4 / 2007
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L'argomento: il nuovo giudizio di cassazione È incostituzionale la norma sull'automatico divieto di concorrere ad altro impiego statale dopo la decadenza L'art. 420-bis cod. proc. civ. è conforme alla Costituzione
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Il nuovo giudizio di Cassazione: supplenza zero
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1. Con la recente riforma si è attuata una modifica radicaledelle modalità  di accesso al giudizio di legittimità  che ha origini anche lontane e, occorre sottolineare, obiettivi ben precisi. Si è infatti all'interno del tradizionale dibattito tra la funzione ordinamentale della Corte (ius constitutionis) e una sua funzione supplente, volta a non compromettere i diritti di chi sta in giudizio (ius litigatoris), caratterizzato tuttavia nettamente dal prevalere della prima rispetto alla seconda [cfr. V. CARBONE, Presentazione, in Il nuovo giudizio di cassazione a cura di G. IANNIRUPERTO e U. MORCAVALLO, Milano 2007, p. XI]. Gli obiettivi di fondo sono il recupero della funzione nomofilattica e, soprattutto, la realizzazione di pressanti esigenze deflattive. Nel 2005 sono stati trattati circa 30.000 ricorsi con un carico di lavoro crescente (e spesso poco gratificante) su di un numero di giudici di legittimità  che, pur non essendo modesto, è evidentemente inadeguato a sorreggere il peso di un tale volume di fascicoli. L'estensione della nomofilachia ai contratti collettivi, la necessità  di formulare il quesito di diritto e il rilievo d'ufficio delle questioni non potranno non incidere in profondità  sul ruolo della Corte e, soprattutto, sul lavoro degli avvocati. Si è in sintesi pensato di rendere più rigorosi i tradizionali limiti di accesso imponendo un salto qualitativo «storico» al lavoro della difesa e sancendo di fatto il principio che quello che non ha fatto l'avvocato non lo fa, in nessun caso, la Corte. Si è attuata quindi la definitiva cessazione di qualsiasi attività  di supplenza con il completamento di quella riforma sotterranea e strisciante iniziata circa venti anni fa con il recupero e il rilancio continuo del principio di autosufficienza, portata avanti con efficacia già  con la istituzione della «Struttura centralizzata esame preliminare ricorsi civili», promossa dalla legge n. 89 del 2001 e funzionale al rito camerale. In un contesto più generale, ulteriore sintomo della tendenza verso la richiesta di maggiore professionalità  può essere considerata la lettura operata da parte della Corte di alcune regole di procedura e delle modalità  di acquisizione delle prove [cfr. Cass. Ss.Uu. 20 aprile 2005, n. 8203 e Cass. Ss.Uu. 20 aprile 2005, n. 8203 edite in forma combinata in Foro It.,2005, I, p. 1690 ss.]. La dottrina ha in parte reagito sottolineando, non sempre a torto, la tendenza verso il prevalere della verità  processuale sulla verità  sostanziale e, di fatto, sul senso di giustizia [cfr. A. PROTO PISANI, Nuove prove in appello e funzione del processo in Foro It., 2005, I, p. 1699 ss.]. Il primato del rito sulla sostanza non risulta in via di principio automaticamente giustificato e sorretto dalle esigenze di riduzione dei tempi processuali e di deflazione. Tutto questo è emerso in riunioni e convegni dove si è sottolineata tra l'altro l'anomalia del caso Italia (tutti cassazionisti a una certa età ) rispetto, ad esempio, a quanto succede in Francia (dove gli avvocati abilitati ad adire la Corte Suprema sono alcune decine). Sotto tiro quindi, con una certa dose di ironia e fastidio, la scarsa attitudine tecnica della difesa in sede di legittimità  (basata essenzialmente sulla pratica: io sparo a raggio e poi si vede). A questo proposito è giusto tuttavia dare peso e fondamento alla necessità  di «evitare il rischio di un soggettivismo interpretativo, essendo solo del ricorrente la responsabilità  della redazione dell'atto introduttivo» [sottolineata con efficacia da A.CARRATO, I motivi di ricorso, in Il nuovo giudizioâ?¦, cit., p. 220, nota 8]. 2. In tempi brevi e con modi drastici si vuole, in buona sostanza, ottenere la riduzione del contenzioso di legittimità  con un rigoroso rispetto delle nuove regole processuali che sono e saranno interpretate, secondo la intenzione prevalente, il più restrittivamente possibile. Ancora in sintesi, supplenza zero significa: la Corte non perde più tempo a colmare le lacune del tuo lavoro di avvocato e a dare comunque un senso alle tue difese allusive e poco centrate. La riforma più significativa riguarda la redazione del ricorso. Si vuole che l'accesso alla Corte sia meditato e conforme alle regole, non solo nella sostanza ma anche, se non soprattutto, nella forma. Nulla si può più ricavare dal contenuto complessivo dell'atto. Le inammissibilità  sono effettive e diventeranno strumento potente di deflazione e di dissuasione. Le improcedibilità  sono estese al tempestivo deposito di tutto quanto serva a sorreggere le censure e rappresentano, in molti casi, una efficace «tagliola». Cosà come, è stato sottolineato, lo sarà  la formulazione del quesito [cfr A. PROTO PISANI, Novità  nel giudizio civile di cassazione, in Foro It., 2005, IV, p. 252, citato da B. BALLETTI, F. MINICHIELLO, Il nuovo contenuto del ricorso per cassazione, in Il nuovo giudizioâ?¦,cit., p. 202]. Per quello che si è potuto capire e per quello che emerge dalle indicazioni giurisprudenziali espresse dalla Corte, il primo ostacolo da superare è forse il più alto ed è quello di giungere a discutere le censure in pubblica udienza. Il tasso di rimessione alla camera di consiglio ha assunto infatti livelli particolarmente significativi, tutti ancorati a una rigorosa lettura delle norme e a una puntigliosa verifica da parte dell'ufficio della sussistenza di tutti i requisiti previsti. Numerose rimessioni al rito abbreviato riguardano ancora il principio di autosufficienza, rinvigorito dalla sua avvenuta codificazione. Non è ancora chiaro cosa significa l'ampliamento delle improcedibilità  collegate a quanto previsto dall'art. 369 comma 2 n. 4, né se vi sia un rifiuto assoluto della Corte di andare a verificare il contenuto dei fascicoli di merito, spesso voluminosi e disordinati. È tuttavia prudente (per non dire prevedibile) attendersi il peggio e depositare nei venti giorni dalla notifica, oltre alla sentenza impugnata e alle istanze di trasmissione, tutti gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, in aggiunta a quanto già  contenuto nei fascicoli di merito. Con una cura particolare nel recupero tempestivo dei documenti depositati dalla controparte, non acquisiti in copia nel corso del giudizio di merito o, comunque, non disponibili. Per fare qualche preliminare constatazione, è già  emerso che non si può comunque fare affidamento sull'eventualità  che il quesito di diritto sia ricavabile dal contenuto dell'atto o che la Corte, anche con riferimento agli errores in procedendo, provveda direttamente alla verifica degli atti di causa dopo averli individuati. Vi devono essere infatti nel ricorso indicazioni precise e puntuali, nonché citazioni testuali [cfr. Cass., sez. III, 18 giugno 2007, n. 14133]. 3. Tra i suggerimenti che alcuni giudici della Corte in occasioni pubbliche hanno dato agli avvocati per rendere il loro lavoro conforme ai dettati del codice (e alle aspettative) va segnalato ' oltre a quello di evitare di appesantire gli atti con una pignolesca quanto inutile riproduzione di tutte le date, le fasi e i passaggi del giudizio di merito ' quello di proporre ricorso soltanto dopo aver individuato: a) la regula iuris applicata nella decisione che si intende impugnare; b) la regula iuris che si assume violata. Se questa duplice individuazione non è possibile, allora il ricorso non si deve fare. Tali indicazioni (esemplificative, non scontate e certamente apprezzabili) mettono a mio avviso in luce (oltre all'evidente fastidio che negli ambienti della Corte si prova nei confronti di un livello professionale giudicato inaccettabile e, soprattutto, origine di pratiche defatiganti) la diversa prospettiva e i rischi di incomunicabilità  che si nascondono nell'assolvimento dei rispettivi ruoli. E comunque non sembrano del tutto aderenti a quella che, a volte, è la realtà  del processo (non tutte le sentenze consentono di cogliere la «regula» tra espressioni ellittiche e allusive, nell'ambito di giudizi di merito complicati e complessi) e la funzione della difesa (che non può sempre, a priori, per esigenze di trasparenza e chiarezza indirizzare verso un solo bersaglio le proprie frecce). Gli avvocati vivono spesso nel dubbio. I giudici cercano invece di fornire certezze. Sono soltanto pignolo, inadeguato o pigro io difensore che posso rendere più diretto, comprensibile ed efficace il mio atto o negli anni non è stata anche fuorviante (o comunque origine di deviazioni) la giurisprudenza che, a volte senza ragionevolezza o coerenza, ha disomogeneamente ampliato le potenzialità  applicative del principio di autosufficienza, inducendo ad affastellare citazioni e richiami al giudizio di merito non sempre pertinenti? Siamo certi che è sempre possibile individuare nelle decisioni di merito una regula iuris netta e di generale applicazione? E comunque, quando le ipotesi sono più di una, la fattispecie è complessa e la soluzione data non è poi cosà chiara, perché devo assumermi io avvocato tutti i rischi di una semplificazione o di scelte nette e definitive? Se mi si chiede maggiore chiarezza e pro- fessionalità  è certo che dovrò adeguarmi o passare la mano. Se mi si chiede di limitare le potenzialità , anche solo ipotetiche, delle possibilità  di difesa, evitando di moltiplicare le censure e i quesiti, allora il discorso si fa più complesso, soprattutto in una fase caratterizzata dall'incertezza. 4. È indubbio che il primo passaggio che bisogna operare per giungere a una valutazione di ricorribilità  o meno in sede di legittimità  è quella di un'attenta lettura della decisione impugnata e di una presa d'atto di tutte le motivate valutazioni di merito in essa contenute. Subito dopo però occorre ripercorrere il processo e verificare sia la ricognizione operata della fattispecie concreta che la rispondenza di quanto avvenuto a regole fondamentali quali, ad esempio, il rapporto tra il chiesto e il pronunciato o l'applicazione del principio iuxta alligata et probata partis. Dopo di che, occorre senz'altro individuare la regola posta a base della decisione. Le affermazioni di principio e le norme applicate consentono di verificare se la ricognizione della fattispecie astratta disciplinata dalla norma è corretta o censurabile perché, in ipotesi, contraria a quella vivente indicata dalla giurisprudenza. Il vizio di violazione di legge corrisponde appunto alla individuazione di una errata ricognizione della fattispecie astratta e, quindi, alla interpretazione della disposizione applicata. Costituisce peraltro principio da tempo consolidato quello in base al quale è inammissibile quella censura che, pure formulata con il richiamo alla violazione o alla falsa applicazione di determinate norme, non contenga né la trascrizione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si assumono errate, né la proposizione di una diversa interpretazione delle norme che si assume corretta. Un capitolo a parte è costituito dalla estensione della nomofilachia ai contratti collettivi, realizzatasi con la introduzione nei tipi di censura degli errores in iudicando. La verifica della violazione o della falsa applicazione di una disposizione pattizia con efficacia nazionale avrà  come punto di riferimento non eludibile le tradizionali regole di interpretazione poste dal codice civile, anche se il nuovo status nella gerarchia delle fonti non potrà  non far nascere esigenze di integrazione dei canoni e di una loro più ponderata comparazione [anche su tale punto di estremo interesse è la recentissima Cass., sez. lav., 21 settembre 2007, n. 19560]. La verifica invece di una corretta ricognizione della fattispecie concreta e delle valutazioni di merito che sono frutto di questa ricognizione può condurre soltanto alla pro- posizione di un vizio di motivazione, cosà come la chiara individuazione di fatti controversi e decisivi che risultano non oggetto di esame [cfr. Cass., sez. III, 5 giugno 2007, n. 13066]. La falsa applicazione vive in un'area limitata, che è compatibile con una corretta interpretazione della norma e una adeguata ricognizione della fattispecie concreta, ma che presuppone una errata correlazione tra la norma di diritto (correttamente interpretata) e la fattispecie concreta (correttamente ricostruita). Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che non siano più ammissibili censure complesse, censure cioè che fanno leva e richiamano più vizi allo stesso tempo (vizi che traggono tutti comunque origine dalle diverse previsioni di cui si compone l'art. 360) [cfr. B. SASSANI, Il nuovo giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 2006, p. 217 ss.]. Si tratta di vedere quindi che fine farà , in questo contesto, la contemporanea censura di violazione e falsa applicazione di legge, tradizionale caposaldo di molti ricorsi. La prudenza consiglia di eliminare la consuetudine, anche se è auspicabile una certa tolleranza. Nel vizio di nullità  della sentenza o del procedimento devono essere fatte confluire tutte le censure che fanno leva sulla violazione di regole processuali. La omessa pronuncia o il vizio di ultra o extrapetizione non devono essere indicati facendo riferimento all'art. 360 n. 3 (e quindi alla violazione di legge) ma all'art. 360 n. 4. La violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. (norma che rappresenta un caposaldo nella formulazione di molti ricorsi) non deve quindi essere mai accostata alla violazione di legge ma alla nullità  del procedimento [cfr. sul punto A. CARRATO, op. cit., p. 235 e passim; nonché Cass., sez. III, 5 giugno 2007, n. 13059]. Sotto quest'ultimo profilo, mi auguro davvero che, con l'aria che tira, non si debba arrivare alla declaratoria di inammissibilità  di censure che, senza fare nessun riferimento all'art. 360 (né al n. 3 né al n. 4) si limitino a lamentare semplicemente la violazione della norma e del principio sottostante. Un ultimo corollario riguarda l'error in procedendo e il principio di autosufficienza. Occorre ormai tenere presente che non si può più fare affidamento sull'autonoma rilettura degli atti processuali da parte della Corte, neanche sotto questo profilo. L'obbligo di riesame viene infatti strettamente correlato alla indicazione di tutte le precisazioni e i riferimenti necessari per individuare la dedotta violazione processuale. 5. Il nuovo e più atteso protagonista della riforma processuale è senza dubbio il quesito di diritto che, a pena di inammissibilità , deve essere formulato a conclusione della illustrazione dei motivi proposti. È esclusa l'applicazione del nuovo istituto all'ipotesi prevista dal nuovo testo dell'art. 360 n. 5, che impone invece la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni che determinano la inadeguatezza della sentenza a decidere il caso. Le prime indicazioni giurisprudenziali consentono di determinarne i contenuti, almeno sul piano teorico, e di affermare che l'esistenza di tale requisito deve essere espressa ed effettiva e non ricavabile o estrapolabile dal contesto dell'atto. Il quesito non può essere generico né complesso, deve avere efficacia generale ma, allo stesso tempo, contenere chiari riferimenti alla fattispecie. Deve condurre all'affermazione di un principio di diritto, regula iuris del caso e di casi analoghi, e a una decisione effettiva della fattispecie. Il quesito è inesistente se non è né specifico né decisivo [cfr. Cass., sez. I, 7 giugno 2007, n. 13329 (ord.); Cass. Ss.Uu., 5 gennaio 2007, n. 36; Cass. Sez. Trib., 22 maggio 2007, n. 11682; nonché infine la rassegna di giurisprudenza in Foro It., 2007, I, c. 1385 ss. con nota di R. CAPONI]. Il quesito non può contenere implicazioni o presupporre sottintesi, dal momento che nessun vizio che non risulti direttamente riflesso nella formulazione proposta può essere preso in considerazione. Non può essere unico per l'intero ricorso ma deve essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura sollevata. Deve essere riferibile alla fattispecie concreta, soprattutto ed espressamente quando attiene a una delle tante norme elastiche che disciplinano il diritto del lavoro o quando punta all'affermazione di un principio di diritto su di una norma vivente (cosà come cioè interpretata dalla giurisprudenza prevalente). In un caso del tutto particolare (in quanto caratterizzato dalla proposizione di un quesito di diritto secondo le previsioni delle nuove norme processuali, prima però della entrata in vigore della riforma) un collegio della sezione lavoro ha espresso indicazioni interpretative tolleranti, sulla cui presa è tuttavia rischioso scommettere. In quella occasione si è infatti affermato che la Corte non sarebbe vincolata alla formulazione del quesito qualora esso non corrisponda anche in parte al vero contenuto del motivo e alla sua illustrazione. Anche in questo caso l'interpretazione degli atti processuali spetterebbe al giudice, coi soli limiti imposti dall'art. 112 cod. proc. civ., dal divieto di ultra e extrapetizione, nonché di omissione anche parziale della pronuncia [Cass., sez. lav., 24 luglio 2006, n. 16876 in Foro It. 2007, I, c. 1397]. In una importante sentenza emessa ai sensi dell'art. 420-bis cod. proc. civ. è stato di recente affermato che «quello che è sempre richiesto ai fini dell'ammissibilità  è che a un motivo di ricorso o ad una censura si accompagni almeno un unico quesito». A ciò si è aggiunto che «l'indebita frammentazione di un unico motivo (o di un'unica censura) in una pluralità  di quesiti non porta di per sé all'inammissibilità  del motivo allorquando il giudice sia in grado di ridurre ad unità  i quesiti formulati attraverso una interpretazione della lettura del contenuto del motivo (o della censura), che riesca agevole per la chiarezza del dato testuale e che non faccia sorgere, quindi, dubbi o perplessità » [cosà testualmente Cass., sez. lav., 21 settembre 2007, n. 19560]. 6. Deve infine essere rilevato che si è anche ritenuto che la necessità  che il ricorso presenti apposita parte destinata ad adempiere alla funzione di cui all'art. 366-bis (al di là  della parte dedicata alla esposizione del motivo) esiste anche per quanto attiene al motivo di ricorso ai sensi del n. 5 dell'art. 360. Il che significa che la inammissibilità  scatta anche con riferimento alla mancanza di una «chiara indicazione del fatto controverso e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria» o delle ragioni per le quali l'insufficienza della motivazione la renderebbe «inidonea a giustificare la decisione». Anche se è vero che il legislatore non ha detto espressamente che l'illustrazione del motivo deve concludersi con quella «chiara indicazione» (ma ha solo imposto che il motivo la debba «contenere») la Corte ha affermato che anche i requisiti sopra richiamati non possono essere desunti o estrapolati all'interno dell'esposizione della censura e all'esito della sua completa lettura. Essi devono emergere espressamente. In particolare, la chiara indicazione del fatto controverso rappresenta una parte specifica ed essenziale della censura, che non può mancare [cosà Cass. sez. III, 18 luglio 2007, n. 16002 (ord.)]. Il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell'art. 360 non può infatti più risolversi nell'investire la Corte del controllo sic et simpliciter dell'iter logico della motivazione. Esso non può essere del tutto svincolato rispetto allo scopo da raggiungere, che è la prospettazione di una decisione che non poteva non essere diversa. Ne discende che, nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività , i requisiti concernenti la censura di cui al n. 5 devono consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente destinata, con indicazioni espresse e puntuali. Anche in questo caso, quindi, la censura non può essere ritenuta ammissibile se l'osservanza del requisito dell'art. 366-bis cod. proc. civ. può essere ricavata esclusivamente da una completa lettura del motivo (all'esito cioè di un'attività  di interpretazione e di supplenza che la Corte non vuole più svolgere) e non da una precisa indicazione da parte del ricorrente. Ancora una volta viene pertanto affidata a una lettura rigorosa delle nuove regole processuali non soltanto la salvaguardia della funzione affidata dall'ordinamento alla Corte ma anche, se non soprattutto, l'intento deflattivo che è all'origine della riforma.
L'azienda che mantiene un dipendente in servizio per anni dopo la scoperta di un comportamento illecito non può licenziarlo
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Rita C. dipendente della Spa Poste italiane, in seguito a un esposto presentato nell'agosto del 1993, ha subito un'ispezione,al termine della quale è stata denunciata alla Procura della Repubblica per avere incassato la somma portata da un libretto postale intestato a sua madre, deceduta, falsificando la firma. È seguito un processo penale che in primo grado si è concluso con l'assoluzione dell'impiegata, mentre in secondo grado, davanti alla Corte d'Appello di Cagliari, ha avuto come esito, nel 1999, la sua condanna alla pena di sei mesi di reclusione per i reati di abuso d'ufficio e di falso. Né prima né dopo tale processo l'azienda ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti di Rita C. che è rimasta in servizio con incarichi di crescente importanza. Nel gennaio del 2000 la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall'impiegata avverso la sentenza della Corte d'Appello di Cagliari. In seguito a ciò la Spa Poste italiane ha sottoposto l'impiegata a procedimento disciplinare, contestandole l'addebito di essere stata condannata, con sentenza definitiva, per i reati di abuso di ufficio e di falso in relazione all'episodio denunciato nel 1993. Il procedimento disciplinare si è concluso nell'agosto del 2000, con il licenziamento in tronco, motivato con riferimento alla condanna riportata dall'impiegata in sede penale per un fatto commesso nell'esercizio delle sue funzioni. Rita C. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Cagliari sostenendo che esso doveva ritenersi illegittimo per la tardività  della contestazione dell'addebito. Il Tribunale ha rigettato il ricorso, ma la sua decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Cagliari che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Rita C. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha rilevato che sin dall'agosto del 1993 l'azienda aveva avuto piena conoscenza dei fatti per i quali era successivamente intervenuto la condanna in sede penale, ma per sette anni non aveva mosso alcuna contestazione all'impiegata mantenendolo in servizio e attribuendole mansioni di particolare importanza. Questo comportamento ' ha osservato la Corte di Cagliari ' era interpretabile unicamente come manifestazione della volontà  di rinunciare alla applicazione della sanzione. La Spa Poste italiane ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Cagliari per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Cagliari ha correttamente applicato il principio di immediatezza della contestazione dell'addebito e dell'applicazione della sanzione, rilevando che l'azienda aveva atteso ben sette anni prima di contestare alla dipendente i fatti costituenti un illecito disciplinare, sicché tali fatti non potevano certamente qualificarsi come di gravità  tale da rendere impossibile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, che, invece, si è svolto del tutto pacificamente per sette anni.
È nulla la clausola di un bando di concorso per assunzioni che dà alla P.A. la facoltà di non chiamare in servizio i vincitor
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Il danno morale da malattia professionale ha natura contrattuale perché causato da mancanza di misure di prevenzione
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Guido C., dopo aver lavorato alle dipendenze della Srl Nuova Sacelit, ha chiesto, nel giugno del 1995, al Pretore di Bergamo, la condanna dell'aziendaal risarcimento del danno per averlo fatto lavorare negli anni 1980-1983, in un ambiente ove erano presenti polveri di amianto, causandogli l'asbestosi, diagnosticata nel dicembre del 1987. L'azienda ha contestato la fondatezza dell'eccezione ed ha comunque eccepito la prescrizione del diritto fatto valere dal lavoratore. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha condannato la società  al pagamento, in favore del lavoratore, della somma di lire 346 milioni a titolo di risarcimento del danno biologico e morale conseguente alla malattia professionale contratta. L'azienda ha proposto appello davanti al Tribunale di Bergamo, censurando la sentenza di primo grado, tra l'altro, per non avere ritenuto prescritto il diritto del lavoratore e per avergli attribuito il risarcimento del danno morale, non specificamente richiesto. L'appellante ha sostenuto che sia il termine decennale di prescrizione del danno biologico, di natura contrattuale, che il termine quinquennale per la prescrizione del danno morale, di natura extracontrattuale, dovevano ritenersi ampiamente decorsi al momento in cui il lavoratore si era rivolto al Giudice. Il Tribunale ha rigettato l'impugnazione, affermando che nella richiesta iniziale di risarcimento del danno, doveva ritenersi ricompresa anche la domanda relativa al danno morale, che sia il danno patrimoniale che quello morale avevano natura contrattuale, onde per la loro prescrizione si applicava il termine decennale e che questo termine aveva iniziato a decorrere nel dicembre del 1997 quando per la prima volta al lavoratore era stata diagnosticata l'asbestosi. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Bergamo per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando, in primo luogo, che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da malattia professionale inizia nel momento in cui si verifica la sua conoscibilità  da parte del lavoratore. Anche il danno morale ' ha aggiunto la Corte ' in caso di malattia professionale derivata da inosservanza del dovere di tutela della salute del lavoratore, previsto dall'art. 2087 cod. civ., ha natura contrattuale onde il termine di prescrizione del relativo diritto al risarcimento è decennale. Quanto all'eccezione di ultrapetizione per avere la parte fatto riferimento alla responsabilità  extracontrattuale ed avere invece il Giudice riconosciuto quella contrattuale, la Corte ha osservato innanzi tutto che spetta al giudicante sia la interpretazione della domanda, che la qualificazione giuridica del fatto; in ogni caso, il Giudice deve sempre liquidare l'intero danno che il soggetto abbia subito, compreso quello morale, in conseguenza del fatto illecito altrui, a prescindere dalla specificazione delle singole voci da parte dell'attore. Non incorre nel vizio di ultrapetizione ' ha affermato la Corte ' il Giudice che, anche senza una specifica domanda della parte, le attribuisca il risarcimento dei danni non patrimoniali di cui essa risulti aver sofferto in conseguenza del fatto illecito costituente reato posto a fondamento della sua domanda di risarcimento di danni, la quale ' salva espressa specificazione ' deve ritenersi comprensiva di tutti i danni e, quindi, anche di quelli morali. Il Giudice del merito ' ha rilevato la Corte ' ha correttamente inquadrato la fattispecie nell'ambito del danno contrattuale, avendo la parte dedotto in giudizio la violazione delle misure di sicurezza pur in presenza di una notevole polverosità  ambientale, comprendente l'amianto; non è quindi esatta la censura che il Giudice abbia errato ad inquadrare l'eccezione di prescrizione del danno morale nell'ambito del danno contrattuale ai sensi dell'art. 2059 cod. civ. escludendo invece l'applicabilità  della prescrizione breve ex art. 2947 cod. civ. prevista per l'illecito aquiliano.
Il cittadino italiano licenziato a New York da un'impresa italiana ha diritto alla tutela dell'art. 18 Stat. Lav.
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Guido B., dipendente della Banca di Roma, filiale di New York, ha convenuto dinanzi al Pretore di Roma la società  datrice di lavorodeducendo l'illegittimità  del licenziamento intimatogli e chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Pretore adito ha rigettato la domanda, con sentenza confermata in appello dal Tribunale. Con sentenza n. 15822/2002 la Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, affermando che il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, sorto ed eseguito all'estero, doveva ritenersi regolato, secondo i criteri della Convenzione di Roma del 19 luglio 1980, dalla legge del luogo della prestazione lavorativa, a meno che tale legge non risultasse manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico italiano; e che è manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico italiano una legge che in linea generale non preveda tutela contro il licenziamento ingiustificato. Il Giudice del rinvio, designato nella Corte di Appello di L'Aquila, ha affermato l'illegittimità  del licenziamento e ha condannato la Banca alla reintegrazione di Guido B. nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno, ritenendo applicabili le disposizioni della legge italiana. Ad avviso della Corte territoriale, la legislazione dello Stato di New York, applicabile secondo i criteri di collegamento fissati dalla Convenzione di Roma, deve ritenersi contraria all'ordine pubblico italiano perché non assicura in via generale una tutela contro i licenziamenti ingiustificati; trova quindi applicazione la legge italiana in base al principio fissato dall'art. 16 comma 2 della legge n. 218/1995 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), con la tutela prevista dall'art. 18 Stat. lav. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di L'Aquila per violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di L'Aquila ha correttamente accertato le contrarietà  all'ordine pubblico della normativa di legge americana che consente il recesso ad nutum e pertanto non tutela il lavoratore contro il licenziamento ingiustificato. La Cassazione ha inoltre affermato l'applicabilità  dell'art. 18 Stat. lav. In proposito, nella motivazione della sentenza della Suprema Corte si legge quanto segue: «Ai sensi dell'art. 14 della legge 31 maggio 1995 n. 218 l'accertamento della legge straniera è compiuto d'ufficio dal Giudice; la normativa enuncia cosà un principio di parità  di trattamento rispetto alle leggi dello Stato, sicché di fronte alla conoscenza della legge straniera il Giudice italiano si pone nella stessa posizione che assume nei confronti della normativa italiana, trovando in conseguenza piena applicazione l'art. 113 cod. proc. civ., che attribuisce in via esclusiva al Giudice il potere di individuare le norme applicabili alla fattispecie dedotta in giudizio, ricorrendo a qualsiasi canale di informazione e utilizzando anche le sue conoscenze personali o la collaborazione delle parti. Il Giudice del rinvio ha correttamente tratto una sintesi dell'assetto normativo vigente in materia nello Stato di New York dalla sentenza della New York Court of Appeals del 25 febbraio 2003 (Horn v. New York Times, 100 N.Y. 2d 85, 2003): un esame dell'elaborato giurisprudenziale giustifica l'affermazione secondo cui nell'ordinamento di quello Stato opera tuttora la tradizionale dottrina dell''employment at will, traducibile come rapporto di lavoro a tempo indeterminato con libertà  di recesso di entrambi i contraenti. Secondo questa dottrina, la stipulazione del contratto 'for an indefinite term (a tempo indeterminato) comporta che il rapporto può essere risolto liberamente da ciascuna delle parti 'at any time for any reason or even no reason (in qualunque momento, per qualunque ragione o anche nessuna ragione) come si legge in Murphy v. American Home Prod., 58 N.Y.2d 293 (1983), che cita un risalente ordinamento. In questo sistema, il termine 'wrongful discharge (equivalente a licenziamento illegittimo) non può essere riferito al recesso privo di causa giustificativa, perché riguarda solo il licenziamento intimato per motivi contrari all'ordinamento o in violazione di obblighi assunti con il contratto. Cosà, si afferma nella sentenza del caso Horn che mentre la legislazione ha introdotto significative norme antidiscriminatorie, specialmente con il National Labour Relations Act del 1935 e il Civil Rights Act del 1964, 'le Corti americane si sono mostrate caute nel creare eccezioni di common law alla regola (generale) e riluttanti ad espandere eccezioni già  riconosciute come quelle riconducibili ad un dovere di correttezza e buona fede implicito nel contratto stipulato ('obligation of good faith and fair dealing): e quindi (citandosi la decisione del caso Murphy) che ' 'under New York law as it now stands, absent a constitutionally impermissible purpose, a statutory proscription, or an express limitation in the individual contract of employment, an employer right at any time to terminate an employment at will remains unipaired (per l'attuale legislazione di New York, quando non ricorra un intento costituzionalmente illecito, una prescrizione di legge, od un'espressa limitazione nel contratto individuale di lavoro, il diritto del datore di recedere liberamente in ogni momento dal contratto rimane illimitato). Ai fini dell'indagine qui svolta (che riguarda, come si è detto, l'esistenza di una regola generale di necessaria giustificazione del licenziamento) non rilevano le norme antidiscriminatorie introdotte da leggi federali e dello Stato che vietano il licenziamento basato su fattori di discriminazione quali sesso, razza, religione, condizioni di disabilità  o altro, né la particolare previsione di una legge penale dell'illegittimità  del licenziamento motivato dalla testimonianza resa da un dipendente in un processo. Va peraltro rilevato che nel caso Lo Bosco v. New York Telephone Company/NYNEX, 96 N.Y. 2d 312 (2001) si è affermato che 'New York does not recognize the tort of wrongful discharge, and there is no exception for firings that violate public politcy, such as a discharge for exposing an employer's illegal activities (New York non riconosce l'illecito di 'wrongful discharge, e non sussiste un'eccezione per i licenziamenti che vàolano i principi del sistema legale, come nel caso di licenziamento intimato al dipendente per aver denunciato attività  illegali del datore di lavoro). Nel caso Sabetay v. Sterling Drug, 69 N.Y. 2d 329 (1987) la Corte ha escluso di poter ravvisare nel contratto di lavoro un patto implicito di buona fede ('covenant of good faith and fair dealing) tale da rendere illecito il licenziamento di un dipendente motivato con il suo rifiuto di partecipare a condotte scorrette. Nel caso Wieder v. Skala, 80 N.Y. 2d 628 (1992), in cui si discuteva dell'illegittimità  del licenziamento di un associato di uno studio legale, che aveva denunciato ad un'autorità  disciplinare il comportamento scorretto di un altro associato, la Corte è giunta ad una diversa soluzione in ordine alla configurabilità  di una violazione di obblighi derivanti dal contratto ('breach of contract), in considerazione degli specifici patti che legavano gli associati dello studio. Nel citato caso Horn, la Corte ha peraltro ribadito il proprio orientamento escludendo che la 'narrow exception (stretta eccezione) alla 'regola tradizionale affermata nel caso Wieder potesse operare per il licenziamento di un medico che forniva prestazioni sanitarie ai dipendenti di un importante organo di stampa (era stata dedotta l'illegittimità  del recesso motivato dal rifiuto del sanitario di trasmettere informazioni riservate sui pazienti). In un passo finale della decisione, che chiarisce assai bene l'orientamento della giurisprudenza sul punto si legge quanto segue: 'We have consistently declined to create a common law tort of wrongful or abusive discharge, or to recognize a covenant of good faith ad fair dealing to imply terms grounded in a conception of public policy into employment contracts, as the dissent would have us do, and we again decline to do so (Abbiamo costantemente rifiutato di creare un illecito di common law di licenziamento illegittimo o abusivo, o di riconoscere un patto di buona fede e correttezza, tale da implicare nei contratti di lavoro delle condizioni fondate su una concezione dei principi del sistema legale, come vorrebbe l'opinione dissenziente, e ancora rifiutiamo di farlo). Resta da esaminare ' una volta stabilita l'applicazione della legge italiana in base alla regola dettata dall'ultimo comma dell'art. 16 della legge n. 218/1995 ' la questione della identificazione della norma concretamente applicabile in luogo di quella contraria all'ordine pubblico (la regola della libertà  di recesso, in quanto esclude la tutela contro il licenziamento ingiustificato). La sentenza di annullamento, mentre include tra i principi dell'ordine pubblico la regola di stabilità  del posto di lavoro (corrispondente al principio di giustificazione necessaria dell'esercizio della facoltà  di recesso), afferma anche, quanto alle conseguenze del licenziamento intimato in violazione di questo principio, che la disciplina della tutela reale di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 non ha il connotato dell'ordine pubblico; che 'di tale dimensione (dell'ordine pubblico) 'fa parte non il concreto meccanismo attraverso il quale si sanziona il recesso ingiustificato del datore di lavoro, bensà il principio che questi non possa a proprio arbitrio recedere dal rapporto. A tale enunciazione la decisione della Corte di Cassazione fa seguire questa affermazione: 'Solo ove, in esito a tale verifica, si dovesse escludere l'applicazione della legge straniera e ritenere applicabile la legge del foro, le conseguenze saranno quelle da questa concretamente previste. In base al principio di diritto stabilito dalla sentenza rescindente, l'applicazione della normativa italiana sui licenziamenti comporta dunque anche l'operatività  delle garanzie poste dalla lex fori per l'ipotesi di licenziamento illegittimo. A tale principio si è attenuto il Giudice di rinvio, con l'applicazione nel caso in esame della tutela prevista dall'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300».
L'ente pubblico ha diritto al risarcimento del danno di immagine causato dal comportamento illecito di un suo dipendente
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Francesco C., dirigente dell'Istituto nazionale di previdenza per i Dirigenti di aziende industriali, Inpdai, è stato sottoposto a processo penalecon l'imputazione di avere indotto alcuni costruttori romani a corrispondergli ingenti somme per poter vendere immobili all'ente. Il processo si è concluso per patteggiamento, con l'applicazione di una pena di un anno e dieci mesi di reclusione. Successivamente, l'Inps, succeduto all'Inpdai, ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma, l'ex dirigente Francesco C., chiedendone la condanna al pagamento di lire due miliardi per danni patrimoniali e di lire due miliardi e cinquecento milioni per danni non patrimoniali. Il Tribunale ha rigettato la domanda, ma la sua sentenza è stata riformata dalla Corte d'Appello di Roma che ha condannato l'ex dirigente a pagare all'Inps la somma di euro 516.000,00 per risarcimento di danni non patrimoniali. La Corte di Roma ha ritenuto che la condotta di Francesco C. sia stata fonte, per l'Inpdai, di un «rilevantissimo danno all'immagine in quanto sia nel grosso pubblico, sia nella stampa quotidiana, come nell'ambito sindacale si è creato il convincimento che l'istituto fosse divenuto un centro di affari per niente pulito con esborso da parte dei costruttori, interessati alla vendita di notevoli complessi immobiliari, di somme enormi, per superare la concorrenza o rientrare nel gruppo di quei pochi che sarebbero rimasti sempre all'attenzione del gruppo dirigente». Francesco C. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento) ' ha affermato la Corte ' costituisce indiscutibilmente elemento di prova per il Giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità , ed il Giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità  in sede civile. Per quanto attiene al risarcimento, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici del merito hanno correttamente accertato l'esistenza del danno, con riferimento al pregiudizio causato all'immagine dell'Istituto, quantificando il risarcimento in via equitativa. Il Giudice può far ricorso alla valutazione equitativa non solo quando è impossibile stimarne con precisione l'entità , ma anche quando, in relazione alla peculiarità  del caso concreto, la precisa determinazione di esso sia difficoltosa; al riguardo, inoltre, non può tacersi che si è al cospetto di un danno «all'immagine» di un ente pubblico e la valutazione di siffatto pregiudizio, per la sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità , non può che essere effettuata dal Giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali. Il danno arrecato da pubblici dipendenti (o da soggetti comunque inseriti nell'apparato organizzativo di una pubblica amministrazione) all'immagine dell'ente ' ha rilevato la Corte ' anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.
L'indennità sostitutiva del preavviso deve essere calcolata in base ai minimi del ccnl entrato in vigore nel relativo periodo
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Riccardo F., dipendente della Spa Costruire, con qualifica di dirigente, è stato licenziato senza preavvisoil 12 dicembre 2000 ed ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli chiedendo di accertarne l'ingiustificatezza e di condannare l'azienda al pagamento dell'indennità  sostitutiva del preavviso e dell'indennità  supplementare prevista dal contratto collettivo per i dirigenti industriali in caso di recesso ingiustificato. Successivamente al deposito del ricorso è stato sottoscritto il nuovo contratto collettivo di categoria, con decorrenza dal 1 gennaio 2000, contenente, fra le disposizioni transitorie, l'art. 3: «Gli aumenti retributivi derivanti dal presente contratto trovano applicazione nei confronti dei dirigenti in servizio alla data del 23 maggio 2000». La difesa del dirigente ha depositato, con le note autorizzate finali, il testo del nuovo contratto, chiedendo che la determinazione degli importi dovuti fosse effettuata in base ai più elevati livelli retributivi stabiliti dalle parti collettive, in quanto questi erano entrati in vigore nel periodo del preavviso, illegittimamente negato. Il Tribunale di Napoli ha dichiarato il licenziamento ingiustificato e ha condannato l'azienda al pagamento dell'indennità  sostitutiva del preavviso, nonché dell'indennità  supplementare, ma non ha accolto la richiesta di determinare i relativi importi in base al nuovo contratto collettivo. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli, con sentenza del maggio 2004, che ha escluso la possibilità  di applicare i nuovi minimi contrattuali per due motivi: innanzi tutto qualsiasi «emendatio» nel rito del lavoro è consentita sempre previa autorizzazione del Giudice e per gravi motivi e, nel caso di specie, la contrattazione collettiva, entrata in vigore successivamente al deposito del ricorso, era stata depositata con le note di discussione senza richiedere l'autorizzazione preventiva al Giudice; in ogni caso, gli aumenti previsti dal nuovo contratto non potevano trovare applicazione nel caso in esame ove il rapporto di lavoro si era comunque risolto nel dicembre 2000. Il dirigente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Napoli per avere ritenuto inammissibile ed infondata la richiesta di applicazione dei nuovi minimi contrattuali. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. L'autorizzazione da parte del Giudice a depositare note scritte, in luogo della discussione e delle conclusioni orali previste dal codice di rito (art. 429, primo comma, cod. proc. civ.) ' ha affermato la Corte ' implica l'autorizzazione a richiedere per iscritto quello che la parte avrebbe dovuto richiedere oralmente; e non è dubbio che è tempestiva la richiesta di avvalersi di un contratto collettivo con efficacia retroattiva sottoscritto nel corso del grado di giudizio. Nel merito, ha osservato la Corte, l'art. 2118 cod. civ. individuando il contenuto dell'obbligazione nel pagamento della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, collega il contenuto dell'obbligazione al tempo del preavviso e assegna cosà rilevanza alle modifiche retributive intervenute nel periodo di preavviso. La differenza tra il recesso in tronco consentito dall'articolo 2119 per giusta causa e il recesso con preavviso consentito dall'articolo 2118 ' ha affermato la Corte ' non si esaurisce nell'obbligo di pagare, in questo secondo caso, una indennità  sostitutiva del preavviso, ma comporta l'obbligo di preservare tutti i diritti retributivi che sarebbero maturati nel corso del periodo di preavviso; da quanto sopra discende la rilevanza degli aumenti retributivi intervenuti nel corso del preavviso anche ai fini della indennità  supplementare. Pertanto la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, stabilendo il seguente principio di diritto: «Il contenuto dell'obbligazione prevista per la parte recedente dall'articolo 2118 codice civile di pagare, in mancanza di preavviso lavorato, una indennità  equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, attribuisce rilevanza agli aumenti retributivi intervenuti nel corso del preavviso, anche se non lavorato, ai fini della determinazione sia della indennità  sostitutiva del preavviso, sia dell'indennità  supplementare per i dirigenti».
Il danno esistenziale è un’autonoma categoria giuridica, e non consiste nel mero turbamento emotivo
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Non ha diritto alla qualifica di dirigente il responsabile di produzione con attività soggetta alle direttive della controllant
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Mario F. dipendente della Srl Distriberg, nel giugno del 1988 ha avuto, con la qualifica di impiegato direttivo,l'incarico di direttore e controllore di produzione, con poteri, deliberati dall'assemblea dei soci, di organizzazione, direzione e controllo tecnico operativo, da esercitare secondo le istruzioni impartitegli. Egli ha chiesto al Pretore di Bergamo di accertare il suo diritto, per le mansioni svolte dal 1987 al 1996, alla qualifica di dirigente ed al relativo trattamento economico, nonché di condannare l'azienda al pagamento delle conseguenti differenze di retribuzione. Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Bergamo, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. Il Tribunale ha osservato che dalla istruttoria svolta era emerso che l'attività  della Distriberg era organizzata e controllata dalla società  Niag, detentrice della maggioranza delle quote del suo capitale e sua unica committente; conseguentemente la Distriberg poteva essere equiparata a un reparto della Niag ed aveva una limitata autonomia; erano infatti sottoposti alle direttive della Niag l'organizzazione del lavoro, la distribuzione delle maestranze, i progetti logistici e tecnologici, i contatti con i clienti; gli ordini di acquisto della Distriberg dovevano essere approvati dalla Niag. Da tale assetto organizzativo il Tribunale ha tratto la conclusione che Mario F. non avesse, nelle attività  affidategli, l'autonomia e i poteri decisionali propri del dirigente. Mario F. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Bergamo per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il Tribunale di Bergamo abbia adeguatamente motivato la sua decisione, accertando, in base alle prove raccolte, che la Distriberg operava di fatto come un reparto della Niag e che i poteri attribuiti a Mario F. erano analoghi a quelli dei capi reparto della stessa società  controllante.
Il giudice non può utilizzare dichiarazioni scritte in sostituzione della prova testimoniale
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Giovanni S., dipendente della Spa Radio Dimensione Suono, è stato licenziato con motivazione riferita ad un litigio da lui avuto con un collega in ufficio.Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Roma, sostenendo che il litigio non era stato di gravità  tale da giustificare il licenziamento. A sostegno delle sue difese egli ha prodotto dichiarazioni scritte spontaneamente rese da alcuni dipendenti presenti al fatto, attestanti che il litigio non si era svolto con le modalità  ritenute dall'azienda. La R.D.S. ha contestato la veridicità  del contenuto delle dichiarazioni scritte ed ha chiesto che fosse ammessa la prova testimoniale da lei offerta sulle circostanze dell'accaduto. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Roma non hanno ammesso la prova testimoniale e, basandosi sulle dichiarazioni scritte prodotte dal lavoratore, hanno escluso che il comportamento tenuto da Giovanni S. fosse stato di gravità  tale da meritare la sanzione applicata. Pertanto hanno dichiarato l'illegittimità  del licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte di Appello ' ha osservato la Cassazione ' ha fondato il suo giudizio ' di sproporzione della sanzione in rapporto alla gravità  dei fatti addebitati ' su dichiarazioni scritte rese al di fuori del processo e non ha ammesso, senza motivazione alcuna, la prova testimoniale articolata dalla società  in primo grado e riproposta nell'atto di appello. Il contenuto di tale prova, il cui capitolato è stato riprodotto dalla società  nel ricorso per cassazione, ' ha osservato la Corte ' è senza dubbio rilevante ai fini della decisione, ragione per cui la Corte territoriale non poteva disattendere la richiesta istruttoria senza dare adeguata ragione di tale decisione; se è vero, infatti, che le dichiarazioni rese da terzi al di fuori del processo possono assumere valore di meri indizi comunque utilizzabili dal Giudice di merito, non è men vero che le prove devono di norma raccogliersi nel processo nel contradditorio delle parti e con le garanzie derivanti dalla responsabilità  penale connessa alla falsa testimonianza, sicché l'utilizzazione di fonti probatorie estranee al processo e con meno valore indiziario non può prevalere sulle richieste di prove testimoniali da acquisire nel processo, senza che il Giudice di merito dia adeguata ragione della non necessità  dell'acquisizione. La Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
La prescrizione dei crediti di lavoro può essere interrotta da un rappresentante sindacale con atti scritti
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Gli eredi di Gino B., dipendenti della Spa Rete ferroviaria italiana, hanno chiesto al Tribunale di Roma la condanna dell'azienda al pagamento di differenze di retribuzionematurate a favore del loro congiunto nel periodo dal 1981 al 1986. La società  ha sollevato l'eccezione di prescrizione quinquennale del credito. I ricorrenti hanno replicato che la prescrizione doveva ritenersi interrotta per effetto delle richieste scritte di pagamento avanzate dal sindacato nell'interesse del lavoratore. Il Tribunale di Roma ha accolto la domanda, condannando l'azienda al pagamento delle somme richieste. Questa decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Roma, che ha accolto l'eccezione di prescrizione sollevata dall'azienda ed ha affermato che i pretesi atti interruttivi erano inefficaci in quanto provenienti da persona estranea al rapporto, senza che fosse dichiarata la sua qualità  di rappresentante o di mandatario. Gli eredi di Gino B. hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Ai fini dell'interruzione della prescrizione effettuata mediante intimazione scritta ad adempiere ' ha osservato la Corte ' la giurisprudenza ritiene che la stessa possa essere validamente fatta non solo da un legale il quale si dichiari incaricato della parte, ma anche da un mandatario o da un incaricato, alla sola condizione che il beneficiario ne intenda approfittare. Nella fattispecie, devesi quindi affermare che in tema di differenze retributive anche l'intimazione ad adempiere fatta da un rappresentante sindacale, il quale dichiari di agire nell'interesse del lavoratore, è idonea ad interrompere la prescrizione; si veda al riguardo Cass. 3 dicembre 2002 n. 17157, la quale ha ritenuto come ai fini della costituzione in mora non sia necessario il rilascio in forma scritta della relativa procura, non operando in tale caso l'art. 1324 del codice civile. Pertanto ' ha affermato la Corte ' la procura per la costituzione in mora può risultare da un comportamento univoco e concludente, il quale può essere posto in essere anche da un mandatario; essenziale è che l'atto sia idoneo a rappresentare al debitore che esso è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti. La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, invalidando la causa, per nuovo esame alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
La contrattazione collettiva può ridurre il trattamento economico previsto da un precedente accordo concluso tra le stesse part
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Tra la Spa Sicurtransport di Catania e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil è stato concluso il 31 gennaio 1991 un accordo integrativo aziendaleche prevedeva alcuni benefici per i dipendenti (premio di produttività , indennità  vestiario, indennità  di rischio, etc.). L'accordo ha avuto regolare applicazione per oltre sei anni, anche nei confronti dei dipendenti non iscritti ai sindacati firmatari. Nell'aprile del 1997 l'azienda ha attuato una riduzione del personale, con il collocamento in mobilità  di 42 dipendenti. A seguito di trattative sindacali, il 27 novembre 1997 è stato sottoscritto tra l'azienda e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil un accordo che, a fronte della revoca dei licenziamenti, prevedeva la soppressione o la riduzione di alcuni dei benefici economici istituiti con l'accordo del 1991. Mariano C. ed altri dipendenti della Sicurtransport aderenti al sindacato Ugl hanno chiesto al Pretore di Catania di accertare che l'accordo del 1997 non era a loro applicabile in quanto peggiorativo del trattamento economico da loro acquisito con l'accordo del 1991 e non sottoscritto dal sindacato al quale essi erano iscritti. Il Pretore ha accolto le domande affermando il diritto dei ricorrenti a mantenere integralmente i benefici acquisiti con l'accordo del 1991. In grado di appello il Tribunale ha confermato la decisione osservando che l'accordo del 1997, avente portata peggiorativa, non era applicabile ai lavoratori appellati, «essendo i medesimi dissenzienti ed iscritti a un'organizzazione sindacale che non aveva partecipato alla stipulazione dello stesso». L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Le funzioni specifiche riconosciute dall'ordinamento alle associazioni sindacali ' ha affermato la Corte ' consistono (come emerge dalle varie norme che, pur senza dare attuazione all'art. 39 Cost., fanno ad esse riferimento) nella stipula di contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti e nello svolgimento, in favore degli stessi, di opera di promozione civile, sostegno nelle rivendicazioni e assistenza nelle controversie, senza che possa però configurarsi una legittimazione delle associazioni medesime a rinunciare, transigere o conciliare diritti soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli lavoratori in forza di pattuizioni collettive), in difetto di espressa previsione normativa in tal senso o di uno specifico mandato da parte degli associati. Ma non vi è contrasto ' ha osservato la Corte ' tra questo principio e quello, del pari fermamente enunciato dalla Cassazione nella sua giurisprudenza consolidata, secondo il quale, in tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non può invocare un diritto acquisito in forza della precedente contrattazione; infatti, una cosa è l'indisponibilità , da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da un determinato contratto collettivo, ed altra è la pretesa, da parte del lavoratore, di mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto nato da una norma collettiva che ormai non esiste più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione collettiva. Ciò perché ' ha precisato la Corte ' le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 cod. civ., al rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento affidata all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia; la stessa durata di un contratto collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte del sindacato, atteso che a questo soggetto è rimessa la valutazione «collettiva» della persistente corrispondenza della norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente, esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l'efficacia. Del resto ' ha osservato la Corte ' il nuovo contratto può risultare «peggiorativo» in alcuni aspetti, ma evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova disciplina deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo del sindacato ' ha affermato la Cassazione ' è costituito dal precetto dell'art. 36 Cost. (che garantisce l'adeguatezza della retribuzione) ' ma è evenienza rara che tale norma sia violata dalla contrattazione collettiva ' dovendosi anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini di trattamento peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed individuali, mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a realizzare complessivi miglioramenti, ove la valutazione sia effettuata nella corretta prospettiva «collettiva». In applicazione di questi principi, non può essere messo in discussione il potere del sindacato di sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo per il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori. Nella specie ' ha osservato la Corte ' si tratta proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di contratti collettivi, e non di disposizioni di diritti patrimoniali già  insorti nel patrimonio dei singoli lavoratori; la questione controversa concerne infatti trattamenti integrativi del contratto nazionale introdotti con decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal contratto integrativo di durata stipulato in quell'anno; ne discende che il nuovo contratto del 1997 ' che aveva tratto origine da una situazione di crisi della società  datrice di lavoro, resasi tuttavia disponibile ad una revoca dei licenziamenti ' poteva legittimamente determinare il contenuto degli obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro a partire dalla sua entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti già  maturati a favore dei lavoratori. È pertanto errata ' ha rilevato la Corte ' l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale nella specie non si configurerebbe un'ipotesi di successione di contratti collettivi perché il nuovo contratto è solo parzialmente modificativo del precedente; e parimenti errata è l'ulteriore affermazione secondo la quale l'accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali le Oo.Ss. stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato. Premesso che i sindacati che hanno stipulato il contratto (peggiorativo) del 1997 sono gli stessi che sottoscrissero il contratto del 1991 ' ha osservato la Cassazione ' priva di rilievo è la circostanza che i lavoratori odierni intimati fossero iscritti ad un'organizzazione sindacale che non ha partecipato alla stipula del contratto del 1997, circostanza dalla quale la sentenza impugnata fa derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto non sarebbe vincolante; al riguardo va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente modificato o integrato da un nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano fatto adesione all'originario accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati dall'accordo successivo e non possono invocare l'applicazione soltanto del primo. Dovendosi ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per esserne stati anch'essi beneficiari ' ha concluso la Corte ' ne discende l'irrilevanza della mancata partecipazione all'accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale cui gli stessi erano iscritti.
Un dirigente comunale può chiedere al Giudice del lavoro di accertare che il segretario del Comune non può sostituirlo
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Bartolomeo C., dipendente del Comune di Cogorno nell'area tecnica e tecnico-manutentiva comunale,inquadrato nella categoria D3, con funzioni dirigenziali, ha negato a un privato una concessione edilizia per lavori di ristrutturazione. Il Sindaco gli ha intimato di rilasciare la concessione. Poiché il funzionario non ha eseguito la disposizione impartitagli, l'autorizzazione è stata rilasciata, in via sostitutiva, dal segretario comunale, su richiesta del Sindaco. Bartolomeo C. ha chiesto al Tribunale di Genova, Giudice del lavoro, di riconoscergli la titolarità  esclusività  del potere decisionale sui provvedimenti di concessione edilizia. Il Tribunale ha rigettato la domanda affermando che, in caso di inadempienza ingiustificata e illegittima dei funzionari, sussisteva il potere del segretario comunale di sostituzione ' avocazione. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Genova, che ha dichiarato illegittima la sostituzione operata dal segretario comunale. Il Comune ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Nel decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ha osservato la Corte, i compiti propri del segretario comunale sono definiti, in linea generale, quali «compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente alla conformità  dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti » (articolo 97, comma 2). Al segretario comunale sono infatti affidati compiti di coordinamento dell'attività  dei dirigenti e di sovrintendenza allo svolgimento delle relative funzioni. Ai dirigenti è assegnata a una sfera di attribuzioni non derogabile se non con norma primaria, ed essi sono direttamente ed esclusivamente responsabili del loro esercizio. Quindi l'attribuzione legislativa al segretario comunale di compiti di sovrintendenza di coordinamento dell'attività  del dirigente, ' ha affermato la Corte ' non può essere intesa, per ragioni di coerenza sistematica, nel senso che tali compiti implichino un potere di sostituzione del dirigente; un siffatto potere da un lato comporterebbe deroga alle attribuzioni di quest'ultimo, in contrasto con l'esplicito limite che la legge prevede in proposito, dall'altro determinerebbe violazione della regola di diretta responsabilità  del dirigente rispetto all'atto di esercizio di una funzione specificamente attribuitagli. Nella prospettiva del rapporto di lavoro ' ha concluso la Corte ' i problemi di inerzia o rifiuto nel provvedere, vanno quindi affrontati sul piano della responsabilità  del dirigente, mentre deve escludersi che essi potessero trovare soluzione mediante un'iniziativa sostitutiva, non consentita sulla base delle norme in vigore all'epoca della controversia.
L'anzianità di servizio di un contratto di formazione lavoro deve calcolarsi anche al fine degli avanzamenti previsti dal ccnl
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Vito N. è stato assunto alle dipendenze della Spa Ferrovie dello Stato con contratto di formazione e lavoro di durata biennale.Alla scadenza del biennio il rapporto è continuato con contratto di lavoro a tempo indeterminato che prevedeva, con apposita clausola, che non fosse computata, ai fini della progressione del trattamento economico, l'anzianità  maturata durante il contratto di formazione e lavoro. Egli ha chiesto al Tribunale di Taranto di accertare la nullità  di tale clausola e il suo diritto al computo dell'anzianità  di servizio maturata durante il periodo di formazione al fine dell'accesso ad una classe retributiva superiore. Il lavoratore ha invocato l'art. 3 della legge 19 dicembre 1984 n. 863 secondo cui ove il rapporto di lavoro continui a tempo indeterminato dopo il periodo di formazione e lavoro, il dipendente ha diritto al computo di tale periodo ai fini dell'anzianità  di servizio. L'azienda si è difesa sostenendo che la legge andava interpretata nel senso che l'anzianità  maturata durante il rapporto di formazione e lavoro dovesse essere computata solo ai fini degli istituti legali e non per gli avanzamenti di natura contrattuale. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Taranto hanno ritenuto nulla la clausola contrattuale recante l'esclusione del computo dell'anzianità  di servizio del periodo di formazione e pertanto hanno riconosciuto il diritto del lavoratore al richiesto avanzamento. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 3 comma 5 del d.l. 30 ottobre 1984 n. 726, convertito con modificazioni in legge 19 dicembre 1984 n. 863 ' ha ricordato la Corte ' cosà dispone: «Ai contratti di formazione e lavoro si applicano le disposizioni legislative che disciplinano i rapporti di lavoro subordinato in quanto non siano derogate dal presente decreto. Il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità  di servizio in caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato, effettuata durante ovvero al termine del contratto di formazione e lavoro». Questa Corte ' ha aggiunto la Cassazione ' in merito a tale disposizione legislativa ha già  avuto modo di affermare il seguente principio di diritto. «La disposizione dell'art. 3 comma 5 del d.l. n. 726 del 1984, convertito con modificazioni dalla legge n. 863 del 1984, secondo cui il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità  di servizio in caso di trasformazione del relativo rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la disposizione del comma 12 che estende le agevolazioni offerte ai datori di lavoro al caso di assunzioni nei dodici mesi successivi al periodo di formazione e lavoro, comportano la commutabilità  di detto periodo anche quando l'anzianità  di servizio è presa in considerazione da discipline meramente contrattuali, come quella sugli scatti di anzianità  e i passaggi automatici di classe stipendiale, dato che la distinzione tra istituti di origine legale e trattamenti di fonte convenzionale non trova fondamento nel tassativo tenore del testo normativo, la cui portata non può ritenersi derogabile neanche mediante specifiche previsioni della contrattazione collettiva». Questa Corte ' ha affermato la Cassazione ' non ha motivo di discostarsi da tale insegnamento poiché gli argomenti contrari sostenuti dalla ricorrente non sono tali da indurre ad un ripensamento; va infatti rilevato che la tesi della società , secondo cui la disciplina dettata dall'art. 3 comma 5 della legge n. 863/1984 si deve riferire ai soli istituti legali e non agli istituti di origine contrattuale, si fonda sulla considerazione che il primo periodo del comma 5 contiene un testuale riferimento alle sole disposizioni legislative, per cui deve ritenersi che anche il secondo periodo della norma limiti la computabilità  del periodo di formazione e lavoro ai soli istituti di origine legale che disciplinano gli effetti dell'anzianità  di servizio. Tale opinione ' ha osservato la Corte ' non tiene conto del fatto che il legislatore del comma 5 ha fissato due distinte proposizioni, separandole con un punto, cosà accentuandone l'autonomia, per cui non è corretto riferire alla seconda il contenuto della prima. Infatti, una volta stabilito che ai contratti di formazione e lavoro trasformati in contratti a tempo indeterminato «si applicano le disposizioni legislative che disciplinano i rapporti di lavoro subordinato », con la seconda proposizione il legislatore ha stabilito in via generale che il periodo di formazione e lavoro in caso di trasformazione del rapporto deve essere computato nell'anzianità  di servizio. Tale tassativa disposizione di legge ' ha affermato la Corte ' non facendo alcun riferimento alle fonti che regolano gli effetti dell'anzianità , non offre spazio a distinzioni estranee al testo e si applica anche agli scatti di anzianità  ed ai passaggi automatici di classe stipendiale in funzione dell'anzianità  che trovano la loro fonte nella contrattazione collettiva; la norma in questione, per essere posta a tutela di lavoratori particolarmente deboli sul piano contrattuale, tutela interessi di natura generale ed ha certamente natura imperativa ed inderogabile, come si evince anche dalla sua formulazione, nella quale manca ogni richiamo a diverse disposizioni della contrattazione collettiva ed individuale. Se la norma avesse avuto natura derogabile ' ha osservato la Corte ' avrebbe fatte salve le diverse disposizioni contrattuali; pertanto è priva di rilievo la considerazione che gli Accordi interconfederali per la regolamentazione del contratto di formazione e lavoro del 1988 e del 1995 escludono il computo del periodo di formazione e lavoro dagli aumenti periodici di anzianità ; deve infatti ritenersi che il testo normativo in questione pone un limite anche alla contrattazione collettiva, dal momento che non si vede come, una volta ritenuta la natura imperativa ed inderogabile, potrebbe soddisfare la regola del computo del periodo di formazione nell'anzianità  di servizio un accordo, sia pure intervenuto nell'ambito di una trattativa a livello sindacale, che ne esclude la valutazione ai fini del conseguimento dei vantaggi riconosciuti alla generalità  dei dipendenti in funzione del decorso del tempo di prestazione del lavoro subordinato.
Una condanna per il reato di commercio di materiale pornografico può giustificare il licenziamento di un bancario
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Enzo C., dipendente della Cassa di Risparmio di Savona, ha riportato una condanna in sede penale,a seguito di patteggiamento, per sfruttamento della prostituzione, commercio di materiale pornografico, atti osceni commessi su tombe. L'azienda lo ha licenziato, affermando che i fatti accertati evidenziavano la deviazione sessuale del dipendente, e quindi la possibilità  che egli entrasse in contatto con associazioni malavitose e fosse esposto a ricatti diretti ad ottenere informazioni sulla clientela o altri comportamenti infedeli. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Savona, che ha rigettato il ricorso. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Genova. Enzo C. ha proposto ricorso per cassazione per vizi di motivazione e violazione di legge. Il lavoratore ha censurato la sentenza della Corte genovese, tra l'altro, perché ha ritenuto che la fiducia del datore di lavoro potesse venire meno in relazione al fatto futuro e incerto che egli venisse in contatto con ambienti criminali e fosse perciò ricattabile. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La fiducia ' ha osservato la Corte ' è il convincimento, basato sul comportamento pregresso di un soggetto, che esso in futuro osserverà  gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro ed in particolare quello di fedeltà ; la contiguità  del mondo della prostituzione, del commercio di materiale pornografico e della deviazione sessuale con ambienti criminali è un fatto notorio; consegue che il rischio, cioè la possibilità  che il dipendente sia indotto da essi a comportamenti infedeli, è attuale ed è tale da escludere la necessaria fiducia, che ha carattere di particolare rilevanza nell'attività  bancaria.
Il dirigente pubblico può essere licenziato per giusta causa anche prima della scadenza della durata minima stabilita
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Gianluca C. è stato nominato, nell'aprile del 2000, direttore generale dell'Azienda territoriale di edilizia residenziale pubblica di Catanzaro.Alla nomina ha fatto seguito la stipulazione di un contratto di lavoro a termine. Dopo le elezioni regionali della primavera del 2000, che hanno determinato un cambiamento della Giunta, egli, nel febbraio 2001, in seguito a una verifica, è stato dichiarato decaduto dall'incarico con l'addebito di numerose inadempienze. Egli ha impugnato il provvedimento davanti al Tribunale di Catanzaro, Giudice del lavoro, sostenendo, tra l'altro, che esso doveva ritenersi in contrasto con l'art. 19 d.lgs. n. 29 del 1993, secondo cui gli incarichi dirigenziali non potevano avere durata inferiore a due anni. Il Tribunale ha rigettato il ricorso. La Corte d'Appello di Catanzaro invece, pur ritenendo fondati gli addebiti mossi al dirigente, ha condannato l'Azienda al risarcimento del danno per non avere rispettato la durata minima biennale dell'incarico. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l'altro, che ove sussista una giusta causa di licenziamento, viene meno l'obbligo di mantenere in servizio il dirigente per la durata minima prevista dalla legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il secondo comma dell'art. 19 d. lgs. 30 marzo 2001 n. 165 ' ha ricordato la Corte ' stabilisce che tutti gli incarichi di direzione degli uffici delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a tempo determinato ed hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà  di rinnovo. La prevista durata minima biennale significa solo che nell'apposizione del termine al contratto di dirigenza non è possibile prevedere una durata inferiore a due anni; la legge 15 luglio 2002 n. 145 ha poi eliminato questa soglia minima accentuando il regime di spoils system, recentemente peraltro dichiarato incostituzionale sotto un profilo molto specifico ossia nella parte in cui prevedeva (ex art. 3, comma 7) l'automatica cessazione dell'incarico con l'entrata in vigore della nuova legge (Corte cost. n. 103 del 2007). L'art. 14-sexies d.l. 30 giugno 2005 n. 115, conv. in legge 17 agosto 2005 n. 168, ha poi nuovamente modificato il cit. art. 19, e di particolare il suo secondo comma, ripristinando la durata minima dell'incarico e fissandola in tre anni. Tali alterne vicende della durata minima dell'incarico ' ha affermato la Corte ' non escludono però, come in tutti i contratti a termine, la possibilità  del recesso per giusta causa che si sia verificata prima della scadenza del termine, possibilità  che costituisce un principio generale che attraversa il rapporto di lavoro privato e quello pubblico; insomma non c'è alcuna stabilità  «rinforzata» nel primo biennio che assicuri al dirigente la permanenza nell'incarico pur sussistendo una giusta causa di recesso per la positiva verifica di fatti integranti la responsabilità  disciplinare di cui all'art. 21 d.lgs. n. 165 del 2001; giusta causa che ex se fa venire meno l'indefettibile vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro in genere ed in special modo quello dirigenziale. Infatti espressamente il cit. art. 21 prevede, al primo comma, che, una volta verificati i presupposti della responsabilità  dirigenziale ed in relazione alla gravità  dei casi, l'amministrazione può revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione nei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. In proposito ha affermato recentemente Corte cost. n. 103 del 2007 che «la revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti [â?¦] può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità  dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato». In conclusione la Corte ha affermato ' come principio di diritto ' che la durata minima biennale dell'incarico dirigenziale a termine, prescritta in generale (all'epoca) dall'art. 19, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001, ed attualmente fissata in tre anni ex art. 14-sexies d.l. n. 169, conv. in legge n. 115 del 2005, sta solo a significare che il termine apposto al contratto non poteva essere inferiore a due anni; ma non implicava alcuna insensibilità  del rapporto al verificarsi di una situazione di giusta causa di recesso per accertata responsabilità  dirigenziale ex art. 21 d.lgs. n. 165/2001 prima della scadenza di tale termine minimo del rapporto sicché legittima, in tale evenienza, l'anticipata risoluzione del rapporto stesso.
Società cooperativa europea
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Il decreto legislativo disciplina il coinvolgimento dei lavoratori nelle attività  delle società  cooperative europee di cui al regolamento (Ce) n. 1435/2003.Il decreto prevede, qualora venga costituita, da almeno due entità  giuridiche o mediante trasformazione, una Società  cooperativa europea (Sce), l'istituzione di una delegazione speciale di negoziazione, la quale negozi, con spirito di cooperazione, con gli organi competenti delle entità  giuridiche partecipanti per raggiungere un accordo sulle modalità  del coinvolgimento dei lavoratori nella società  cooperativa europea. I negoziati possono durare sei mesi, prorogabili ad un anno, dal momento della costituzione della delegazione speciale. La delegazione speciale decide a maggioranza assoluta dei suoi membri, purché tale maggioranza rappresenti anche la maggioranza assoluta dei lavoratori. Ciascun membro dispone di un voto. La delegazione speciale di negoziazione può chiedere ad esperti di assisterla nei lavori e di partecipare alle riunioni negoziali con funzioni di consulenza. I membri della delegazione e dell'organo di rappresentanza hanno l'obbligo di segretezza e riservatezza delle notizie ricevute in via riservata e qualificata dal competente organo della Sce. Il divieto permane anche successivamente alla scadenza del mandato e prescinde dal luogo in cui i soggetti si trovino. Il decreto disciplina le disposizioni di riferimento per l'informazione, la consultazione e la partecipazione, delle quali fornisce anche le definizioni: a) «»informazione », l'informazione dell'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero dei rappresentanti dei lavoratori, da parte dell'organo competente della Sce, ai sensi del regolamento, sui problemi che riguardano la stessa Sce e qualsiasi affiliata o succursale della medesima situata in un altro Stato membro, o su questioni che eccedono i poteri degli organi decisionali di un unico Stato membro, con tempi, modalità  e contenuti che consentano all'organo di rappresentanza dei lavoratori di procedere ad una valutazione approfondita dell'eventuale impatto e, se del caso, di preparare consultazioni con l'organo competente della Sce, ai sensi del regolamento»; b) «»consultazione», l'apertura di un dialogo e di uno scambio di opinioni tra l'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero i rappresentanti dei lavoratori e l'organo competente della Sce, ai sensi del regolamento, con tempi, modalità  e contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori, sulla base delle informazioni da essi ricevute, di esprimere ' circa le misure previste dall'organo competente ' un parere di cui si può tenere conto nell'iter decisionale all'interno della Sce»; c) «»partecipazione », l'influenza dell'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero dei rappresentanti dei lavoratori nelle attività  di un'entità  giuridica mediante, alternativamente: il diritto di eleggere o designare alcuni dei membri dell'organo di vigilanza o di amministrazione dell'entità  giuridica; il diritto di indicare i nominativi di alcuni o di tutti i membri dell'organo di vigilanza o di amministrazione dell'entità  giuridica ovvero di opporvisi». Il decreto determina inoltre la composizione della delegazione speciale di negoziazione e dell'organo di rappresentanza dei lavoratori, nonché le tutele dei rappresentanti dei lavoratori. (Gazzetta ufficiale n. 85 del 12 aprile 2007)
Regolamento riordino organismi del Ministero della pubblica istruzione
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Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,riordina gli organismi operanti presso il ministero della Pubblica istruzione tra i quali: a) il Comitato nazionale per il sistema dell'istruzione e della formazione tecnica superiore, istituito ai sensi dell'articolo 69, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144; b) Comitato per il monitoraggio e la valutazione dell'alternanza scuola-lavoro, istituito ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77; c) Comitato per le pari opportunità  istituito ai sensi dell'articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 8 maggio 1987, n. 266; d) Osservatorio per l'edilizia scolastica, istituito ai sensi dell'articolo 6 della legge 11 gennaio 1996, n. 23. Gli organismi durano in carica tre anni, decorrenti dalla data di entrata in vigore del regolamento. Tre mesi prima della scadenza della carica ciascuno degli organismi presenta una relazione sull'attività  svolta al ministro della Pubblica istruzione, che la trasmette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ai fini della valutazione, circa l'utilità  degli organismi stessi e eventuale proroga della loro durata, comunque non superiore ad altri tre anni. I componenti di ciascun organismo restano in carica fino alla scadenza del termine di durata dell'organismo e, nel caso di proroga della durata dello stesso, possono essere confermati. (Gazzetta ufficiale n. 140 del 19 giugno 2007)
Disposizioni attuative degli obblighi comunitari
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La legge che converte e modifica il decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, recante disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali,adegua le norme sulla professione di consulente del lavoro alle decisioni comunitarie: a) l'accesso alla professione di consulente del lavoro richiede il conseguimento della laurea triennale o quinquennale riconducibile agli insegnamenti delle facoltà  di giurisprudenza, economia, scienze politiche, ovvero il diploma universitario o la laurea triennale in consulenza del lavoro,o la laurea quadriennale in giurisprudenza,in scienze economiche e commerciali o in scienze politiche; b) coloro che abbiano conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione di consulente del lavoro con il diploma di scuola secondaria superiore possono iscriversi al relativo albo entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge; c) coloro che non sono in possesso dei predetti titoli di laurea e che,alla data di entrata in vigore della legge, abbiano ottenuto il certificato di compiuta pratica, o siano iscritti al registro dei praticanti, o abbiano presentato domanda di iscrizione al predetto registro dei praticanti, possono sostenere l'esame di abilitazione entro e non oltre il 31 dicembre 2013. (Gazzetta ufficiale n. 84 del 11 aprile 2007)
Regolamento riordino organismi del Ministero dello sviluppo economico
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Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,riordina gli organismi operanti presso il ministero dello Sviluppo economico tra i quali: a) l'Osservatorio unico per il monitoraggio delle attività  produttive; b) la Commissione centrale per le Cooperative. Nell'Osservatorio unico per il monitoraggio delle attività  produttive sono accorpati l'Osservatorio siderurgico, l'Osservatorio per il monitoraggio delle attività  produttive, l'Osservatorio per il settore chimico, l'Osservatorio del sistema moda. L'Osservatorio unico ha il compito di rilevare ed esaminare i dati riguardanti l'andamento generale delle attività  produttive ed i diversi settori produttivi e di mercato, controllando l'evoluzione delle capacità  produttive, degli investimenti e dell'occupazione nelle diverse aree territoriali interessate. La Commissione centrale per le cooperative «esprime parere: a) sui progetti di legge o regolamenti interessanti la cooperazione; b) su tutte le questioni sulle quali il parere della Commissione sia prescritto da legge o regolamenti o richiesto dal Ministro per lo sviluppo economico o dal Direttore generale per gli enti cooperativi; c) sulle domande di riconoscimento delle Associazioni nazionali di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 2 agosto 2002, n. 220; d) in tema di devoluzione dei patrimoni residui degli enti cooperativi iscritti nell'Albo delle Cooperative; e) in tema di adempimenti relativi all'Albo delle cooperative. Gli organismi del Ministero dello sviluppo economico durano in carica tre anni. (Gazzetta ufficiale n. 142 del 21 giugno 2007)
Regolamento riordino organismi del Ministero dell’università e della ricerca
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Regolamento riordino commissione imprenditoria femminile
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Il Comitato per l'imprenditoria femminile, che opera presso il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità ,ha compiti di indirizzo, coordinamento, concertazione, e programmazione generale degli interventi previsti in materia di azioni positive per l'imprenditoria femminile, nonché di promozione dello studio, della ricerca e dell'informazione sull'imprenditorialità  femminile. Il Comitato dura in carica tre anni dalla data di entrata in vigore del regolamento, ed opera a titolo gratuito. Tre mesi prima della scadenza della carica ciascuno degli organismi presenta una relazione sull'attività  svolta al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, che la trasmette alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai fini della valutazione, circa l'utilità  degli organismi stessi e eventuale proroga della loro durata, comunque non superiore ad altri tre anni. (Gazzetta ufficiale n. 167 del 20 luglio 2007)
Regolamento riordino organismi del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale
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Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, riordina il Nucleo di valutazione della spesa previdenziale di cui all'articolo 1, comma 44, della legge 8 agosto 1995, n. 335. Il Nucleo, che svolge i compiti di cui all'articolo 1, comma 763, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e i compiti di controllo del Casellario centrale delle posizioni previdenziali attive «è composto da non più di quattordici membri, nominati con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, con particolare competenza ed esperienza in materia previdenziale nei diversi profili giuridico, economico, statistico ed attuariale». L'incarico di componente del Nucleo è incompatibile con ogni funzione e compito che attenga all'attività  di controllo, indirizzo, vigilanza, gestione e consulenza con gli enti di previdenza obbligatoria, e, altresà, con un rapporto di lavoro dipendente o autonomo con gli enti stessi. Il regolamento conferma inoltre i seguenti organismi: «a) Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità  di trattamento ed uguaglianza di opportunità  tra lavoratori e lavoratrici, di cui all'articolo 8, del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198; b) Collegio istruttorio di cui all'articolo 11, del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198; c) Comitato nazionale per l'emersione del lavoro irregolare di cui all'articolo 78 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modificazioni; d) Ufficio della consigliera o del consigliere nazionale di parità , di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198; e) Rete nazionale delle consigliere e dei consiglieri di parità , di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198». Gli organismi durano in carica tre anni, decorrenti dalla data di entrata in vigore del regolamento. Tre mesi prima della scadenza della carica ciascuno degli organismi presenta una relazione sull'attività  svolta al ministro del lavoro e della previdenza sociale, che la trasmette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ai fini della valutazione, circa l'utilità  degli organismi stessi e eventuale proroga della loro durata, comunque non superiore ad altri tre anni. (Gazzetta ufficiale n. 171 del 25 luglio 2007)
Privacy e rapporto di lavoro in ambito pubblico
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Sono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità  di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico» deliberate dal Garante per la protezione dei dati personali. (Gazzetta ufficiale n. 161 del 13 luglio 2007 ' suppl. ordinario n. 159)
Orario di lavoro operazioni mobili di autotrasporto
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La legge delega il Governo ad emanare entro il 30 settembre 2007 i decreti legislativi per il recepimento della direttiva 2002/15/Cedel Parlamento europeo concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni mobili di autotrasporto. (Gazzetta ufficiale n. 142 del 21 giugno 2007)
Previdenza
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Il decreto fra le disposizioni urgenti in materia finanziaria contiene gli interventi in materia pensionistica. In particolare,il ministro del Lavoro, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, dovranno adottare un decreto, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge, che stabilisca, per l'anno 2007, per complessivi 900 milioni di euro, i criteri di determinazione dell'incremento dei trattamenti di pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria, l'importo massimo complessivo annuo di pensione entro il quale si ha diritto all'incremento e le modalità  di erogazione. Inoltre, a decorrere dall'anno 2008 è previsto un Fondo per il finanziamento, presso il Ministero del lavoro, nel limite complessivo di 1.500 milioni di euro annui, al fine di a) incrementare i trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria e migliorare i «meccanismi di perequazione per le pensioni di importo fino a cinque volte il trattamento minimo mensile vigente nell'assicurazione generale obbligatoria»; b) agevolare il riscatto ai fini pensionistici del corso legale di laurea e «la totalizzazione dei periodi contributivi maturati in diversi regimi pensionistici, in particolare per i soggetti per i quali trovi applicazione, in via esclusiva, il regime pensionistico di calcolo contributivo, al fine di migliorare la misura dei trattamenti pensionistici». (Gazzetta ufficiale n. 151 del 2 luglio 2007)
Presunzione che i primi lavoratori a sospendere la prestazione siano i promotori dello sciopero spontaneo
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La Commissione, nel ribadire il suo orientamento secondo cui, quando l'astensione collettiva non risulti riconducibile ad alcuna organizzazione sindacale,promotore dell'astensione dal lavoro deve essere considerato un comitato spontaneo di sciopero che ne risponde legalmente, ha affermato l'operatività  di una presunzione di appartenenza al comitato spontaneo dei lavoratori che per primi si sono astenuti dalla prestazione di lavoro ma al solo fine dell'apertura del procedimento. Nel caso in esame, in assenza di ulteriori elementi di prova del ruolo dei promotori dei lavoratori che avevano interrotto per primi l'attività  di lavoro, la Commissione ha ritenuto di non poter qualificarli come responsabili del comitato spontaneo di sciopero.
Eccezione di inadempimento (individuale) e sciopero (collettivo)
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La Commissione ha valutato negativamente la condotta degli assistenti di volo Alitaliaper la violazione da parte della compagnia degli accordi contrattuali relativi alla composizione sia quantitativa che qualitativa dell'equipaggio di bordo dell'aeromobile. La Commissione ha ritenuto che tale astensione dal lavoro fosse qualificabile come azione di sciopero soggetta all'applicazione della legge n. 146 del 1990, a nulla rilevando che gli assistenti di volo avessero dichiarato la propria disponibilità  a partire a seguito di «regolare » composizione degli equipaggi nel rispetto delle previsioni contrattuali. In particolare la Commissione ha ritenuto che la denunciata violazione da parte di Alitalia delle disposizioni del contratto collettivo relative alla composizione degli equipaggi (secondo cui è necessaria presenza di un capo cabina di prima categoria in luogo di uno di seconda categoria per certi tipi di volo) quand'anche esistente, non avrebbe potuto essere considerata un inadempimento del singolo contratto di lavoro. Ne conseguirebbe, ad avviso dell'Autorità  garante, che quando l'inadempimento aziendale abbia rilievo collettivo ' come nel caso in questione, in cui vi è stata proclamazione sindacale ' a nulla rileverebbe il fatto che l'astensione dal lavoro possa avere, sul piano civilistico, la qualificazione come eccezione di inadempimento.
Parità di trattamento tra uomini e donne – Regime legale di pensione – Hostess di volo
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Imposta sul reddito dei non residenti – Beni immobili situati nel territorio di un altro Stato membro
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Lavoratore frontaliero – Trasferimento della residenza in un altro Stato membro – Coniuge disoccupato
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Lavoratore frontaliero – Assegno per l’educazione – Presupposto di residenza
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Rappresentante sindacale – Diritto di accesso agli atti – Riconoscimento
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Congedi parentali – Permessi giornalieri per allattamento
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Lavoro pubblico – Procedura di valutazione per inquadramento superiore – Violazione norme del bando
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Contratto di formazione lavoro – Requisiti
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Licenziamento per giusta causa – Successione ex art. 2112 cod. civ. – Sussistenza
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Fruizione di periodo di ferie consecutivo e nell’anno di maturazione
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Licenziamento, pronunzia del dispositivo in udienza, morte del Giudice, successiva sentenza viziata o inesistente
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In una causa avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento individuale,il Giudice decise pronunziando il dispositivo in udienza. Il licenziamento fu dichiarato illegittimo. Nei giorni successivi il Magistrato morà prima di aver redatto la motivazione. A questo proposito la dottrina ha elaborato due teorie: o la sentenza è da considerarsi viziata non inesistente e quindi può essere fatta oggetto di ricorso in appello dalla parte di non accettarla, ovvero il Dirigente del Tribunale assegna la causa ad un altro Giudice il quale fissa nuova udienza di discussione con conseguente nuova pronunzia del dispositivo, rispetto al quale sarà  poi regolarmente depositata la motivazione. Nel caso di specie è stata seguita quest'ultima posizione, colla assegnazione della causa ad un nuovo relatore.
Diritto a permessi mensili retribuiti per assistenza a familiari invalidi
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A seguito di reclamo su ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. di una dipendente dell'Agenzia delle entrate' che aveva fatto domanda di fruire di trasferimento o di permessi retribuiti mensili ex art. 33 legge 104/1992 o in subordine del distacco temporaneo previsto dalla Circolare n. 76762 del 12/2/2001, in ipotesi di sopravvenute esigenze di prestare assistenza a familiari invalidi per il personale di Agenzia delle entrate ' il Collegio ha parzialmente accolto le ragioni della lavoratrice. Ha innanzi tutto respinto, confermando l'ordinanza reclamata, il ricorso per quanto concerne trasferimento a distanza, affermando l'interesse legittimo al trasferimento presuppone, al fine di poter trovare tutela, che l'esigenza del disabile ad una continuativa assistenza preesista all'assunzione lavorativa del soggetto esercitante l'assistenza medesima; per converso, la norma non considera né tutela la necessità  di assistenza insorta in epoca successiva alla costituzione del rapporto di lavoro del familiare disponibile a rendere assistenza al disabile, pur ponendo ciò in evidenza una carenza normativa già  evidenziata dallo stesso Tribunale (cfr. sentenza 619/2005). Con riferimento al distacco di cui alla Circolare citata ' estensiva, come detto, della tutela alla disabilità  sopravvenute ' il Collegio ha parimenti confermato l'ordinanza nel profilo del non essere stato almeno in sede cautelare accertata l'impossibilità  di assistenza da parte di altro familiare (il fratello della ricorrente) vivente a minor distanza dal disabile da assistere. Per quanto invece concerne la domanda di permessi retribuiti mensili, il Tribunale di Reggio Emilia ritiene quanto segue: A) la norma non condiziona assolutamente il riconoscimento dei permessi mensili al fatto che l'assistente viva nel luogo in cui dimora l'assistito o in luogo vicino o lontano; B) il concetto di continuità  dell'assistenza richiesto ai fini dei permessi non può coincidere con l'identico concetto utilizzato a proposito di trasferimento e distacco, ostandovi la nozione stessa dei permessi in una minima esigenza mensile, denotante inevitabilmente una molto saltuaria presenza fisica presso l'assistito (sicuramente di molto inferiore a quella ottenibile con il trasferimento e distacco). Ne deriva che, nella fattispecie in esame, l'assistenza continuativa va intesa in senso lato, dovendosi ritenere prevalente «proprio in ragione della variabile distanza tra luogo di lavoro dell'assistente e luogo di lavoro dell'assistito, nei periodi non interessati da permessi un'assistenza organizzativa e morale consentita dai moderni mezzi di comunicazione» non escludente però assistenza materiale in occasione dei giorni non lavorativi e delle ferie (e di una tale praticata assistenza pare dare atto la stessa ordinanza reclamata), che diviene poi, nei giorni di permesso, vera e propria assistenza materiale, ove occorra anche di tipo infermieristico (accompagnamento a visite mediche, al compimento di affari di rilievo etc.). La correttezza delle tesi esposte diviene, del resto, evidente ove si ponga mente che la disciplina dei permessi è uniforme nel sacrificio richiesto ai datori di lavoro ed è funzionale a garantire a chi ne necessita una miglior assistenza. Conseguentemente il Collegio, in parziale riforma dell'ordinanza reclamata, dichiara il diritto della lavoratrice ai permessi mensili retribuiti di cui all'art. 33, legge n. 104/1992 a far tempo dal documentato aggravamento ulteriore delle condizioni, già  precarie, della madre della ricorrente stessa.
Diritto alle indennità di fine rapporto dell’agente – Decadenza dall’azione per far valere il diritto ex art. 1751 cod. c
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Contratto di formazione e lavoro – Insussistenza dell’obbligo di consegna del progetto di nullità
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Appalto di servizi di pulizia – Recupero crediti retributivi
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Una prova preassuntiva non configura un rapporto di lavoro subordinato
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Nel rispondere ad un annuncio su un giornale fatto pubblicare da un professionista per selezionare una segretaria,una lavoratrice veniva assegnata ad un preliminare periodo di prova al fine di valutare la sua assunzione che si concludeva con una valutazione di inidonea ad opera del professionista. La lavoratrice, ritenendo che si fosse perfezionato un rapporto d lavoro di natura subordinata senza la previsione di una valida prova, adiva il Tribunale di Roma che, rigettava a domanda. La Corte di Appello nel riformare la decisione, ritenuto invalido il patto di prova ed in assenza di un efficace atto risolutivo del rapporto, disponeva, viceversa, il ripristino del rapporto di lavoro. La decisione veniva impugnata in sede di legittimità  dal professionista che lamentava l'omessa valutazione da parte del collegio degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato ritenuti ' immotivatamente ' dalla corte di appello per presunti nello svolgimento della prova. La Suprema Corte ha accolto il ricorso rilevando che il collegio aveva deciso la causa sulla base del solo elemento dello svolgimento di una prova non stipulata per iscritto che non aveva avuto un esito positivo. Nel cassare la decisione la Corte ha affermato che tale accertamento da solo è sicuramente inidoneo a sorreggere la decisione in quanto le parti nella loro autonomia negoziale possono stipulare tanto un contratto di lavoro con patto di prova, quanto lo svolgimento di una semplice attività  esplorativa dell'ambiente di lavoro che sia finalizzata unicamente all'acquisizione delle opportune, reciproche, informazioni concernenti l'instaurando rapporto.
Costituisce controllo occulto a distanza il trattamento dei dati di apertura di una barriera del parcheggio aziendale
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Un'azienda aveva concesso ai propri dipendenti un badge per il posteggio della propria autovettura all'interno di un proprio garageil cui accesso ed uscita, fuori dagli orari di inizio e fine della prestazione, erano assicurati da una sbarra azionate dal lavoratore tramite un badge. A seguito del raffronto dei dati risultanti dagli orari di apertura e chiusura della sbarra di accesso l'azienda aveva risolto il rapporto di lavoro di un proprio dipendente addebitandogli di uscire dall'azienda durante l'orario di lavoro per curare «affari privati». Il lavoratore adiva il Tribunale di Milano affermando il carattere illegittimo del trattamento dei dati personali e l'inutilizzabilità  delle prove ottenute tramite una forma di controllo invasiva della propria privacy. Il Tribunale accoglieva il ricorso disponendo la reintegra nel posto di lavoro con sentenza che veniva, tuttavia riformata dalla locale Corte di appello che riteneva la legittimità  del controllo difensivo attuato dalla società  per reprimere comportamenti illeciti dei propri dipendenti. La Corte di Cassazione ha annullato la decisione ritenendo la violazione della disposizione dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori stante l'assenza di un valido accordo con le rappresentanze sindacali. La Corte ha, infatti, ritenuto che il controllo sull'orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento circa la quantità  di lavoro svolto, si inquadra, per ciò stesso, in una tipologia di accertamento pienamente rientrante nell'ambito dei controlli della prestazione. I giudici di legittimità  nel richiamare l'orientamento della corte in ordine alla validità  dei controlli difensivi hanno comunque ritenuto che gli stessi non possono ritenersi estranei alla fattispecie di cui all'art. 4 Stat. lav., allorché i comportamenti illeciti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso e ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano potenzialità  lesive e la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all'intervento dell'ispettorato del lavoro.
La Cassazione precisa la necessità del rischio di impresa in capo all’associato per la validità del contratto di associazion
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È ingiustificato il rifiuto di un medico di lavorare a causa del carattere dequalificante del ruolo assegnato
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Ritorno in bonis del datore fallito e fondo di garanzia
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Nell'ambito di una controversa avente ad oggetto il diritto di un lavoratore a vedersi riconosciuto il trattamento di fine rapportoda parte del fondo di garanzia istituito presso l'Inps nonostante il dipendente non avesse potuto ottenere l'accertamento del proprio credito nello stato passivo di un imprenditore per chiusura della procedura fallimentare prima della disamina della sua domanda tardivamente proposta, la Corte di Cassazione ha precisato i limiti di accoglimento della domanda. I lavoratore ben può, afferma la Suprema Corte. dopo la chiusura della procedura fallimentare chiedere l'intervento del fondo di garanzia a condizione che effettui preventivamente, ai sensi del comma 5 del suddetto art. 2, una esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro tornato in bonis con la chiusura del fallimento.
La Corte chiarisce l’ambito in cui un licenziamento può essere intimato unitamente alla contestazione disciplinare
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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Onere del datore di provare l’impossibilità dell'idoneità al lavoro
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Le SS.UU. dirimono il contrasto sulla portata dell'obbligo contributivo nella reintegra al lavoro con limitazione del danno
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Nel corso di un giudizio di impugnativa di licenziamento un lavoratore otteneva una sentenza di reintegra del nel posto di lavoroche condannava la società  al risarcimento solo di una parte delle retribuzioni perdute. L'azienda nel dare esecuzione alla sentenza sottoponeva a contribuzione esclusivamente le somme riconosciute dai giudici che avevano dichiarato l'illegittimità  del licenziamento. Tale decisione veniva contestata dal lavoratore che lamentava la mancata integrale contribuzione sulle somme che sarebbero spettate a prescindere da quelle che erano state riconosciute dalla sentenza. Il Tribunale di Forlà con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Bologna rigettava la domanda del lavoratore. Le Sezioni Unite, nel dirimere un contrasto in ordine alla portata dell'obbligo contributivi, hanno affermato che nel caso di annullamento del licenziamento in base all'art. 18 legge 300/70 con ordine di reintegra e condanna dell'azienda al risarcimento del danno, questo può essere determinato anche in misura inferiore alla retribuzione relativa al periodo della data del recesso e quella della reintegrazione. In tal caso, tuttavia, il datore di lavoro è tenuto a versare i contributi previdenziali su un importo commisurato all'intera retribuzione contrattualmente dovuta. Nell'affermare tale principio i giudici di legittimità  hanno affermato che l'art. 18 introduce una deroga alla disciplina generale dell'invalidità  e dell'inefficacia perché stabilisce per il primo periodo decorrente dal licenziamento, non l'obbligo del datore di pagare le retribuzioni ma solo quello del risarcimento del danno. Tale deroga ai principi comuni opera esclusivamente nel rapporto di lavoro tra l'azienda e il proprio dipendente ma non assume efficacia nel diverso piano del rapporto previdenziale. Secondo le regole di questo secondo rapporto ' prosegue la Corte ' la retribuzione deve considerarsi dovuta, con conseguente obbligo di contribuzione in tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia in atto de jure, con esclusione dei casi in cui la prestazione lavorativa non viene resa per fatto immutabile al dipendente, fatte salve le ipotesi di contribuzione figurativa, o per sospensione concordata. Avuto riguardo a tali regole ' conclude la Corte ' nel rapporto di lavoro tra datore di lavoro ed ente previdenziale non vi è alcuna norma che esoneri il primo dal pagamento dell'obbligazione contributiva quando il rapporto di lavoro sia giuridicamente in atto e la retribuzione sia dovuta in quanto la mancata prestazione è imputabile al solo datore di lavoro. Il limite posto al datore di lavoro in ordine al risarcimento dovuto non impedisce, quindi, che l'intera retribuzione maturata sia da considerare dovuta ai fini della normale funzionalità  del rapporto previdenziale.
L’abuso del telefono aziendale in dotazione ad un lavoratore effettuato da un figlio costituisce giusta causa di licenziamento
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Decadenza dall’impiego e concorso presso altra amministrazione statale
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Status di disoccupato e legislazione regionale
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La conservazione dello status di disoccupato non è possibile al di fuori delle ipotesi previste dalla legislazione statale di principio,vincolante per le Regioni, di cui all'art. 4 del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. La legge regionale impugnata prevedeva una disciplina della conservazione dello status di disoccupato in situazioni (instaurazione di un certo tipo di rapporti di lavoro, reddito da essi conseguito) nelle quali la legislazione statale sancisce invece la perdita di tale condizione (decreto legislativo n. 181/2000 citato). Le norme della Regione Puglia, infatti, prevedevano la conservazione dello status di disoccupato in caso di accettazione di un lavoro temporaneo o a tempo determinato per un periodo più lungo di quello indicato dalla legge statale e indipendentemente dal reddito che ne potesse derivare, mentre il d.lgs. n. 181 del 2000 ne ha previsto un preciso tetto. La Corte costituzionale, dopo aver rigettato la questione in relazione alla presunta violazione della competenza esclusiva statale ex art. 117, comma 2, Cost. (in quanto la legge regionale non riguarda l'accesso alle prestazioni previdenziali, bensà solo lo status di disoccupato), l'ha invece ritenuta fondata in riferimento all'art. 117, comma 3, Cost., perché le norme regionali impugnate rientrano nella materia della tutela e sicurezza del lavoro e ledono le prerogative dello Stato riguardo alla determinazione dei principi fondamentali in materia di competenza legislativa concorrente. A tal proposito, il Giudice delle leggi ha richiamato la precedente giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 50, n. 219 e n. 384 del 2005) con la quale ha affermato che le disposizioni dirette a regolare, favorendolo, l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro attengono appunto alla tutela del lavoro. Il legislatore statale, con l'art. 4 del d.lgs. n 181 del 2000 ha posto la normativa di principio regolamentando lo stato di disoccupazione o di inoccupazione, prevedendo poi le evenienze che conducono alla perdita dello stesso e, a contrario, le condizioni necessarie per conservarlo e demandando alle Regioni la determinazione di procedure uniformi in materia di accertamento del predetto stato sulla base di principi ivi testualmente stabiliti. Conseguentemente, secondo la Corte, la disciplina regionale, disciplinando lo «stato» di disoccupato, deve essere dichiarata illegittima perché contrastante con il riparto costituzionale delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni.
Inquadramento personale Ata
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È infondata la questione di legittimità  costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge finanziaria 2006il quale, facendo salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della legge medesima, ha stabilito, tra l'altro, che il comma 2 dell'articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento. Come è noto, il comma 218 della finanziaria 2006 ha ribaltato quanto stabilito dall'art. 8 della legge 124/99 in materia di riconoscimento dell'anzianità  di servizio maturata negli enti di provenienza al personale Ata/Itp transitato dai ruoli degli enti locali allo Stato. In sostanza, gli effetti del comma 218, ritenuti legittimi dalla Corte, rimettono in discussione il diritto dei lavoratori ex enti locali al riconoscimento delle anzianità  maturate alle dipendenze dei predetti enti ottenuto attraverso una vertenza risolta positivamente dalla Corte di Cassazione che, con numerose decisioni, ha sancito per questi lavoratori il riconoscimento di tale diritto. Il Governo Berlusconi, in sede di approvazione della Finanziaria 2006, ha cosà introdotto la norma contenuta nel comma 218 dell'art. 1 definendola di interpretazione autentica, chiaramente volta ad eludere i principi affermati dai giudici della Cassazione. A seguito della sopravvenuta disposizione legislativa, alcuni giudici hanno mutato orientamento, altri invece, ritenendo il comma 218 censurabile sotto il profilo costituzionale, hanno sollevato la questione innanzi alla Corte Costituzionale. Ma la risposta del Giudice costituzionale è stata negativa: innanzi tutto, sul fronte della legittimità  della norma di interpretazione autentica, la Corte ha affermato che l'inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale Ata in ragione del cosiddetto maturato economico e non della effettiva anzianità  complessiva di servizio conseguita presso l'ente locale, ha costituito una delle possibili varianti di lettura della norma. Con riguardo, invece, al presunto «diritto vivente » violato dalla norma impugnata, i Giudici costituzionali hanno affermato: «Il contenuto fondamentale delle citate pronunce della Corte di cassazione si sostanzia, in definitiva, nell'affermazione che l'accordo del 20 luglio 2000 ' recepito nel successivo decreto del 5 aprile 2001 ' non può derogare a quanto stabilito dalla legge n. 124 del 1999, in quanto atto privo di efficacia normativaâ?¦ Consegue che la tesi prospettata dai rimettenti si presenta viziata da una inesatta ricognizione del diritto vivente, sicché essa risulta basata su un erroneo presupposto interpretativo».
Cassazione e interpretazione dei contratti collettivi
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Investita dal Tribunale di Genova, con ordinanza del 12 settembre 2006, della possibile incostituzionalità  degli articoli 360 e 420-bis del Codice di procedura civile,la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili ed infondate le questioni. Esattamente riguardo l'articolo 360 del Codice di procedura civile, nella parte in cui tra i motivi di ricorso in Cassazione sono indicati la «violazione e falsa applicazione di contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro», il Giudice ligure ha rimesso alla Corte la questione se dalla formulazione della norma risultasse: a) un potere discrezionale affidato al Giudice sulla qualificazione del contratto collettivo come «nazionale» in contrasto con l'articolo 39 della Costituzione; b) un'ingerenza dello Stato nell'autonomia sindacale, sancita dall'articolo 39 della Costituzione, elevando i contratti collettivi al rango di «fonti di diritto oggettivo»; c) un contrasto con l'articolo 111 Cost. a causa dell'estensione dei casi in cui il Giudice di legittimità  conoscerebbe del merito della causa. La Corte, ritenendo la questione manifestamente infondata, ha sottolineato come l'art. 420-bis ripropone il modello delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001, sulle controversie in materia di pubblico impiego «contrattualizzato», del quale la stessa Corte ha avuto occasione di confermare la legittimità  costituzionale (sentenza n. 199 del 2003 ed ordinanza n. 233 del 2002); l'irrazionalità  dello strumento viene evitata poiché spetta al Giudice del lavoro il prudente apprezzamento della serietà  della questione di interpretazione o di validità  della clausola collettiva; riguardo all'eccesso di delega la legge 14 maggio 2005, n. 80 ha previsto una delega al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione, e nel fissare i criteri direttivi, ha indicato la valorizzazione della funzione nomofilattica della Cassazione; l'art. 420-bis va letto in connessione con l'art. 146 disp. att. cod. proc. civ. e con i commi 4, 6 e 7 dell'art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 quindi sono individuati termini perentori brevi sia per l'impugnazione in cassazione per «saltum» avverso la sentenza pronunciata dal Giudice di merito, sia per la riassunzione della causa davanti allo stesso Giudice dopo la decisione della Corte di cassazione (v. anche Cass. 19 febbraio 2007, n. 3770 la quale ha escluso il ricorso alla procedura pregiudiziale interpretativa in grado di appello).
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