Descrizione
La Corte costituzionale ripristina la prevalenza del rito del lavoro su quello societario Rilevanza della presunzione nella prova del danno da dequalificazione per particolari professionalità I Tribunali di Bologna e di Parma su casi di lavoro interinale e di somministrazioneIl dipendente della P. A. non ha diritto al risarcimento dei danni per l’assegnazione a mansioni inferiori a quelle precedenti
Il licenziamento per cumulo di assenze-malattia può ritenersi illegittimo se il lavoratore ha prestato servizio dopo il comport
S. L. dipendente dell'Amiat Azienda multiservizi igiene ambientale si è ripetutamente assentato dal lavoro per malattia.Il 23 gennaio 2002 l'azienda gli ha comunicato
che egli aveva cumulato 345 giorni di assenza per malattia, ossia 21 giorni
meno del limite massimo previsto dal contratto collettivo. Il lavoratore ha ripreso servizio
il 29 gennaio 2002 ed ha lavorato ininterrottamente fino al 15 maggio 2002. Si è
quindi assentato per infortunio sino al 9 settembre 2002; ha poi ottenuto un congedo
parentale di un mese ed ha ripreso servizio il 10 ottobre 2002. Egli è stato licenziato
l'11 ottobre 2002, con motivazione riferita al superamento del periodo di comporto di
malattia scaduto il 26 gennaio 2002. Il Tribunale di Torino al quale il lavoratore si è rivolto,
ha annullato il licenziamento. La Corte d'Appello di Torino ha rigettato l'impugnazione
proposta dall'azienda, osservando che il lavoratore, dopo il superamento del
periodo di comporto, aveva lavorato per circa quattro mesi e che aveva successivamente
ottenuto un congedo parentale; pertanto la condotta dell'azienda doveva ritenersi
incompatibile con la volontà di risolvere il rapporto. L'Amiat ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Il giudice di appello ' ha osservato la Corte '
si è dato cura di ricostruire con diligenza lo svolgimento dei fatti ed il comportamento
di entrambe le parti, puntualizzando che il susseguirsi delle date di assenze dal lavoro
e relative riprese dimostra in maniera univoca come il lavoratore, dopo il superamento
del periodo di comporto, lavorò per quasi quattro mesi e, quando doveva tornare
in servizio, ottenne un congedo per motivi parentali; la conclusione del giudice di
appello è stata pertanto nel senso che tutta la complessiva vicenda è incompatibile
con una volontà rescissoria del datore di lavoro, in quanto un periodo ininterrotto di
servizio di oltre tre mesi non avrebbe potuto non considerarsi rilevante ai fini della
tempestività del recesso, ben potendo in detto periodo essere esperito ogni utile controllo.
In questo modo ' ha osservato la Corte ' il giudice di appello, nel procedere alla
verifica della tempestività del recesso, si è attenuto all'orientamento, espresso dalle
sentenze Cass. n. 7047 del 2003 e n. 6057 del 1998, secondo il quale nell'ipotesi di
licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, il tempo decorso
tra la data di detto superamento e quella di licenziamento può consentire di stabilire
se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà
di porre fine al rapporto; la valutazione va operata apprezzando l'intero contesto
delle circostanze all'uopo significative, in modo tale da poter contemperare le esigenze
del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale con quelle dell'impresa per i
necessari controlli.
Il giudice non deve limitarsi a considerare il significato letterale delle norme ma deve accertare la volontà delle parti
M. G. è stato ripetutamente assunto, fra il 1991 e il 1996, con contratti a tempo determinato, dalla Spa Autostrade dei Parchi e successivamente dalla Spa Strade dei Parchi,per i periodi da giugno a settembre e da dicembre a gennaio di ciascun
anno, con la qualifica di addetto alla esazione dei pedaggi. Nei contratti era indicata,
come causale, la necessità di sostituzione di personale in ferie, in base all'art. 2,
par. 3 del contratto nazionale di categoria, che prevedeva la possibilità di assunzioni
a termine in concomitanza con i periodi di ferie. Il lavoratore ha chiesto al Tribunale di
Roma di dichiarare la nullità dei termini di scadenza apposti ai vari contratti, sostenendo
di non avere sostituito personale in ferie, in quanto la sua assunzione era stata
finalizzata a sopperire a carenze di organico. Le aziende si sono difese sostenendo che
la norma del contratto collettivo relativa alle assunzioni a termine andava interpretata
nel senso che esse potevano essere effettuate anche per far fronte a esigenze organizzative
connesse all'intensificazione del traffico in determinati periodi estivi ed invernali;
a supporto della loro tesi esse hanno fatto riferimento a contratti aziendali e
al comportamento tenuto dalle parti collettive. In proposito le aziende hanno chiesto
al Tribunale di pronunciare in base all'art. 420-bis cod. proc. civ., una sentenza interpretativa
dell'art. 2 par. 3 del contratto collettivo nazionale al fine di stabilire: «Se il richiamo
alla concomitanza delle ferie nei periodi indicati operi un richiamo solo alle ragioni
meramente sostitutive delle assenze per ferie ovvero se era intenzione delle parti
sociali operare un riferimento anche alle esigenze di carattere oggettivo/organizzativo connesse
a tale periodo dell'anno, come tra l'altro per sopperire alle maggiori esigenze
di esazione connesse all'intensificarsi del traffico in ragione di un dato oggettivo
concomitante con il periodo feriale». L'art. 420-bis cod. proc. civ., introdotto dal
decreto legislativo 2 febbraio 2006 n. 40, prevede che: «Quando per la definizione di
una controversia di cui all'articolo 409 è necessario risolvere in via pregiudiziale una
questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un
contratto o accordo collettivo nazionale, il giudice decide con sentenza tale questione,
impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione
della causa fissando una successiva udienza in data non anteriore a novanta
giorni. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da
proporsi entro sessanta giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza
». Il Tribunale di Roma ha ritenuto applicabile l'art. 420-bis cod. proc. civ. in considerazione
della «serietà » della questione e della opportunità di un intervento della
Suprema Corte al fine di stabilire un indirizzo anche per altri giudici investiti dallo stesso
tipo di controversie. Decidendo quindi con sentenza la questione postagli, il Tribunale
ha affermato che, in applicazione del criterio dell'interpretazione letterale previsto
dall'art. 1362 cod. civ. la norma contrattuale doveva essere interpretata nel senso
che essa consentiva le assunzioni a termine solo per la sostituzione di personale in ferie
e non anche per altre esigenze organizzative. Le aziende hanno proposto ricorso
per cassazione, censurando la sentenza del Tribunale di Roma per avere interpretato
la clausola di cui all'art. 2, punto 3, del contratto collettivo sulla base della sola dizione
letterale, senza tenere conto della comune volontà dei contraenti quale emergeva
anche dagli accordi aziendali e dal comportamento delle parti e senza avere per di più
proceduto ad un approfondito esame di tutte le disposizioni contenute nella suddetta
clausola e nelle altre statuizioni pattizie. Le aziende inoltre, con apposito quesito di diritto
formulato in base all'art. 366-bis cod. proc. civ. hanno chiesto alla Corte di «statuire
se l'art. 2, punto 3 del contratto collettivo per il personale dipendente da società
e consorzi concessionari di autostrade e trafori, nel richiamare l'assunzione in concomitanza
nel periodo di ferie abbia inteso conferire al datore di lavoro il diritto di apporre
un termine al contratto di lavoro subordinato con riferimento al periodo giugnosettembre
e dicembre-gennaio di ciascun anno, nel solo rispetto della aliquota media
annua del 25% dei contratti a tempo indeterminato in essere al 31 dicembre dell'anno
precedente». La Suprema Corte ha accolto il ricorso, riconoscendo peraltro che il Tribunale
ha fatto uso appropriato dell'art. 420-bis cod. proc. civ., stante la serietà della
questione richiedente una soluzione di portata tendenzialmente generale. Tuttavia la
Corte ha ritenuto che il Tribunale sia incorso in errore applicando soltanto il criterio interpretativo
fondato sulla lettera della norma contrattuale, in base all'art. 1362 cod.
civ. In materia di contrattazione collettiva ' ha osservato la Corte ' la comune volontà
delle parti contrattuali non sempre è agevolmente ricostruibile attraverso il mero riferimento
al senso letterale delle parole, atteso che la natura di detta contrattazione,
spesso articolata in diversi livelli (nazionale, provinciale, aziendale, ecc.), la vastità e
la complessità della materia trattata in ragione della interdipendenza dei molteplici
profili della posizione lavorativa, il particolare linguaggio in uso nel settore delle relazioni
industriali non necessariamente coincidente con quello comune e, da ultimo, il
carattere vincolante che non di rado assumono nell'azienda l'uso e la prassi, costituiscono
elementi tutti che rendono indispensabile nella materia della contrattazione collettiva
un'utilizzazione dei generali criteri di ermeneutica che di detta specificità tenga
conto, con conseguente assegnazione di un preminente rilievo al canone interpretativo
logico-sistematico dettato dall'art. 1363 cod. civ. Il Tribunale di Roma, ha rilevato la
Corte, si è limitato a fare applicazione del canone di interpretazione letterale della
clausola stessa, senza dare atto in alcun modo di avere svolto una qualsiasi attività istruttoria
suscettibile di accreditare ' in un contesto quale quello della contrattazione
collettiva, in cui la volontà delle parti sociali è meglio decifrabile attraverso un approccio
ermeneutico che vada al di là della mera lettura della singola disposizione patrizia
' la soluzione accolta nella sentenza impugnata. In altri termini ' ha aggiunto la
Corte ' il Tribunale, nel non fare alcun accenno ad una qualsiasi risultanza istruttoria
svolta, non ha spiegato in modo sufficiente perché un più completo accertamento dei
fatti di causa ed una indagine istruttoria suscettibile di articolarsi in forme diverse (interrogatorio
delle parti; acquisizione di prove documentali, acquisizioni di contratti o
accordi collettivi successivi o antecedenti a quello oggetto da interpretare; richiesta di
informazioni e osservazioni sindacali ex art. 425 cod. proc. civ., ecc.), lasciate alla autonoma
scelta del giudice di merito ma non sperimentabili in sede di legittimità , portasse
ad escludere, all'esito di una interpretazione logico-sistematica, una lettura della
clausola contrattuale nei sensi patrocinati dalla società nei suoi atti difensivi. Pertanto
la Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rimesso gli atti al Tribunale di
Roma formulando il seguente principio di diritto: «La ratio informatrice dello speciale
procedimento ex art. 420-bis cod. proc. civ di accertamento pregiudiziale sull'efficacia,
validità ed interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale
di diritto privato va individuata nell'esigenza di assicurare l'uniforme applicazione
di tali clausole e di prevenire il rischio della polverizzazione dell'interpretazione in materia,
e di agevolare nel frattempo ' attraverso l'esercizio della funzione nomofilattica
della Corte di Cassazione ' anche l'attuazione del principio a rilevanza costituzionale
della «ragionevole durata» del processo. Risulta, pertanto, funzionale al perseguimento
di tali fini che la sentenza emessa dal giudice ai sensi della citata norma di rito
venga preceduta dall'espletamento di una istruttoria che consenta, da un lato, di valutare
la natura della c.d. questione pregiudiziale nei termini di una sua generalizzata
portata e di una sua forza estintiva di tutte le ragioni del contendere esistenti in materia,
e permetta dall'altro al giudice di pervenire in base alle acquisite risultanze processuali
ad una decisione che dia una lettura del dato pattizio esaustiva ed univoca,
capace cioè di definire in termini chiari e conclusivi anche le problematiche consequenziali
alla interpretazione accolta. Ne deriva che la carenza dei presupposti caratterizzanti
l'iter procedurale di cui all'art. 420-bis cod. proc. civ e la mancanza dell'espletamento
della necessaria istruttoria da parte del giudice di merito, non rimediabile
in sede di legittimità , comporta l'accoglimento del ricorso per cassazione che sia
stato proposto ai sensi del comma 3 del citato art. 420-bis cod. proc. civ., con la consequenziale
cassazione della impugnata sentenza e la remissione degli atti al primo
giudice».
La Corte ha rimesso la causa al Tribunale di Roma, precisando che esso «potrà se
vorrà , nel rispetto dei principi enunciati, ripercorrere su nuove basi l'iter procedurale
prescritto dall'art. 420-bis cod. proc. civ per la risoluzione della questione attinente alla
interpretazione della clausola controversa».
La giusta causa di licenziamento non può essere motivata con un generico riferimento alle risultanze di un processo penale
U. E., dipendente dell'Anas, dopo essere stato sottoposto a processo penale ha subito un licenziamento disciplinare, per «giusta causa»,motivato con riferimento
ai fatti oggetto di tale processo. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al
Tribunale di Campobasso, che ha rigettato il ricorso. Questa sentenza è stata confermata
dalla Corte d'Appello di Campobasso, che ha motivato la sua decisione affermando
che «la prova sulla sussistenza degli addebiti disciplinari può essere attinta agli
atti di altri procedimenti, penali e contabili». Il lavoratore ha proposto ricorso per
cassazione censurando la decisione della Corte d'Appello per vizio di motivazione. La
Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nella valutazione sulla legittimità di una sanzione
disciplinare ' ha osservato la Cassazione ' il giudice non è chiamato a decidere sulla
colpevolezza dell'incolpato in ordine a fatti-reato e ciò in quanto, in generale, il giudice
civile deve procedere ad un'autonoma valutazione dell'episodio illecito al fine di
stabilire se esso possa essere posto a fondamento della sanzione-licenziamento (cfr.
Cass. n. 11500/1995), posto che il reato commesso dal lavoratore, che costituisca giusta
causa di licenziamento, può dar luogo al recesso del datore di lavoro anche prima
della sentenza penale di condanna (Cass. n. 2626/1998). In particolare ' ha ricordato
la Suprema Corte ' sull'assoluta autonomia fra la valutazione di un fatto in sede penale
e la valutazione della stessa fatta in sede di accertamento della sussistenza della
giusta causa, deve essere rispettato il seguente principio: «Il giudice del lavoro adito
con impugnativa di licenziamento, ove pure comminato in base agli stessi comportamenti
che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è affatto obbligato a
tener conto dell'accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore,
ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali
e di pervenire a valutazioni e qualificazioni degli stessi del tutto svincolate dall'esito
del procedimento penale; inoltre, in ogni caso, la valutazione della gravità del
comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento
per giusta causa, deve essere da quel giudice operata alla stregua della ratio degli art.
2119 cod. civ. e 1 della legge n. 604 del 1966, e cioè tenendo conto dell'incidenza del
fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro,
delle esigenze poste dall'organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di
disciplina postulate da detta organizzazione indipendentemente dal giudizio che del
medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali» (Cass. n. 10315/2000). Nel caso in esame
' ha osservato la Cassazione ' la Corte territoriale si è limitata ad affermare che «la
prova sulla sussistenza degli addebiti disciplinari può essere attinta agli atti di altri
procedimenti, penali e contabili» senza precisare quali fossero tali «atti», né tantomeno
quali gli «altri provvedimenti penali e contabili» e, quindi, in quale modo fosse stato
effettivamente adempiuto all'onere probatorio sull'accertamento del fatto costituente
la giusta causa del licenziamento. Di conseguenza ' ha affermato la Suprema
Corte ' la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione a tale carenza motivazionale,
con rinvio della causa ad altro giudice di pari grado per il riesame della controversia
limitatamente al rilevato profilo di annullamento e per la relativa decisione '
alla stregua di una corretta motivazione ' in ordine alla prova dei fatti oggetto della
contestazione disciplinare e del successivo licenziamento per giusta causa. La causa è
stata rinviata, per nuovo esame, alla Corte d'Appello di Salerno.
L’esistenza del danno da demansionamento può provarsi mediante presunzioni fondate su nozioni generali derivanti dall’esper
Il dipendente che vende azioni della società datrice di lavoro a un’azienda concorrente non viene meno al dovere di fedeltà
Chi lavora sette giorni consecutivi ha diritto a un compenso aggiuntivo per il mancato riposo nel settimo giorno
N. E. ed altri 11 lavoratori, dipendenti dell'azienda tipografica Nigi Srl nel periodo fra il 1986 e il 1990 hanno lavorato normalmente per sette giorni consecutivisenza fruire del riposo settimanale, essendo impegnati in attività di stampa
di giornali quotidiani. Essi hanno percepito la maggiorazione per il lavoro domenicale
prevista dal contratto di categoria, secondo il quale l'orario settimanale è di 36 ore, distribuite
in sei giorni, compresa la domenica. Essi hanno chiesto al pretore di Roma il
riconoscimento del loro diritto a percepire un compenso ulteriore per la mancata fruizione
del riposo dopo sei giorni di lavoro. Sia il pretore che, in grado di appello, il Tribunale
di Roma, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. Il Tribunale ha ritenuto
che la prestazione di lavoro per sette giorni consecutivi fosse consentita sia dalla
legge che dal contratto collettivo e che il compenso per la mancata fruizione del riposo
nel settimo giorno dovesse ritenersi inclusa nel trattamento economico complessivo.
I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il lavoro prestato oltre il settimo giorno determina
non solo, a causa della prestazione lavorativa nel giorno di domenica, la limitazione
di specifiche esigenze familiari, personali e culturali alle quali il riposo domenicale
è finalizzato, bensà una distinta ulteriore «sofferenza»: la privazione della pausa
destinata al recupero delle energie psicofisiche (il fondamento di questa esigenza di
recupero è da ricercare in una cadenza che ' anche ove non si ritenga di risalire alla
Torah ' è iscritta, come fatto lungamente protrattosi nel tempo, nella nostra coscienza
e nella nostra biologia). L'esigenza ha giuridico riconoscimento nell'art. 36 Cost.,
nonché in disposizioni di legge ed in norme collettive. Nell'ipotesi di protrazione del lavoro
oltre il sesto giorno, l'indicata «sofferenza» del lavoratore esige tuttavia un compenso
normativamente giustificato dallo stesso art. 36 Cost.: la qualità del lavoro è
funzione non solo ' pur prevalentemente ' del livello della prestazione (positivamente:
quale valore intrinseco all'atto e fruito dal destinatario), bensà dell'oggettivo onere
che, anche per il suo «valore marginale», la prestazione esige (negativamente, quale
costo causato dall'atto: ciò è ovvio nel lavoro straordinario). Avendo legittima causa
nello stesso rapporto di lavoro e specificamente nella particolare onerosità della prestazione
(effettuata nel settimo giorno consecutivo di lavoro), il compenso ha natura
di retribuzione (dell'onerosità della specifica prestazione). Ove la norma collettiva non
lo preveda, questo specifico compenso deve essere determinato dal giudice, attraverso
integrazione della norma (che, avendo per oggetto la specificazione delle legittime
«conseguenze» del contratto, ha il suo fondamento nell'art. 1374 cod. civ.), sulla base
d'una motivata valutazione che tenga conto dell'onerosità della prestazione lavorativa,
e di eventuali forme di compensazione normativamente previste per istituti affini,
quale il compenso del lavoro domenicale, od altro (per la determinazione del compenso
da parte del giudice, Cass. 11 aprile 2007 n. 8709).
La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata ed ha rinviato la causa alla Corte
d'Appello di Roma, enunciando il seguente principio di diritto: «La prestazione effettuata
nel settimo giorno consecutivo di lavoro esige, per la sua particolare onerosità ,
specifico compenso, da differenziarsi dal (pur spettante) compenso del lavoro prestato
nel giorno di domenica, e che non si esaurisce in un distinto giorno di riposo dopo
il settimo giorno consecutivo di lavoro. Questo compenso, che ha natura di retribuzione,
può essere espressamente previsto dalla norma collettiva, come casualmente connesso
alla prestazione resa nel settimo giorno consecutivo di lavoro. Ove questa espressa
previsione manchi, il giudice, sulla base d'una motivata valutazione che tenga
conto dell'onerosità della prestazione lavorativa, determina la misura del compenso
applicando come parametro anche eventuali forme di retribuzione normativamente
previste per istituti affini, quale il compenso del lavoro domenicale, od altro».
L’affitto di un ramo d’azienda può dichiararsi nullo perché in frode alla legge se priva i lavoratori della tutela dell'ar
Il «responsabile del servizio di prevenzione e protezione» deve avere ampi poteri organizzativi e di spesa
W. O., dipendente della Spa Finstral, con mansioni di operaio, nel luglio del 2002 ha subito un trauma alla gamba destramentre trasportava manualmente
materiale ingombrante e di peso elevato all'interno di uno stabilimento sito a Funes.
Sono stati sottoposti a processo penale davanti al Tribunale di Bolzano, con l'imputazione
di lesione colpose gravi A. O. e K. L., il primo nella qualità di legale rappresentante
della società e il secondo come addetto alla sicurezza sul lavoro. Il Tribunale, pur
rilevando la violazione di norme sulla sicurezza del lavoro, ha assolto i due imputati
con la formula «per non aver commesso il fatto» in quanto ha ritenuto che la responsabilità
dell'infortunio dovesse essere attribuita a R. F. che, all'epoca del fatto, era stato
designato dal datore di lavoro «responsabile del servizio di prevenzione e protezione
» per lo stabilimento di Funes. Questa decisione è stata impugnata, con ricorso in
Cassazione per saltum, in base all'art. 569 cod. proc. pen. dal procuratore della Repubblica
di Bolzano, che ha censurato il Tribunale per avere ritenuto ' disapplicando
gli articoli 4 e 8 del decreto legislativo n. 626 del 1994 ' che fosse sufficiente a giustificare
l'esenzione di responsabilità degli imputati, il solo fatto che il datore di lavoro avesse
designato un responsabile del servizio di prevenzione per lo stabilimento dove
si era verificato l'infortunio.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il Tribunale di Bolzano ' ha osservato la Corte
' non ha tenuto in considerazione il principio giuridico secondo cui, tra i destinatari iure
proprio delle norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro del
d.P.R. n. 547/1955, sono compresi, tra gli altri, il datore di lavoro ed il dirigente e che
quest'ultimo non si sostituisce, di regola, alle mansioni dell'imprenditore, del quale
condivide, secondo le loro reali incombenze, oneri e responsabilità in materia di sicurezza
del lavoro: a meno che, da parte del titolare dell'impresa, sia avvenuta, non soltanto
la nomina nel suddetto ruolo (di dirigente) di persona qualificata e capace, ma
anche il trasferimento alla stessa di tutti i compiti di natura tecnica, con le più ampie
facoltà di iniziativa e di organizzazione anche in materia di prevenzione degli infortuni,
con il conseguente esonero, in caso di incidente, da responsabilità penale del datore
di lavoro. Nel caso in esame la persona designata quale responsabile del servizio
prevenzione e protezione, era sprovvista di quegli ampi ed autonomi poteri di spesa
ed organizzativi in materia di prevenzione degli infortuni, ritenuti indispensabili ai fini
dell'esonero da responsabilità del datore di lavoro. Il responsabile del servizio di prevenzione
e protezione è, in altri termini, una sorta di consulente del datore di lavoro
ed i risultati dei suoi studi e delle sue elaborazioni, come pacificamente avviene in
qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda, vengono fatti propri dal datore
di lavoro che lo ha scelto, con la conseguenza che quest'ultimo delle eventuali negligenze
del primo è chiamato comunque a rispondere.
L’accertamento di inidoneità fisica del lavoratore da parte di un istituto pubblico non è insindacabile
Per la validità della scelta dei lavoratori da licenziare non è sufficiente un generico riferimento ai criteri di legge
La Spa Compagnia Prodotti Conservati ha attuato, nell'ottobre-novembre del 1997,una procedura per ridurre di personale in base alla legge n. 223 del 1991. Essa
ha concluso con le organizzazioni sindacali, il 6 novembre 1977, un accordo che prevedeva
la scelta dei lavoratori da licenziare in base al criterio della maturazione del diritto
al trattamento pensionistico (con esclusione di quattro dipendenti) e per le restanti
unità in base ai criteri fissati dalla legge n. 223 del 1991 «subordinatamente alle
esigenze tecnico produttive ed organizzative aziendali». L'art. 5, comma 1 legge n.
223/91 prevede che: «L'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità deve avvenire,
in relazione alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale,
nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di
cui all'art. 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti
criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità ; c) esigenze tecnico-
produttive ed organizzative». P. S., uno dei licenziati, ha chiesto al Tribunale di
Salerno di accertare la violazione delle regole poste dalla legge n. 223/91 e di annullare
il suo licenziamento. Il Tribunale di Salerno ha accolto le domande, ordinando la
reintegrazione di P. S. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del
danno. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Salerno che ha ritenuto
che la generica previsione dell'accordo sindacale lasciava all'arbitrio del datore
di lavoro la scelta dei licenziandi; ha inoltre osservato che i criteri di scelta seguiti
non erano neppure desumibili dalla comunicazione fatta al termine della procedura in
base all'art. 4, comma 9, della legge n. 223/91 secondo cui l'azienda deve fornire una
«puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta
». La società ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte
di Salerno per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata ' ha osservato la Corte
' ha correttamente accertato che in sede di accordo solo parte dei destinatari del
provvedimento era identificata mediante il criterio della maturazione dei requisiti pensionistici,
mentre per il restante personale era stato utilizzato il riferimento ai criteri di
cui all'art. 5 comma 1 della legge n. 223/1991, «subordinatamente alle esigenze tecnico-
organizzative e produttive aziendali»; restavano cosà da definire, per la genericità
di questa enunciazione, le concrete modalità di applicazione di questi criteri fissati
dalla legge; risulta quindi assorbente e decisivo il profilo della violazione del disposto
dell'art. 4 comma 9 della legge, che come si è detto impone la «puntuale indicazione
delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta di cui all'articolo 5,
comma 1». In proposito ' ha osservato la Corte ' la sentenza impugnata ha accertato
che la comunicazione finale ha omesso tale indicazione, limitandosi ad un richiamo dei
criteri di scelta adottati e tale giudizio di fatto non è stato specificamente censurato
dalla società ricorrente.
Le assenze dal domicilio del dipendente malato in occasione delle visite di controllo possono giustificare il licenziamento
C. L., dipendente della Srl System Service con mansioni di cuoco, si è assentato dal lavoro per malattia il 22 gennaio 2005 (sabato);il 24 gennaio ha ottenuto
dal suo medico un certificato con prognosi al 1° febbraio 2005 e lo ha inviato alla datrice
di lavoro e all'Inps. L'Inps ha disposto due visite di controllo, il 25 e 26 gennaio,
ma in tali occasioni il lavoratore non è stato trovato in casa; egli non si è nemmeno presentato
alle visite di controllo ambulatoriali fissate per il 27 e il 28 gennaio. L'azienda
gli ha applicato le sanzione disciplinare di un giorno di sospensione per l'assenza del
22 gennaio e lo ha quindi nuovamente sottoposto a procedimento disciplinare per assenza
ai controlli. Egli si è giustificato sostenendo di non essere stato trovato in casa
perché si era recato presso il domicilio di una cugina per farsi assistere. L'azienda lo
ha licenziato motivando la decisione con riferimento all'art. 167 del Ccnl per i dipendenti
di pubblici esercizi, che prevede la sanzione espulsiva in caso di assenza ingiustificata
superiore a cinque giorni. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti
al Tribunale di Bolzano sostenendo che la sua assenza dal lavoro doveva ritenersi giustificata
in quanto non era stata contestata l'esistenza della malattia e che l'assenza al
controllo doveva ritenersi sufficientemente sanzionata con la perdita del trattamento
economico di malattia. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Bolzano hanno ritenuto
la domanda priva di fondamento, affermando l'esistenza di una giusta causa di licenziamento.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Bolzano per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui
la giustificazione dell'assenza nelle fasce di reperibilità deve essere fondata su motivi
seri che determinano l'impossibilità di osservare l'obbligo di reperibilità e che la violazione
dell'obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo può giustificare il licenziamento,
in quanto violazione degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro; la
valutazione complessiva della gravità dell'infrazione deve tener conto delle violazioni
anteriori e delle sanzioni disciplinari inflitte. Quindi ' ha affermato la Corte ' al fine della
giustificatezza del licenziamento, rileva la violazione di un obbligo, quale quello di
reperibilità , che inficia il nesso fiduciario ex se, senza necessità che risulti la falsità della
allegazione della malattia. La valutazione dell'incidenza di questa violazione sul vincolo
fiduciario ' ha precisato la Corte ' è rimessa all'apprezzamento del giudice di merito,
sindacabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della insufficienza o contraddittorietà
della motivazione, non potendo predicarsi invece un generale difetto di proporzionalità
e quindi di inidoneità ad integrare un'ipotesi di giusta causa di licenziamento;
nella specie la Corte d'Appello ha correttamente preso le mosse in diritto dal
principio secondo cui la violazione dell'obbligo di reperibilità durante le fasce orarie
previste per le visite mediche ispettive costituisce ragione autonoma e sufficiente non
solo per l'applicazione della conseguenza di legge automaticamente connessa (la perdita
del trattamento economico, nei limiti previsti dalla cit. legge n. 683 del 1983), ma
anche per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari quali il licenziamento. Nel caso in esame
' ha aggiunto la Cassazione ' è stato correttamente motivato anche il giudizio di
gravità del fatto, in quanto la Corte d'Appello ha osservato che l'inizio del periodo di
congedo per malattia (il giorno 22 gennaio 2005) è stato connotato da una riconosciuta
indifferenza del lavoratore rispetto all'obbligo di diligenza, atteso che egli non
ebbe ad avvisare in alcun modo la datrice di lavoro e neppure si recò quello stesso
giorno dal medico per munirsi della opportuna certificazione; indifferenza che aveva una
particolare connotazione di gravità stante le mansioni specifiche del lavoratore '
quelle di cuoco ' che non erano agevolmente fungibili; tutto ciò si saldava poi con la
natura della patologia invalidante, successivamente certificata, che non era sicuramente
tale da impedire di provvedere alla pronta e tempestiva comunicazione al datore
di lavoro del luogo di provvisoria dimora e per dare ragguagli sul luogo di sua
pronta reperibilità ; ciò che invece il lavoratore omise di fare fino alla data del suo rientro
e cioè fino al 2 febbraio 2005.
Le ferite conseguenti a una rapina subita tornando a casa dal lavoro possono costituire infortunio indennizzabile dall'Inail
S. S., dipendente della società editrice del giornale «Il Mattino» come operaio addetto alle rotative,nel dicembre del 1997, mentre rientrava a casa dallo stabilimento
tipografico con la propria motocicletta, a causa di uno sciopero dei mezzi pubblici,
è stato affrontato da due individui che lo hanno rapinato della moto ferendolo
con colpi di arma da fuoco. Egli ha chiesto al pretore di Napoli di riconoscere il suo diritto
al trattamento dovuto dall'Inail per gli infortuni sul lavoro. Sia il pretore che, in
grado di appello, il Tribunale di Napoli, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza impugnata
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Nel caso in esame ' ha osservato la Corte ' è
configurabile l'infortunio sul lavoro, in quanto la giurisprudenza è da tempo orientata
nel senso che la rapina rientri nella «occasione di lavoro», ai fini della tutela antinfortunistica.
Mentre nel lontano passato si era ritenuto che il fatto delittuoso dei compagni
o dei terzi interrompesse qualsiasi nesso causale con il lavoro, la prospettiva è mutata
a partire da Corte cost., sentenza 7 aprile 1981, n. 55, che ha dichiarato la illegittimità
costituzionale dell'art. 1 T.U. 1124, in relazione all'art. 4, n. 1 dello stesso T.U.,
nella parte in cui non comprende nella previsione di cui al comma 3 dell'art. 1 medesimo,
le persone che siano comunque addette, in rapporto diretto con il pubblico, a servizio
di cassa; la decisione è motivata sia con il processo storico di espansione dell'assicurazione
obbligatoria, sia con la identità di rischio tra l'attività di cassa e quella
prevista all'art. 1, comma 3, n. 24 per il servizio di vigilanza privata, identità rilevante
ai sensi degli artt. 3 e 38 Cost. Il maneggio di denaro ' ha osservato la Cassazione '
viene dunque a costituire una ulteriore ipotesi oggettiva di attività protetta, alla cui luce
la giurisprudenza di legittimità ha scrutinato i casi di rapina ad essa sottoposti, operando
una ulteriore duplice estensione della protezione a casi di possesso di denaro,
anche fuori del luogo di lavoro, nonché di aggressione per motivi comunque di lucro,
anche se non immediatamente e direttamente monetario. Cosà Cass. 13 dicembre
2000 n. 15691 ha affermato la copertura dell'infortunio subito dal gestore di un distributore
di benzina (soggetto ad obbligo assicurativo quale artigiano) per effetto di un
rapina perpetrata in suo danno al fine di sottrargli l'incasso della giornata, che egli custodiva
presso la sua abitazione, in coincidenza con una festività . Cass. 18 gennaio
1991 n. 430 ha affermato l'indennizzabilità dell'infortunio di un soggetto assicurato
contro gli infortuni, ferito mortalmente nel corso di una rapina commessa in occasione
dell'acquisto di materiale necessario per la produzione, costituente attività strettamente
connessa alla prestazione di lavoro manuale. Cass. 11 aprile 1998 n. 3747, in un
caso di violento litigio seguito da morte del lavoratore, con estranei che avevano poi
riportato condanna penale dalla quale risultava che volevano approfittare del materiale
di cantiere, ha cassato la sentenza del giudice di merito, il quale aveva escluso apoditticamente
che il litigio fosse collegabile con l'attività lavorativa. Cass. 28 gennaio
1999 n. 774 ha confermato la sentenza, che aveva affermato l'indennizzabilità dell'infortunio
(non in itinere) occorso a dipendente raggiunto da colpi di arma da fuoco
mentre a bordo della propria vettura faceva ritorno alla sua abitazione, il quale era stato
in precedenza aggredito e minacciato per la sua attività di addetto agli ordini di acquisto
perché «non lasciava vivere altri candidati alle forniture». Anche Cass. 23 febbraio
1989 n. 1014 ha ritenuto, nel caso di un custode (di un condominio) morto a seguito
di colpi di arma da fuoco sparatigli da ignoti durante lo svolgimento della sua attività
lavorativa, che sussiste la presunzione della derivazione di detto evento da tale
attività . Nella stessa logica, Cass. 21 luglio 1988 n. 4716 ha cassato la sentenza di merito
che aveva escluso l'indennizzabilità dell'infortunio subito dall'autista di un'impresa
di autotrasporti rimasto ferito nel corso di un'aggressione a colpi di arma da fuoco
ai danni del committente che era a bordo dello stesso autocarro.
Tra fratello e sorella può costituirsi un rapporto di lavoro subordinato, anche in assenza di retribuzione per il lavoro svolto
M.A. G. ha lavorato per circa otto anni nello studio professionale di suo fratello G., ragioniere,provvedendo al coordinamento del personale e occupandosi
della compilazione delle dichiarazioni fiscali, con presenza giornaliera dalle 9,00 alle
13,00 e dalle 16,00 alle 19,30. Non è stata inquadrata come dipendente e non ha percepito
alcuna retribuzione. Ella ha chiesto al Tribunale di Sciacca di accertare l'esistenza
di un rapporto di lavoro subordinato e di riconoscere il suo diritto al pagamento
della retribuzione e del trattamento di fine rapporto. G. G. si è difeso sostenendo
che sua sorella si era limitata a svolgere pratica professionale a titolo gratuito. Il Tribunale,
dopo aver sentito le parti e alcuni testi ha condannato il convenuto a pagare a
M.A. G. la somma di lire 267 milioni a titolo di retribuzione e spettanze finali, in quanto
ha ritenuto che tra le parti si fosse svolto un rapporto di lavoro subordinato. Questa
decisione è stata integralmente riformata dalla Corte di Appello di Palermo che ha ritenuto
la domanda priva di fondamento. L'esistenza tra le parti di un rapporto di parentela
' ha osservato la Corte ' richiedeva un particolare rigore probatorio al fine di
escludere che le prestazioni fossero state effettuate per spirito di liberalità o per affetto,
o ancora per interesse comune; inoltre la mancata percezione della retribuzione,
protratta per un cosà lungo tempo, pur non comportando la perdita del diritto, doveva
ritenersi elemento di giudizio rilevante nel senso della gratuità della prestazione; era
pertanto ragionevole che la presenza di M.A. G. nello studio del fratello potesse spiegarsi
con un rapporto di praticantato. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la sentenza della Corte di Palermo per vizi di motivazione e violazione
di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. I giudici di appello ' ha osservato la Corte '
hanno omesso di valutare la attività concretamente svolta da M.A. G. all'interno dello
studio (emersa, tra l'altro, dalle testimonianze), la cui natura assumeva senz'altro
rilievo decisivo ai fini della considerazione della stessa attività all'interno o meno di
un rapporto di praticantato; l'affermazione della «ragionevole spiegazione» della
«presenza» di M.A. G. nello studio del fratello in ragione del «rapporto di praticantato
» non è stata sufficientemente motivata, sia per la mancata valutazione della attività
concretamente svolta sia per la omessa considerazione che il rapporto di praticantato
risultava sà documentato, ma non per l'intero periodo. Peraltro ' ha rilevato la Corte '
l'estensione della configurabilità di un rapporto di praticantato ad un arco di tempo
cosà lungo, neppure risulta logicamente corretta, in ragione della natura stessa del
praticantato (la cui «causa» è quella di «assicurare al praticante, da parte di un professionista,
le nozioni indispensabili per mettere in atto, nella prospettiva teorica ricevuta
nella sede scolastica»). In tal quadro ' ha concluso la Corte ' neppure risponde
a logica il rilievo decisivo attribuito ex se alla circostanza della «mancata percezione
della retribuzione» «per cosà lungo tempo», dovendo tale circostanza essere valutata
nell'insieme di tutti gli elementi di fatto emersi e del complesso rapporto intercorso
tra le parti.
È legittimo il licenziamento del capo reparto che abbia rivolto ad alcune lavoratrici espressioni scurrili e aggressive
Il lavoratore può rifiutare il trasferimento se è accompagnato da un demansionamento
G. A. dipendente della Spa Imat Felco, azienda commerciale, ha svolto sino al luglio 2003 le mansioni di responsabile della filiale di Cantù con qualifica di secondo livello.Gli è stato poi comunicato il trasferimento a Como con assegnazione
delle mansioni di commesso. Egli ha rifiutato di eseguire il trasferimento, sostenendo
che esso avrebbe comportato un grave demansionamento, anche perché le
mansioni di commesso erano proprie della qualifica di IV e V livello. Nel settembre del
2003 l'azienda lo ha licenziato con motivazione riferita al mancato adempimento alla
disposizione di trasferimento. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al
Tribunale di Como, sostenendo che l'azienda, trasferendolo a Como come commesso,
si era resa inadempiente all'obbligo, derivante dall'art. 2103 cod. civ., di non modificare
in peggio le sue mansioni e che pertanto il suo rifiuto di dar corso al provvedimento
aziendale doveva ritenersi giustificato in base all'art. 1460 cod. civ. Questa norma
stabilisce che nei contratti con prestazione corrispettive ciascuno dei contraenti
può rifiutarsi di adempiere alla sua obbligazione, se l'altro non adempie. Il Tribunale
ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore di trasferirsi da
Cantù a Como motivato con il fatto che l'esercizio delle nuove mansioni avrebbe costituito
un demansionamento, costituiva una grave inadempienza, poiché, da un lato, di
demansionamento si poteva parlare solo in caso di esercizio delle mansioni, dall'altro
il ricorrente aveva reagito al trasferimento con l'autotutela, strumento non consentito
dalla legge, anche a fronte della rassicurazione del datore di lavoro circa l'equivalenza
delle mansioni (equivalenza, in ogni caso, ritenuta dal Tribunale). Questa decisione
è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Milano che, in base alle risultanze
documentali (in particolare la corrispondenza interna tra le parti), alle deposizioni
dei testi e alle declaratorie contrattuali relative a qualifiche e mansioni, ha ravvisato
che al trasferimento a Como si accompagnava un palese demansionamento e pertanto
ha ritenuto giustificato il rifiuto opposto dal lavoratore alla disposizione aziendale.
La società ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione impugnata
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo
cui «l'illegittimo comportamento del datore di lavoro consistente nell'assegnazione
del dipendente a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla sua qualifica può giustificare
il rifiuto della prestazione lavorativa, in forza dell'eccezione di inadempimento
di cui all'art. 1460 cod. civ., purché la reazione risulti proporzionata e conforme a
buona fede». Il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione «inadimplenti non
est adimplendum» ' ha affermato la Corte ' deve procedere ad una valutazione comparativa
degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità
rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza
sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse;
tale valutazione rientra nei compiti del giudice di merito ed è incensurabile in sede di
legittimità se assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria; non si può ritenere
che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga
l'ottemperanza agli stessi fino a un contrario accertamento in giudizio. La sentenza
impugnata ' ha osservato la Corte ', esaminate attentamente le risultanze documentali
(in specie la corrispondenza intercorsa) e testimoniali nonché le declaratorie
contrattuali, ha correttamente concluso che risultava provato in causa che al trasferimento
a Como si accompagnava un palese demansionamento.
Una prestazione amatoriale di canto lirico può ritenersi compatibile con la malattia del dipendente se non ritarda la guarigion
M. S., dipendente della Casa di Cura Città di Milano Spa si è assentata dal lavoro il 14 maggio 2001 per coliche addominali recidivanti.Il medico le ha prescritto
un periodo di riposo di dodici giorni, dal 14 al 26 maggio. Il 17 maggio ella ha
partecipato in Roma a una trasmissione televisiva «Fatti Vostri» durante la quale si è
esibita come cantante lirica dilettante. Dopo aver subito, il 23 maggio, una visita medica
di controllo, che le confermava l'originaria prognosi, ella ha ripreso servizio alla
data prevista. L'azienda l'ha sottoposta a procedimento disciplinare e l'ha licenziata
con l'addebito di essersi avvalsa, per assentarsi dal lavoro, di una certificazione di malattia
non attestante il vero. La lavoratrice ha chiesto al Tribunale di Milano di annullare
il licenziamento sostenendo di essere stata effettivamente malata e di non avere
aggravato la malattia con la partecipazione alla trasmissione televisiva. Ella ha prodotto
una cartella clinica comprovante che nel periodo dell'assenza si stava sottoponendo
a un ciclo di pratiche Hiv ed una relazione del Centro di medicina della riproduzione
attestante che la addominalgia diagnosticata era una conseguenza normale
di un prelievo di ovociti, mentre il periodo di astensione dall'attività lavorativa era
compatibile con attività non richiedenti eccessivo dispendio di energie psicofisiche.
L'azienda si è difesa sostenendo che, quanto meno, doveva ritenersi che la malattia
fosse cessata il 17 maggio, giorno della prestazione artistica e che pertanto la lavoratrice
avrebbe dovuto por termine dell'assenza di malattia e chiedere un permesso per
recarsi a Roma. Il Tribunale, dopo aver sentito come teste un rappresentante del Centro
di medicina della riproduzione, ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto fondata
la motivazione del licenziamento. Questa decisione è stata integralmente riformata
dalla Corte d'Appello di Milano, che ha ritenuto veritiera la certificazione medica
anche perché supportata dalla cartella clinica attestante il ciclo di terapia Hiv cui la
lavoratrice si stava sottoponendo, nonché dalla visita di controllo avvenuta dopo la
prestazione dell'attività amatoriale. La Corte ha inoltre accertato che il viaggio a Roma
non aveva comportato affaticamento e che lo sforzo richiesto per la prestazione
canora svolta dalla lavoratrice nel corso della trasmissione televisiva poteva essere agevolmente
sostenuta grazie alla sua esperienza trentennale come cantate lirica amatoriale;
pertanto la Corte ha annullato il licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione censurando la decisione della Corte di Milano per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando la sua giurisprudenza secondo
cui deve ritenersi compatibile con lo stato di malattia l'esercizio di attività lavorative e
non (amatoriali, hobbistiche e persino sportive) allorché non pregiudichino la guarigione
ovvero la sua tempestività e rilevando che la Corte di Milano ha correttamente
motivato la sua decisione in base alle risultanze istruttorie; una volta escluso il pregiudizio
per la pronta ripresa del lavoro ' ha osservato la Cassazione ' il carattere amatoriale
della prestazione artistica da parte di una persona avvezza a cantare anche
in teatro doveva ritenersi espressione dei diritti della persona, con esclusione della
violazione, da parte della lavoratrice, dei principi di correttezza e buona fede.
Selezione dei gestori delle risorse dei fondi pensione
L'Autorità garante ha formulato alcune osservazioni in merito alle modalità con le quali starebbero per essere attuate le indicazioni dettate dalla Covip,con deliberazione del 9 dicembre 1999, in materia di istruzioni per il processo di selezione
dei gestori delle risorse dei fondi pensione. A fronte dei due modelli tipizzati dal
legislatore per l'erogazione delle rendite ' convenzionata e diretta (artt. 6, comma 3 e
7-bis, d.lgs. n. 252/2005) ', gli organismi di amministrazione dei fondi pensione negoziali
stanno individuando, a livello associativo, un possibile schema operativo per
definire le procedure di individuazione e selezione delle imprese di assicurazione per
l'erogazione delle rendite. In particolare l'Associazione dei fondi pensione negoziali
starebbe adottando delle c.d. Linee guida per la definizione di un «Bando comune».
Tali Linee guida sarebbero volte, in nome e per conto dei fondi pensione soci, alla elaborazione
di un unico modello di bando di gara che vedrebbe aggregati tutti i fondi aderenti
dal lato della domanda al fine di pervenire alla selezione della (delle) compagnia(
e) assicurativa(e) in grado di fornire le diverse tipologie di rendite vitalizie ed annue
immediate richieste. L'Autorità critica questa modalità di effettuazione della selezione
del soggetto gestore delle risorse dei fondi in quanto l'aggregazione della domanda,
se non giustificata da esigenze economiche e/o tecniche, elimina il confronto
competitivo per effetto della notevole contrazione nel numero di partecipanti.
Al contrario la previsione di più lotti, quindi la possibilità di partecipazione anche per una
parte del servizio da erogare, appare rilevante in una prospettiva di incentivazione alla
concorrenza tra compagnie assicurative; cosà come di rilievo sembra essere la possibilità
di accesso tanto ad imprese di assicurazione italiane che internazionali. Analogamente,
l'eventuale richiesta nel bando di garantire il soddisfacimento dei requisiti '
in termini di raccolta premi nel passato/capitale ', da parte di ogni singola impresa di
assicurazione partecipante alla gara in forma aggregata con più compagnie, farebbe
venire meno la giustificazione stessa dell'ammissione del raggruppamento temporaneo
di imprese, comprimendo ingiustificatamente la concorrenza tra imprese interessate
al servizio di gestione delle risorse dei fondi. L'Autorità ha quindi auspicato che
possano essere adottate idonee azioni ed iniziative, sia da parte di Covip che da parte
della stessa Associazione dei fondi negoziali, volte a garantire che i bandi di gara, pur
nel rispetto delle esigenze della domanda espressa dai fondi pensione, contengano
condizioni di partecipazione in linea con l'obiettivo di massimo confronto competitivo.
Sciopero degli autotrasportatori e oneri delle associazioni di categoria di dissuasione di comportamenti individuali illegittimi
La Commissione ha valutato negativamente il comportamento di sindacati degli autotrasportatori Cna Fita,Confartigianato Trasporti, Conftrasporto Fai, Conftrasporto
Fiap, Conftrasporto Unitai e Sna Casartigiani, con riferimento al «fermo nazionale
dei servizi di autotrasporto di cose», dalle ore 00.00 del 10 dicembre 2007 alle
ore 24.00 del 14 dicembre 2007. La Commissione ha preliminarmente rilevato che
l'astensione collettiva degli autotrasportatori è assoggettata sia al disposto dell'art. 2-
bis della legge n. 146 del 1990 che impone che, qualora incida sulla funzionalità dei
servizi pubblici di cui all'art. 1 della stessa legge, deve esser esercitata nel rispetto di
misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili, sia alle disposizioni
del «Codice di autoregolamentazione dell'esercizio dello sciopero nel settore
dell'autotrasporto in conto terzi» del 20 giugno 2001, valutato idoneo da questa
Commissione con delibera n. 1/93 del 19 luglio 2001 (pubblicato in GU n. 179 del 3 agosto
2001) e pertanto dotato di efficacia erga omnes. All'art. 3 di detto codice sono elencati
i servizi che devono essere assicurati (tra i quali è in particolare compreso il
«trasporto di tutti i prodotti destinati a ospedali, farmacie, ricoveri, mense, scuole, cliniche,
case di cura», nonché il trasporto di «carburante alla rete di pubblico approvvigionamento,
nella misura del 50%, che si realizzerà tramite il concorso degli automezzi
in disponibilità del conto proprio»), disponendo altresà che «la proclamazione della
protesta non dovrà prevedere l'effettuazione di blocchi stradali o di iniziative già sancite
e sanzionate dal codice della strada in materia di circolazione stradale» (art. 6). La
Commissione, nella delibera di valutazione di idoneità del Codice di autoregolamentazione,
aveva già espressamente chiarito che sono ricomprese nelle fattispecie previste
dall'art. 6 del Codice «anche le pratiche di rallentamento e quant'altro venga a turbare
ai fini dell'azione collettiva la circolazione stradale» (punto 10 del «considerato»
della delibera n. 01/93 del 19 luglio 2001). Nel caso di specie queste previsioni sono
state ritenute dalla Commissione violate dalle associazioni degli autotrasportatori in
quanto è stato documentato dall'ordinanza ministeriale di precettazione e dai rapporti
delle Prefetture e delle Questure, nonché dai telegiornali, che nei giorni della protesta
si è avuta sull'intero territorio nazionale una paralisi dell'autotrasporto, nel corso
della quale, tra le prestazioni indispensabili previste dal codice di autoregolamentazione,
non è stato garantito, in particolare, il rifornimento del carburante; inoltre, a seguito
di presidi e di blocchi stradali, si è compromessa la libertà di circolazione. La
Commissione ha respinto le difese delle associazioni di categoria secondo cui tali comportamenti
sarebbero imputabili soltanto individualmente agli autotrasportatori che li
hanno posti in essere in quanto, ad avviso della Commissione, deve ritenersi che, una
volta proclamato uno sciopero o un'astensione collettiva, debba almeno configurarsi
un dovere di influenza sui singoli aderenti per indurli al rispetto delle regole poste a
presidio dei diritti fondamentali della persona; e, in proposito, nel caso in esame non
solo non risulta svolta alcuna azione dissuasiva (tanto meno sanzionatoria, nella forma
di sanzioni disciplinari interne) nei confronti dei singoli aderenti all'illegittima astensione,
in violazione delle disposizioni in ipotesi impartite dalle organizzazioni sindacali;
ma, dalle notizie comparse sui giornali e sulle agenzie di stampa, nonché da interviste
rilasciate, e mai smentite, dai responsabili sindacali, risulta la piena condivisione
dell'azione di protesta da parte dei responsabili nazionali. Nessun pregio è stato
attribuito alla pretesa non vincolatività del Codice di autoregolamentazione dell'autotrasporto
per conto terzi nei confronti delle associazioni di categoria che non lo avevano
sottoscritto poiché, a seguito di valutazione di idoneità da parte della Commissione,
il suddetto Codice ha acquistato un'efficacia generalizzata. Né ha alcuna rilevanza
il fatto che sulla delibera di valutazione di idoneità penda impugnazione avanti
il Consiglio di Stato, fino a che non intervenga un'eventuale pronuncia definitiva di annullamento.
Ripetizione delle procedure di raffreddamento e conciliazione
La Commissione, con riferimento alla regola della ripetizione delle procedure di raffreddamento e conciliazione,ha espresso un diverso orientamento rispetto
a quello precedentemente formulato con la delibera n. 04/557, con la quale aveva
originariamente ritenuto «di segnalare la [â?¦] violazione solo nei casi in cui i motivi
posti a fondamento della vertenza facciano ritenere utile la ripetizione delle procedure
medesime considerando, altresà, il tempo intercorrente dalla precedente effettuazione
del tentativo di conciliazione». La Commissione ha precisato che questa precedente
delibera era stata adottata nel presupposto della non operatività del principio
di concentrazione tra azioni di sciopero, e cioè quando l'individuazione di un giorno
per il quale proclamare una astensione collettiva nel rispetto della regola della rarefazione
si rivelava particolarmente difficoltosa. A seguito dell'interpretazione dell'art. 16
della Regolamentazione provvisoria del settore del trasporto aereo fornita dalla stessa
Commissione con le delibere del 14 giugno 2006 e 5 luglio 2006 è invece venuto meno
questo presupposto su cui si fondava detta delibera n. 04/557. Pertanto la Commissione
ha deliberato di ritenere non più applicabile il principio ivi sancito e di stabilire
il nuovo principio secondo cui, in caso di scadenza del termine di validità delle procedure
di raffreddamento e conciliazione, la proclamazione dello sciopero senza la rinnovazione
delle procedure deve ritenersi comunque irregolare, indipendentemente
dai motivi posti a fondamento della vertenza.
Periodo di franchigia
l'autorità garante è intervenuta ancora una volta sull'esercizio del diritto di autotutela e sui limiti di tale esercizio nei vari spazi temporali.Con una delibera di indirizzo ha infatti chiarito che anche nel periodo di franchigia possono essere
adottate le proclamazioni di sciopero.
Insolvenza datore lavoro – Indennità per licenziamento irregolare – Pagamento subordinato ad adozione di decisione giudizia
Periodi di riscossione di prestazioni familiari in un altro Stato membro non presi in considerazione
L'art. 3, n. 1, del regolamento 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati,ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità ,
osta a che uno Stato membro rifiuti di prendere in considerazione,
ai fini della concessione di una prestazione familiare quale
l'assegno austriaco per la cura dei figli, il periodo di riscossione di un'analoga prestazione
in un altro Stato membro allo stesso modo che se tale periodo fosse stato
compiuto nel proprio territorio. Infatti, il principio di non discriminazione, come sancito
all'art. 39, n. 2, Ce e concretizzato, in materia di previdenza sociale dei lavoratori migranti,
dall'art. 3, n. 1, del regolamento n. 1408/71, vieta non solo le discriminazioni palesi
in base alla cittadinanza dei beneficiari dei regimi di previdenza sociale, ma anche
le discriminazioni dissimulate, di qualsiasi forma, che, pur fondandosi su altri criteri di
riferimento, pervengano in concreto allo stesso risultato. Devono essere giudicate indirettamente
discriminatorie le condizioni poste dall'ordinamento nazionale che, benché
indistintamente applicabili secondo la cittadinanza, riguardano essenzialmente o
in gran parte i lavoratori migranti nonché le condizioni indistintamente applicabili che
possono essere soddisfatte più agevolmente dai lavoratori nazionali che dai lavoratori
migranti o che rischiano di essere sfavorevoli, in modo particolare, per i lavoratori
migranti.
Trasferimento del lavoratore – Accertamento intento persecutorio del datore di lavoro – Esclusione ipotesi di mobbing
Part-time – Spostamento dal servizio 12 al 187 con aumento dell’orario di lavoro e della sua collocazione temporale
Risarcimento del danno da perdita di chances subito dal lavoratore
L'Università di Parma, dopo aver stabilito con decreto rettorale che determinati incarichi di responsabilità sono da conferire «di norma» a personale appartenente alla cat. EP (elevate professionalità ),
conferisce invece un posto di responsabilità , temporaneamente
vacante, ad un dipendente di categoria inferiore. Altro dipendente di cat. EP
reagisce giudizialmente. Il giudice, se da un lato nega che il lavoratore abbia diritto all'assegnazione
dell'incarico (in analogia a quanto la giurisprudenza ' Cass. 6 aprile 2005
n. 7131 ' ritiene per i dirigenti), dall'altro afferma che la norma regolamentare andava rispettata,
pur se l'incarico era provvisorio, quel «di norma» consentendo eccezioni, ma solo
se adeguatamente giustificate (con onere della prova a carico del datore di lavoro). Condanna
perciò l'Università a risarcire il danno da perdita di chances subito dal lavoratore,
in misura pari al 75% della differenza minima fra le retribuzioni percipiende e quelle percepite.
Annullabilità delle dimissioni per incapacità naturale del dichiarante – Illegittimità del successivo licenziamento
Genercità della causale del contratto di somministrazione per mancanza di specificazione in relazione al contratto di fornitura
Un lavoratore aveva prestato la sua attività alle formali dipendenze della Worknet Agenzia per il Lavoro spa con contratto a termine(dal 12 ottobre 2004 all'11 aprile 2005, poi prorogato sino al 11 ottobre 2005), ai sensi dell'art. 20 del
d.lgs.276/2003, per essere posto a disposizione di Tim Italia Spa, richiamando un contratto
di somministrazione tra Worknet e Tim Italia Spa (poi Telecom Italia Spa). La motivazione
addotta dalla società era «fabbisogni di maggiore organico connessi a situazioni
di mercato congiunturali e non consolidabili». Era seguito poi un «nuovo» contratto di
somministrazione, che nella lettera di assunzione era del tutto privo di motivazione. Il lavoratore
ha convenuto in giudizio Telecom Italia Spa, quale incorporante di Tim Italia Spa,
chiedendo dichiararsi nullo il contratto di somministrazione intercorso e accertarsi l'esistenza
di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato alle dirette dipendenze
della società utilizzatrice. A sostegno della domanda rilevava l'applicabilità , espressamente
prevista dall'art. 22 del d.lgs. 276/03, della disciplina del d.lgs. 368/01 al
contratto tra prestatore di lavoro e somministratore, e la espressa previsione dell'art. 27,
comma 2, del medesimo d.lgs. secondo cui tutti gli atti compiuti dal somministratore per
la «costituzione» o la «gestione» del rapporto di lavoro si intendono come compiuti dal
soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, con la conseguenza della applicabilità
allo stesso utilizzatore della sanzione prevista dall'art. 1, comma 2, del d.lgs.
368/2001. Secondo il lavoratore la motivazione allegata al contratto (quella prevista dalla
contrattazione collettiva e all'epoca vigente per effetto della previsione dell'art. 86,
comma 3, del d.lgs. 276/03) era formula generica, dalla quale non potevano rilevarsi le ragioni
oggettive e specifiche che potevano giustificare la somministrazione del lavoratore,
e conseguentemente il termine doveva essere dichiarato nullo, con effetto nei confronti
della società utilizzatrice. Il Tribunale di Bologna accoglie la domanda rilevando che la
causale del contratto collettivo era esattamente riprodotta, senza ulteriori specificazioni,
nell'originario contratto di somministrazione intercorso tra Worknet e Telecom, ed era
clausola generale, che avrebbe dovuto essere specificata in relazione al singolo contratto
di fornitura, con deduzione della situazione che potesse giustificarla. Rileva il giudice che
la disposizione dell'art. 21 del d.lgs. 276/03, nella parte in cui richiede che nel contratto
di somministrazione siano indicate le ragioni di carattere produttivo, organizzativo o sostituito
che lo giustificano, indica un requisito di contenuto-forma del contratto, dalla cui
omissione deriva, ai sensi del comma 4 del medesimo articolo, la nullità del contratto di
somministrazione e la costituzione di un rapporto alle dipendenze dell'utilizzatore, a nulla
valendo la eventuale successiva specificazione in giudizio delle ragioni giustificative del
contratto. La decisione in esame è quindi conforme, nel valutare la fattispecie della somministrazione
a termine ' che ha sostituito la abrogata disciplina della legge 196/97 ' all'orientamento
già espresso per i contratti stipulati nella vigenza della legge 196/97.
Successione di contratti di lavoro interinale e di somministrazione a tempo determinato
Domenica D. aveva prestato la sua attività presso Poste italiane Spa alle formali dipendenze della Ali Spa con contratto di lavoro interinale(dal 2 gennaio 2003
al 30 aprile 2003, poi prorogato sino al 30 settembre 2004) e poi con due contratti di somministrazione
a tempo determinato (sino al 31 gennaio 2006). La motivazione addotta dalla
società per l'utilizzazione con il primo contratto di lavoro interinale era: «Temporanea
utilizzazione in qualifiche non previste dai normali assetti produttivi». La lavoratrice conveniva
in giudizio Poste italiane Spa, chiedendo dichiararsi nulli i contratti di lavoro interinale
e di somministrazione intercorsi e accertarsi l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato
a tempo indeterminato alle dirette dipendenze della società utilizzatrice. La ricorrente
inoltre richiedeva l'inquadramento sin dall'inizio del rapporto di lavoro nel livello
D, in qualità di addetto senior, e non nel livello E ' addetto junior assegnato alla lavoratrice
nei contratti di lavoro. A sostegno della domanda la ricorrente osservava, quanto
al contratto di lavoro interinale, l'insussistenza della causale ' con la conseguenza della
nullità del contratto e della costituzione del rapporto direttamente con Poste italiane '
perché la lavoratrice veniva utilizzata in mansioni appartenenti al normale ciclo produttivo
del Cmp; quanto all'inquadramento, la ricorrente sosteneva che, dall'accertamento del
rapporto di lavoro a tempo indeterminato, discendeva la conseguenza automatica dell'inquadramento
nel livello D che i dipendenti di Poste acquisiscono dopo 24 mesi di permanenza
nelle stesse mansioni. Il Tribunale di Bologna accoglie la domanda rilevando che la
causale del contratto di lavoro interinale non era esistente in concreto, dal momento che
la ricorrente era stata impiegata al reparto Ripartizione arrivi del Cmp, svolgendo mansioni
che attengono all'ordinario processo produttivo della società e che, comunque, la società
non aveva fornito la prova scritta del contratto di fornitura di lavoro temporaneo intercorso
con Ali Spa. Di conseguenza il contratto di lavoro interinale è stato dichiarato nullo
ai sensi dell'art. 1, comma secondo della legge 196/1997. Infine il giudice riconosce alla
lavoratrice il diritto all'inquadramento nel livello D con la qualifica di Addetto Crp Senior,
in quanto dovendo ritenersi il rapporto di lavoro costituito a tempo indeterminato dal
2003, la ricorrente aveva maturato il requisito di 24 mesi di svolgimento delle stesse mansioni,
previsto dal Ccnl applicabile, per acquisire il diritto al superiore livello.
Contratti di lavoro interinale e di somministrazione a tempo determinato - Mancanza di prova scritta valutazione dei rischi
C. D. aveva prestato la sua attività alle formali dipendenze della Vedior Agenzia per il lavoro Spa con tre distinti contratti di somministrazione a tempo determinato(dal 2 aprile 2005 al 30 giugno 2005; dal 1° luglio 2005 al 30 settembre 2005; dal
7 febbraio 2006 al 30 aprile 2006) e poi con un contratto a tempo determinato stipulato
direttamente con Poste italiane (dal 2 maggio 2006 al 31 maggio 2006 sino al 31 gennaio
2006). Il lavoratore conveniva in giudizio Poste italiane Spa, eccependo, tra l'altro, la violazione
dell'art. 20, comma 5, lett. c) del d.lgs. 276/2003 che vieta la stipulazione di contratti
di somministrazione da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione
dei rischi ai sensi dell'art. 4 del d.lgs. 626/1994. Il Tribunale di Parma accoglie la domanda
rilevando che l'onere della prova relativo all'effettuazione della valutazione dei rischi
dell'unità produttiva presso cui il lavoratore è adibito spetta all'utilizzatore e che tale
onere, nel caso di specie, era stato disatteso. Il giudice infatti ritiene i documenti prodotti
da Poste italiane inidonei a provare l'effettuazione della valutazione dei rischi in
quanto documenti formatisi successivamente alla sottoscrizione del contratto di lavoro.
Analogamente, il Tribunale esclude che la prova in questione possa ricavarsi dai contratti
di somministrazione intercorsi tra utilizzatore e agenzia fornitrice in quanto contenenti
una mera dichiarazione di provenienza della parte interessata (Poste italiane) che afferma
di aver compiuto la valutazione dei rischi. Di conseguenza, il giudice ha dichiarato il contratto
di lavoro somministrato illegittimo, in quanto stipulato al di fuori dei limiti e delle
condizioni di cui all'art. 20 d.lgs. 276/2003, con la conseguenza dell'instaurazione, sin
dall'inizio, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore,
e con la condanna di Poste italiane a corrispondere al ricorrente le retribuzioni
non percepite dalla data dell'offerta formale delle prestazioni lavorative. Rimane invece esclusa
' ad avviso del Tribunale ' l'applicabilità , al caso di specie, dell'art. 18 legge
300/1970.
Contratto a termine – Nullità del termine – Conseguenze – Risarcimento del danno – Tempestività della messa in mora
Nullità contratto a termine e relativa proroga – Illegittimità licenziamento, reintegrazione e risarcimento danni
In sede di giudizi premiali per l’avanzamento in carriera l’attività sindacale non si può equiparare all’attività di la
La cessione di un ramo di azienda al fine di eludere la normativa sui licenziamenti costituisce un negozio in frode alla legge
Un'azienda di un noto gruppo commerciale che gestisce una catena di negozi effettuava una procedura di affitto di un ramo di aziendaall'interno del quale erano addetti alcuni lavoratori trasferendo un proprio punto vendita ad un'altra azienda.
A seguito della cessione l'attività commerciale veniva sospesa dall'azienda subentrante mentre
venivano effettuati alcuni lavori di ristrutturazione dei locali che non risultavano, tuttavia,
pagati dall'azienda subentrante nonostante la stessa risultasse titolare dell'azienda.
A seguito della ristrutturazione il contratto di affitto di ramo di azienda veniva risolto
senza che l'azienda affittuaria avesse pagato alcun canone e senza alcuna reciproca pretesa
tra le parti contraenti. A seguito della risoluzione del contratto di affitto l'azienda conduttrice
del ramo aziendale, caratterizzata da un livello occupazionale che escludeva la tutela
reale, senza aver mai ripreso l'attività di gestione risolveva tutti i rapporti di lavoro. Il
punto vendita veniva quindi dopo la ristrutturazione riaffittato ad altra azienda del gruppo
che assumeva alcuni lavoratori. Sulla base di tale complessa vicenda i lavoratori non
riassunti adivano il Tribunale di Vicenza al fine di vedere dichiarare la nullità dell'affitto del
ramo di azienda in quanto negozio in frode alla legge. La domanda veniva accolta nel corso
dei giudizi di merito e la decisione della Corte di Appello veniva confermata in sede di
legittimità . La Corte di Cassazione, pur dando atto che il negozio in frode della legge non
può ritenersi per il solo fatto che il contratto di cessione venga formalizzato con un soggetto
che, per le sue caratteristiche imprenditoriali e in base alle conoscenze del caso concreto
renda probabile la cessazione dell'attività lavorativa, ha tuttavia ritenuto che nel caso
in esame correttamente i giudici di merito avessero motivato che le parti avessero posto
in essere un negozio allo scopo di eludere la disciplina di cui all'art. 18 legge 300/70.
Le circostanze in fatto evidenziate nella sentenza permettevano di ritenere che il contratto
di affitto era stato realizzato al solo scopo di evitare l'applicazione di una norma imperativa
rendendo in tal modo la causa negoziale del tutto illecita.
Indennizzo da emotrasfusione
L'assenza di infezioni in atto a carico del soggetto che ha contratto, a causa di trasfusioni, la epatite Hcv positiva,pur non comportando l'ascrivibilità della patologia
ad una delle categorie previste dalla tabella A allegata al d.P.R. 834/1981, dà comunque
diritto all'indennizzo previsto dagli artt. 1 e 2 della legge 25 febbraio 1992 n. 210 come
modificata dall'art. 1 della legge 25 luglio 1997 n. 238. Ciò è quanto sancito dalla Corte
di Appello di Bologna in applicazione del recente orientamento della Corte di Cassazione
(sentenza della sezione lavoro n. 10214 del 4 maggio 2007) che ha ampliato i confini
della tutela riconosciuta ai soggetti che hanno subito danni irreversibili a causa di infezioni
contratte a seguito di trasfusioni. Ribadisce la Corte di Appello che detto ampliamento
discende da una lettura costituzionalmente orientata (in relazione ai parametri generali
fissati negli artt. 2 e 32 della Costituzione) della normativa di tutela contenuta nella
legge n. 210 del 1992 riferita ai soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni
ed emoderivati, che consente di riconoscere l'indennizzo, previsto dalla citata
legge 210 in favore dei sopraindicati soggetti, in tutti i casi di lesione permanente dell'integrità
psicofisica, cioè della salute come tale, indipendentemente dall'incidenza sulla capacità
di produzione di reddito. Conseguentemente, per la Corte di Appello, deve essere
riconosciuto il diritto all'indennizzo in questione, che ha carattere assistenziale e non è
comparabile perciò con il risarcimento del danno, anche al soggetto affetto da contagio
Hcv che, pur in assenza di sintomi e pregiudizi funzionali attuali, determina sicuramente
un danno permanente alla salute, dovendosi intendere il richiamo alla tabella A allegata
al d.P.R. 834/1981 semplicemente quale prescrizione dei criteri di massima finalizzati alla
liquidazione.
La perdita di chances costituisce una concreta entità economica che deve essere compiutamente provata
Una lavoratrice a seguito di un annullamento di una graduatoria di concorso pubblico nel quale era risultata vincitricevedeva ritardata la costituzione del rapporto
di lavoro con la pubblica amministrazione con il solo riconoscimento della data di
pubblicazione della graduatoria ai soli fini giuridici. La lavoratrice promuoveva un ricorso
innanzi al Tribunale di Torino al fine di vedere riconosciuto il risarcimento del danno da
perdita di chances. La domanda veniva respinta sia in primo che in secondo grado con decisione
confermata in sede di legittimità sul presupposto che nessuna prova era stata concretamente
fornita dalla lavoratrice. La Suprema Corte, nel respingere il ricorso di legittimità
della dipendente ha affermato che la perdita di chances costituisce un'entità patrimoniale
a sé stante giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione
e non già una mera aspettativa di fatto. Sulla base di tale rilievo i giudici di legittimità
hanno confermato la decisione che aveva ritenuto non adeguatamente provata la richiesta
affermando che il lavoratore ha l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo
o secondo un calcolo di probabilità , la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti
per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita quale
il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.
La rilevanza della presunzione ai fini del danno da dequalificazione per particolari professionalità
Un lavoratore assunto quale programmatore sulla base di un concorso alle dipendenze di una azienda municipale di trasportiveniva assegnato a mansioni del tutto
diverse e di minor profilo professionale. Nel corso di un giudizio per il risarcimento del
danno sia il Tribunale che la Corte territoriale di Catania riconoscevano il danno che liquidavano
in via equitativa nella misura del 25% della retribuzione per i primi 12 mesi e del
40% per i mesi successivi. Nel respingere il giudizio di legittimità interposto dall'azienda
la Corte di Cassazione ha ritenuto la correttezza argomentativa della sentenza della Corte
di Appello rilevando che il danno non era stato ritenuto dai giudici di merito in re ipsa ma
adeguatamente motivato sul rilievo della mancata acquisizione di una maggior capacità . Il
danno ' conclude la Corte ' appare evidente e grave nell'esercizio di alcune particolari professioni,
come quella del caso in esame, soggette ad una continua evoluzione e richiedenti
quindi continui aggiornamenti, come si verifica in materia di tecnologia informatica trattandosi
di un settore in costante sviluppo, che presuppone un assiduo aggiornamento tecnico,
nonché una attività pratica di impiego dei diversi programmi applicativi.
Limiti al diritto del lavoratore disabile al mantenimento dell’iscrizione nelle liste di collocamento
I massaggiatori di una squadra di calcio non rientrano nella legislazione speciale del lavoro sportivo
Un massaggiatore di una squadra di calcio veniva assunto a termine per alcune stagioni calcistiche sulla base della normativa speciale del lavoro sportivo.A
seguito di un mancato rinnovo del contratto il lavoratore adiva il magistrato del lavoro che
con sentenza confermata in sede di appello vedeva dichiarato nullo il termine apposto al
proprio rapporto lavorativo sul presupposto che la speciale normativa del lavoro sportivo
non poteva essere legittimamente invocata dalla squadra di calcio non rientrando la figura
professionale svolta dal dipendente tra quelle indicate dalla legge. La Suprema Corte
nel respingere il gravame della società ha confermato la decisione del Collegio messinese
ritenendo, diversamente da quanto opinato da parte della dottrina, che l'elencazione
delle figure professionali indicate nella legge assume un carattere tassativo e non esemplificativo.
Osserva, infatti, la Suprema Corte che l'elencazione deve considerarsi tassativa
per avere il legislatore adoperato non espressioni generiche, tali da permettere una
classificazione dell'art. 2 in termini di norma aperta. L'applicazione analogica della norma
non può infine essere invocata in quanto la disciplina del lavoro sportivo costituisce una
norma eccezionale né può essere estesa al massaggiatore sulla base di una interpretazione
estensiva stante la profonda diversità delle professionalità indicate rispetto a quella
caratterizzante il massaggiatore.
Rito del lavoro e processo societario
Il rito del lavoro prevale su quello societario in caso di procedimenti connessi.Con questa importante sentenza, quindi, la Corte fa giustizia del tentativo di far prevalere
il meno garantista rito commerciale su quello lavoristico in caso si discuta dei diritti dei lavoratori.
In sostanza la Corte ha stabilito che, nelle ipotesi di connessione del rito societario
con un altro tipo di procedimento civile, vanno applicati i normali criteri di determinazione
del rito precisati dall'articolo 40 del codice di procedura civile, che sancisce la prevalenza
del rito del lavoro su quello societario. D'altra parte, la scelta di privilegiare il rito
societario operata dal legislatore delegato non trova alcun appiglio rispetto ai criteri della
legge delega n. 366 del 2001, per cui la norma impugnata deve considerarsi illegittima
per eccesso di delega (art. 76 Cost.).
Doppia indennità integrativa speciale
La Corte dei Conti della Sicilia (n. 13/07) ha rimesso alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell'art. 1, comma 774, della legge n. 296/06,il quale fornisce l'interpretazione autentica dell'art. 1, comma 41, della legge n. 335/95 precisando
che, indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta, sulle pensioni di
reversibilità ad esse correlate, sorte dopo l'entrata in vigore della legge n. 335/95, l'indennità
integrativa speciale va attribuita in misura percentuale e non in misura intera. La
questione sollevata dalla magistratura siciliana, alla quale nel frattempo si era aggiunta
anche un'ordinanza di rinvio della Corte dei Conti della Puglia, riguardava l'efficacia retroattiva
del nuovo dettato normativo che, a parere dei giudici contabili, presentava tutte
le caratteristiche di una norma di natura innovativa piuttosto che interpretativa e, come
tale, non poteva che trovare applicazione limitatamente alle prestazioni di reversibilità liquidate
a seguito di decesso del dante causa, già titolare di pensione diretta ante 1995,
avvenuto successivamente all'entrata in vigore della legge (1° gennaio 2007). Per i giudici
rimettenti, l'applicazione ex tunc della norma costituisce violazione del principio di ragionevolezza
al quale il legislatore deve sempre attenersi al fine di garantire la certezza
dei rapporti giuridici, a maggior ragione quando si tratta di norme che vanno ad incidere
su situazioni di diritto soggettivo come il trattamento di pensione. Con la sentenza in rassegna
la Corte costituzionale si è pronunciata dichiarando infondati i rilevi di costituzionalità
sollevati dalle due sezioni della Corte dei Conti. In primo luogo, il giudice delle leggi
ha riaffermato il principio, già espresso con la sentenza n. 446/02, della indipendenza
del trattamento di reversibilità rispetto alla data di liquidazione della pensione diretta del
dante causa. Partendo proprio dall'assunto che il diritto alla pensione di reversibilità è un
diritto autonomo che sorge soltanto al momento del decesso del titolare di pensione diretta,
la Corte costituzionale non ha ritenuto di ravvisare elementi di irragionevolezza nel
carattere interpretativo-retroattivo della norma, destinata ad incidere su prestazioni pensionistiche
di reversibilità non ancora in essere al momento dell'entrata in vigore della legge
n. 335/95. Viene dunque rigettata la tesi della lesione del principio dell'affidamento
nella certezza giuridica, atteso che la efficacia retroattiva ha toccato situazioni non sostanzialmente
definite in base a previgenti disposizioni di legge (c.d. diritti quesiti), bensà
prestazioni potenziali, il cui diritto si è definitivamente costituito in un contesto normativo
modificato. Peraltro, considerato che la norma impugnata ha dato luogo ad un atteggiamento
giurisprudenziale non univoco, il legislatore, a detta della Corte costituzionale,
con il suo intervento altro non ha fatto che optare per una delle possibili interpretazioni,
ritenuta maggiormente rispondente all'originario spirito perequativo della legge, con la
quale si è voluto estendere anche alle gestioni pensionistiche amministrate dall'Inpdap la
disciplina delle pensioni ai superstiti spettante ai lavoratori iscritti all'assicurazione generale
obbligatoria.
Patto di stabilità e assunzione a tempo determinato nelle Regioni
È incostituzionale la norma della Finanziaria 2007 che aveva fissato,per le Regioni e Province autonome che avessero voluto assumere personale a tempo determinato, una
quota non inferiore al 60% dei posti di lavoro da riservare ai collaboratori. La Corte costituzionale
ha quindi ritenuto che, nel caso di patto di stabilità interno, l'intervento dello
Stato, non essendo rivolto verso un contenimento della spesa pubblica bensà ai criteri di
assunzione del personale, deve ritenersi illegittimo per violazione dell'articolo 117 della
Costituzione. Non trattandosi di «principi di coordinamento della finanza pubblica», bensà
di una interferenza nella potestà legislativa «residuale» delle regioni in materia di «organizzazione
amministrativa» degli uffici, la Corte ha accolto il ricorso della Provincia autonoma
di Trento.
Regioni e disciplina delle professioni
Ancora una decisione di illegittimità costituzionale nei confronti di una normativa regionale che individua e disciplina nuove professioni,in questo caso i «bionaturisti». Come è noto, infatti, la materia delle «professioni» è tra quelle che l'articolo
117, terzo comma, della Costituzione assegna alla potestà normativa concorrente tra Stato
e Regioni. Nel caso in cui, come nella specie, non vi sia una normativa dello Stato che
individui i principi fondamentali da applicare ad una determinata professione, la normativa
regionale non può che essere dichiarata incostituzionale per violazione del citato articolo
del novellato Titolo V della Costituzione.