Descrizione
L'argomento: il nuovo giudizio di cassazione È incostituzionale la norma sull'automatico divieto di concorrere ad altro impiego statale dopo la decadenza L'art. 420-bis cod. proc. civ. è conforme alla CostituzioneIl nuovo giudizio di Cassazione: supplenza zero
1. Con la recente riforma si è attuata una modifica radicaledelle modalità di accesso al giudizio di legittimità che ha origini anche lontane e, occorre sottolineare, obiettivi
ben precisi. Si è infatti all'interno del tradizionale dibattito tra la funzione ordinamentale
della Corte (ius constitutionis) e una sua funzione supplente, volta a non compromettere
i diritti di chi sta in giudizio (ius litigatoris), caratterizzato tuttavia nettamente dal prevalere della prima rispetto alla seconda [cfr. V. CARBONE, Presentazione, in Il nuovo giudizio
di cassazione a cura di G. IANNIRUPERTO e U. MORCAVALLO, Milano 2007, p. XI].
Gli obiettivi di fondo sono il recupero della funzione nomofilattica e, soprattutto, la realizzazione di pressanti esigenze deflattive. Nel 2005 sono stati trattati circa 30.000 ricorsi
con un carico di lavoro crescente (e spesso poco gratificante) su di un numero di giudici
di legittimità che, pur non essendo modesto, è evidentemente inadeguato a sorreggere il
peso di un tale volume di fascicoli.
L'estensione della nomofilachia ai contratti collettivi, la necessità di formulare il quesito di
diritto e il rilievo d'ufficio delle questioni non potranno non incidere in profondità sul ruolo
della Corte e, soprattutto, sul lavoro degli avvocati. Si è in sintesi pensato di rendere più
rigorosi i tradizionali limiti di accesso imponendo un salto qualitativo «storico» al lavoro
della difesa e sancendo di fatto il principio che quello che non ha fatto l'avvocato non lo
fa, in nessun caso, la Corte. Si è attuata quindi la definitiva cessazione di qualsiasi attività
di supplenza con il completamento di quella riforma sotterranea e strisciante iniziata circa
venti anni fa con il recupero e il rilancio continuo del principio di autosufficienza, portata
avanti con efficacia già con la istituzione della «Struttura centralizzata esame preliminare
ricorsi civili», promossa dalla legge n. 89 del 2001 e funzionale al rito camerale.
In un contesto più generale, ulteriore sintomo della tendenza verso la richiesta di maggiore professionalità può essere considerata la lettura operata da parte della Corte di
alcune regole di procedura e delle modalità di acquisizione delle prove [cfr. Cass. Ss.Uu.
20 aprile 2005, n. 8203 e Cass. Ss.Uu. 20 aprile 2005, n. 8203 edite in forma combinata in
Foro It.,2005, I, p. 1690 ss.]. La dottrina ha in parte reagito sottolineando, non sempre a
torto, la tendenza verso il prevalere della verità processuale sulla verità sostanziale e, di
fatto, sul senso di giustizia [cfr. A. PROTO PISANI, Nuove prove in appello e funzione del processo in Foro It., 2005, I, p. 1699 ss.]. Il primato del rito sulla sostanza non risulta in via di
principio automaticamente giustificato e sorretto dalle esigenze di riduzione dei tempi
processuali e di deflazione.
Tutto questo è emerso in riunioni e convegni dove si è sottolineata tra l'altro l'anomalia
del caso Italia (tutti cassazionisti a una certa età ) rispetto, ad esempio, a quanto succede
in Francia (dove gli avvocati abilitati ad adire la Corte Suprema sono alcune decine). Sotto
tiro quindi, con una certa dose di ironia e fastidio, la scarsa attitudine tecnica della difesa
in sede di legittimità (basata essenzialmente sulla pratica: io sparo a raggio e poi si vede).
A questo proposito è giusto tuttavia dare peso e fondamento alla necessità di «evitare il
rischio di un soggettivismo interpretativo, essendo solo del ricorrente la responsabilità
della redazione dell'atto introduttivo» [sottolineata con efficacia da A.CARRATO, I motivi di
ricorso, in Il nuovo giudizioâ?¦, cit., p. 220, nota 8].
2. In tempi brevi e con modi drastici si vuole, in buona sostanza, ottenere la riduzione del contenzioso di legittimità con un rigoroso rispetto delle nuove regole processuali
che sono e saranno interpretate, secondo la intenzione prevalente, il più restrittivamente
possibile. Ancora in sintesi, supplenza zero significa: la Corte non perde più tempo a colmare le lacune del tuo lavoro di avvocato e a dare comunque un senso alle tue difese allusive e poco centrate.
La riforma più significativa riguarda la redazione del ricorso. Si vuole che l'accesso alla
Corte sia meditato e conforme alle regole, non solo nella sostanza ma anche, se non
soprattutto, nella forma. Nulla si può più ricavare dal contenuto complessivo dell'atto. Le
inammissibilità sono effettive e diventeranno strumento potente di deflazione e di dissuasione. Le improcedibilità sono estese al tempestivo deposito di tutto quanto serva a
sorreggere le censure e rappresentano, in molti casi, una efficace «tagliola». Cosà come, è
stato sottolineato, lo sarà la formulazione del quesito [cfr A. PROTO PISANI, Novità nel giudizio civile di cassazione, in Foro It., 2005, IV, p. 252, citato da B. BALLETTI, F. MINICHIELLO, Il
nuovo contenuto del ricorso per cassazione, in Il nuovo giudizioâ?¦,cit., p. 202].
Per quello che si è potuto capire e per quello che emerge dalle indicazioni giurisprudenziali espresse dalla Corte, il primo ostacolo da superare è forse il più alto ed è quello di
giungere a discutere le censure in pubblica udienza. Il tasso di rimessione alla camera di
consiglio ha assunto infatti livelli particolarmente significativi, tutti ancorati a una rigorosa lettura delle norme e a una puntigliosa verifica da parte dell'ufficio della sussistenza di
tutti i requisiti previsti.
Numerose rimessioni al rito abbreviato riguardano ancora il principio di autosufficienza,
rinvigorito dalla sua avvenuta codificazione. Non è ancora chiaro cosa significa l'ampliamento delle improcedibilità collegate a quanto previsto dall'art. 369 comma 2 n. 4, né se
vi sia un rifiuto assoluto della Corte di andare a verificare il contenuto dei fascicoli di merito, spesso voluminosi e disordinati. È tuttavia prudente (per non dire prevedibile) attendersi il peggio e depositare nei venti giorni dalla notifica, oltre alla sentenza impugnata e
alle istanze di trasmissione, tutti gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, in
aggiunta a quanto già contenuto nei fascicoli di merito. Con una cura particolare nel recupero tempestivo dei documenti depositati dalla controparte, non acquisiti in copia nel
corso del giudizio di merito o, comunque, non disponibili.
Per fare qualche preliminare constatazione, è già emerso che non si può comunque fare
affidamento sull'eventualità che il quesito di diritto sia ricavabile dal contenuto dell'atto
o che la Corte, anche con riferimento agli errores in procedendo, provveda direttamente
alla verifica degli atti di causa dopo averli individuati. Vi devono essere infatti nel ricorso indicazioni precise e puntuali, nonché citazioni testuali [cfr. Cass., sez. III, 18 giugno
2007, n. 14133].
3. Tra i suggerimenti che alcuni giudici della Corte in occasioni pubbliche hanno
dato agli avvocati per rendere il loro lavoro conforme ai dettati del codice (e alle aspettative) va segnalato ' oltre a quello di evitare di appesantire gli atti con una pignolesca
quanto inutile riproduzione di tutte le date, le fasi e i passaggi del giudizio di merito '
quello di proporre ricorso soltanto dopo aver individuato: a) la regula iuris applicata nella
decisione che si intende impugnare; b) la regula iuris che si assume violata. Se questa
duplice individuazione non è possibile, allora il ricorso non si deve fare.
Tali indicazioni (esemplificative, non scontate e certamente apprezzabili) mettono a mio
avviso in luce (oltre all'evidente fastidio che negli ambienti della Corte si prova nei confronti di un livello professionale giudicato inaccettabile e, soprattutto, origine di pratiche
defatiganti) la diversa prospettiva e i rischi di incomunicabilità che si nascondono nell'assolvimento dei rispettivi ruoli. E comunque non sembrano del tutto aderenti a quella che,
a volte, è la realtà del processo (non tutte le sentenze consentono di cogliere la «regula»
tra espressioni ellittiche e allusive, nell'ambito di giudizi di merito complicati e complessi) e la funzione della difesa (che non può sempre, a priori, per esigenze di trasparenza e
chiarezza indirizzare verso un solo bersaglio le proprie frecce).
Gli avvocati vivono spesso nel dubbio. I giudici cercano invece di fornire certezze. Sono
soltanto pignolo, inadeguato o pigro io difensore che posso rendere più diretto, comprensibile ed efficace il mio atto o negli anni non è stata anche fuorviante (o comunque
origine di deviazioni) la giurisprudenza che, a volte senza ragionevolezza o coerenza, ha
disomogeneamente ampliato le potenzialità applicative del principio di autosufficienza,
inducendo ad affastellare citazioni e richiami al giudizio di merito non sempre pertinenti?
Siamo certi che è sempre possibile individuare nelle decisioni di merito una regula iuris
netta e di generale applicazione?
E comunque, quando le ipotesi sono più di una, la fattispecie è complessa e la soluzione data non è poi cosà chiara, perché devo assumermi io avvocato tutti i rischi di una
semplificazione o di scelte nette e definitive? Se mi si chiede maggiore chiarezza e pro-
fessionalità è certo che dovrò adeguarmi o passare la mano. Se mi si chiede di limitare
le potenzialità , anche solo ipotetiche, delle possibilità di difesa, evitando di moltiplicare
le censure e i quesiti, allora il discorso si fa più complesso, soprattutto in una fase caratterizzata dall'incertezza.
4. È indubbio che il primo passaggio che bisogna operare per giungere a una valutazione di ricorribilità o meno in sede di legittimità è quella di un'attenta lettura della
decisione impugnata e di una presa d'atto di tutte le motivate valutazioni di merito in
essa contenute. Subito dopo però occorre ripercorrere il processo e verificare sia la ricognizione operata della fattispecie concreta che la rispondenza di quanto avvenuto a
regole fondamentali quali, ad esempio, il rapporto tra il chiesto e il pronunciato o l'applicazione del principio iuxta alligata et probata partis. Dopo di che, occorre senz'altro
individuare la regola posta a base della decisione.
Le affermazioni di principio e le norme applicate consentono di verificare se la ricognizione della fattispecie astratta disciplinata dalla norma è corretta o censurabile perché,
in ipotesi, contraria a quella vivente indicata dalla giurisprudenza. Il vizio di violazione
di legge corrisponde appunto alla individuazione di una errata ricognizione della fattispecie astratta e, quindi, alla interpretazione della disposizione applicata. Costituisce
peraltro principio da tempo consolidato quello in base al quale è inammissibile quella
censura che, pure formulata con il richiamo alla violazione o alla falsa applicazione di
determinate norme, non contenga né la trascrizione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che si assumono errate, né la proposizione di una diversa interpretazione delle norme che si assume corretta.
Un capitolo a parte è costituito dalla estensione della nomofilachia ai contratti collettivi, realizzatasi con la introduzione nei tipi di censura degli errores in iudicando. La verifica della violazione o della falsa applicazione di una disposizione pattizia con efficacia
nazionale avrà come punto di riferimento non eludibile le tradizionali regole di interpretazione poste dal codice civile, anche se il nuovo status nella gerarchia delle fonti
non potrà non far nascere esigenze di integrazione dei canoni e di una loro più ponderata comparazione [anche su tale punto di estremo interesse è la recentissima Cass.,
sez. lav., 21 settembre 2007, n. 19560].
La verifica invece di una corretta ricognizione della fattispecie concreta e delle valutazioni di merito che sono frutto di questa ricognizione può condurre soltanto alla pro-
posizione di un vizio di motivazione, cosà come la chiara individuazione di fatti controversi e decisivi che risultano non oggetto di esame [cfr. Cass., sez. III, 5 giugno 2007,
n. 13066].
La falsa applicazione vive in un'area limitata, che è compatibile con una corretta interpretazione della norma e una adeguata ricognizione della fattispecie concreta, ma che
presuppone una errata correlazione tra la norma di diritto (correttamente interpretata)
e la fattispecie concreta (correttamente ricostruita). Dottrina e giurisprudenza sono
concordi nel ritenere che non siano più ammissibili censure complesse, censure cioè
che fanno leva e richiamano più vizi allo stesso tempo (vizi che traggono tutti comunque origine dalle diverse previsioni di cui si compone l'art. 360) [cfr. B. SASSANI, Il nuovo
giudizio di cassazione, in Riv. dir. proc., 2006, p. 217 ss.]. Si tratta di vedere quindi che
fine farà , in questo contesto, la contemporanea censura di violazione e falsa applicazione di legge, tradizionale caposaldo di molti ricorsi. La prudenza consiglia di eliminare la consuetudine, anche se è auspicabile una certa tolleranza.
Nel vizio di nullità della sentenza o del procedimento devono essere fatte confluire tutte
le censure che fanno leva sulla violazione di regole processuali. La omessa pronuncia o
il vizio di ultra o extrapetizione non devono essere indicati facendo riferimento all'art.
360 n. 3 (e quindi alla violazione di legge) ma all'art. 360 n. 4. La violazione dell'art. 112
cod. proc. civ. (norma che rappresenta un caposaldo nella formulazione di molti ricorsi)
non deve quindi essere mai accostata alla violazione di legge ma alla nullità del procedimento [cfr. sul punto A. CARRATO, op. cit., p. 235 e passim; nonché Cass., sez. III, 5 giugno
2007, n. 13059].
Sotto quest'ultimo profilo, mi auguro davvero che, con l'aria che tira, non si debba arrivare alla declaratoria di inammissibilità di censure che, senza fare nessun riferimento
all'art. 360 (né al n. 3 né al n. 4) si limitino a lamentare semplicemente la violazione della
norma e del principio sottostante. Un ultimo corollario riguarda l'error in procedendo e il
principio di autosufficienza. Occorre ormai tenere presente che non si può più fare affidamento sull'autonoma rilettura degli atti processuali da parte della Corte, neanche
sotto questo profilo. L'obbligo di riesame viene infatti strettamente correlato alla indicazione di tutte le precisazioni e i riferimenti necessari per individuare la dedotta violazione processuale.
5. Il nuovo e più atteso protagonista della riforma processuale è senza dubbio il
quesito di diritto che, a pena di inammissibilità , deve essere formulato a conclusione della
illustrazione dei motivi proposti. È esclusa l'applicazione del nuovo istituto all'ipotesi prevista dal nuovo testo dell'art. 360 n. 5, che impone invece la chiara indicazione del fatto
controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero delle ragioni che determinano la inadeguatezza della sentenza a decidere il caso.
Le prime indicazioni giurisprudenziali consentono di determinarne i contenuti, almeno sul
piano teorico, e di affermare che l'esistenza di tale requisito deve essere espressa ed
effettiva e non ricavabile o estrapolabile dal contesto dell'atto. Il quesito non può essere
generico né complesso, deve avere efficacia generale ma, allo stesso tempo, contenere
chiari riferimenti alla fattispecie. Deve condurre all'affermazione di un principio di diritto,
regula iuris del caso e di casi analoghi, e a una decisione effettiva della fattispecie. Il quesito è inesistente se non è né specifico né decisivo [cfr. Cass., sez. I, 7 giugno 2007, n.
13329 (ord.); Cass. Ss.Uu., 5 gennaio 2007, n. 36; Cass. Sez. Trib., 22 maggio 2007, n.
11682; nonché infine la rassegna di giurisprudenza in Foro It., 2007, I, c. 1385 ss. con nota
di R. CAPONI].
Il quesito non può contenere implicazioni o presupporre sottintesi, dal momento che nessun vizio che non risulti direttamente riflesso nella formulazione proposta può essere
preso in considerazione. Non può essere unico per l'intero ricorso ma deve essere formulato separatamente rispetto a ciascuna censura sollevata. Deve essere riferibile alla fattispecie concreta, soprattutto ed espressamente quando attiene a una delle tante norme
elastiche che disciplinano il diritto del lavoro o quando punta all'affermazione di un principio di diritto su di una norma vivente (cosà come cioè interpretata dalla giurisprudenza
prevalente).
In un caso del tutto particolare (in quanto caratterizzato dalla proposizione di un quesito di diritto secondo le previsioni delle nuove norme processuali, prima però della
entrata in vigore della riforma) un collegio della sezione lavoro ha espresso indicazioni interpretative tolleranti, sulla cui presa è tuttavia rischioso scommettere. In quella
occasione si è infatti affermato che la Corte non sarebbe vincolata alla formulazione
del quesito qualora esso non corrisponda anche in parte al vero contenuto del motivo
e alla sua illustrazione. Anche in questo caso l'interpretazione degli atti processuali
spetterebbe al giudice, coi soli limiti imposti dall'art. 112 cod. proc. civ., dal divieto di
ultra e extrapetizione, nonché di omissione anche parziale della pronuncia [Cass., sez.
lav., 24 luglio 2006, n. 16876 in Foro It. 2007, I, c. 1397].
In una importante sentenza emessa ai sensi dell'art. 420-bis cod. proc. civ. è stato di
recente affermato che «quello che è sempre richiesto ai fini dell'ammissibilità è che a un
motivo di ricorso o ad una censura si accompagni almeno un unico quesito». A ciò si è
aggiunto che «l'indebita frammentazione di un unico motivo (o di un'unica censura) in una
pluralità di quesiti non porta di per sé all'inammissibilità del motivo allorquando il giudice sia in grado di ridurre ad unità i quesiti formulati attraverso una interpretazione della
lettura del contenuto del motivo (o della censura), che riesca agevole per la chiarezza del
dato testuale e che non faccia sorgere, quindi, dubbi o perplessità » [cosà testualmente
Cass., sez. lav., 21 settembre 2007, n. 19560].
6. Deve infine essere rilevato che si è anche ritenuto che la necessità che il ricorso
presenti apposita parte destinata ad adempiere alla funzione di cui all'art. 366-bis (al di
là della parte dedicata alla esposizione del motivo) esiste anche per quanto attiene al
motivo di ricorso ai sensi del n. 5 dell'art. 360. Il che significa che la inammissibilità scatta anche con riferimento alla mancanza di una «chiara indicazione del fatto controverso
e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria» o
delle ragioni per le quali l'insufficienza della motivazione la renderebbe «inidonea a giustificare la decisione».
Anche se è vero che il legislatore non ha detto espressamente che l'illustrazione del motivo deve concludersi con quella «chiara indicazione» (ma ha solo imposto che il motivo la
debba «contenere») la Corte ha affermato che anche i requisiti sopra richiamati non possono essere desunti o estrapolati all'interno dell'esposizione della censura e all'esito
della sua completa lettura. Essi devono emergere espressamente. In particolare, la chiara indicazione del fatto controverso rappresenta una parte specifica ed essenziale della
censura, che non può mancare [cosà Cass. sez. III, 18 luglio 2007, n. 16002 (ord.)].
Il ricorso per cassazione ai sensi del n. 5 dell'art. 360 non può infatti più risolversi nell'investire la Corte del controllo sic et simpliciter dell'iter logico della motivazione. Esso non
può essere del tutto svincolato rispetto allo scopo da raggiungere, che è la prospettazione di una decisione che non poteva non essere diversa. Ne discende che, nonostante la
mancanza di riferimento alla conclusività , i requisiti concernenti la censura di cui al n. 5
devono consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente destinata,
con indicazioni espresse e puntuali.
Anche in questo caso, quindi, la censura non può essere ritenuta ammissibile se l'osservanza del requisito dell'art. 366-bis cod. proc. civ. può essere ricavata esclusivamente da
una completa lettura del motivo (all'esito cioè di un'attività di interpretazione e di supplenza che la Corte non vuole più svolgere) e non da una precisa indicazione da parte del
ricorrente. Ancora una volta viene pertanto affidata a una lettura rigorosa delle nuove
regole processuali non soltanto la salvaguardia della funzione affidata dall'ordinamento
alla Corte ma anche, se non soprattutto, l'intento deflattivo che è all'origine della riforma.
L'azienda che mantiene un dipendente in servizio per anni dopo la scoperta di un comportamento illecito non può licenziarlo
Rita C. dipendente della Spa Poste italiane, in seguito a un esposto presentato nell'agosto del 1993, ha subito un'ispezione,al termine della quale è stata denunciata
alla Procura della Repubblica per avere incassato la somma portata da un libretto
postale intestato a sua madre, deceduta, falsificando la firma. È seguito un processo penale
che in primo grado si è concluso con l'assoluzione dell'impiegata, mentre in secondo
grado, davanti alla Corte d'Appello di Cagliari, ha avuto come esito, nel 1999, la sua
condanna alla pena di sei mesi di reclusione per i reati di abuso d'ufficio e di falso. Né
prima né dopo tale processo l'azienda ha aperto un procedimento disciplinare nei confronti
di Rita C. che è rimasta in servizio con incarichi di crescente importanza. Nel gennaio
del 2000 la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dall'impiegata avverso la
sentenza della Corte d'Appello di Cagliari. In seguito a ciò la Spa Poste italiane ha sottoposto
l'impiegata a procedimento disciplinare, contestandole l'addebito di essere stata
condannata, con sentenza definitiva, per i reati di abuso di ufficio e di falso in relazione
all'episodio denunciato nel 1993. Il procedimento disciplinare si è concluso nell'agosto
del 2000, con il licenziamento in tronco, motivato con riferimento alla condanna riportata
dall'impiegata in sede penale per un fatto commesso nell'esercizio delle sue funzioni.
Rita C. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Cagliari sostenendo che esso
doveva ritenersi illegittimo per la tardività della contestazione dell'addebito. Il Tribunale
ha rigettato il ricorso, ma la sua decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di
Cagliari che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Rita C. nel posto
di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. La Corte ha rilevato che
sin dall'agosto del 1993 l'azienda aveva avuto piena conoscenza dei fatti per i quali era
successivamente intervenuto la condanna in sede penale, ma per sette anni non aveva
mosso alcuna contestazione all'impiegata mantenendolo in servizio e attribuendole
mansioni di particolare importanza. Questo comportamento ' ha osservato la Corte di
Cagliari ' era interpretabile unicamente come manifestazione della volontà di rinunciare
alla applicazione della sanzione. La Spa Poste italiane ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Cagliari per vizi di motivazione e violazione di
legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Cagliari ha correttamente
applicato il principio di immediatezza della contestazione dell'addebito e dell'applicazione
della sanzione, rilevando che l'azienda aveva atteso ben sette anni prima di
contestare alla dipendente i fatti costituenti un illecito disciplinare, sicché tali fatti non
potevano certamente qualificarsi come di gravità tale da rendere impossibile la prosecuzione,
anche provvisoria, del rapporto, che, invece, si è svolto del tutto pacificamente
per sette anni.
È nulla la clausola di un bando di concorso per assunzioni che dà alla P.A. la facoltà di non chiamare in servizio i vincitor
Il danno morale da malattia professionale ha natura contrattuale perché causato da mancanza di misure di prevenzione
Guido C., dopo aver lavorato alle dipendenze della Srl Nuova Sacelit, ha chiesto, nel giugno del 1995, al Pretore di Bergamo, la condanna dell'aziendaal risarcimento
del danno per averlo fatto lavorare negli anni 1980-1983, in un ambiente ove erano
presenti polveri di amianto, causandogli l'asbestosi, diagnosticata nel dicembre del
1987. L'azienda ha contestato la fondatezza dell'eccezione ed ha comunque eccepito la
prescrizione del diritto fatto valere dal lavoratore. Il Pretore, dopo aver sentito alcuni testimoni,
ha condannato la società al pagamento, in favore del lavoratore, della somma
di lire 346 milioni a titolo di risarcimento del danno biologico e morale conseguente alla
malattia professionale contratta. L'azienda ha proposto appello davanti al Tribunale di
Bergamo, censurando la sentenza di primo grado, tra l'altro, per non avere ritenuto prescritto
il diritto del lavoratore e per avergli attribuito il risarcimento del danno morale,
non specificamente richiesto. L'appellante ha sostenuto che sia il termine decennale di
prescrizione del danno biologico, di natura contrattuale, che il termine quinquennale per
la prescrizione del danno morale, di natura extracontrattuale, dovevano ritenersi ampiamente
decorsi al momento in cui il lavoratore si era rivolto al Giudice. Il Tribunale ha rigettato
l'impugnazione, affermando che nella richiesta iniziale di risarcimento del danno,
doveva ritenersi ricompresa anche la domanda relativa al danno morale, che sia il
danno patrimoniale che quello morale avevano natura contrattuale, onde per la loro prescrizione
si applicava il termine decennale e che questo termine aveva iniziato a decorrere
nel dicembre del 1997 quando per la prima volta al lavoratore era stata diagnosticata
l'asbestosi. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
del Tribunale di Bergamo per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando, in primo luogo, che la prescrizione
del diritto al risarcimento del danno da malattia professionale inizia nel momento in cui
si verifica la sua conoscibilità da parte del lavoratore. Anche il danno morale ' ha aggiunto
la Corte ' in caso di malattia professionale derivata da inosservanza del dovere di
tutela della salute del lavoratore, previsto dall'art. 2087 cod. civ., ha natura contrattuale
onde il termine di prescrizione del relativo diritto al risarcimento è decennale. Quanto all'eccezione
di ultrapetizione per avere la parte fatto riferimento alla responsabilità extracontrattuale
ed avere invece il Giudice riconosciuto quella contrattuale, la Corte ha osservato
innanzi tutto che spetta al giudicante sia la interpretazione della domanda, che
la qualificazione giuridica del fatto; in ogni caso, il Giudice deve sempre liquidare l'intero
danno che il soggetto abbia subito, compreso quello morale, in conseguenza del fatto
illecito altrui, a prescindere dalla specificazione delle singole voci da parte dell'attore.
Non incorre nel vizio di ultrapetizione ' ha affermato la Corte ' il Giudice che, anche senza
una specifica domanda della parte, le attribuisca il risarcimento dei danni non patrimoniali
di cui essa risulti aver sofferto in conseguenza del fatto illecito costituente reato
posto a fondamento della sua domanda di risarcimento di danni, la quale ' salva espressa
specificazione ' deve ritenersi comprensiva di tutti i danni e, quindi, anche di
quelli morali.
Il Giudice del merito ' ha rilevato la Corte ' ha correttamente inquadrato la fattispecie
nell'ambito del danno contrattuale, avendo la parte dedotto in giudizio la violazione delle
misure di sicurezza pur in presenza di una notevole polverosità ambientale, comprendente
l'amianto; non è quindi esatta la censura che il Giudice abbia errato ad inquadrare
l'eccezione di prescrizione del danno morale nell'ambito del danno contrattuale ai
sensi dell'art. 2059 cod. civ. escludendo invece l'applicabilità della prescrizione breve ex
art. 2947 cod. civ. prevista per l'illecito aquiliano.
Il cittadino italiano licenziato a New York da un'impresa italiana ha diritto alla tutela dell'art. 18 Stat. Lav.
Guido B., dipendente della Banca di Roma, filiale di New York, ha convenuto dinanzi al Pretore di Roma la società datrice di lavorodeducendo l'illegittimità del
licenziamento intimatogli e chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro. Il Pretore adito
ha rigettato la domanda, con sentenza confermata in appello dal Tribunale. Con sentenza
n. 15822/2002 la Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, affermando che
il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, sorto ed eseguito all'estero, doveva ritenersi regolato,
secondo i criteri della Convenzione di Roma del 19 luglio 1980, dalla legge del luogo
della prestazione lavorativa, a meno che tale legge non risultasse manifestamente incompatibile
con l'ordine pubblico italiano; e che è manifestamente incompatibile con
l'ordine pubblico italiano una legge che in linea generale non preveda tutela contro il licenziamento
ingiustificato. Il Giudice del rinvio, designato nella Corte di Appello di L'Aquila,
ha affermato l'illegittimità del licenziamento e ha condannato la Banca alla reintegrazione
di Guido B. nel posto di lavoro, nonché al risarcimento del danno, ritenendo applicabili
le disposizioni della legge italiana. Ad avviso della Corte territoriale, la legislazione
dello Stato di New York, applicabile secondo i criteri di collegamento fissati dalla
Convenzione di Roma, deve ritenersi contraria all'ordine pubblico italiano perché non assicura
in via generale una tutela contro i licenziamenti ingiustificati; trova quindi applicazione
la legge italiana in base al principio fissato dall'art. 16 comma 2 della legge n.
218/1995 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), con la tutela prevista
dall'art. 18 Stat. lav. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la
decisione della Corte di L'Aquila per violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di L'Aquila ha correttamente
accertato le contrarietà all'ordine pubblico della normativa di legge americana
che consente il recesso ad nutum e pertanto non tutela il lavoratore contro il licenziamento
ingiustificato. La Cassazione ha inoltre affermato l'applicabilità dell'art. 18 Stat.
lav. In proposito, nella motivazione della sentenza della Suprema Corte si legge quanto
segue:
«Ai sensi dell'art. 14 della legge 31 maggio 1995 n. 218 l'accertamento della legge straniera
è compiuto d'ufficio dal Giudice; la normativa enuncia cosà un principio di parità
di trattamento rispetto alle leggi dello Stato, sicché di fronte alla conoscenza della legge
straniera il Giudice italiano si pone nella stessa posizione che assume nei confronti
della normativa italiana, trovando in conseguenza piena applicazione l'art. 113 cod.
proc. civ., che attribuisce in via esclusiva al Giudice il potere di individuare le norme applicabili
alla fattispecie dedotta in giudizio, ricorrendo a qualsiasi canale di informazione e utilizzando
anche le sue conoscenze personali o la collaborazione delle parti. Il Giudice
del rinvio ha correttamente tratto una sintesi dell'assetto normativo vigente in materia
nello Stato di New York dalla sentenza della New York Court of Appeals del 25 febbraio
2003 (Horn v. New York Times, 100 N.Y. 2d 85, 2003): un esame dell'elaborato
giurisprudenziale giustifica l'affermazione secondo cui nell'ordinamento di quello Stato
opera tuttora la tradizionale dottrina dell''employment at will, traducibile come rapporto
di lavoro a tempo indeterminato con libertà di recesso di entrambi i contraenti.
Secondo questa dottrina, la stipulazione del contratto 'for an indefinite term (a tempo
indeterminato) comporta che il rapporto può essere risolto liberamente da ciascuna
delle parti 'at any time for any reason or even no reason (in qualunque momento, per
qualunque ragione o anche nessuna ragione) come si legge in Murphy v. American Home
Prod., 58 N.Y.2d 293 (1983), che cita un risalente ordinamento. In questo sistema, il
termine 'wrongful discharge (equivalente a licenziamento illegittimo) non può essere
riferito al recesso privo di causa giustificativa, perché riguarda solo il licenziamento intimato
per motivi contrari all'ordinamento o in violazione di obblighi assunti con il contratto.
Cosà, si afferma nella sentenza del caso Horn che mentre la legislazione ha introdotto
significative norme antidiscriminatorie, specialmente con il National Labour Relations
Act del 1935 e il Civil Rights Act del 1964, 'le Corti americane si sono mostrate caute
nel creare eccezioni di common law alla regola (generale) e riluttanti ad espandere
eccezioni già riconosciute come quelle riconducibili ad un dovere di correttezza e buona
fede implicito nel contratto stipulato ('obligation of good faith and fair dealing): e
quindi (citandosi la decisione del caso Murphy) che ' 'under New York law as it now
stands, absent a constitutionally impermissible purpose, a statutory proscription, or an
express limitation in the individual contract of employment, an employer right at any time
to terminate an employment at will remains unipaired (per l'attuale legislazione di
New York, quando non ricorra un intento costituzionalmente illecito, una prescrizione di
legge, od un'espressa limitazione nel contratto individuale di lavoro, il diritto del datore
di recedere liberamente in ogni momento dal contratto rimane illimitato). Ai fini dell'indagine
qui svolta (che riguarda, come si è detto, l'esistenza di una regola generale
di necessaria giustificazione del licenziamento) non rilevano le norme antidiscriminatorie
introdotte da leggi federali e dello Stato che vietano il licenziamento basato su fattori
di discriminazione quali sesso, razza, religione, condizioni di disabilità o altro, né la
particolare previsione di una legge penale dell'illegittimità del licenziamento motivato
dalla testimonianza resa da un dipendente in un processo. Va peraltro rilevato che nel
caso Lo Bosco v. New York Telephone Company/NYNEX, 96 N.Y. 2d 312 (2001) si è affermato
che 'New York does not recognize the tort of wrongful discharge, and there is
no exception for firings that violate public politcy, such as a discharge for exposing an
employer's illegal activities (New York non riconosce l'illecito di 'wrongful discharge,
e non sussiste un'eccezione per i licenziamenti che vàolano i principi del sistema legale,
come nel caso di licenziamento intimato al dipendente per aver denunciato attività
illegali del datore di lavoro). Nel caso Sabetay v. Sterling Drug, 69 N.Y. 2d 329 (1987) la
Corte ha escluso di poter ravvisare nel contratto di lavoro un patto implicito di buona
fede ('covenant of good faith and fair dealing) tale da rendere illecito il licenziamento
di un dipendente motivato con il suo rifiuto di partecipare a condotte scorrette. Nel caso
Wieder v. Skala, 80 N.Y. 2d 628 (1992), in cui si discuteva dell'illegittimità del licenziamento
di un associato di uno studio legale, che aveva denunciato ad un'autorità disciplinare
il comportamento scorretto di un altro associato, la Corte è giunta ad una diversa
soluzione in ordine alla configurabilità di una violazione di obblighi derivanti dal
contratto ('breach of contract), in considerazione degli specifici patti che legavano gli
associati dello studio. Nel citato caso Horn, la Corte ha peraltro ribadito il proprio orientamento
escludendo che la 'narrow exception (stretta eccezione) alla 'regola tradizionale
affermata nel caso Wieder potesse operare per il licenziamento di un medico che forniva
prestazioni sanitarie ai dipendenti di un importante organo di stampa (era
stata dedotta l'illegittimità del recesso motivato dal rifiuto del sanitario di trasmettere
informazioni riservate sui pazienti). In un passo finale della decisione, che chiarisce
assai bene l'orientamento della giurisprudenza sul punto si legge quanto segue:
'We have consistently declined to create a common law tort of wrongful or abusive discharge,
or to recognize a covenant of good faith ad fair dealing to imply terms grounded
in a conception of public policy into employment contracts, as the dissent would
have us do, and we again decline to do so (Abbiamo costantemente rifiutato di creare
un illecito di common law di licenziamento illegittimo o abusivo, o di riconoscere un patto
di buona fede e correttezza, tale da implicare nei contratti di lavoro delle condizioni
fondate su una concezione dei principi del sistema legale, come vorrebbe l'opinione
dissenziente, e ancora rifiutiamo di farlo). Resta da esaminare ' una volta stabilita l'applicazione
della legge italiana in base alla regola dettata dall'ultimo comma dell'art. 16
della legge n. 218/1995 ' la questione della identificazione della norma concretamente
applicabile in luogo di quella contraria all'ordine pubblico (la regola della libertà di recesso,
in quanto esclude la tutela contro il licenziamento ingiustificato). La sentenza di
annullamento, mentre include tra i principi dell'ordine pubblico la regola di stabilità del
posto di lavoro (corrispondente al principio di giustificazione necessaria dell'esercizio
della facoltà di recesso), afferma anche, quanto alle conseguenze del licenziamento intimato
in violazione di questo principio, che la disciplina della tutela reale di cui all'art.
18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 non ha il connotato dell'ordine pubblico; che 'di
tale dimensione (dell'ordine pubblico) 'fa parte non il concreto meccanismo attraverso
il quale si sanziona il recesso ingiustificato del datore di lavoro, bensà il principio che
questi non possa a proprio arbitrio recedere dal rapporto. A tale enunciazione la decisione
della Corte di Cassazione fa seguire questa affermazione: 'Solo ove, in esito a tale
verifica, si dovesse escludere l'applicazione della legge straniera e ritenere applicabile
la legge del foro, le conseguenze saranno quelle da questa concretamente previste.
In base al principio di diritto stabilito dalla sentenza rescindente, l'applicazione
della normativa italiana sui licenziamenti comporta dunque anche l'operatività delle garanzie
poste dalla lex fori per l'ipotesi di licenziamento illegittimo. A tale principio si è
attenuto il Giudice di rinvio, con l'applicazione nel caso in esame della tutela prevista
dall'art. 18 legge 20 maggio 1970 n. 300».
L'ente pubblico ha diritto al risarcimento del danno di immagine causato dal comportamento illecito di un suo dipendente
Francesco C., dirigente dell'Istituto nazionale di previdenza per i Dirigenti di aziende industriali, Inpdai, è stato sottoposto a processo penalecon l'imputazione
di avere indotto alcuni costruttori romani a corrispondergli ingenti somme per poter
vendere immobili all'ente. Il processo si è concluso per patteggiamento, con l'applicazione
di una pena di un anno e dieci mesi di reclusione. Successivamente, l'Inps, succeduto
all'Inpdai, ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma, l'ex dirigente Francesco
C., chiedendone la condanna al pagamento di lire due miliardi per danni patrimoniali
e di lire due miliardi e cinquecento milioni per danni non patrimoniali. Il Tribunale
ha rigettato la domanda, ma la sua sentenza è stata riformata dalla Corte d'Appello di Roma
che ha condannato l'ex dirigente a pagare all'Inps la somma di euro 516.000,00 per
risarcimento di danni non patrimoniali. La Corte di Roma ha ritenuto che la condotta di
Francesco C. sia stata fonte, per l'Inpdai, di un «rilevantissimo danno all'immagine in
quanto sia nel grosso pubblico, sia nella stampa quotidiana, come nell'ambito sindacale
si è creato il convincimento che l'istituto fosse divenuto un centro di affari per niente
pulito con esborso da parte dei costruttori, interessati alla vendita di notevoli complessi
immobiliari, di somme enormi, per superare la concorrenza o rientrare nel gruppo di quei
pochi che sarebbero rimasti sempre all'attenzione del gruppo dirigente». Francesco C. ha
proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di
motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La sentenza penale di applicazione della pena
ex art. 444 cod. proc. pen. (cosiddetto patteggiamento) ' ha affermato la Corte ' costituisce
indiscutibilmente elemento di prova per il Giudice di merito il quale, ove intenda
disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato
avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità , ed il Giudice penale abbia
prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto
di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come
prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile. Per quanto attiene al
risarcimento, la Suprema Corte ha rilevato che i giudici del merito hanno correttamente
accertato l'esistenza del danno, con riferimento al pregiudizio causato all'immagine dell'Istituto,
quantificando il risarcimento in via equitativa. Il Giudice può far ricorso alla valutazione
equitativa non solo quando è impossibile stimarne con precisione l'entità , ma
anche quando, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione
di esso sia difficoltosa; al riguardo, inoltre, non può tacersi che si è al cospetto di un danno
«all'immagine» di un ente pubblico e la valutazione di siffatto pregiudizio, per la sua
natura privo delle caratteristiche della patrimonialità , non può che essere effettuata dal
Giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri
economici o reddituali. Il danno arrecato da pubblici dipendenti (o da soggetti comunque
inseriti nell'apparato organizzativo di una pubblica amministrazione) all'immagine
dell'ente ' ha rilevato la Corte ' anche se non comporta una diminuzione patrimoniale
diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione patrimoniale, sotto il profilo della spesa
necessaria al ripristino del bene giuridico leso.
L'indennità sostitutiva del preavviso deve essere calcolata in base ai minimi del ccnl entrato in vigore nel relativo periodo
Riccardo F., dipendente della Spa Costruire, con qualifica di dirigente, è stato licenziato senza preavvisoil 12 dicembre 2000 ed ha impugnato il licenziamento davanti
al Tribunale di Napoli chiedendo di accertarne l'ingiustificatezza e di condannare
l'azienda al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare
prevista dal contratto collettivo per i dirigenti industriali in caso di recesso ingiustificato.
Successivamente al deposito del ricorso è stato sottoscritto il nuovo contratto
collettivo di categoria, con decorrenza dal 1 gennaio 2000, contenente, fra le disposizioni
transitorie, l'art. 3: «Gli aumenti retributivi derivanti dal presente contratto
trovano applicazione nei confronti dei dirigenti in servizio alla data del 23 maggio 2000».
La difesa del dirigente ha depositato, con le note autorizzate finali, il testo del nuovo contratto,
chiedendo che la determinazione degli importi dovuti fosse effettuata in base ai
più elevati livelli retributivi stabiliti dalle parti collettive, in quanto questi erano entrati in
vigore nel periodo del preavviso, illegittimamente negato. Il Tribunale di Napoli ha dichiarato
il licenziamento ingiustificato e ha condannato l'azienda al pagamento dell'indennità
sostitutiva del preavviso, nonché dell'indennità supplementare, ma non ha accolto
la richiesta di determinare i relativi importi in base al nuovo contratto collettivo.
Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello di Napoli, con sentenza del
maggio 2004, che ha escluso la possibilità di applicare i nuovi minimi contrattuali per
due motivi: innanzi tutto qualsiasi «emendatio» nel rito del lavoro è consentita sempre
previa autorizzazione del Giudice e per gravi motivi e, nel caso di specie, la contrattazione
collettiva, entrata in vigore successivamente al deposito del ricorso, era stata depositata
con le note di discussione senza richiedere l'autorizzazione preventiva al Giudice;
in ogni caso, gli aumenti previsti dal nuovo contratto non potevano trovare applicazione
nel caso in esame ove il rapporto di lavoro si era comunque risolto nel dicembre 2000. Il
dirigente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Napoli
per avere ritenuto inammissibile ed infondata la richiesta di applicazione dei nuovi
minimi contrattuali.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. L'autorizzazione da parte del Giudice a depositare
note scritte, in luogo della discussione e delle conclusioni orali previste dal codice di
rito (art. 429, primo comma, cod. proc. civ.) ' ha affermato la Corte ' implica l'autorizzazione
a richiedere per iscritto quello che la parte avrebbe dovuto richiedere oralmente; e
non è dubbio che è tempestiva la richiesta di avvalersi di un contratto collettivo con efficacia
retroattiva sottoscritto nel corso del grado di giudizio. Nel merito, ha osservato la
Corte, l'art. 2118 cod. civ. individuando il contenuto dell'obbligazione nel pagamento della
retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso, collega il contenuto dell'obbligazione
al tempo del preavviso e assegna cosà rilevanza alle modifiche retributive
intervenute nel periodo di preavviso. La differenza tra il recesso in tronco consentito dall'articolo
2119 per giusta causa e il recesso con preavviso consentito dall'articolo 2118 '
ha affermato la Corte ' non si esaurisce nell'obbligo di pagare, in questo secondo caso,
una indennità sostitutiva del preavviso, ma comporta l'obbligo di preservare tutti i diritti
retributivi che sarebbero maturati nel corso del periodo di preavviso; da quanto sopra
discende la rilevanza degli aumenti retributivi intervenuti nel corso del preavviso anche
ai fini della indennità supplementare. Pertanto la Suprema Corte ha cassato la sentenza
impugnata e ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione,
stabilendo il seguente principio di diritto: «Il contenuto dell'obbligazione prevista per la
parte recedente dall'articolo 2118 codice civile di pagare, in mancanza di preavviso lavorato,
una indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il
periodo di preavviso, attribuisce rilevanza agli aumenti retributivi intervenuti nel corso
del preavviso, anche se non lavorato, ai fini della determinazione sia della indennità sostitutiva
del preavviso, sia dell'indennità supplementare per i dirigenti».
Non ha diritto alla qualifica di dirigente il responsabile di produzione con attività soggetta alle direttive della controllant
Mario F. dipendente della Srl Distriberg, nel giugno del 1988 ha avuto, con la qualifica di impiegato direttivo,l'incarico di direttore e controllore di produzione, con
poteri, deliberati dall'assemblea dei soci, di organizzazione, direzione e controllo tecnico
operativo, da esercitare secondo le istruzioni impartitegli. Egli ha chiesto al Pretore di Bergamo
di accertare il suo diritto, per le mansioni svolte dal 1987 al 1996, alla qualifica di dirigente
ed al relativo trattamento economico, nonché di condannare l'azienda al pagamento
delle conseguenti differenze di retribuzione. Sia il Pretore che, in grado di appello,
il Tribunale di Bergamo, hanno ritenuto la domanda priva di fondamento. Il Tribunale ha
osservato che dalla istruttoria svolta era emerso che l'attività della Distriberg era organizzata
e controllata dalla società Niag, detentrice della maggioranza delle quote del suo capitale
e sua unica committente; conseguentemente la Distriberg poteva essere equiparata
a un reparto della Niag ed aveva una limitata autonomia; erano infatti sottoposti alle direttive
della Niag l'organizzazione del lavoro, la distribuzione delle maestranze, i progetti
logistici e tecnologici, i contatti con i clienti; gli ordini di acquisto della Distriberg dovevano
essere approvati dalla Niag. Da tale assetto organizzativo il Tribunale ha tratto la conclusione
che Mario F. non avesse, nelle attività affidategli, l'autonomia e i poteri decisionali
propri del dirigente. Mario F. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
del Tribunale di Bergamo per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il Tribunale di Bergamo
abbia adeguatamente motivato la sua decisione, accertando, in base alle prove raccolte,
che la Distriberg operava di fatto come un reparto della Niag e che i poteri attribuiti
a Mario F. erano analoghi a quelli dei capi reparto della stessa società controllante.
Il giudice non può utilizzare dichiarazioni scritte in sostituzione della prova testimoniale
Giovanni S., dipendente della Spa Radio Dimensione Suono, è stato licenziato con motivazione riferita ad un litigio da lui avuto con un collega in ufficio.Egli ha
impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Roma, sostenendo che il litigio non era
stato di gravità tale da giustificare il licenziamento. A sostegno delle sue difese egli ha
prodotto dichiarazioni scritte spontaneamente rese da alcuni dipendenti presenti al fatto,
attestanti che il litigio non si era svolto con le modalità ritenute dall'azienda. La R.D.S.
ha contestato la veridicità del contenuto delle dichiarazioni scritte ed ha chiesto che fosse
ammessa la prova testimoniale da lei offerta sulle circostanze dell'accaduto. Sia il Tribunale
che la Corte d'Appello di Roma non hanno ammesso la prova testimoniale e, basandosi
sulle dichiarazioni scritte prodotte dal lavoratore, hanno escluso che il comportamento
tenuto da Giovanni S. fosse stato di gravità tale da meritare la sanzione applicata.
Pertanto hanno dichiarato l'illegittimità del licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la sentenza della Corte di Roma per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La Corte di Appello ' ha osservato la Cassazione '
ha fondato il suo giudizio ' di sproporzione della sanzione in rapporto alla gravità dei fatti
addebitati ' su dichiarazioni scritte rese al di fuori del processo e non ha ammesso, senza
motivazione alcuna, la prova testimoniale articolata dalla società in primo grado e riproposta
nell'atto di appello. Il contenuto di tale prova, il cui capitolato è stato riprodotto
dalla società nel ricorso per cassazione, ' ha osservato la Corte ' è senza dubbio rilevante
ai fini della decisione, ragione per cui la Corte territoriale non poteva disattendere la richiesta
istruttoria senza dare adeguata ragione di tale decisione; se è vero, infatti, che le
dichiarazioni rese da terzi al di fuori del processo possono assumere valore di meri indizi
comunque utilizzabili dal Giudice di merito, non è men vero che le prove devono di norma
raccogliersi nel processo nel contradditorio delle parti e con le garanzie derivanti dalla responsabilità
penale connessa alla falsa testimonianza, sicché l'utilizzazione di fonti probatorie
estranee al processo e con meno valore indiziario non può prevalere sulle richieste
di prove testimoniali da acquisire nel processo, senza che il Giudice di merito dia adeguata
ragione della non necessità dell'acquisizione. La Corte ha cassato la sentenza impugnata,
rinviando la causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Roma in diversa
composizione.
La prescrizione dei crediti di lavoro può essere interrotta da un rappresentante sindacale con atti scritti
Gli eredi di Gino B., dipendenti della Spa Rete ferroviaria italiana, hanno chiesto al Tribunale di Roma la condanna dell'azienda al pagamento di differenze di retribuzionematurate a favore del loro congiunto nel periodo dal 1981 al 1986. La società
ha sollevato l'eccezione di prescrizione quinquennale del credito. I ricorrenti hanno replicato
che la prescrizione doveva ritenersi interrotta per effetto delle richieste scritte di
pagamento avanzate dal sindacato nell'interesse del lavoratore. Il Tribunale di Roma ha
accolto la domanda, condannando l'azienda al pagamento delle somme richieste. Questa
decisione è stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di Roma, che ha accolto
l'eccezione di prescrizione sollevata dall'azienda ed ha affermato che i pretesi atti
interruttivi erano inefficaci in quanto provenienti da persona estranea al rapporto, senza
che fosse dichiarata la sua qualità di rappresentante o di mandatario. Gli eredi di Gino B.
hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per
vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Ai fini dell'interruzione della prescrizione effettuata
mediante intimazione scritta ad adempiere ' ha osservato la Corte ' la giurisprudenza
ritiene che la stessa possa essere validamente fatta non solo da un legale il quale
si dichiari incaricato della parte, ma anche da un mandatario o da un incaricato, alla
sola condizione che il beneficiario ne intenda approfittare. Nella fattispecie, devesi quindi
affermare che in tema di differenze retributive anche l'intimazione ad adempiere fatta
da un rappresentante sindacale, il quale dichiari di agire nell'interesse del lavoratore, è
idonea ad interrompere la prescrizione; si veda al riguardo Cass. 3 dicembre 2002 n.
17157, la quale ha ritenuto come ai fini della costituzione in mora non sia necessario il rilascio
in forma scritta della relativa procura, non operando in tale caso l'art. 1324 del codice
civile. Pertanto ' ha affermato la Corte ' la procura per la costituzione in mora può
risultare da un comportamento univoco e concludente, il quale può essere posto in essere
anche da un mandatario; essenziale è che l'atto sia idoneo a rappresentare al debitore
che esso è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre
effetti.
La Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, invalidando la causa, per nuovo esame
alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
La contrattazione collettiva può ridurre il trattamento economico previsto da un precedente accordo concluso tra le stesse part
Tra la Spa Sicurtransport di Catania e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil è stato concluso il 31 gennaio 1991 un accordo integrativo aziendaleche prevedeva alcuni benefici per i dipendenti (premio di produttività , indennità vestiario, indennità
di rischio, etc.). L'accordo ha avuto regolare applicazione per oltre sei anni, anche
nei confronti dei dipendenti non iscritti ai sindacati firmatari. Nell'aprile del 1997 l'azienda
ha attuato una riduzione del personale, con il collocamento in mobilità di 42 dipendenti.
A seguito di trattative sindacali, il 27 novembre 1997 è stato sottoscritto tra l'azienda
e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil un accordo che, a fronte della revoca
dei licenziamenti, prevedeva la soppressione o la riduzione di alcuni dei benefici economici
istituiti con l'accordo del 1991. Mariano C. ed altri dipendenti della Sicurtransport aderenti
al sindacato Ugl hanno chiesto al Pretore di Catania di accertare che l'accordo del
1997 non era a loro applicabile in quanto peggiorativo del trattamento economico da loro
acquisito con l'accordo del 1991 e non sottoscritto dal sindacato al quale essi erano iscritti.
Il Pretore ha accolto le domande affermando il diritto dei ricorrenti a mantenere
integralmente i benefici acquisiti con l'accordo del 1991. In grado di appello il Tribunale
ha confermato la decisione osservando che l'accordo del 1997, avente portata peggiorativa,
non era applicabile ai lavoratori appellati, «essendo i medesimi dissenzienti ed iscritti
a un'organizzazione sindacale che non aveva partecipato alla stipulazione dello
stesso». L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale
per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Le funzioni specifiche riconosciute dall'ordinamento
alle associazioni sindacali ' ha affermato la Corte ' consistono (come emerge
dalle varie norme che, pur senza dare attuazione all'art. 39 Cost., fanno ad esse riferimento)
nella stipula di contratti collettivi aventi efficacia obbligatoria per tutti gli iscritti
e nello svolgimento, in favore degli stessi, di opera di promozione civile, sostegno nelle
rivendicazioni e assistenza nelle controversie, senza che possa però configurarsi una
legittimazione delle associazioni medesime a rinunciare, transigere o conciliare diritti
soggettivi (ancorché acquisiti dai singoli lavoratori in forza di pattuizioni collettive), in
difetto di espressa previsione normativa in tal senso o di uno specifico mandato da parte
degli associati. Ma non vi è contrasto ' ha osservato la Corte ' tra questo principio e
quello, del pari fermamente enunciato dalla Cassazione nella sua giurisprudenza consolidata,
secondo il quale, in tema di successione di contratti collettivi, il lavoratore non
può invocare un diritto acquisito in forza della precedente contrattazione; infatti, una
cosa è l'indisponibilità , da parte del sindacato, dei diritti soggettivi perfetti attribuiti da
un determinato contratto collettivo, ed altra è la pretesa, da parte del lavoratore, di
mantenere definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto nato da una norma
collettiva che ormai non esiste più perché caducata o sostituita da una successiva contrattazione
collettiva.
Ciò perché ' ha precisato la Corte ' le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano
nel contenuto dei contratti individuali, dando luogo a diritti quesiti sottratti al
potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano invece dall'esterno sui
singoli rapporti di lavoro, come fonte eteronoma di regolamento, concorrente con la
fonte individuale, sicché, nell'ipotesi di successione fra contratti collettivi, le precedenti
disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento
più favorevole (che attiene esclusivamente, ai sensi dell'art. 2077 cod. civ., al
rapporto tra contratto collettivo ed individuale), restando la conservazione di quel trattamento
affidata all'autonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, che possono
prevederla con apposita clausola di salvaguardia; la stessa durata di un contratto
collettivo rientra tra gli elementi disponibili da parte del sindacato, atteso che a questo
soggetto è rimessa la valutazione «collettiva» della persistente corrispondenza della
norma contrattuale agli interessi dei lavoratori associati, e, mutata la situazione contingente,
esso ben può decidere di non conservarne ulteriormente l'efficacia. Del resto
' ha osservato la Corte ' il nuovo contratto può risultare «peggiorativo» in alcuni aspetti,
ma evidentemente rispetto ad una situazione preesistente, mentre la nuova disciplina
deve ritenersi corrispondente agli interessi degli associati rispetto alle situazioni
sopravvenute. Unico limite del potere dispositivo del sindacato ' ha affermato la
Cassazione ' è costituito dal precetto dell'art. 36 Cost. (che garantisce l'adeguatezza
della retribuzione) ' ma è evenienza rara che tale norma sia violata dalla contrattazione
collettiva ' dovendosi anche osservare che quasi sempre una valutazione in termini
di trattamento peggiorativo è fatta sotto profili esclusivamente monetari ed individuali,
mentre la pratica della contrattazione è sempre diretta a realizzare complessivi miglioramenti,
ove la valutazione sia effettuata nella corretta prospettiva «collettiva». In
applicazione di questi principi, non può essere messo in discussione il potere del sindacato
di sostituire la precedente disciplina collettiva, anche con esito peggiorativo per
il trattamento economico e normativo di tutti o alcuni lavoratori. Nella specie ' ha osservato
la Corte ' si tratta proprio, ed esclusivamente, della successione nel tempo di
contratti collettivi, e non di disposizioni di diritti patrimoniali già insorti nel patrimonio
dei singoli lavoratori; la questione controversa concerne infatti trattamenti integrativi
del contratto nazionale introdotti con decorrenza dal 1991, secondo le regole dettate dal
contratto integrativo di durata stipulato in quell'anno; ne discende che il nuovo contratto
del 1997 ' che aveva tratto origine da una situazione di crisi della società datrice
di lavoro, resasi tuttavia disponibile ad una revoca dei licenziamenti ' poteva legittimamente
determinare il contenuto degli obblighi, anche retributivi, del datore di lavoro
a partire dalla sua entrata in vigore, non avendo operato alcuna disposizione di diritti
già maturati a favore dei lavoratori. È pertanto errata ' ha rilevato la Corte ' l'affermazione
contenuta nella sentenza impugnata secondo la quale nella specie non si configurerebbe
un'ipotesi di successione di contratti collettivi perché il nuovo contratto è
solo parzialmente modificativo del precedente; e parimenti errata è l'ulteriore affermazione
secondo la quale l'accordo del 1997 non sarebbe opponibile ai lavoratori dai quali
le Oo.Ss. stipulanti non avevano ricevuto specifico mandato. Premesso che i sindacati
che hanno stipulato il contratto (peggiorativo) del 1997 sono gli stessi che sottoscrissero
il contratto del 1991 ' ha osservato la Cassazione ' priva di rilievo è la circostanza
che i lavoratori odierni intimati fossero iscritti ad un'organizzazione sindacale che non
ha partecipato alla stipula del contratto del 1997, circostanza dalla quale la sentenza
impugnata fa derivare la (errata) conseguenza che per essi questo contratto non sarebbe
vincolante; al riguardo va ricordato il principio di diritto secondo il quale ove un
contratto collettivo aziendale, stipulato dal sindacato per la tutela degli interessi collettivi
dei lavoratori dell'azienda, venga successivamente modificato o integrato da un
nuovo accordo aziendale stipulato dallo stesso sindacato, tutti i lavoratori che abbiano
fatto adesione all'originario accordo, ancorché non iscritti al sindacato, sono vincolati
dall'accordo successivo e non possono invocare l'applicazione soltanto del primo. Dovendosi
ritenere sussistente l'adesione dei non iscritti al contratto del 1991, per esserne
stati anch'essi beneficiari ' ha concluso la Corte ' ne discende l'irrilevanza della
mancata partecipazione all'accordo del 1997 della diversa organizzazione sindacale cui
gli stessi erano iscritti.
Un dirigente comunale può chiedere al Giudice del lavoro di accertare che il segretario del Comune non può sostituirlo
Bartolomeo C., dipendente del Comune di Cogorno nell'area tecnica e tecnico-manutentiva comunale,inquadrato nella categoria D3, con funzioni dirigenziali, ha negato
a un privato una concessione edilizia per lavori di ristrutturazione. Il Sindaco gli ha
intimato di rilasciare la concessione. Poiché il funzionario non ha eseguito la disposizione impartitagli,
l'autorizzazione è stata rilasciata, in via sostitutiva, dal segretario comunale,
su richiesta del Sindaco. Bartolomeo C. ha chiesto al Tribunale di Genova, Giudice
del lavoro, di riconoscergli la titolarità esclusività del potere decisionale sui provvedimenti
di concessione edilizia. Il Tribunale ha rigettato la domanda affermando che, in caso
di inadempienza ingiustificata e illegittima dei funzionari, sussisteva il potere del segretario
comunale di sostituzione ' avocazione. Questa decisione è stata riformata dalla
Corte d'Appello di Genova, che ha dichiarato illegittima la sostituzione operata dal segretario
comunale. Il Comune ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. Nel decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267
(Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ha osservato la Corte, i compiti
propri del segretario comunale sono definiti, in linea generale, quali «compiti di collaborazione
e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi
dell'ente alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti
» (articolo 97, comma 2). Al segretario comunale sono infatti affidati compiti di
coordinamento dell'attività dei dirigenti e di sovrintendenza allo svolgimento delle relative
funzioni. Ai dirigenti è assegnata a una sfera di attribuzioni non derogabile se non
con norma primaria, ed essi sono direttamente ed esclusivamente responsabili del loro
esercizio. Quindi l'attribuzione legislativa al segretario comunale di compiti di sovrintendenza
di coordinamento dell'attività del dirigente, ' ha affermato la Corte ' non può essere
intesa, per ragioni di coerenza sistematica, nel senso che tali compiti implichino un
potere di sostituzione del dirigente; un siffatto potere da un lato comporterebbe deroga
alle attribuzioni di quest'ultimo, in contrasto con l'esplicito limite che la legge prevede in
proposito, dall'altro determinerebbe violazione della regola di diretta responsabilità del
dirigente rispetto all'atto di esercizio di una funzione specificamente attribuitagli. Nella
prospettiva del rapporto di lavoro ' ha concluso la Corte ' i problemi di inerzia o rifiuto
nel provvedere, vanno quindi affrontati sul piano della responsabilità del dirigente, mentre
deve escludersi che essi potessero trovare soluzione mediante un'iniziativa sostitutiva,
non consentita sulla base delle norme in vigore all'epoca della controversia.
L'anzianità di servizio di un contratto di formazione lavoro deve calcolarsi anche al fine degli avanzamenti previsti dal ccnl
Vito N. è stato assunto alle dipendenze della Spa Ferrovie dello Stato con contratto di formazione e lavoro di durata biennale.Alla scadenza del biennio il rapporto
è continuato con contratto di lavoro a tempo indeterminato che prevedeva, con apposita
clausola, che non fosse computata, ai fini della progressione del trattamento economico,
l'anzianità maturata durante il contratto di formazione e lavoro. Egli ha chiesto
al Tribunale di Taranto di accertare la nullità di tale clausola e il suo diritto al computo
dell'anzianità di servizio maturata durante il periodo di formazione al fine dell'accesso
ad una classe retributiva superiore. Il lavoratore ha invocato l'art. 3 della legge 19
dicembre 1984 n. 863 secondo cui ove il rapporto di lavoro continui a tempo indeterminato
dopo il periodo di formazione e lavoro, il dipendente ha diritto al computo di tale
periodo ai fini dell'anzianità di servizio. L'azienda si è difesa sostenendo che la legge andava
interpretata nel senso che l'anzianità maturata durante il rapporto di formazione e
lavoro dovesse essere computata solo ai fini degli istituti legali e non per gli avanzamenti
di natura contrattuale. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Taranto hanno ritenuto
nulla la clausola contrattuale recante l'esclusione del computo dell'anzianità di servizio
del periodo di formazione e pertanto hanno riconosciuto il diritto del lavoratore al richiesto
avanzamento. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza
della Corte di Taranto per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. L'art. 3 comma 5 del d.l. 30 ottobre 1984 n. 726,
convertito con modificazioni in legge 19 dicembre 1984 n. 863 ' ha ricordato la Corte '
cosà dispone: «Ai contratti di formazione e lavoro si applicano le disposizioni legislative
che disciplinano i rapporti di lavoro subordinato in quanto non siano derogate dal presente
decreto. Il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità di servizio in
caso di trasformazione del rapporto di formazione e lavoro in rapporto a tempo indeterminato,
effettuata durante ovvero al termine del contratto di formazione e lavoro». Questa Corte '
ha aggiunto la Cassazione ' in merito a tale disposizione legislativa ha già avuto
modo di affermare il seguente principio di diritto. «La disposizione dell'art. 3 comma
5 del d.l. n. 726 del 1984, convertito con modificazioni dalla legge n. 863 del 1984, secondo
cui il periodo di formazione e lavoro è computato nell'anzianità di servizio in caso
di trasformazione del relativo rapporto in rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la
disposizione del comma 12 che estende le agevolazioni offerte ai datori di lavoro al caso
di assunzioni nei dodici mesi successivi al periodo di formazione e lavoro, comportano la
commutabilità di detto periodo anche quando l'anzianità di servizio è presa in considerazione
da discipline meramente contrattuali, come quella sugli scatti di anzianità e i
passaggi automatici di classe stipendiale, dato che la distinzione tra istituti di origine legale
e trattamenti di fonte convenzionale non trova fondamento nel tassativo tenore del
testo normativo, la cui portata non può ritenersi derogabile neanche mediante specifiche
previsioni della contrattazione collettiva». Questa Corte ' ha affermato la Cassazione '
non ha motivo di discostarsi da tale insegnamento poiché gli argomenti contrari sostenuti
dalla ricorrente non sono tali da indurre ad un ripensamento; va infatti rilevato che
la tesi della società , secondo cui la disciplina dettata dall'art. 3 comma 5 della legge n.
863/1984 si deve riferire ai soli istituti legali e non agli istituti di origine contrattuale, si
fonda sulla considerazione che il primo periodo del comma 5 contiene un testuale riferimento
alle sole disposizioni legislative, per cui deve ritenersi che anche il secondo periodo
della norma limiti la computabilità del periodo di formazione e lavoro ai soli istituti
di origine legale che disciplinano gli effetti dell'anzianità di servizio. Tale opinione ' ha
osservato la Corte ' non tiene conto del fatto che il legislatore del comma 5 ha fissato
due distinte proposizioni, separandole con un punto, cosà accentuandone l'autonomia,
per cui non è corretto riferire alla seconda il contenuto della prima. Infatti, una volta stabilito
che ai contratti di formazione e lavoro trasformati in contratti a tempo indeterminato
«si applicano le disposizioni legislative che disciplinano i rapporti di lavoro subordinato
», con la seconda proposizione il legislatore ha stabilito in via generale che il periodo
di formazione e lavoro in caso di trasformazione del rapporto deve essere computato
nell'anzianità di servizio. Tale tassativa disposizione di legge ' ha affermato la Corte
' non facendo alcun riferimento alle fonti che regolano gli effetti dell'anzianità , non offre
spazio a distinzioni estranee al testo e si applica anche agli scatti di anzianità ed ai
passaggi automatici di classe stipendiale in funzione dell'anzianità che trovano la loro
fonte nella contrattazione collettiva; la norma in questione, per essere posta a tutela di
lavoratori particolarmente deboli sul piano contrattuale, tutela interessi di natura generale
ed ha certamente natura imperativa ed inderogabile, come si evince anche dalla sua
formulazione, nella quale manca ogni richiamo a diverse disposizioni della contrattazione
collettiva ed individuale. Se la norma avesse avuto natura derogabile ' ha osservato
la Corte ' avrebbe fatte salve le diverse disposizioni contrattuali; pertanto è priva di rilievo
la considerazione che gli Accordi interconfederali per la regolamentazione del contratto
di formazione e lavoro del 1988 e del 1995 escludono il computo del periodo di formazione
e lavoro dagli aumenti periodici di anzianità ; deve infatti ritenersi che il testo
normativo in questione pone un limite anche alla contrattazione collettiva, dal momento
che non si vede come, una volta ritenuta la natura imperativa ed inderogabile, potrebbe
soddisfare la regola del computo del periodo di formazione nell'anzianità di servizio un
accordo, sia pure intervenuto nell'ambito di una trattativa a livello sindacale, che ne esclude
la valutazione ai fini del conseguimento dei vantaggi riconosciuti alla generalità
dei dipendenti in funzione del decorso del tempo di prestazione del lavoro subordinato.
Una condanna per il reato di commercio di materiale pornografico può giustificare il licenziamento di un bancario
Enzo C., dipendente della Cassa di Risparmio di Savona, ha riportato una condanna in sede penale,a seguito di patteggiamento, per sfruttamento della prostituzione,
commercio di materiale pornografico, atti osceni commessi su tombe. L'azienda lo ha
licenziato, affermando che i fatti accertati evidenziavano la deviazione sessuale del dipendente,
e quindi la possibilità che egli entrasse in contatto con associazioni malavitose
e fosse esposto a ricatti diretti ad ottenere informazioni sulla clientela o altri comportamenti
infedeli. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Savona,
che ha rigettato il ricorso. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'Appello
di Genova. Enzo C. ha proposto ricorso per cassazione per vizi di motivazione e violazione
di legge. Il lavoratore ha censurato la sentenza della Corte genovese, tra l'altro,
perché ha ritenuto che la fiducia del datore di lavoro potesse venire meno in relazione al
fatto futuro e incerto che egli venisse in contatto con ambienti criminali e fosse perciò ricattabile.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso. La fiducia ' ha osservato la Corte ' è il convincimento,
basato sul comportamento pregresso di un soggetto, che esso in futuro osserverà
gli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro ed in particolare quello di fedeltà ; la contiguità
del mondo della prostituzione, del commercio di materiale pornografico e della
deviazione sessuale con ambienti criminali è un fatto notorio; consegue che il rischio,
cioè la possibilità che il dipendente sia indotto da essi a comportamenti infedeli, è attuale
ed è tale da escludere la necessaria fiducia, che ha carattere di particolare rilevanza
nell'attività bancaria.
Il dirigente pubblico può essere licenziato per giusta causa anche prima della scadenza della durata minima stabilita
Gianluca C. è stato nominato, nell'aprile del 2000, direttore generale dell'Azienda territoriale di edilizia residenziale pubblica di Catanzaro.Alla nomina ha
fatto seguito la stipulazione di un contratto di lavoro a termine. Dopo le elezioni regionali
della primavera del 2000, che hanno determinato un cambiamento della Giunta, egli,
nel febbraio 2001, in seguito a una verifica, è stato dichiarato decaduto dall'incarico
con l'addebito di numerose inadempienze. Egli ha impugnato il provvedimento davanti
al Tribunale di Catanzaro, Giudice del lavoro, sostenendo, tra l'altro, che esso doveva ritenersi
in contrasto con l'art. 19 d.lgs. n. 29 del 1993, secondo cui gli incarichi dirigenziali
non potevano avere durata inferiore a due anni. Il Tribunale ha rigettato il ricorso. La Corte
d'Appello di Catanzaro invece, pur ritenendo fondati gli addebiti mossi al dirigente, ha
condannato l'Azienda al risarcimento del danno per non avere rispettato la durata minima
biennale dell'incarico. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra
l'altro, che ove sussista una giusta causa di licenziamento, viene meno l'obbligo di mantenere
in servizio il dirigente per la durata minima prevista dalla legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il secondo comma dell'art. 19 d. lgs. 30 marzo
2001 n. 165 ' ha ricordato la Corte ' stabilisce che tutti gli incarichi di direzione degli uffici
delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti a
tempo determinato ed hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni,
con facoltà di rinnovo. La prevista durata minima biennale significa solo che nell'apposizione
del termine al contratto di dirigenza non è possibile prevedere una durata inferiore
a due anni; la legge 15 luglio 2002 n. 145 ha poi eliminato questa soglia minima
accentuando il regime di spoils system, recentemente peraltro dichiarato incostituzionale
sotto un profilo molto specifico ossia nella parte in cui prevedeva (ex art. 3, comma 7)
l'automatica cessazione dell'incarico con l'entrata in vigore della nuova legge (Corte cost.
n. 103 del 2007). L'art. 14-sexies d.l. 30 giugno 2005 n. 115, conv. in legge 17 agosto
2005 n. 168, ha poi nuovamente modificato il cit. art. 19, e di particolare il suo secondo
comma, ripristinando la durata minima dell'incarico e fissandola in tre anni. Tali alterne
vicende della durata minima dell'incarico ' ha affermato la Corte ' non escludono però,
come in tutti i contratti a termine, la possibilità del recesso per giusta causa che si sia verificata
prima della scadenza del termine, possibilità che costituisce un principio generale
che attraversa il rapporto di lavoro privato e quello pubblico; insomma non c'è alcuna
stabilità «rinforzata» nel primo biennio che assicuri al dirigente la permanenza nell'incarico
pur sussistendo una giusta causa di recesso per la positiva verifica di fatti integranti
la responsabilità disciplinare di cui all'art. 21 d.lgs. n. 165 del 2001; giusta causa che ex
se fa venire meno l'indefettibile vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro in
genere ed in special modo quello dirigenziale. Infatti espressamente il cit. art. 21 prevede,
al primo comma, che, una volta verificati i presupposti della responsabilità dirigenziale
ed in relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può revocare l'incarico collocando
il dirigente a disposizione nei ruoli di cui all'articolo 23, ovvero recedere dal rapporto
di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. In proposito ha affermato
recentemente Corte cost. n. 103 del 2007 che «la revoca delle funzioni legittimamente
conferite ai dirigenti [â?¦] può essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità
dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento
di garanzia puntualmente disciplinato». In conclusione la Corte ha affermato ' come
principio di diritto ' che la durata minima biennale dell'incarico dirigenziale a termine,
prescritta in generale (all'epoca) dall'art. 19, comma 2, d. lgs. n. 165 del 2001, ed attualmente
fissata in tre anni ex art. 14-sexies d.l. n. 169, conv. in legge n. 115 del 2005, sta
solo a significare che il termine apposto al contratto non poteva essere inferiore a due
anni; ma non implicava alcuna insensibilità del rapporto al verificarsi di una situazione di
giusta causa di recesso per accertata responsabilità dirigenziale ex art. 21 d.lgs. n.
165/2001 prima della scadenza di tale termine minimo del rapporto sicché legittima, in
tale evenienza, l'anticipata risoluzione del rapporto stesso.
Società cooperativa europea
Il decreto legislativo disciplina il coinvolgimento dei lavoratori nelle attività delle società cooperative europee di cui al regolamento (Ce) n. 1435/2003.Il decreto
prevede, qualora venga costituita, da almeno due entità giuridiche o mediante trasformazione,
una Società cooperativa europea (Sce), l'istituzione di una delegazione speciale
di negoziazione, la quale negozi, con spirito di cooperazione, con gli organi competenti delle
entità giuridiche partecipanti per raggiungere un accordo sulle modalità del coinvolgimento
dei lavoratori nella società cooperativa europea. I negoziati possono durare sei mesi,
prorogabili ad un anno, dal momento della costituzione della delegazione speciale. La
delegazione speciale decide a maggioranza assoluta dei suoi membri, purché tale maggioranza
rappresenti anche la maggioranza assoluta dei lavoratori. Ciascun membro dispone
di un voto. La delegazione speciale di negoziazione può chiedere ad esperti di assisterla nei
lavori e di partecipare alle riunioni negoziali con funzioni di consulenza. I membri della delegazione
e dell'organo di rappresentanza hanno l'obbligo di segretezza e riservatezza delle
notizie ricevute in via riservata e qualificata dal competente organo della Sce. Il divieto
permane anche successivamente alla scadenza del mandato e prescinde dal luogo in cui i
soggetti si trovino. Il decreto disciplina le disposizioni di riferimento per l'informazione, la
consultazione e la partecipazione, delle quali fornisce anche le definizioni: a) «»informazione
», l'informazione dell'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero dei rappresentanti
dei lavoratori, da parte dell'organo competente della Sce, ai sensi del regolamento,
sui problemi che riguardano la stessa Sce e qualsiasi affiliata o succursale della medesima
situata in un altro Stato membro, o su questioni che eccedono i poteri degli organi decisionali
di un unico Stato membro, con tempi, modalità e contenuti che consentano all'organo
di rappresentanza dei lavoratori di procedere ad una valutazione approfondita dell'eventuale
impatto e, se del caso, di preparare consultazioni con l'organo competente della
Sce, ai sensi del regolamento»; b) «»consultazione», l'apertura di un dialogo e di uno
scambio di opinioni tra l'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero i rappresentanti
dei lavoratori e l'organo competente della Sce, ai sensi del regolamento, con tempi, modalità
e contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori, sulla base delle informazioni
da essi ricevute, di esprimere ' circa le misure previste dall'organo competente ' un
parere di cui si può tenere conto nell'iter decisionale all'interno della Sce»; c) «»partecipazione
», l'influenza dell'organo di rappresentanza dei lavoratori ovvero dei rappresentanti
dei lavoratori nelle attività di un'entità giuridica mediante, alternativamente: il diritto di eleggere
o designare alcuni dei membri dell'organo di vigilanza o di amministrazione dell'entità
giuridica; il diritto di indicare i nominativi di alcuni o di tutti i membri dell'organo di
vigilanza o di amministrazione dell'entità giuridica ovvero di opporvisi». Il decreto determina
inoltre la composizione della delegazione speciale di negoziazione e dell'organo di
rappresentanza dei lavoratori, nonché le tutele dei rappresentanti dei lavoratori.
(Gazzetta ufficiale n. 85 del 12 aprile 2007)
Regolamento riordino organismi del Ministero della pubblica istruzione
Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,riordina gli organismi operanti presso il ministero della Pubblica istruzione tra i quali: a) il Comitato nazionale
per il sistema dell'istruzione e della formazione tecnica superiore, istituito ai sensi
dell'articolo 69, comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144; b) Comitato per il monitoraggio
e la valutazione dell'alternanza scuola-lavoro, istituito ai sensi dell'articolo 3,
comma 2, del decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77; c) Comitato per le pari opportunità
istituito ai sensi dell'articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 8 maggio
1987, n. 266; d) Osservatorio per l'edilizia scolastica, istituito ai sensi dell'articolo 6 della
legge 11 gennaio 1996, n. 23. Gli organismi durano in carica tre anni, decorrenti dalla data
di entrata in vigore del regolamento. Tre mesi prima della scadenza della carica ciascuno
degli organismi presenta una relazione sull'attività svolta al ministro della Pubblica istruzione,
che la trasmette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, ai fini della valutazione,
circa l'utilità degli organismi stessi e eventuale proroga della loro durata, comunque
non superiore ad altri tre anni. I componenti di ciascun organismo restano in carica fino
alla scadenza del termine di durata dell'organismo e, nel caso di proroga della durata
dello stesso, possono essere confermati.
(Gazzetta ufficiale n. 140 del 19 giugno 2007)
Disposizioni attuative degli obblighi comunitari
La legge che converte e modifica il decreto-legge 15 febbraio 2007, n. 10, recante disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali,adegua
le norme sulla professione di consulente del lavoro alle decisioni comunitarie: a)
l'accesso alla professione di consulente del lavoro richiede il conseguimento della laurea
triennale o quinquennale riconducibile agli insegnamenti delle facoltà di giurisprudenza,
economia, scienze politiche, ovvero il diploma universitario o la laurea triennale in consulenza
del lavoro,o la laurea quadriennale in giurisprudenza,in scienze economiche e commerciali
o in scienze politiche; b) coloro che abbiano conseguito l'abilitazione all'esercizio
della professione di consulente del lavoro con il diploma di scuola secondaria superiore
possono iscriversi al relativo albo entro tre anni dalla data di entrata in vigore della legge;
c) coloro che non sono in possesso dei predetti titoli di laurea e che,alla data di entrata in
vigore della legge, abbiano ottenuto il certificato di compiuta pratica, o siano iscritti al registro
dei praticanti, o abbiano presentato domanda di iscrizione al predetto registro dei
praticanti, possono sostenere l'esame di abilitazione entro e non oltre il 31 dicembre 2013.
(Gazzetta ufficiale n. 84 del 11 aprile 2007)
Regolamento riordino organismi del Ministero dello sviluppo economico
Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248,riordina gli organismi
operanti presso il ministero dello Sviluppo economico tra i quali: a) l'Osservatorio unico
per il monitoraggio delle attività produttive; b) la Commissione centrale per le Cooperative.
Nell'Osservatorio unico per il monitoraggio delle attività produttive sono accorpati
l'Osservatorio siderurgico, l'Osservatorio per il monitoraggio delle attività produttive, l'Osservatorio
per il settore chimico, l'Osservatorio del sistema moda. L'Osservatorio unico ha
il compito di rilevare ed esaminare i dati riguardanti l'andamento generale delle attività
produttive ed i diversi settori produttivi e di mercato, controllando l'evoluzione delle capacità
produttive, degli investimenti e dell'occupazione nelle diverse aree territoriali interessate.
La Commissione centrale per le cooperative «esprime parere: a) sui progetti di legge
o regolamenti interessanti la cooperazione; b) su tutte le questioni sulle quali il parere della
Commissione sia prescritto da legge o regolamenti o richiesto dal Ministro per lo sviluppo
economico o dal Direttore generale per gli enti cooperativi; c) sulle domande di riconoscimento
delle Associazioni nazionali di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 2 agosto
2002, n. 220; d) in tema di devoluzione dei patrimoni residui degli enti cooperativi iscritti
nell'Albo delle Cooperative; e) in tema di adempimenti relativi all'Albo delle cooperative. Gli
organismi del Ministero dello sviluppo economico durano in carica tre anni.
(Gazzetta ufficiale n. 142 del 21 giugno 2007)
Regolamento riordino commissione imprenditoria femminile
Il Comitato per l'imprenditoria femminile, che opera presso il Dipartimento per i diritti e le pari opportunità ,ha compiti di indirizzo, coordinamento, concertazione, e programmazione
generale degli interventi previsti in materia di azioni positive per l'imprenditoria
femminile, nonché di promozione dello studio, della ricerca e dell'informazione
sull'imprenditorialità femminile. Il Comitato dura in carica tre anni dalla data di entrata
in vigore del regolamento, ed opera a titolo gratuito. Tre mesi prima della scadenza della
carica ciascuno degli organismi presenta una relazione sull'attività svolta al Ministro del
lavoro e della previdenza sociale, che la trasmette alla Presidenza del Consiglio dei Ministri,
ai fini della valutazione, circa l'utilità degli organismi stessi e eventuale proroga della
loro durata, comunque non superiore ad altri tre anni.
(Gazzetta ufficiale n. 167 del 20 luglio 2007)
Regolamento riordino organismi del ministero del Lavoro e della Previdenza sociale
Il regolamento, a norma dell'articolo 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, riordina il Nucleo di valutazione
della spesa previdenziale di cui all'articolo 1, comma 44, della legge 8 agosto
1995, n. 335. Il Nucleo, che svolge i compiti di cui all'articolo 1, comma 763, della legge 27
dicembre 2006, n. 296, e i compiti di controllo del Casellario centrale delle posizioni previdenziali
attive «è composto da non più di quattordici membri, nominati con decreto del Ministro
del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con il Ministro dell'economia e delle
finanze, con particolare competenza ed esperienza in materia previdenziale nei diversi
profili giuridico, economico, statistico ed attuariale». L'incarico di componente del Nucleo è
incompatibile con ogni funzione e compito che attenga all'attività di controllo, indirizzo, vigilanza,
gestione e consulenza con gli enti di previdenza obbligatoria, e, altresà, con un rapporto
di lavoro dipendente o autonomo con gli enti stessi. Il regolamento conferma inoltre
i seguenti organismi: «a) Comitato nazionale per l'attuazione dei principi di parità di trattamento
ed uguaglianza di opportunità tra lavoratori e lavoratrici, di cui all'articolo 8, del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198; b) Collegio istruttorio di cui all'articolo 11, del decreto
legislativo 11 aprile 2006, n. 198; c) Comitato nazionale per l'emersione del lavoro irregolare
di cui all'articolo 78 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, e successive modificazioni;
d) Ufficio della consigliera o del consigliere nazionale di parità , di cui all'articolo 16 del decreto legislativo
11 aprile 2006, n. 198; e) Rete nazionale delle consigliere e dei consiglieri di
parità , di cui all'articolo 19 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198». Gli organismi durano
in carica tre anni, decorrenti dalla data di entrata in vigore del regolamento. Tre mesi
prima della scadenza della carica ciascuno degli organismi presenta una relazione sull'attività
svolta al ministro del lavoro e della previdenza sociale, che la trasmette alla Presidenza
del Consiglio dei ministri, ai fini della valutazione, circa l'utilità degli organismi stessi e eventuale
proroga della loro durata, comunque non superiore ad altri tre anni.
(Gazzetta ufficiale n. 171 del 25 luglio 2007)
Privacy e rapporto di lavoro in ambito pubblico
Sono pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico» deliberate dal Garante per la protezione dei dati personali.
(Gazzetta ufficiale n. 161 del 13 luglio 2007 ' suppl. ordinario n. 159)
Orario di lavoro operazioni mobili di autotrasporto
La legge delega il Governo ad emanare entro il 30 settembre 2007 i decreti legislativi per il recepimento della direttiva 2002/15/Cedel Parlamento europeo concernente l'organizzazione dell'orario di lavoro delle persone che effettuano operazioni
mobili di autotrasporto.
(Gazzetta ufficiale n. 142 del 21 giugno 2007)
Previdenza
Il decreto fra le disposizioni urgenti in materia finanziaria contiene gli interventi in materia pensionistica. In particolare,il ministro del Lavoro, di concerto con
il Ministro dell'economia e delle finanze, dovranno adottare un decreto, entro sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge, che stabilisca, per l'anno 2007, per
complessivi 900 milioni di euro, i criteri di determinazione dell'incremento dei trattamenti
di pensione a carico dell'assicurazione generale obbligatoria, l'importo massimo complessivo
annuo di pensione entro il quale si ha diritto all'incremento e le modalità di erogazione.
Inoltre, a decorrere dall'anno 2008 è previsto un Fondo per il finanziamento,
presso il Ministero del lavoro, nel limite complessivo di 1.500 milioni di euro annui, al fine
di a) incrementare i trattamenti pensionistici a carico dell'assicurazione generale obbligatoria
e migliorare i «meccanismi di perequazione per le pensioni di importo fino a cinque
volte il trattamento minimo mensile vigente nell'assicurazione generale obbligatoria»; b)
agevolare il riscatto ai fini pensionistici del corso legale di laurea e «la totalizzazione dei
periodi contributivi maturati in diversi regimi pensionistici, in particolare per i soggetti per
i quali trovi applicazione, in via esclusiva, il regime pensionistico di calcolo contributivo,
al fine di migliorare la misura dei trattamenti pensionistici».
(Gazzetta ufficiale n. 151 del 2 luglio 2007)
Presunzione che i primi lavoratori a sospendere la prestazione siano i promotori dello sciopero spontaneo
La Commissione, nel ribadire il suo orientamento secondo cui, quando l'astensione collettiva non risulti riconducibile ad alcuna organizzazione sindacale,promotore dell'astensione dal lavoro deve essere considerato un comitato spontaneo di
sciopero che ne risponde legalmente, ha affermato l'operatività di una presunzione di appartenenza
al comitato spontaneo dei lavoratori che per primi si sono astenuti dalla prestazione
di lavoro ma al solo fine dell'apertura del procedimento. Nel caso in esame, in assenza
di ulteriori elementi di prova del ruolo dei promotori dei lavoratori che avevano interrotto
per primi l'attività di lavoro, la Commissione ha ritenuto di non poter qualificarli
come responsabili del comitato spontaneo di sciopero.
Eccezione di inadempimento (individuale) e sciopero (collettivo)
La Commissione ha valutato negativamente la condotta degli assistenti di volo Alitaliaper la violazione da parte della compagnia degli accordi contrattuali relativi alla
composizione sia quantitativa che qualitativa dell'equipaggio di bordo dell'aeromobile.
La Commissione ha ritenuto che tale astensione dal lavoro fosse qualificabile come azione
di sciopero soggetta all'applicazione della legge n. 146 del 1990, a nulla rilevando che
gli assistenti di volo avessero dichiarato la propria disponibilità a partire a seguito di «regolare
» composizione degli equipaggi nel rispetto delle previsioni contrattuali. In particolare
la Commissione ha ritenuto che la denunciata violazione da parte di Alitalia delle disposizioni
del contratto collettivo relative alla composizione degli equipaggi (secondo cui
è necessaria presenza di un capo cabina di prima categoria in luogo di uno di seconda categoria
per certi tipi di volo) quand'anche esistente, non avrebbe potuto essere considerata
un inadempimento del singolo contratto di lavoro. Ne conseguirebbe, ad avviso dell'Autorità
garante, che quando l'inadempimento aziendale abbia rilievo collettivo ' come
nel caso in questione, in cui vi è stata proclamazione sindacale ' a nulla rileverebbe il fatto
che l'astensione dal lavoro possa avere, sul piano civilistico, la qualificazione come eccezione
di inadempimento.
Imposta sul reddito dei non residenti – Beni immobili situati nel territorio di un altro Stato membro
Lavoratore frontaliero – Trasferimento della residenza in un altro Stato membro – Coniuge disoccupato
Licenziamento, pronunzia del dispositivo in udienza, morte del Giudice, successiva sentenza viziata o inesistente
In una causa avente ad oggetto l'impugnazione di un licenziamento individuale,il Giudice decise pronunziando il dispositivo in udienza. Il licenziamento fu dichiarato illegittimo.
Nei giorni successivi il Magistrato morà prima di aver redatto la motivazione. A
questo proposito la dottrina ha elaborato due teorie: o la sentenza è da considerarsi viziata
non inesistente e quindi può essere fatta oggetto di ricorso in appello dalla parte di
non accettarla, ovvero il Dirigente del Tribunale assegna la causa ad un altro Giudice il
quale fissa nuova udienza di discussione con conseguente nuova pronunzia del dispositivo,
rispetto al quale sarà poi regolarmente depositata la motivazione. Nel caso di specie
è stata seguita quest'ultima posizione, colla assegnazione della causa ad un nuovo
relatore.
Diritto a permessi mensili retribuiti per assistenza a familiari invalidi
A seguito di reclamo su ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. di una dipendente dell'Agenzia delle entrate' che aveva fatto domanda di fruire di trasferimento o di permessi
retribuiti mensili ex art. 33 legge 104/1992 o in subordine del distacco temporaneo
previsto dalla Circolare n. 76762 del 12/2/2001, in ipotesi di sopravvenute esigenze di prestare
assistenza a familiari invalidi per il personale di Agenzia delle entrate ' il Collegio ha
parzialmente accolto le ragioni della lavoratrice. Ha innanzi tutto respinto, confermando
l'ordinanza reclamata, il ricorso per quanto concerne trasferimento a distanza, affermando
l'interesse legittimo al trasferimento presuppone, al fine di poter trovare tutela, che l'esigenza
del disabile ad una continuativa assistenza preesista all'assunzione lavorativa del
soggetto esercitante l'assistenza medesima; per converso, la norma non considera né tutela
la necessità di assistenza insorta in epoca successiva alla costituzione del rapporto di
lavoro del familiare disponibile a rendere assistenza al disabile, pur ponendo ciò in evidenza
una carenza normativa già evidenziata dallo stesso Tribunale (cfr. sentenza
619/2005). Con riferimento al distacco di cui alla Circolare citata ' estensiva, come detto,
della tutela alla disabilità sopravvenute ' il Collegio ha parimenti confermato l'ordinanza
nel profilo del non essere stato almeno in sede cautelare accertata l'impossibilità di assistenza
da parte di altro familiare (il fratello della ricorrente) vivente a minor distanza dal disabile
da assistere. Per quanto invece concerne la domanda di permessi retribuiti mensili,
il Tribunale di Reggio Emilia ritiene quanto segue: A) la norma non condiziona assolutamente
il riconoscimento dei permessi mensili al fatto che l'assistente viva nel luogo in cui
dimora l'assistito o in luogo vicino o lontano; B) il concetto di continuità dell'assistenza richiesto
ai fini dei permessi non può coincidere con l'identico concetto utilizzato a proposito
di trasferimento e distacco, ostandovi la nozione stessa dei permessi in una minima esigenza
mensile, denotante inevitabilmente una molto saltuaria presenza fisica presso l'assistito
(sicuramente di molto inferiore a quella ottenibile con il trasferimento e distacco). Ne
deriva che, nella fattispecie in esame, l'assistenza continuativa va intesa in senso lato, dovendosi
ritenere prevalente «proprio in ragione della variabile distanza tra luogo di lavoro
dell'assistente e luogo di lavoro dell'assistito, nei periodi non interessati da permessi
un'assistenza organizzativa e morale consentita dai moderni mezzi di comunicazione» non
escludente però assistenza materiale in occasione dei giorni non lavorativi e delle ferie (e
di una tale praticata assistenza pare dare atto la stessa ordinanza reclamata), che diviene
poi, nei giorni di permesso, vera e propria assistenza materiale, ove occorra anche di tipo
infermieristico (accompagnamento a visite mediche, al compimento di affari di rilievo etc.).
La correttezza delle tesi esposte diviene, del resto, evidente ove si ponga mente che la disciplina
dei permessi è uniforme nel sacrificio richiesto ai datori di lavoro ed è funzionale a
garantire a chi ne necessita una miglior assistenza. Conseguentemente il Collegio, in parziale
riforma dell'ordinanza reclamata, dichiara il diritto della lavoratrice ai permessi mensili
retribuiti di cui all'art. 33, legge n. 104/1992 a far tempo dal documentato aggravamento
ulteriore delle condizioni, già precarie, della madre della ricorrente stessa.
Diritto alle indennità di fine rapporto dell’agente – Decadenza dall’azione per far valere il diritto ex art. 1751 cod. c
Una prova preassuntiva non configura un rapporto di lavoro subordinato
Nel rispondere ad un annuncio su un giornale fatto pubblicare da un professionista per selezionare una segretaria,una lavoratrice veniva assegnata ad un preliminare periodo di prova al fine di valutare
la sua assunzione che si concludeva con una valutazione di inidonea ad opera del professionista.
La lavoratrice, ritenendo che si fosse perfezionato un rapporto d lavoro di natura subordinata senza
la previsione di una valida prova, adiva il Tribunale di Roma che, rigettava a domanda. La Corte
di Appello nel riformare la decisione, ritenuto invalido il patto di prova ed in assenza
di un efficace atto risolutivo del rapporto, disponeva, viceversa, il ripristino del rapporto
di lavoro. La decisione veniva impugnata in sede di legittimità dal professionista
che lamentava l'omessa valutazione da parte del collegio degli elementi costitutivi del
rapporto di lavoro subordinato ritenuti ' immotivatamente ' dalla corte di appello per
presunti nello svolgimento della prova. La Suprema Corte ha accolto il ricorso rilevando
che il collegio aveva deciso la causa sulla base del solo elemento dello svolgimento
di una prova non stipulata per iscritto che non aveva avuto un esito positivo. Nel
cassare la decisione la Corte ha affermato che tale accertamento da solo è sicuramente
inidoneo a sorreggere la decisione in quanto le parti nella loro autonomia negoziale
possono stipulare tanto un contratto di lavoro con patto di prova, quanto lo svolgimento
di una semplice attività esplorativa dell'ambiente di lavoro che sia finalizzata unicamente
all'acquisizione delle opportune, reciproche, informazioni concernenti l'instaurando
rapporto.
Costituisce controllo occulto a distanza il trattamento dei dati di apertura di una barriera del parcheggio aziendale
Un'azienda aveva concesso ai propri dipendenti un badge per il posteggio della propria autovettura all'interno di un proprio garageil cui accesso ed uscita,
fuori dagli orari di inizio e fine della prestazione, erano assicurati da una sbarra azionate
dal lavoratore tramite un badge. A seguito del raffronto dei dati risultanti dagli
orari di apertura e chiusura della sbarra di accesso l'azienda aveva risolto il rapporto
di lavoro di un proprio dipendente addebitandogli di uscire dall'azienda durante
l'orario di lavoro per curare «affari privati». Il lavoratore adiva il Tribunale di Milano
affermando il carattere illegittimo del trattamento dei dati personali e l'inutilizzabilità
delle prove ottenute tramite una forma di controllo invasiva della propria privacy. Il Tribunale
accoglieva il ricorso disponendo la reintegra nel posto di lavoro con sentenza
che veniva, tuttavia riformata dalla locale Corte di appello che riteneva la legittimità
del controllo difensivo attuato dalla società per reprimere comportamenti illeciti dei
propri dipendenti. La Corte di Cassazione ha annullato la decisione ritenendo la violazione
della disposizione dell'art. 4 dello statuto dei lavoratori stante l'assenza di un
valido accordo con le rappresentanze sindacali. La Corte ha, infatti, ritenuto che il controllo
sull'orario di lavoro, risolvendosi in un accertamento circa la quantità di lavoro
svolto, si inquadra, per ciò stesso, in una tipologia di accertamento pienamente rientrante
nell'ambito dei controlli della prestazione. I giudici di legittimità nel richiamare
l'orientamento della corte in ordine alla validità dei controlli difensivi hanno comunque
ritenuto che gli stessi non possono ritenersi estranei alla fattispecie di cui all'art.
4 Stat. lav., allorché i comportamenti illeciti riguardino l'esatto adempimento delle obbligazioni
discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei al rapporto
stesso e ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano potenzialità
lesive e la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato
o all'intervento dell'ispettorato del lavoro.
La Cassazione precisa la necessità del rischio di impresa in capo all’associato per la validità del contratto di associazion
È ingiustificato il rifiuto di un medico di lavorare a causa del carattere dequalificante del ruolo assegnato
Ritorno in bonis del datore fallito e fondo di garanzia
Nell'ambito di una controversa avente ad oggetto il diritto di un lavoratore a vedersi riconosciuto il trattamento di fine rapportoda parte del fondo di garanzia istituito presso l'Inps nonostante il dipendente non avesse potuto
ottenere l'accertamento del proprio credito nello stato passivo di un imprenditore per chiusura della
procedura fallimentare prima della disamina della sua domanda tardivamente proposta,
la Corte di Cassazione ha precisato i limiti di accoglimento della domanda.
I lavoratore ben può, afferma la Suprema Corte. dopo la chiusura della procedura fallimentare
chiedere l'intervento del fondo di garanzia a condizione che effettui preventivamente,
ai sensi del comma 5 del suddetto art. 2, una esecuzione forzata nei confronti
del datore di lavoro tornato in bonis con la chiusura del fallimento.
La Corte chiarisce l’ambito in cui un licenziamento può essere intimato unitamente alla contestazione disciplinare
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Onere del datore di provare l’impossibilità dell'idoneità al lavoro
Le SS.UU. dirimono il contrasto sulla portata dell'obbligo contributivo nella reintegra al lavoro con limitazione del danno
Nel corso di un giudizio di impugnativa di licenziamento un lavoratore otteneva una sentenza di reintegra del nel posto di lavoroche condannava la società al risarcimento solo di una parte delle retribuzioni perdute.
L'azienda nel dare esecuzione alla sentenza sottoponeva a contribuzione esclusivamente
le somme riconosciute dai giudici che avevano dichiarato l'illegittimità del licenziamento.
Tale decisione veniva contestata dal lavoratore che lamentava la mancata integrale contribuzione
sulle somme che sarebbero spettate a prescindere da quelle che erano state riconosciute
dalla sentenza. Il Tribunale di Forlà con sentenza confermata dalla Corte di
Appello di Bologna rigettava la domanda del lavoratore. Le Sezioni Unite, nel dirimere
un contrasto in ordine alla portata dell'obbligo contributivi, hanno affermato che nel
caso di annullamento del licenziamento in base all'art. 18 legge 300/70 con ordine di
reintegra e condanna dell'azienda al risarcimento del danno, questo può essere determinato
anche in misura inferiore alla retribuzione relativa al periodo della data del
recesso e quella della reintegrazione. In tal caso, tuttavia, il datore di lavoro è tenuto
a versare i contributi previdenziali su un importo commisurato all'intera retribuzione
contrattualmente dovuta. Nell'affermare tale principio i giudici di legittimità hanno affermato
che l'art. 18 introduce una deroga alla disciplina generale dell'invalidità e dell'inefficacia
perché stabilisce per il primo periodo decorrente dal licenziamento, non
l'obbligo del datore di pagare le retribuzioni ma solo quello del risarcimento del danno.
Tale deroga ai principi comuni opera esclusivamente nel rapporto di lavoro tra l'azienda
e il proprio dipendente ma non assume efficacia nel diverso piano del rapporto
previdenziale. Secondo le regole di questo secondo rapporto ' prosegue la Corte ' la
retribuzione deve considerarsi dovuta, con conseguente obbligo di contribuzione in
tutte le ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia in atto de jure, con esclusione dei casi in
cui la prestazione lavorativa non viene resa per fatto immutabile al dipendente, fatte
salve le ipotesi di contribuzione figurativa, o per sospensione concordata. Avuto riguardo
a tali regole ' conclude la Corte ' nel rapporto di lavoro tra datore di lavoro ed
ente previdenziale non vi è alcuna norma che esoneri il primo dal pagamento dell'obbligazione
contributiva quando il rapporto di lavoro sia giuridicamente in atto e la retribuzione
sia dovuta in quanto la mancata prestazione è imputabile al solo datore di
lavoro. Il limite posto al datore di lavoro in ordine al risarcimento dovuto non impedisce,
quindi, che l'intera retribuzione maturata sia da considerare dovuta ai fini della
normale funzionalità del rapporto previdenziale.
L’abuso del telefono aziendale in dotazione ad un lavoratore effettuato da un figlio costituisce giusta causa di licenziamento
Status di disoccupato e legislazione regionale
La conservazione dello status di disoccupato non è possibile al di fuori delle ipotesi previste dalla legislazione statale di principio,vincolante per le Regioni,
di cui all'art. 4 del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181. La legge regionale
impugnata prevedeva una disciplina della conservazione dello status di disoccupato
in situazioni (instaurazione di un certo tipo di rapporti di lavoro, reddito da essi conseguito)
nelle quali la legislazione statale sancisce invece la perdita di tale condizione
(decreto legislativo n. 181/2000 citato). Le norme della Regione Puglia, infatti, prevedevano
la conservazione dello status di disoccupato in caso di accettazione di un
lavoro temporaneo o a tempo determinato per un periodo più lungo di quello indicato
dalla legge statale e indipendentemente dal reddito che ne potesse derivare, mentre
il d.lgs. n. 181 del 2000 ne ha previsto un preciso tetto. La Corte costituzionale, dopo
aver rigettato la questione in relazione alla presunta violazione della competenza
esclusiva statale ex art. 117, comma 2, Cost. (in quanto la legge regionale non riguarda
l'accesso alle prestazioni previdenziali, bensà solo lo status di disoccupato), l'ha
invece ritenuta fondata in riferimento all'art. 117, comma 3, Cost., perché le norme regionali
impugnate rientrano nella materia della tutela e sicurezza del lavoro e ledono
le prerogative dello Stato riguardo alla determinazione dei principi fondamentali in
materia di competenza legislativa concorrente. A tal proposito, il Giudice delle leggi
ha richiamato la precedente giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 50, n. 219 e n.
384 del 2005) con la quale ha affermato che le disposizioni dirette a regolare, favorendolo,
l'incontro tra domanda ed offerta di lavoro attengono appunto alla tutela del
lavoro. Il legislatore statale, con l'art. 4 del d.lgs. n 181 del 2000 ha posto la normativa
di principio regolamentando lo stato di disoccupazione o di inoccupazione, prevedendo
poi le evenienze che conducono alla perdita dello stesso e, a contrario, le condizioni
necessarie per conservarlo e demandando alle Regioni la determinazione di
procedure uniformi in materia di accertamento del predetto stato sulla base di principi
ivi testualmente stabiliti. Conseguentemente, secondo la Corte, la disciplina regionale,
disciplinando lo «stato» di disoccupato, deve essere dichiarata illegittima
perché contrastante con il riparto costituzionale delle competenze legislative tra lo
Stato e le Regioni.
Inquadramento personale Ata
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge finanziaria 2006il quale, facendo salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla
data di entrata in vigore della legge medesima, ha stabilito, tra l'altro, che il comma 2
dell'articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale
scolastico), si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli
del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (Ata) statale è inquadrato, nelle qualifiche
funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del
trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento. Come è noto,
il comma 218 della finanziaria 2006 ha ribaltato quanto stabilito dall'art. 8 della legge
124/99 in materia di riconoscimento dell'anzianità di servizio maturata negli enti di provenienza
al personale Ata/Itp transitato dai ruoli degli enti locali allo Stato. In sostanza,
gli effetti del comma 218, ritenuti legittimi dalla Corte, rimettono in discussione il diritto
dei lavoratori ex enti locali al riconoscimento delle anzianità maturate alle dipendenze dei
predetti enti ottenuto attraverso una vertenza risolta positivamente dalla Corte di Cassazione
che, con numerose decisioni, ha sancito per questi lavoratori il riconoscimento di tale
diritto. Il Governo Berlusconi, in sede di approvazione della Finanziaria 2006, ha cosà introdotto
la norma contenuta nel comma 218 dell'art. 1 definendola di interpretazione autentica,
chiaramente volta ad eludere i principi affermati dai giudici della Cassazione. A seguito
della sopravvenuta disposizione legislativa, alcuni giudici hanno mutato orientamento,
altri invece, ritenendo il comma 218 censurabile sotto il profilo costituzionale, hanno
sollevato la questione innanzi alla Corte Costituzionale. Ma la risposta del Giudice costituzionale
è stata negativa: innanzi tutto, sul fronte della legittimità della norma di interpretazione
autentica, la Corte ha affermato che l'inquadramento stipendiale nei ruoli
statali del personale Ata in ragione del cosiddetto maturato economico e non della effettiva
anzianità complessiva di servizio conseguita presso l'ente locale, ha costituito una
delle possibili varianti di lettura della norma. Con riguardo, invece, al presunto «diritto vivente
» violato dalla norma impugnata, i Giudici costituzionali hanno affermato: «Il contenuto
fondamentale delle citate pronunce della Corte di cassazione si sostanzia, in definitiva,
nell'affermazione che l'accordo del 20 luglio 2000 ' recepito nel successivo decreto
del 5 aprile 2001 ' non può derogare a quanto stabilito dalla legge n. 124 del 1999, in
quanto atto privo di efficacia normativaâ?¦ Consegue che la tesi prospettata dai rimettenti
si presenta viziata da una inesatta ricognizione del diritto vivente, sicché essa risulta basata
su un erroneo presupposto interpretativo».
Cassazione e interpretazione dei contratti collettivi
Investita dal Tribunale di Genova, con ordinanza del 12 settembre 2006, della possibile incostituzionalità degli articoli 360 e 420-bis del Codice di procedura civile,la Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili ed infondate le
questioni. Esattamente riguardo l'articolo 360 del Codice di procedura civile, nella parte
in cui tra i motivi di ricorso in Cassazione sono indicati la «violazione e falsa applicazione
di contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro», il Giudice ligure ha rimesso alla Corte
la questione se dalla formulazione della norma risultasse: a) un potere discrezionale affidato
al Giudice sulla qualificazione del contratto collettivo come «nazionale» in contrasto
con l'articolo 39 della Costituzione; b) un'ingerenza dello Stato nell'autonomia sindacale,
sancita dall'articolo 39 della Costituzione, elevando i contratti collettivi al rango di «fonti
di diritto oggettivo»; c) un contrasto con l'articolo 111 Cost. a causa dell'estensione dei casi
in cui il Giudice di legittimità conoscerebbe del merito della causa. La Corte, ritenendo
la questione manifestamente infondata, ha sottolineato come l'art. 420-bis ripropone il
modello delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001, sulle controversie in materia di pubblico impiego
«contrattualizzato», del quale la stessa Corte ha avuto occasione di confermare la
legittimità costituzionale (sentenza n. 199 del 2003 ed ordinanza n. 233 del 2002); l'irrazionalità
dello strumento viene evitata poiché spetta al Giudice del lavoro il prudente apprezzamento
della serietà della questione di interpretazione o di validità della clausola
collettiva; riguardo all'eccesso di delega la legge 14 maggio 2005, n. 80 ha previsto una
delega al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di
cassazione, e nel fissare i criteri direttivi, ha indicato la valorizzazione della funzione nomofilattica
della Cassazione; l'art. 420-bis va letto in connessione con l'art. 146 disp. att.
cod. proc. civ. e con i commi 4, 6 e 7 dell'art. 64 del d.lgs. n. 165 del 2001 quindi sono individuati
termini perentori brevi sia per l'impugnazione in cassazione per «saltum» avverso
la sentenza pronunciata dal Giudice di merito, sia per la riassunzione della causa davanti
allo stesso Giudice dopo la decisione della Corte di cassazione (v. anche Cass. 19
febbraio 2007, n. 3770 la quale ha escluso il ricorso alla procedura pregiudiziale interpretativa
in grado di appello).