di prevenzione e protezione» deve avere ampi poteri organizzativi e di spesa
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W. O., dipendente della Spa Finstral, con mansioni di operaio, nel luglio del 2002 ha subito un trauma alla gamba destramentre trasportava manualmente materiale ingombrante e di peso elevato all'interno di uno stabilimento sito a Funes. Sono stati sottoposti a processo penale davanti al Tribunale di Bolzano, con l'imputazione di lesione colpose gravi A. O. e K. L., il primo nella qualità  di legale rappresentante della società  e il secondo come addetto alla sicurezza sul lavoro. Il Tribunale, pur rilevando la violazione di norme sulla sicurezza del lavoro, ha assolto i due imputati con la formula «per non aver commesso il fatto» in quanto ha ritenuto che la responsabilità  dell'infortunio dovesse essere attribuita a R. F. che, all'epoca del fatto, era stato designato dal datore di lavoro «responsabile del servizio di prevenzione e protezione » per lo stabilimento di Funes. Questa decisione è stata impugnata, con ricorso in Cassazione per saltum, in base all'art. 569 cod. proc. pen. dal procuratore della Repubblica di Bolzano, che ha censurato il Tribunale per avere ritenuto ' disapplicando gli articoli 4 e 8 del decreto legislativo n. 626 del 1994 ' che fosse sufficiente a giustificare l'esenzione di responsabilità  degli imputati, il solo fatto che il datore di lavoro avesse designato un responsabile del servizio di prevenzione per lo stabilimento dove si era verificato l'infortunio. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il Tribunale di Bolzano ' ha osservato la Corte ' non ha tenuto in considerazione il principio giuridico secondo cui, tra i destinatari iure proprio delle norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro del d.P.R. n. 547/1955, sono compresi, tra gli altri, il datore di lavoro ed il dirigente e che quest'ultimo non si sostituisce, di regola, alle mansioni dell'imprenditore, del quale condivide, secondo le loro reali incombenze, oneri e responsabilità  in materia di sicurezza del lavoro: a meno che, da parte del titolare dell'impresa, sia avvenuta, non soltanto la nomina nel suddetto ruolo (di dirigente) di persona qualificata e capace, ma anche il trasferimento alla stessa di tutti i compiti di natura tecnica, con le più ampie facoltà  di iniziativa e di organizzazione anche in materia di prevenzione degli infortuni, con il conseguente esonero, in caso di incidente, da responsabilità  penale del datore di lavoro. Nel caso in esame la persona designata quale responsabile del servizio prevenzione e protezione, era sprovvista di quegli ampi ed autonomi poteri di spesa ed organizzativi in materia di prevenzione degli infortuni, ritenuti indispensabili ai fini dell'esonero da responsabilità  del datore di lavoro. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è, in altri termini, una sorta di consulente del datore di lavoro ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come pacificamente avviene in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal datore di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo delle eventuali negligenze del primo è chiamato comunque a rispondere.
L’accertamento di inidoneità fisica del lavoratore da parte di un istituto pubblico non è insindacabile
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Per la validità della scelta dei lavoratori da licenziare non è sufficiente un generico riferimento ai criteri di legge
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La Spa Compagnia Prodotti Conservati ha attuato, nell'ottobre-novembre del 1997,una procedura per ridurre di personale in base alla legge n. 223 del 1991. Essa ha concluso con le organizzazioni sindacali, il 6 novembre 1977, un accordo che prevedeva la scelta dei lavoratori da licenziare in base al criterio della maturazione del diritto al trattamento pensionistico (con esclusione di quattro dipendenti) e per le restanti unità  in base ai criteri fissati dalla legge n. 223 del 1991 «subordinatamente alle esigenze tecnico produttive ed organizzative aziendali». L'art. 5, comma 1 legge n. 223/91 prevede che: «L'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità  deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all'art. 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità ; c) esigenze tecnico- produttive ed organizzative». P. S., uno dei licenziati, ha chiesto al Tribunale di Salerno di accertare la violazione delle regole poste dalla legge n. 223/91 e di annullare il suo licenziamento. Il Tribunale di Salerno ha accolto le domande, ordinando la reintegrazione di P. S. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Salerno che ha ritenuto che la generica previsione dell'accordo sindacale lasciava all'arbitrio del datore di lavoro la scelta dei licenziandi; ha inoltre osservato che i criteri di scelta seguiti non erano neppure desumibili dalla comunicazione fatta al termine della procedura in base all'art. 4, comma 9, della legge n. 223/91 secondo cui l'azienda deve fornire una «puntuale indicazione delle modalità  con le quali sono stati applicati i criteri di scelta ». La società  ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Salerno per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte ' ha correttamente accertato che in sede di accordo solo parte dei destinatari del provvedimento era identificata mediante il criterio della maturazione dei requisiti pensionistici, mentre per il restante personale era stato utilizzato il riferimento ai criteri di cui all'art. 5 comma 1 della legge n. 223/1991, «subordinatamente alle esigenze tecnico- organizzative e produttive aziendali»; restavano cosà da definire, per la genericità  di questa enunciazione, le concrete modalità  di applicazione di questi criteri fissati dalla legge; risulta quindi assorbente e decisivo il profilo della violazione del disposto dell'art. 4 comma 9 della legge, che come si è detto impone la «puntuale indicazione delle modalità  con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5, comma 1». In proposito ' ha osservato la Corte ' la sentenza impugnata ha accertato che la comunicazione finale ha omesso tale indicazione, limitandosi ad un richiamo dei criteri di scelta adottati e tale giudizio di fatto non è stato specificamente censurato dalla società  ricorrente.
Le assenze dal domicilio del dipendente malato in occasione delle visite di controllo possono giustificare il licenziamento
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C. L., dipendente della Srl System Service con mansioni di cuoco, si è assentato dal lavoro per malattia il 22 gennaio 2005 (sabato);il 24 gennaio ha ottenuto dal suo medico un certificato con prognosi al 1° febbraio 2005 e lo ha inviato alla datrice di lavoro e all'Inps. L'Inps ha disposto due visite di controllo, il 25 e 26 gennaio, ma in tali occasioni il lavoratore non è stato trovato in casa; egli non si è nemmeno presentato alle visite di controllo ambulatoriali fissate per il 27 e il 28 gennaio. L'azienda gli ha applicato le sanzione disciplinare di un giorno di sospensione per l'assenza del 22 gennaio e lo ha quindi nuovamente sottoposto a procedimento disciplinare per assenza ai controlli. Egli si è giustificato sostenendo di non essere stato trovato in casa perché si era recato presso il domicilio di una cugina per farsi assistere. L'azienda lo ha licenziato motivando la decisione con riferimento all'art. 167 del Ccnl per i dipendenti di pubblici esercizi, che prevede la sanzione espulsiva in caso di assenza ingiustificata superiore a cinque giorni. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Bolzano sostenendo che la sua assenza dal lavoro doveva ritenersi giustificata in quanto non era stata contestata l'esistenza della malattia e che l'assenza al controllo doveva ritenersi sufficientemente sanzionata con la perdita del trattamento economico di malattia. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Bolzano hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, affermando l'esistenza di una giusta causa di licenziamento. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Bolzano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui la giustificazione dell'assenza nelle fasce di reperibilità  deve essere fondata su motivi seri che determinano l'impossibilità  di osservare l'obbligo di reperibilità  e che la violazione dell'obbligo di reperibilità  alla visita medica di controllo può giustificare il licenziamento, in quanto violazione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro; la valutazione complessiva della gravità  dell'infrazione deve tener conto delle violazioni anteriori e delle sanzioni disciplinari inflitte. Quindi ' ha affermato la Corte ' al fine della giustificatezza del licenziamento, rileva la violazione di un obbligo, quale quello di reperibilità , che inficia il nesso fiduciario ex se, senza necessità  che risulti la falsità  della allegazione della malattia. La valutazione dell'incidenza di questa violazione sul vincolo fiduciario ' ha precisato la Corte ' è rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità  solo sotto il profilo della insufficienza o contraddittorietà  della motivazione, non potendo predicarsi invece un generale difetto di proporzionalità  e quindi di inidoneità  ad integrare un'ipotesi di giusta causa di licenziamento; nella specie la Corte d'Appello ha correttamente preso le mosse in diritto dal principio secondo cui la violazione dell'obbligo di reperibilità  durante le fasce orarie previste per le visite mediche ispettive costituisce ragione autonoma e sufficiente non solo per l'applicazione della conseguenza di legge automaticamente connessa (la perdita del trattamento economico, nei limiti previsti dalla cit. legge n. 683 del 1983), ma anche per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari quali il licenziamento. Nel caso in esame ' ha aggiunto la Cassazione ' è stato correttamente motivato anche il giudizio di gravità  del fatto, in quanto la Corte d'Appello ha osservato che l'inizio del periodo di congedo per malattia (il giorno 22 gennaio 2005) è stato connotato da una riconosciuta indifferenza del lavoratore rispetto all'obbligo di diligenza, atteso che egli non ebbe ad avvisare in alcun modo la datrice di lavoro e neppure si recò quello stesso giorno dal medico per munirsi della opportuna certificazione; indifferenza che aveva una particolare connotazione di gravità  stante le mansioni specifiche del lavoratore ' quelle di cuoco ' che non erano agevolmente fungibili; tutto ciò si saldava poi con la natura della patologia invalidante, successivamente certificata, che non era sicuramente tale da impedire di provvedere alla pronta e tempestiva comunicazione al datore di lavoro del luogo di provvisoria dimora e per dare ragguagli sul luogo di sua pronta reperibilità ; ciò che invece il lavoratore omise di fare fino alla data del suo rientro e cioè fino al 2 febbraio 2005.
Le ferite conseguenti a una rapina subita tornando a casa dal lavoro possono costituire infortunio indennizzabile dall'Inail
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S. S., dipendente della società  editrice del giornale «Il Mattino» come operaio addetto alle rotative,nel dicembre del 1997, mentre rientrava a casa dallo stabilimento tipografico con la propria motocicletta, a causa di uno sciopero dei mezzi pubblici, è stato affrontato da due individui che lo hanno rapinato della moto ferendolo con colpi di arma da fuoco. Egli ha chiesto al pretore di Napoli di riconoscere il suo diritto al trattamento dovuto dall'Inail per gli infortuni sul lavoro. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Napoli, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' è configurabile l'infortunio sul lavoro, in quanto la giurisprudenza è da tempo orientata nel senso che la rapina rientri nella «occasione di lavoro», ai fini della tutela antinfortunistica. Mentre nel lontano passato si era ritenuto che il fatto delittuoso dei compagni o dei terzi interrompesse qualsiasi nesso causale con il lavoro, la prospettiva è mutata a partire da Corte cost., sentenza 7 aprile 1981, n. 55, che ha dichiarato la illegittimità  costituzionale dell'art. 1 T.U. 1124, in relazione all'art. 4, n. 1 dello stesso T.U., nella parte in cui non comprende nella previsione di cui al comma 3 dell'art. 1 medesimo, le persone che siano comunque addette, in rapporto diretto con il pubblico, a servizio di cassa; la decisione è motivata sia con il processo storico di espansione dell'assicurazione obbligatoria, sia con la identità  di rischio tra l'attività  di cassa e quella prevista all'art. 1, comma 3, n. 24 per il servizio di vigilanza privata, identità  rilevante ai sensi degli artt. 3 e 38 Cost. Il maneggio di denaro ' ha osservato la Cassazione ' viene dunque a costituire una ulteriore ipotesi oggettiva di attività  protetta, alla cui luce la giurisprudenza di legittimità  ha scrutinato i casi di rapina ad essa sottoposti, operando una ulteriore duplice estensione della protezione a casi di possesso di denaro, anche fuori del luogo di lavoro, nonché di aggressione per motivi comunque di lucro, anche se non immediatamente e direttamente monetario. Cosà Cass. 13 dicembre 2000 n. 15691 ha affermato la copertura dell'infortunio subito dal gestore di un distributore di benzina (soggetto ad obbligo assicurativo quale artigiano) per effetto di un rapina perpetrata in suo danno al fine di sottrargli l'incasso della giornata, che egli custodiva presso la sua abitazione, in coincidenza con una festività . Cass. 18 gennaio 1991 n. 430 ha affermato l'indennizzabilità  dell'infortunio di un soggetto assicurato contro gli infortuni, ferito mortalmente nel corso di una rapina commessa in occasione dell'acquisto di materiale necessario per la produzione, costituente attività  strettamente connessa alla prestazione di lavoro manuale. Cass. 11 aprile 1998 n. 3747, in un caso di violento litigio seguito da morte del lavoratore, con estranei che avevano poi riportato condanna penale dalla quale risultava che volevano approfittare del materiale di cantiere, ha cassato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva escluso apoditticamente che il litigio fosse collegabile con l'attività  lavorativa. Cass. 28 gennaio 1999 n. 774 ha confermato la sentenza, che aveva affermato l'indennizzabilità  dell'infortunio (non in itinere) occorso a dipendente raggiunto da colpi di arma da fuoco mentre a bordo della propria vettura faceva ritorno alla sua abitazione, il quale era stato in precedenza aggredito e minacciato per la sua attività  di addetto agli ordini di acquisto perché «non lasciava vivere altri candidati alle forniture». Anche Cass. 23 febbraio 1989 n. 1014 ha ritenuto, nel caso di un custode (di un condominio) morto a seguito di colpi di arma da fuoco sparatigli da ignoti durante lo svolgimento della sua attività  lavorativa, che sussiste la presunzione della derivazione di detto evento da tale attività . Nella stessa logica, Cass. 21 luglio 1988 n. 4716 ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l'indennizzabilità  dell'infortunio subito dall'autista di un'impresa di autotrasporti rimasto ferito nel corso di un'aggressione a colpi di arma da fuoco ai danni del committente che era a bordo dello stesso autocarro.
Tra fratello e sorella può costituirsi un rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di retribuzione per il lavoro svolto
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M.A. G. ha lavorato per circa otto anni nello studio professionale di suo fratello G., ragioniere,provvedendo al coordinamento del personale e occupandosi della compilazione delle dichiarazioni fiscali, con presenza giornaliera dalle 9,00 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 19,30. Non è stata inquadrata come dipendente e non ha percepito alcuna retribuzione. Ella ha chiesto al Tribunale di Sciacca di accertare l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e di riconoscere il suo diritto al pagamento della retribuzione e del trattamento di fine rapporto. G. G. si è difeso sostenendo che sua sorella si era limitata a svolgere pratica professionale a titolo gratuito. Il Tribunale, dopo aver sentito le parti e alcuni testi ha condannato il convenuto a pagare a M.A. G. la somma di lire 267 milioni a titolo di retribuzione e spettanze finali, in quanto ha ritenuto che tra le parti si fosse svolto un rapporto di lavoro subordinato. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte di Appello di Palermo che ha ritenuto la domanda priva di fondamento. L'esistenza tra le parti di un rapporto di parentela ' ha osservato la Corte ' richiedeva un particolare rigore probatorio al fine di escludere che le prestazioni fossero state effettuate per spirito di liberalità  o per affetto, o ancora per interesse comune; inoltre la mancata percezione della retribuzione, protratta per un cosà lungo tempo, pur non comportando la perdita del diritto, doveva ritenersi elemento di giudizio rilevante nel senso della gratuità  della prestazione; era pertanto ragionevole che la presenza di M.A. G. nello studio del fratello potesse spiegarsi con un rapporto di praticantato. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Palermo per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. I giudici di appello ' ha osservato la Corte ' hanno omesso di valutare la attività  concretamente svolta da M.A. G. all'interno dello studio (emersa, tra l'altro, dalle testimonianze), la cui natura assumeva senz'altro rilievo decisivo ai fini della considerazione della stessa attività  all'interno o meno di un rapporto di praticantato; l'affermazione della «ragionevole spiegazione» della «presenza» di M.A. G. nello studio del fratello in ragione del «rapporto di praticantato » non è stata sufficientemente motivata, sia per la mancata valutazione della attività  concretamente svolta sia per la omessa considerazione che il rapporto di praticantato risultava sà documentato, ma non per l'intero periodo. Peraltro ' ha rilevato la Corte ' l'estensione della configurabilità  di un rapporto di praticantato ad un arco di tempo cosà lungo, neppure risulta logicamente corretta, in ragione della natura stessa del praticantato (la cui «causa» è quella di «assicurare al praticante, da parte di un professionista, le nozioni indispensabili per mettere in atto, nella prospettiva teorica ricevuta nella sede scolastica»). In tal quadro ' ha concluso la Corte ' neppure risponde a logica il rilievo decisivo attribuito ex se alla circostanza della «mancata percezione della retribuzione» «per cosà lungo tempo», dovendo tale circostanza essere valutata nell'insieme di tutti gli elementi di fatto emersi e del complesso rapporto intercorso tra le parti.
È legittimo il licenziamento del capo reparto che abbia rivolto ad alcune lavoratrici espressioni scurrili e aggressive
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Il lavoratore può rifiutare il trasferimento se è accompagnato da un demansionamento
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G. A. dipendente della Spa Imat Felco, azienda commerciale, ha svolto sino al luglio 2003 le mansioni di responsabile della filiale di Cantù con qualifica di secondo livello.Gli è stato poi comunicato il trasferimento a Como con assegnazione delle mansioni di commesso. Egli ha rifiutato di eseguire il trasferimento, sostenendo che esso avrebbe comportato un grave demansionamento, anche perché le mansioni di commesso erano proprie della qualifica di IV e V livello. Nel settembre del 2003 l'azienda lo ha licenziato con motivazione riferita al mancato adempimento alla disposizione di trasferimento. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Como, sostenendo che l'azienda, trasferendolo a Como come commesso, si era resa inadempiente all'obbligo, derivante dall'art. 2103 cod. civ., di non modificare in peggio le sue mansioni e che pertanto il suo rifiuto di dar corso al provvedimento aziendale doveva ritenersi giustificato in base all'art. 1460 cod. civ. Questa norma stabilisce che nei contratti con prestazione corrispettive ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere alla sua obbligazione, se l'altro non adempie. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore di trasferirsi da Cantù a Como motivato con il fatto che l'esercizio delle nuove mansioni avrebbe costituito un demansionamento, costituiva una grave inadempienza, poiché, da un lato, di demansionamento si poteva parlare solo in caso di esercizio delle mansioni, dall'altro il ricorrente aveva reagito al trasferimento con l'autotutela, strumento non consentito dalla legge, anche a fronte della rassicurazione del datore di lavoro circa l'equivalenza delle mansioni (equivalenza, in ogni caso, ritenuta dal Tribunale). Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Milano che, in base alle risultanze documentali (in particolare la corrispondenza interna tra le parti), alle deposizioni dei testi e alle declaratorie contrattuali relative a qualifiche e mansioni, ha ravvisato che al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento e pertanto ha ritenuto giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore alla disposizione aziendale. La società  ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui «l'illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell'assegnazione del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 cod. civ., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a buona fede». Il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione «inadimplenti non est adimplendum» ' ha affermato la Corte ' deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità  rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità  se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; non si può ritenere che sussista una presunzione di legittimità  dei provvedimenti aziendali, che imponga l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio. La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte ', esaminate attentamente le risultanze documentali (in specie la corrispondenza intercorsa) e testimoniali nonché le declaratorie contrattuali, ha correttamente concluso che risultava provato in causa che al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento.
Una prestazione amatoriale di canto lirico può ritenersi compatibile con la malattia del dipendente se non ritarda la guarigion
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M. S., dipendente della Casa di Cura Città  di Milano Spa si è assentata dal lavoro il 14 maggio 2001 per coliche addominali recidivanti.Il medico le ha prescritto un periodo di riposo di dodici giorni, dal 14 al 26 maggio. Il 17 maggio ella ha partecipato in Roma a una trasmissione televisiva «Fatti Vostri» durante la quale si è esibita come cantante lirica dilettante. Dopo aver subito, il 23 maggio, una visita medica di controllo, che le confermava l'originaria prognosi, ella ha ripreso servizio alla data prevista. L'azienda l'ha sottoposta a procedimento disciplinare e l'ha licenziata con l'addebito di essersi avvalsa, per assentarsi dal lavoro, di una certificazione di malattia non attestante il vero. La lavoratrice ha chiesto al Tribunale di Milano di annullare il licenziamento sostenendo di essere stata effettivamente malata e di non avere aggravato la malattia con la partecipazione alla trasmissione televisiva. Ella ha prodotto una cartella clinica comprovante che nel periodo dell'assenza si stava sottoponendo a un ciclo di pratiche Hiv ed una relazione del Centro di medicina della riproduzione attestante che la addominalgia diagnosticata era una conseguenza normale di un prelievo di ovociti, mentre il periodo di astensione dall'attività  lavorativa era compatibile con attività  non richiedenti eccessivo dispendio di energie psicofisiche. L'azienda si è difesa sostenendo che, quanto meno, doveva ritenersi che la malattia fosse cessata il 17 maggio, giorno della prestazione artistica e che pertanto la lavoratrice avrebbe dovuto por termine dell'assenza di malattia e chiedere un permesso per recarsi a Roma. Il Tribunale, dopo aver sentito come teste un rappresentante del Centro di medicina della riproduzione, ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto fondata la motivazione del licenziamento. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Milano, che ha ritenuto veritiera la certificazione medica anche perché supportata dalla cartella clinica attestante il ciclo di terapia Hiv cui la lavoratrice si stava sottoponendo, nonché dalla visita di controllo avvenuta dopo la prestazione dell'attività  amatoriale. La Corte ha inoltre accertato che il viaggio a Roma non aveva comportato affaticamento e che lo sforzo richiesto per la prestazione canora svolta dalla lavoratrice nel corso della trasmissione televisiva poteva essere agevolmente sostenuta grazie alla sua esperienza trentennale come cantate lirica amatoriale; pertanto la Corte ha annullato il licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui deve ritenersi compatibile con lo stato di malattia l'esercizio di attività  lavorative e non (amatoriali, hobbistiche e persino sportive) allorché non pregiudichino la guarigione ovvero la sua tempestività  e rilevando che la Corte di Milano ha correttamente motivato la sua decisione in base alle risultanze istruttorie; una volta escluso il pregiudizio per la pronta ripresa del lavoro ' ha osservato la Cassazione ' il carattere amatoriale della prestazione artistica da parte di una persona avvezza a cantare anche in teatro doveva ritenersi espressione dei diritti della persona, con esclusione della violazione, da parte della lavoratrice, dei principi di correttezza e buona fede.
Selezione dei gestori delle risorse dei fondi pensione
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L'Autorità  garante ha formulato alcune osservazioni in merito alle modalità  con le quali starebbero per essere attuate le indicazioni dettate dalla Covip,con deliberazione del 9 dicembre 1999, in materia di istruzioni per il processo di selezione dei gestori delle risorse dei fondi pensione. A fronte dei due modelli tipizzati dal legislatore per l'erogazione delle rendite ' convenzionata e diretta (artt. 6, comma 3 e 7-bis, d.lgs. n. 252/2005) ', gli organismi di amministrazione dei fondi pensione negoziali stanno individuando, a livello associativo, un possibile schema operativo per definire le procedure di individuazione e selezione delle imprese di assicurazione per l'erogazione delle rendite. In particolare l'Associazione dei fondi pensione negoziali starebbe adottando delle c.d. Linee guida per la definizione di un «Bando comune». Tali Linee guida sarebbero volte, in nome e per conto dei fondi pensione soci, alla elaborazione di un unico modello di bando di gara che vedrebbe aggregati tutti i fondi aderenti dal lato della domanda al fine di pervenire alla selezione della (delle) compagnia( e) assicurativa(e) in grado di fornire le diverse tipologie di rendite vitalizie ed annue immediate richieste. L'Autorità  critica questa modalità  di effettuazione della selezione del soggetto gestore delle risorse dei fondi in quanto l'aggregazione della domanda, se non giustificata da esigenze economiche e/o tecniche, elimina il confronto competitivo per effetto della notevole contrazione nel numero di partecipanti. Al contrario la previsione di più lotti, quindi la possibilità  di partecipazione anche per una parte del servizio da erogare, appare rilevante in una prospettiva di incentivazione alla concorrenza tra compagnie assicurative; cosà come di rilievo sembra essere la possibilità  di accesso tanto ad imprese di assicurazione italiane che internazionali. Analogamente, l'eventuale richiesta nel bando di garantire il soddisfacimento dei requisiti ' in termini di raccolta premi nel passato/capitale ', da parte di ogni singola impresa di assicurazione partecipante alla gara in forma aggregata con più compagnie, farebbe venire meno la giustificazione stessa dell'ammissione del raggruppamento temporaneo di imprese, comprimendo ingiustificatamente la concorrenza tra imprese interessate al servizio di gestione delle risorse dei fondi. L'Autorità  ha quindi auspicato che possano essere adottate idonee azioni ed iniziative, sia da parte di Covip che da parte della stessa Associazione dei fondi negoziali, volte a garantire che i bandi di gara, pur nel rispetto delle esigenze della domanda espressa dai fondi pensione, contengano condizioni di partecipazione in linea con l'obiettivo di massimo confronto competitivo.
Sciopero degli autotrasportatori e oneri delle associazioni di categoria di dissuasione di comportamenti individuali illegittimi
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La Commissione ha valutato negativamente il comportamento di sindacati degli autotrasportatori Cna Fita,Confartigianato Trasporti, Conftrasporto Fai, Conftrasporto Fiap, Conftrasporto Unitai e Sna Casartigiani, con riferimento al «fermo nazionale dei servizi di autotrasporto di cose», dalle ore 00.00 del 10 dicembre 2007 alle ore 24.00 del 14 dicembre 2007. La Commissione ha preliminarmente rilevato che l'astensione collettiva degli autotrasportatori è assoggettata sia al disposto dell'art. 2- bis della legge n. 146 del 1990 che impone che, qualora incida sulla funzionalità  dei servizi pubblici di cui all'art. 1 della stessa legge, deve esser esercitata nel rispetto di misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili, sia alle disposizioni del «Codice di autoregolamentazione dell'esercizio dello sciopero nel settore dell'autotrasporto in conto terzi» del 20 giugno 2001, valutato idoneo da questa Commissione con delibera n. 1/93 del 19 luglio 2001 (pubblicato in GU n. 179 del 3 agosto 2001) e pertanto dotato di efficacia erga omnes. All'art. 3 di detto codice sono elencati i servizi che devono essere assicurati (tra i quali è in particolare compreso il «trasporto di tutti i prodotti destinati a ospedali, farmacie, ricoveri, mense, scuole, cliniche, case di cura», nonché il trasporto di «carburante alla rete di pubblico approvvigionamento, nella misura del 50%, che si realizzerà  tramite il concorso degli automezzi in disponibilità  del conto proprio»), disponendo altresà che «la proclamazione della protesta non dovrà  prevedere l'effettuazione di blocchi stradali o di iniziative già  sancite e sanzionate dal codice della strada in materia di circolazione stradale» (art. 6). La Commissione, nella delibera di valutazione di idoneità  del Codice di autoregolamentazione, aveva già  espressamente chiarito che sono ricomprese nelle fattispecie previste dall'art. 6 del Codice «anche le pratiche di rallentamento e quant'altro venga a turbare ai fini dell'azione collettiva la circolazione stradale» (punto 10 del «considerato» della delibera n. 01/93 del 19 luglio 2001). Nel caso di specie queste previsioni sono state ritenute dalla Commissione violate dalle associazioni degli autotrasportatori in quanto è stato documentato dall'ordinanza ministeriale di precettazione e dai rapporti delle Prefetture e delle Questure, nonché dai telegiornali, che nei giorni della protesta si è avuta sull'intero territorio nazionale una paralisi dell'autotrasporto, nel corso della quale, tra le prestazioni indispensabili previste dal codice di autoregolamentazione, non è stato garantito, in particolare, il rifornimento del carburante; inoltre, a seguito di presidi e di blocchi stradali, si è compromessa la libertà  di circolazione. La Commissione ha respinto le difese delle associazioni di categoria secondo cui tali comportamenti sarebbero imputabili soltanto individualmente agli autotrasportatori che li hanno posti in essere in quanto, ad avviso della Commissione, deve ritenersi che, una volta proclamato uno sciopero o un'astensione collettiva, debba almeno configurarsi un dovere di influenza sui singoli aderenti per indurli al rispetto delle regole poste a presidio dei diritti fondamentali della persona; e, in proposito, nel caso in esame non solo non risulta svolta alcuna azione dissuasiva (tanto meno sanzionatoria, nella forma di sanzioni disciplinari interne) nei confronti dei singoli aderenti all'illegittima astensione, in violazione delle disposizioni in ipotesi impartite dalle organizzazioni sindacali; ma, dalle notizie comparse sui giornali e sulle agenzie di stampa, nonché da interviste rilasciate, e mai smentite, dai responsabili sindacali, risulta la piena condivisione dell'azione di protesta da parte dei responsabili nazionali. Nessun pregio è stato attribuito alla pretesa non vincolatività  del Codice di autoregolamentazione dell'autotrasporto per conto terzi nei confronti delle associazioni di categoria che non lo avevano sottoscritto poiché, a seguito di valutazione di idoneità  da parte della Commissione, il suddetto Codice ha acquistato un'efficacia generalizzata. Né ha alcuna rilevanza il fatto che sulla delibera di valutazione di idoneità  penda impugnazione avanti il Consiglio di Stato, fino a che non intervenga un'eventuale pronuncia definitiva di annullamento.
Ripetizione delle procedure di raffreddamento e conciliazione
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La Commissione, con riferimento alla regola della ripetizione delle procedure di raffreddamento e conciliazione,ha espresso un diverso orientamento rispetto a quello precedentemente formulato con la delibera n. 04/557, con la quale aveva originariamente ritenuto «di segnalare la [â?¦] violazione solo nei casi in cui i motivi posti a fondamento della vertenza facciano ritenere utile la ripetizione delle procedure medesime considerando, altresà, il tempo intercorrente dalla precedente effettuazione del tentativo di conciliazione». La Commissione ha precisato che questa precedente delibera era stata adottata nel presupposto della non operatività  del principio di concentrazione tra azioni di sciopero, e cioè quando l'individuazione di un giorno per il quale proclamare una astensione collettiva nel rispetto della regola della rarefazione si rivelava particolarmente difficoltosa. A seguito dell'interpretazione dell'art. 16 della Regolamentazione provvisoria del settore del trasporto aereo fornita dalla stessa Commissione con le delibere del 14 giugno 2006 e 5 luglio 2006 è invece venuto meno questo presupposto su cui si fondava detta delibera n. 04/557. Pertanto la Commissione ha deliberato di ritenere non più applicabile il principio ivi sancito e di stabilire il nuovo principio secondo cui, in caso di scadenza del termine di validità  delle procedure di raffreddamento e conciliazione, la proclamazione dello sciopero senza la rinnovazione delle procedure deve ritenersi comunque irregolare, indipendentemente dai motivi posti a fondamento della vertenza.
Periodo di franchigia
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l'autorità  garante è intervenuta ancora una volta sull'esercizio del diritto di autotutela e sui limiti di tale esercizio nei vari spazi temporali.Con una delibera di indirizzo ha infatti chiarito che anche nel periodo di franchigia possono essere adottate le proclamazioni di sciopero.
Insolvenza datore lavoro – Indennità per licenziamento irregolare – Pagamento subordinato ad adozione di decisione giudizia
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Periodi di riscossione di prestazioni familiari in un altro Stato membro non presi in considerazione
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L'art. 3, n. 1, del regolamento 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità , osta a che uno Stato membro rifiuti di prendere in considerazione, ai fini della concessione di una prestazione familiare quale l'assegno austriaco per la cura dei figli, il periodo di riscossione di un'analoga prestazione in un altro Stato membro allo stesso modo che se tale periodo fosse stato compiuto nel proprio territorio. Infatti, il principio di non discriminazione, come sancito all'art. 39, n. 2, Ce e concretizzato, in materia di previdenza sociale dei lavoratori migranti, dall'art. 3, n. 1, del regolamento n. 1408/71, vieta non solo le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza dei beneficiari dei regimi di previdenza sociale, ma anche le discriminazioni dissimulate, di qualsiasi forma, che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervengano in concreto allo stesso risultato. Devono essere giudicate indirettamente discriminatorie le condizioni poste dall'ordinamento nazionale che, benché indistintamente applicabili secondo la cittadinanza, riguardano essenzialmente o in gran parte i lavoratori migranti nonché le condizioni indistintamente applicabili che possono essere soddisfatte più agevolmente dai lavoratori nazionali che dai lavoratori migranti o che rischiano di essere sfavorevoli, in modo particolare, per i lavoratori migranti.
Politica sociale – Nozione di «lavoratrice gestante» – Divieto di licenziamento
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Pubblico impiego – Progressione orizzontale – Difetto di integrità del contraddittorio – Condizioni
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Mobbing – Configurabilità – Danno patrimoniale, biologico e morale – Risarcimento
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Inquadramento mansioni superiori – Promozione automatica – Insussistenza
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Licenziamento per G.M.O. - Giudizio di rinvio dalla Cassazione – Limiti del giudice di rinvio
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Dirigente – Legittimità del trasferimento – Controllo giudiziale – Limiti
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Trasferimento del lavoratore – Accertamento intento persecutorio del datore di lavoro – Esclusione ipotesi di mobbing
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Part-time – Spostamento dal servizio 12 al 187 con aumento dell’orario di lavoro e della sua collocazione temporale
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Risarcimento del danno da perdita di chances subito dal lavoratore
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L'Università  di Parma, dopo aver stabilito con decreto rettorale che determinati incarichi di responsabilità sono da conferire «di norma» a personale appartenente alla cat. EP (elevate professionalità ), conferisce invece un posto di responsabilità , temporaneamente vacante, ad un dipendente di categoria inferiore. Altro dipendente di cat. EP reagisce giudizialmente. Il giudice, se da un lato nega che il lavoratore abbia diritto all'assegnazione dell'incarico (in analogia a quanto la giurisprudenza ' Cass. 6 aprile 2005 n. 7131 ' ritiene per i dirigenti), dall'altro afferma che la norma regolamentare andava rispettata, pur se l'incarico era provvisorio, quel «di norma» consentendo eccezioni, ma solo se adeguatamente giustificate (con onere della prova a carico del datore di lavoro). Condanna perciò l'Università  a risarcire il danno da perdita di chances subito dal lavoratore, in misura pari al 75% della differenza minima fra le retribuzioni percipiende e quelle percepite.
Annullabilità delle dimissioni per incapacità naturale del dichiarante – Illegittimità del successivo licenziamento
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Genercità della causale del contratto di somministrazione per mancanza di specificazione in relazione al contratto di fornitura
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Un lavoratore aveva prestato la sua attività  alle formali dipendenze della Worknet Agenzia per il Lavoro spa con contratto a termine(dal 12 ottobre 2004 all'11 aprile 2005, poi prorogato sino al 11 ottobre 2005), ai sensi dell'art. 20 del d.lgs.276/2003, per essere posto a disposizione di Tim Italia Spa, richiamando un contratto di somministrazione tra Worknet e Tim Italia Spa (poi Telecom Italia Spa). La motivazione addotta dalla società  era «fabbisogni di maggiore organico connessi a situazioni di mercato congiunturali e non consolidabili». Era seguito poi un «nuovo» contratto di somministrazione, che nella lettera di assunzione era del tutto privo di motivazione. Il lavoratore ha convenuto in giudizio Telecom Italia Spa, quale incorporante di Tim Italia Spa, chiedendo dichiararsi nullo il contratto di somministrazione intercorso e accertarsi l'esistenza di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dirette dipendenze della società  utilizzatrice. A sostegno della domanda rilevava l'applicabilità , espressamente prevista dall'art. 22 del d.lgs. 276/03, della disciplina del d.lgs. 368/01 al contratto tra prestatore di lavoro e somministratore, e la espressa previsione dell'art. 27, comma 2, del medesimo d.lgs. secondo cui tutti gli atti compiuti dal somministratore per la «costituzione» o la «gestione» del rapporto di lavoro si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, con la conseguenza della applicabilità  allo stesso utilizzatore della sanzione prevista dall'art. 1, comma 2, del d.lgs. 368/2001. Secondo il lavoratore la motivazione allegata al contratto (quella prevista dalla contrattazione collettiva e all'epoca vigente per effetto della previsione dell'art. 86, comma 3, del d.lgs. 276/03) era formula generica, dalla quale non potevano rilevarsi le ragioni oggettive e specifiche che potevano giustificare la somministrazione del lavoratore, e conseguentemente il termine doveva essere dichiarato nullo, con effetto nei confronti della società  utilizzatrice. Il Tribunale di Bologna accoglie la domanda rilevando che la causale del contratto collettivo era esattamente riprodotta, senza ulteriori specificazioni, nell'originario contratto di somministrazione intercorso tra Worknet e Telecom, ed era clausola generale, che avrebbe dovuto essere specificata in relazione al singolo contratto di fornitura, con deduzione della situazione che potesse giustificarla. Rileva il giudice che la disposizione dell'art. 21 del d.lgs. 276/03, nella parte in cui richiede che nel contratto di somministrazione siano indicate le ragioni di carattere produttivo, organizzativo o sostituito che lo giustificano, indica un requisito di contenuto-forma del contratto, dalla cui omissione deriva, ai sensi del comma 4 del medesimo articolo, la nullità  del contratto di somministrazione e la costituzione di un rapporto alle dipendenze dell'utilizzatore, a nulla valendo la eventuale successiva specificazione in giudizio delle ragioni giustificative del contratto. La decisione in esame è quindi conforme, nel valutare la fattispecie della somministrazione a termine ' che ha sostituito la abrogata disciplina della legge 196/97 ' all'orientamento già  espresso per i contratti stipulati nella vigenza della legge 196/97.
Successione di contratti di lavoro interinale e di somministrazione a tempo determinato
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Domenica D. aveva prestato la sua attività  presso Poste italiane Spa alle formali dipendenze della Ali Spa con contratto di lavoro interinale(dal 2 gennaio 2003 al 30 aprile 2003, poi prorogato sino al 30 settembre 2004) e poi con due contratti di somministrazione a tempo determinato (sino al 31 gennaio 2006). La motivazione addotta dalla società  per l'utilizzazione con il primo contratto di lavoro interinale era: «Temporanea utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi». La lavoratrice conveniva in giudizio Poste italiane Spa, chiedendo dichiararsi nulli i contratti di lavoro interinale e di somministrazione intercorsi e accertarsi l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dirette dipendenze della società  utilizzatrice. La ricorrente inoltre richiedeva l'inquadramento sin dall'inizio del rapporto di lavoro nel livello D, in qualità  di addetto senior, e non nel livello E ' addetto junior assegnato alla lavoratrice nei contratti di lavoro. A sostegno della domanda la ricorrente osservava, quanto al contratto di lavoro interinale, l'insussistenza della causale ' con la conseguenza della nullità  del contratto e della costituzione del rapporto direttamente con Poste italiane ' perché la lavoratrice veniva utilizzata in mansioni appartenenti al normale ciclo produttivo del Cmp; quanto all'inquadramento, la ricorrente sosteneva che, dall'accertamento del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, discendeva la conseguenza automatica dell'inquadramento nel livello D che i dipendenti di Poste acquisiscono dopo 24 mesi di permanenza nelle stesse mansioni. Il Tribunale di Bologna accoglie la domanda rilevando che la causale del contratto di lavoro interinale non era esistente in concreto, dal momento che la ricorrente era stata impiegata al reparto Ripartizione arrivi del Cmp, svolgendo mansioni che attengono all'ordinario processo produttivo della società  e che, comunque, la società  non aveva fornito la prova scritta del contratto di fornitura di lavoro temporaneo intercorso con Ali Spa. Di conseguenza il contratto di lavoro interinale è stato dichiarato nullo ai sensi dell'art. 1, comma secondo della legge 196/1997. Infine il giudice riconosce alla lavoratrice il diritto all'inquadramento nel livello D con la qualifica di Addetto Crp Senior, in quanto dovendo ritenersi il rapporto di lavoro costituito a tempo indeterminato dal 2003, la ricorrente aveva maturato il requisito di 24 mesi di svolgimento delle stesse mansioni, previsto dal Ccnl applicabile, per acquisire il diritto al superiore livello.
Contratti di lavoro interinale e di somministrazione a tempo determinato - Mancanza di prova scritta valutazione dei rischi
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C. D. aveva prestato la sua attività  alle formali dipendenze della Vedior Agenzia per il lavoro Spa con tre distinti contratti di somministrazione a tempo determinato(dal 2 aprile 2005 al 30 giugno 2005; dal 1° luglio 2005 al 30 settembre 2005; dal 7 febbraio 2006 al 30 aprile 2006) e poi con un contratto a tempo determinato stipulato direttamente con Poste italiane (dal 2 maggio 2006 al 31 maggio 2006 sino al 31 gennaio 2006). Il lavoratore conveniva in giudizio Poste italiane Spa, eccependo, tra l'altro, la violazione dell'art. 20, comma 5, lett. c) del d.lgs. 276/2003 che vieta la stipulazione di contratti di somministrazione da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 626/1994. Il Tribunale di Parma accoglie la domanda rilevando che l'onere della prova relativo all'effettuazione della valutazione dei rischi dell'unità  produttiva presso cui il lavoratore è adibito spetta all'utilizzatore e che tale onere, nel caso di specie, era stato disatteso. Il giudice infatti ritiene i documenti prodotti da Poste italiane inidonei a provare l'effettuazione della valutazione dei rischi in quanto documenti formatisi successivamente alla sottoscrizione del contratto di lavoro. Analogamente, il Tribunale esclude che la prova in questione possa ricavarsi dai contratti di somministrazione intercorsi tra utilizzatore e agenzia fornitrice in quanto contenenti una mera dichiarazione di provenienza della parte interessata (Poste italiane) che afferma di aver compiuto la valutazione dei rischi. Di conseguenza, il giudice ha dichiarato il contratto di lavoro somministrato illegittimo, in quanto stipulato al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui all'art. 20 d.lgs. 276/2003, con la conseguenza dell'instaurazione, sin dall'inizio, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore, e con la condanna di Poste italiane a corrispondere al ricorrente le retribuzioni non percepite dalla data dell'offerta formale delle prestazioni lavorative. Rimane invece esclusa ' ad avviso del Tribunale ' l'applicabilità , al caso di specie, dell'art. 18 legge 300/1970.
Contratto a termine – Nullità del termine – Conseguenze – Risarcimento del danno – Tempestività della messa in mora
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Nullità contratto a termine e relativa proroga – Illegittimità licenziamento, reintegrazione e risarcimento danni
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In sede di giudizi premiali per l’avanzamento in carriera l’attività sindacale non si può equiparare all’attività di la
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La cessione di un ramo di azienda al fine di eludere la normativa sui licenziamenti costituisce un negozio in frode alla legge
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Un'azienda di un noto gruppo commerciale che gestisce una catena di negozi effettuava una procedura di affitto di un ramo di aziendaall'interno del quale erano addetti alcuni lavoratori trasferendo un proprio punto vendita ad un'altra azienda. A seguito della cessione l'attività  commerciale veniva sospesa dall'azienda subentrante mentre venivano effettuati alcuni lavori di ristrutturazione dei locali che non risultavano, tuttavia, pagati dall'azienda subentrante nonostante la stessa risultasse titolare dell'azienda. A seguito della ristrutturazione il contratto di affitto di ramo di azienda veniva risolto senza che l'azienda affittuaria avesse pagato alcun canone e senza alcuna reciproca pretesa tra le parti contraenti. A seguito della risoluzione del contratto di affitto l'azienda conduttrice del ramo aziendale, caratterizzata da un livello occupazionale che escludeva la tutela reale, senza aver mai ripreso l'attività  di gestione risolveva tutti i rapporti di lavoro. Il punto vendita veniva quindi dopo la ristrutturazione riaffittato ad altra azienda del gruppo che assumeva alcuni lavoratori. Sulla base di tale complessa vicenda i lavoratori non riassunti adivano il Tribunale di Vicenza al fine di vedere dichiarare la nullità  dell'affitto del ramo di azienda in quanto negozio in frode alla legge. La domanda veniva accolta nel corso dei giudizi di merito e la decisione della Corte di Appello veniva confermata in sede di legittimità . La Corte di Cassazione, pur dando atto che il negozio in frode della legge non può ritenersi per il solo fatto che il contratto di cessione venga formalizzato con un soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle conoscenze del caso concreto renda probabile la cessazione dell'attività  lavorativa, ha tuttavia ritenuto che nel caso in esame correttamente i giudici di merito avessero motivato che le parti avessero posto in essere un negozio allo scopo di eludere la disciplina di cui all'art. 18 legge 300/70. Le circostanze in fatto evidenziate nella sentenza permettevano di ritenere che il contratto di affitto era stato realizzato al solo scopo di evitare l'applicazione di una norma imperativa rendendo in tal modo la causa negoziale del tutto illecita.
Indennizzo da emotrasfusione
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L'assenza di infezioni in atto a carico del soggetto che ha contratto, a causa di trasfusioni, la epatite Hcv positiva,pur non comportando l'ascrivibilità  della patologia ad una delle categorie previste dalla tabella A allegata al d.P.R. 834/1981, dà  comunque diritto all'indennizzo previsto dagli artt. 1 e 2 della legge 25 febbraio 1992 n. 210 come modificata dall'art. 1 della legge 25 luglio 1997 n. 238. Ciò è quanto sancito dalla Corte di Appello di Bologna in applicazione del recente orientamento della Corte di Cassazione (sentenza della sezione lavoro n. 10214 del 4 maggio 2007) che ha ampliato i confini della tutela riconosciuta ai soggetti che hanno subito danni irreversibili a causa di infezioni contratte a seguito di trasfusioni. Ribadisce la Corte di Appello che detto ampliamento discende da una lettura costituzionalmente orientata (in relazione ai parametri generali fissati negli artt. 2 e 32 della Costituzione) della normativa di tutela contenuta nella legge n. 210 del 1992 riferita ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderivati, che consente di riconoscere l'indennizzo, previsto dalla citata legge 210 in favore dei sopraindicati soggetti, in tutti i casi di lesione permanente dell'integrità  psicofisica, cioè della salute come tale, indipendentemente dall'incidenza sulla capacità  di produzione di reddito. Conseguentemente, per la Corte di Appello, deve essere riconosciuto il diritto all'indennizzo in questione, che ha carattere assistenziale e non è comparabile perciò con il risarcimento del danno, anche al soggetto affetto da contagio Hcv che, pur in assenza di sintomi e pregiudizi funzionali attuali, determina sicuramente un danno permanente alla salute, dovendosi intendere il richiamo alla tabella A allegata al d.P.R. 834/1981 semplicemente quale prescrizione dei criteri di massima finalizzati alla liquidazione.
La perdita di chances costituisce una concreta entità economica che deve essere compiutamente provata
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Una lavoratrice a seguito di un annullamento di una graduatoria di concorso pubblico nel quale era risultata vincitricevedeva ritardata la costituzione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione con il solo riconoscimento della data di pubblicazione della graduatoria ai soli fini giuridici. La lavoratrice promuoveva un ricorso innanzi al Tribunale di Torino al fine di vedere riconosciuto il risarcimento del danno da perdita di chances. La domanda veniva respinta sia in primo che in secondo grado con decisione confermata in sede di legittimità  sul presupposto che nessuna prova era stata concretamente fornita dalla lavoratrice. La Suprema Corte, nel respingere il ricorso di legittimità  della dipendente ha affermato che la perdita di chances costituisce un'entità  patrimoniale a sé stante giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e non già  una mera aspettativa di fatto. Sulla base di tale rilievo i giudici di legittimità  hanno confermato la decisione che aveva ritenuto non adeguatamente provata la richiesta affermando che il lavoratore ha l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità , la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.
La rilevanza della presunzione ai fini del danno da dequalificazione per particolari professionalità
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Un lavoratore assunto quale programmatore sulla base di un concorso alle dipendenze di una azienda municipale di trasportiveniva assegnato a mansioni del tutto diverse e di minor profilo professionale. Nel corso di un giudizio per il risarcimento del danno sia il Tribunale che la Corte territoriale di Catania riconoscevano il danno che liquidavano in via equitativa nella misura del 25% della retribuzione per i primi 12 mesi e del 40% per i mesi successivi. Nel respingere il giudizio di legittimità  interposto dall'azienda la Corte di Cassazione ha ritenuto la correttezza argomentativa della sentenza della Corte di Appello rilevando che il danno non era stato ritenuto dai giudici di merito in re ipsa ma adeguatamente motivato sul rilievo della mancata acquisizione di una maggior capacità . Il danno ' conclude la Corte ' appare evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni, come quella del caso in esame, soggette ad una continua evoluzione e richiedenti quindi continui aggiornamenti, come si verifica in materia di tecnologia informatica trattandosi di un settore in costante sviluppo, che presuppone un assiduo aggiornamento tecnico, nonché una attività  pratica di impiego dei diversi programmi applicativi.
Limiti al diritto del lavoratore disabile al mantenimento dell’iscrizione nelle liste di collocamento
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È interamente a carico del datore di lavoro l’onere di pagare i contributi tardivamente versati
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I massaggiatori di una squadra di calcio non rientrano nella legislazione speciale del lavoro sportivo
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Un massaggiatore di una squadra di calcio veniva assunto a termine per alcune stagioni calcistiche sulla base della normativa speciale del lavoro sportivo.A seguito di un mancato rinnovo del contratto il lavoratore adiva il magistrato del lavoro che con sentenza confermata in sede di appello vedeva dichiarato nullo il termine apposto al proprio rapporto lavorativo sul presupposto che la speciale normativa del lavoro sportivo non poteva essere legittimamente invocata dalla squadra di calcio non rientrando la figura professionale svolta dal dipendente tra quelle indicate dalla legge. La Suprema Corte nel respingere il gravame della società  ha confermato la decisione del Collegio messinese ritenendo, diversamente da quanto opinato da parte della dottrina, che l'elencazione delle figure professionali indicate nella legge assume un carattere tassativo e non esemplificativo. Osserva, infatti, la Suprema Corte che l'elencazione deve considerarsi tassativa per avere il legislatore adoperato non espressioni generiche, tali da permettere una classificazione dell'art. 2 in termini di norma aperta. L'applicazione analogica della norma non può infine essere invocata in quanto la disciplina del lavoro sportivo costituisce una norma eccezionale né può essere estesa al massaggiatore sulla base di una interpretazione estensiva stante la profonda diversità  delle professionalità  indicate rispetto a quella caratterizzante il massaggiatore.
Rito del lavoro e processo societario
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Il rito del lavoro prevale su quello societario in caso di procedimenti connessi.Con questa importante sentenza, quindi, la Corte fa giustizia del tentativo di far prevalere il meno garantista rito commerciale su quello lavoristico in caso si discuta dei diritti dei lavoratori. In sostanza la Corte ha stabilito che, nelle ipotesi di connessione del rito societario con un altro tipo di procedimento civile, vanno applicati i normali criteri di determinazione del rito precisati dall'articolo 40 del codice di procedura civile, che sancisce la prevalenza del rito del lavoro su quello societario. D'altra parte, la scelta di privilegiare il rito societario operata dal legislatore delegato non trova alcun appiglio rispetto ai criteri della legge delega n. 366 del 2001, per cui la norma impugnata deve considerarsi illegittima per eccesso di delega (art. 76 Cost.).
Doppia indennità integrativa speciale
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La Corte dei Conti della Sicilia (n. 13/07) ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità  dell'art. 1, comma 774, della legge n. 296/06,il quale fornisce l'interpretazione autentica dell'art. 1, comma 41, della legge n. 335/95 precisando che, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, sulle pensioni di reversibilità  ad esse correlate, sorte dopo l'entrata in vigore della legge n. 335/95, l'indennità  integrativa speciale va attribuita in misura percentuale e non in misura intera. La questione sollevata dalla magistratura siciliana, alla quale nel frattempo si era aggiunta anche un'ordinanza di rinvio della Corte dei Conti della Puglia, riguardava l'efficacia retroattiva del nuovo dettato normativo che, a parere dei giudici contabili, presentava tutte le caratteristiche di una norma di natura innovativa piuttosto che interpretativa e, come tale, non poteva che trovare applicazione limitatamente alle prestazioni di reversibilità  liquidate a seguito di decesso del dante causa, già  titolare di pensione diretta ante 1995, avvenuto successivamente all'entrata in vigore della legge (1° gennaio 2007). Per i giudici rimettenti, l'applicazione ex tunc della norma costituisce violazione del principio di ragionevolezza al quale il legislatore deve sempre attenersi al fine di garantire la certezza dei rapporti giuridici, a maggior ragione quando si tratta di norme che vanno ad incidere su situazioni di diritto soggettivo come il trattamento di pensione. Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale si è pronunciata dichiarando infondati i rilevi di costituzionalità  sollevati dalle due sezioni della Corte dei Conti. In primo luogo, il giudice delle leggi ha riaffermato il principio, già  espresso con la sentenza n. 446/02, della indipendenza del trattamento di reversibilità  rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta del dante causa. Partendo proprio dall'assunto che il diritto alla pensione di reversibilità  è un diritto autonomo che sorge soltanto al momento del decesso del titolare di pensione diretta, la Corte costituzionale non ha ritenuto di ravvisare elementi di irragionevolezza nel carattere interpretativo-retroattivo della norma, destinata ad incidere su prestazioni pensionistiche di reversibilità  non ancora in essere al momento dell'entrata in vigore della legge n. 335/95. Viene dunque rigettata la tesi della lesione del principio dell'affidamento nella certezza giuridica, atteso che la efficacia retroattiva ha toccato situazioni non sostanzialmente definite in base a previgenti disposizioni di legge (c.d. diritti quesiti), bensà prestazioni potenziali, il cui diritto si è definitivamente costituito in un contesto normativo modificato. Peraltro, considerato che la norma impugnata ha dato luogo ad un atteggiamento giurisprudenziale non univoco, il legislatore, a detta della Corte costituzionale, con il suo intervento altro non ha fatto che optare per una delle possibili interpretazioni, ritenuta maggiormente rispondente all'originario spirito perequativo della legge, con la quale si è voluto estendere anche alle gestioni pensionistiche amministrate dall'Inpdap la disciplina delle pensioni ai superstiti spettante ai lavoratori iscritti all'assicurazione generale obbligatoria.
Patto di stabilità e assunzione a tempo determinato nelle Regioni
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È incostituzionale la norma della Finanziaria 2007 che aveva fissato,per le Regioni e Province autonome che avessero voluto assumere personale a tempo determinato, una quota non inferiore al 60% dei posti di lavoro da riservare ai collaboratori. La Corte costituzionale ha quindi ritenuto che, nel caso di patto di stabilità  interno, l'intervento dello Stato, non essendo rivolto verso un contenimento della spesa pubblica bensà ai criteri di assunzione del personale, deve ritenersi illegittimo per violazione dell'articolo 117 della Costituzione. Non trattandosi di «principi di coordinamento della finanza pubblica», bensà di una interferenza nella potestà  legislativa «residuale» delle regioni in materia di «organizzazione amministrativa» degli uffici, la Corte ha accolto il ricorso della Provincia autonoma di Trento.
Regioni e disciplina delle professioni
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Ancora una decisione di illegittimità  costituzionale nei confronti di una normativa regionale che individua e disciplina nuove professioni,in questo caso i «bionaturisti». Come è noto, infatti, la materia delle «professioni» è tra quelle che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione assegna alla potestà  normativa concorrente tra Stato e Regioni. Nel caso in cui, come nella specie, non vi sia una normativa dello Stato che individui i principi fondamentali da applicare ad una determinata professione, la normativa regionale non può che essere dichiarata incostituzionale per violazione del citato articolo del novellato Titolo V della Costituzione.
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