5 / 2008
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Descrizione
Incostituzionalità parziale della norma che disciplina il termine di decadenza per la pensione privilegiata È irragionevole discriminare gli extracomunitari in regola nei requisiti per l’indennità di accompagnamento Dissenso «consapevole» in Cassazione sulla tempestività dell’impugnativa del licenziamento affidata all’ufficio postale
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Gli addebiti disciplinari devono precisare la collocazione temporale e le modalità dell’infrazione
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L’accertamento del danno da demansionamento può avvenire in base a giudizio probabilistico (Id quod plerumque accidit)
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Il dipendente di un’organizzazione di tendenza licenziato per ritorsione deve essere reintegrato nel posto di lavoro
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Il dirigente ha diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute se prova di non avere poteri di autoregolamentazione
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Il licenziamento deve ritenersi tempestivamente impugnato con la spedizione di una lettera raccomandata al datore di lavoro
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La sentenza è già  stata presentata nella sezione lavoro (supra p. 8), ma vale la pena di approfondire il caso.G. L., dipendente della s.r.l. Cooperativa La Rosa Blu è stato licenziato, con lettera pervenuta il 20 giugno 2000, per superamento del periodo di comporto di malattia. Il 4 agosto 2000 egli ha spedito all'azienda una lettera raccomandata di impugnazione del licenziamento, che, per ritardo del servizio postale, è stata ricevuta dall'azienda dopo il 19 agosto 2000, ossia quando erano decorsi oltre sessanta giorni dalla ricezione da parte del lavoratore, della comunicazione del recesso. G. L. ha chiesto al Tribunale di Torino di dichiarare l'illegittimità  del licenziamento, sostenendo di non avere superato il periodo di comporto. L'azienda, costituitasi in giudizio, ha invocato l'art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 secondo cui il licenziamento deve essere impugnato, a pena di decadenza, con atto scritto, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Torino hanno ritenuto che il lavoratore sia incorso nella decadenza prevista dall'art. 6 legge n. 604/66 perché l'azienda ha ricevuto per posta la comunicazione dell'impugnazione, quando erano trascorsi oltre sessanta giorni. G. L. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di appello per avere ritenuto la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento pur avendo il lavoratore impugnante spedito la relativa lettera quindici giorni prima della scadenza del termine di sessanta giorni stabilito dall'art. 6 cit. Ad avviso del ricorrente la non imputabilità  a lui del ritardo nel recapito comportava la necessità  di considerare l'atto di impugnazione come non ricettizio, vale a dire di connettere l'effetto impeditivo della decadenza all'emissione della dichiarazione di volontà  invece che alla sua ricezione da parte del destinatario. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La questione della natura, ricettizia o no, dell'atto di impugnazione del licenziamento, assoggettato al termine di decadenza di sessanta giorni ' ha ricordato la Corte ' venne risolta in tempo non recente dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza 18 ottobre 1982 n. 5395. Si trattava, più precisamente, di stabilire se l'impugnazione giudiziale impedisse la decadenza attraverso il deposito in cancelleria del ricorso o se questo dovesse anche essere notificato alla controparte entro sessanta giorni. Le Sezioni Unite si espressero nel secondo senso onde «salvaguardare fondamentali esigenze di certezza » e per «evitare l'insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti con le intuitive difficoltà  che ne conseguono in materia di prova per l'una e per l'altra parte». È però sopravvenuta ' ha osservato la Corte ' una dottrina che, nella materia della decadenza, segnala l'opportunità  di attribuire rilevanza agli ostacoli non imputabili al soggetto onerato e propone rimedi, non soltanto de iure condendo, per le ipotesi in cui egli non abbia potuto, senza colpa, esercitare un potere nell'imminenza della scadenza del termine. Questa dottrina ha verosimilmente influito sulla giurisprudenza costituzionale la quale, in materia di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, ha espresso il principio generale, fondato sulla ragionevolezza e sul diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario oppure all'agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività  riferibili a soggetti diversi. Questo principio di rilievo costituzionale ' ha affermato la Corte ' può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto sostanziale e conduce a rimeditare la soluzione, a suo tempo adottata dalle Sezioni Unite; anzi tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un atto che può privare il lavoratore dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.). Per queste ragioni ' ha osservato la Corte ' l'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza) è stato interpretato in sede di legittimità  nel senso che il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell'istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087). Questa decisione ' ha affermato la Corte ' può essere generalizzata e può cosà enunciarsi la massima secondo cui l'impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all'art. 6 legge n. 604/66, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all'ufficio postale ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine.
La qualificazione come mobbing di un comportamento del datore di lavoro rientra nelle funzioni della Suprema Corte
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E. F., dipendente della Spa Cap Gemini, con qualifica di dirigente, ha chiesto al Tribunale di Torino di condannare l'azienda al risarcimento del dannobiologico, morale, esistenziale e patrimoniale, sostenendo di essere stata sottoposta, per circa sei mesi, a mobbing da ravvisarsi in una serie di fatti, tra cui: la mancata attribuzione delle risorse necessarie alla realizzazione di un progetto denominato «Compete», a lei affidato, la successiva assegnazione di tale progetto ad altro dipendente, la sua sistemazione disagevole e inadeguata, la sottrazione di arredi indispensabili, un immotivato trasferimento, parole offensive rivoltele dal direttore di sede («mi hai rotto i coglioni, hai capito brutta stronza che devi fare quello che dico io»), battute grossolane del medesimo che aveva rivolto a un suo collega le parole («è inutile che ti inginocchi, tanto non te la dà »). Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Torino hanno ritenuto le domande prive di fondamento, osservando, tra l'altro che dalla prova era emerso che il comportamento tenuto dal direttore era connaturale al suo carattere, che questi si era scusato e che l'azienda aveva fatto di tutto per trovare a E. F. un'adeguata collocazione. La dirigente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il mobbing ' ha osservato la Corte ' è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore; esso configura inadempienza all'obbligo stabilito dall'art. 2087 del cod. civ. per il datore di lavoro, di tutelare l'integrità  fisica e la personalità  morale del dipendente; comportando la specificazione di un precetto normativo, la sua classificazione è funzione del giudice di legittimità , mentre compito riservato al giudice di merito è l'accertamento del fatto. Nel caso in esame ' ha affermato la Corte ' alcuni elementi dedotti dalla lavoratrice non sono stati esaminati, ovvero, pur accertati, non sono stati adeguatamente valutati in un quadro unitario. Per quanto attiene alla protrazione nel tempo del comportamento mobbizzante, la Corte ha rilevato che un periodo di sei mesi è più che sufficiente ad integrare l'idoneità  lesiva della condotta; né ad escludere la responsabilità  del datore di lavoro, quando (come nella specie) il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero, tardivo, intervento pacificatore, non seguito da concrete misure. La Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'appello di Genova.
Il danno da dequalificazione subito dal chirurgo per il mancato esercizio della sua professione non necessita di prova
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R. F. dipendente dell'Azienda sanitaria locale n. 1 di Avezzano, primario chirurgo dell'ospedale di Pescina, nel luglio del 1998,è stato trasferito all'ospedale di Avezzano ove gli sono state assegnate le mansioni di primario di pronto soccorso. Egli ha ottenuto dal Tribunale di Avezzano un provvedimento di urgenza con il quale è stato ordinato all'Azienda di adibirlo alle mansioni di primario chirurgo. Il provvedimento è stato eseguito nell'agosto del 1999. Nel successivo giudizio di merito egli ha chiesto, oltre alla dichiarazione di illegittimità  del mutamento di mansioni, la condanna dell'Azienda al risarcimento del danno da dequalificazione. Il Tribunale ha accolto la domanda. La sentenza è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di L'Aquila che ha, tra l'altro rilevato la mancanza di qualsiasi giustificazione per il trasferimento e ha motivato la condanna al risarcimento del danno professionale affermando che la professionalità  del chirurgo, come quella dei musicisti e degli sportivi, notoriamente necessita di una continua pratica, la cui mancanza per un certo periodo produce un danno, da risarcirsi in misura equitativamente determinata. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte abruzzese per avere fondato l'accertamento della dequalificazione su un fatto erroneamente ritenuto notorio. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando che, in base all'art. 115, secondo comma, cod. proc. civ., il giudice può, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. L'esistenza del fatto notorio ' ha affermato la Corte ' non è provata dalle parti, ma è meramente affermata dal giudice, il quale non ha l'obbligo di motivare, data la sua natura, ma si limita a constatare che la conoscenza di un determinato dato di fatto (come ad esempio i tassi di interesse praticati dalla banche, il requisito dimensionale delle Ferrovie dello Stato) appartiene alla cultura media; trattandosi di un fatto, peraltro, è ammessa la prova contraria. L'art. 115, comma 2, cod. proc. civ. ' ha osservato la Corte ' introduce nell'accertamento dei fatti processualmente rilevanti un fatto non provato, distinguendosi in ciò sia dai fatti acquisiti per effetto della non contestazione, che dipende dalla volontà  defensionale della parte, sia dagli altri mezzi di prova. Diversamente dalla prova testimoniale, che viene udita dalle difese delle parti e consacrata in un verbale, dalla prova documentale, contenuta in un documento, dagli altri elementi di prova (come l'assunzione di informazioni ecc.), comunque oggettivati in un documento, verificabile e confrontabile con altre risultanze processuali, e soggetti a critica intrinseca e comparativa ' ha affermato la Corte ' il fatto notorio entra nell'accertamento processuale sulla base della mera affermazione del giudice, derogando sia al principio dispositivo della prova, sia a quello del contraddittorio. Per tale motivo la giurisprudenza di legittimità  circonda il fatto notorio di molte cautele verbali: esso deve essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Conseguentemente ' ha precisato la Corte ' per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività , di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo; il giudice ne constata l'esistenza e gli effetti, e lo valuta ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, perché appartiene alla cultura media della collettività  o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie e immediate che la collettività  ne faccia esperienza comune anche in vista dalla sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività  stessa a conoscerlo. Con queste perimetrazioni, la Corte ammette anche il fatto notorio locale, e cioè una conoscenza diffusa ma circoscritta limitatamente al luogo ove esso è invocato; e quello tecnico, sia pure a livelli semplicizzati. Quanto alle fonti di conoscenza del fatto notorio, essa è costituita dalla cultura media cui appartiene il giudice, non solo scolastica ed accademica, ma anche derivante dai moderni mezzi di comunicazione di massa o da altre forme pubblicitarie. Ove il giudice di merito abbia posto a base della decisione un fatto, qualificandolo come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili alla Corte di legittimità  sotto il profilo della violazione dell'articolo 115, comma 2, cod. proc. civ. In tal caso la Cassazione eserciterà  il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva, operato dal giudice di merito; alla luce di tali criteri ' ha concluso la Corte ' risulta corretta l'affermazione del giudice di merito secondo cui rientra nella comune esperienza, senza bisogno di prove (art. 115, comma 2, cod. proc. civ.), che per l'attività  del chirurgo è essenziale un'adeguata manualità , e che la relativa professionalità  decade nisi eam exerceas.
Nel caso che il dipendente sia sottoposto a processo penale, l’azienda può ritardare la contestazione dell’addebito discipl
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La responsabilità del medico per errore di diagnosi sussiste anche se il paziente è affetto da male incurabile
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E. B. essendo afflitta da forti dolori alla schiena e all'addome, è stata sottoposta il 25 gennaio 1996, presso l'Ospedale S. Eugenio di Roma,a visita medica da parte di G. P., dirigente del servizio di gastroenterologia, e quindi ad immediata ecografia epatica e addominale eseguita dalla dott.ssa D. M. sotto la supervisione della medesima dirigente. In seguito all'ecografia la paziente è stata dimessa con la diagnosi di semplici bolle d'aria di natura nervosa. Poiché i disturbi sono continuati, E. B. si è fatta visitare il 23 febbraio 1996 da un medico privato che, all'esito di una TAC total body, le ha diagnosticato una grave neoplasia al pancreas, in fase avanzata, con metastasi epatiche, la cui esistenza è stata confermata da un successivo esame istologico. Poiché il tumore aveva raggiunto dimensioni tali da occludere quasi tutta la cavità  dello stomaco, si è reso necessario un intervento chirurgico al fine di creare un by pass. In considerazione di ciò E. B. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma le dott.sse G. P. e D. M. nonché la Usl RM/C chiedendo la dichiarazione della loro responsabilità  per la mancata tempestiva diagnosi di carcinoma epatico e la loro condanna al risarcimento dei danni. Poco dopo l'inizio della causa E. B., nel marzo 1997, è deceduta. Il giudizio è stato proseguito dal suo erede G. B. Il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica medico- legale, ha rigettato la domanda, in quanto, pur essendovi la prova di un errore professionale compiuto dalle due sanitarie, ha escluso che esso abbia avuto una concreta incidenza sulle condizioni di salute della paziente e sulla sua morte, in quanto lo stadio della malattia al momento dell'errore era già  sviluppato. Questa decisione è stata confermata dalla Corte d'appello di Roma. L'erede di E. B. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge, osservando, tra l'altro, che essa aveva escluso senza alcuna motivazione l'idoneità  di una diagnosi tempestiva del tumore ad influire sulla qualità  e sull'aspettativa di vita della malata. La Suprema Corte ha accolto il ricorso. È innegabile ' ha osservato la Corte ' che, nel mese di tempo fra la diagnosi errata e quella esatta, la malata ha visto perdurare il suo stato di sofferenza fisica senza che ad esso potesse essere apportato un qualche pur minimo beneficio, perché vi era stata quella diagnosi erronea, mentre se la diagnosi fosse stata esatta la sua condizione di sofferenza avrebbe potuto essere alleviata, come poi lo fu quando la diagnosi venne fatta in modo corretto; la perdita della qualità  della vita che gli interventi terapeutici avrebbero potuto assicurarle in quel lasso di tempo, integra certamente un danno alla salute cagionato dall'accertata responsabilità  delle sanitarie; la tempestività  della diagnosi e l'inizio della terapia in modo immediato avrebbero potuto anche determinare effetti sulle conseguenze dell'evoluzione della malattia che portarono al blocco gastrico, nel senso almeno che l'intervento, se pure fosse stato ineluttabile, avrebbe potuto essere eseguito ' come la stessa sentenza dice ' in una situazione di minore entità  di esse, cioè in una situazione di diffusione minore delle metastasi occasionanti l'occlusione e, quindi, tale da rendere l'intervento certamente di minore invasività . Non è, poi, senza rilievo ' ha aggiunto la Corte ' che la sentenza impugnata, nell'escludere il danno risarcibile, abbia totalmente omesso di considerare che da una diagnosi esatta di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità  di scelta vi sia, «che fare» nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell'essere si esprime, in vista di quell'esito; anche sotto tali profili la sentenza impugnata ha errato nel non ravvisare la sussumibilità  della fattispecie concreta nell'ambito di un danno risarcibile alla persona. La paziente ' ha osservato la Corte ' a causa delle ritardata diagnosi non ha potuto beneficiare prima dell'effetto di alleggerimento, pur non risolutivo, degli interventi palliativi diretti soprattutto ad attenuare il dolore. Una diagnosi non tempestiva di un processo morboso ineluttabile, sul quale si può intervenire soltanto con un palliativo, determinando un ritardo della possibilità  dell'intervento palliativo ' ha affermato la Corte ' cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare sulla sua persona le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, che invece avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione della patologia e senza evitarne l'aggravamento progressivo, alleviare le sue sofferenze; la qualità  di vita della persona nelle sue proiezioni psico-fisiche ne risulta, pertanto, incisa sà che si configura un danno. La Cassazione ha rilevato che la Corte di Roma ha disatteso l'orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità  in tema di risarcimento del danno per la perdita di chances ed ha enunciato i seguenti principi di diritto: «L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cd. palliativo, determinando un ritardo della possibilità  di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze». «L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, quando abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico che normalmente sia da praticare per evitare che l'esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo prima del suo normale decorso, e risulti per effetto del ritardo, oltre alla verificazione dell'intervento in termini più ampi, anche che sia andata in conseguenza perduta dal paziente la chance di conservare durante quel decorso una migliore qualità  di vita e la chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi di più rispetto a quelli poi vissuti, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona». «L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità  di scelta vi sia, 'che fare nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell'essere si esprime, in vista e fino a quell'esito, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona». La Cassazione ha rinviato la causa per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello di Roma con il compito di applicare i principi affermati al caso concreto e di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa.
Corte d’appello di Bari - Questione di legittimità costituzionale della nuova normativa sui contratti di lavoro a termine
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Discipline regionali in materia di guide turistiche
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L'Autorità  ha ritenuto di segnalare alcune previsioni distorsive della concorrenza dettate dalle discipline regionali in materia di guide turistiche.L'Autorità  ha evidenziato, in primo luogo, che l'art. 10, comma 4, della legge 2 aprile 2007 n. 40 (decreto «Bersani bis») ha introdotto principi di liberalizzazione in merito allo svolgimento dell'attività  di guida turistica. Principi che dovrebbero essere previsti uniformemente sul territorio nazionale secondo quanto sancito anche nell'art. 10, comma 1, del medesimo decreto in cui si ribadisce che la disciplina è volta «a garantire la libertà  di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità  sul territorio nazionale e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato», oltre che «ad assicurare ai consumatori finali migliori condizioni di accessibilità  all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, in conformità  al principio comunitario della concorrenza e alle regole sancite dagli articoli 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità  europea». In sintesi, il decreto «Bersani bis», all'art. 10, comma 4, ha ribadito il superamento del procedimento autorizzatorio di cui all'art. 123 del Tulps, peraltro già  abrogato dall'art. 46, d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112, ma ancora previsto in alcune normative regionali; ha sancito il divieto di istituire il numero chiuso e di prevedere obblighi di residenza o domicilio; ha previsto l'esonero per i soggetti titolari di laurea in Lettere con indirizzo in Storia dell'arte o in Archeologia o titolo equipollente dal superamento dell'esame abilitante o di altre prove selettive, fatta eccezione della verifica delle conoscenze linguistiche e del territorio di riferimento; ha introdotto sistemi di accreditamento non vincolanti per guide turistiche specializzate in particolari siti o località  e, infine, ha riconosciuto che i soggetti abilitati allo svolgimento dell'attività  di guida turistica nell'ambito dell'ordinamento giuridico del Paese comunitario di appartenenza, tra cui vanno ricompresi anche i cittadini italiani, operano in regime di libera prestazione di servizi senza necessità  di alcuna autorizzazione né abilitazione generale o specifica. Dall'analisi delle discipline regionali vigenti sono invece emersi problemi di natura concorrenziale con riguardo alla regolamentazione dell'accesso dell'attività  in parola, la frequenza dell'esame, la validità  territoriale dell'abilitazione, i limitati riconoscimenti dell'abilitazione conseguita presso un'altra regione italiana o un diverso Stato membro, l'esistenza di albi o elenchi, la previsione di tariffari per i servizi in parola. Con riferimento ai caratteri essenziali dell'esame di abilitazione l'Autorità  ha rilevato che in alcune discipline regionali (Lazio, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Umbria, Bolzano, Emilia Romagna, Toscana) non è sancito alcun obbligo di bandire l'esame con un certa frequenza; in nessuna regolamentazione regionale è previsto che l'esame di abilitazione sia bandito con cadenza annuale (quasi sempre è prevista una cadenza biennale); non sono stati istituiti sistemi di controllo circa l'effettivo svolgimento dell'esame. Peraltro, è risultato che le amministrazioni territoriali di fatto provvedono a bandire l'esame con una frequenza inferiore a quella prevista dalle rispettive discipline. L'Autorità  ha ribadito che, in considerazione della necessità  di prevedere una regolamentazione minima e proporzionata per lo svolgimento dell'attività  di guida turistica e al fine di non consentire la costituzione di ingiustificate barriere per lo svolgimento di tale attività , l'esame di abilitazione dovrebbe essere organizzato e gestito in concreto in modo da non introdurre, anche indirettamente, limiti quantitativi all'accesso alla professione, volti cioè a contenere il numero delle guide turistiche abilitate. Ciò significa che l'esame dovrebbe essere bandito con regolarità  almeno una volta l'anno dandone adeguata pubblicizzazione. Dovrebbe essere posta adeguata attenzione alla composizione delle commissioni di esame che dovrebbero essere formate preferibilmente da esperti in materia che non si trovino in conflitto di interessi con gli esaminati. L'Autorità  ha sottolineato, infine, l'importanza che l'esame di abilitazione sia finalizzato esclusivamente alla verifica delle conoscenze del territorio regionale e dei più importanti monumenti e opere d'arte presenti nel territorio di riferimento, al fine di garantire al consumatore uno standard di qualità  minimo della prestazione e di assicurare che il patrimonio culturale, archeologico o artistico sia valorizzato adeguatamente. Per quanto riguarda l'individuazione dei requisiti per l'ammissione all'esame di abilitazione, la maggior parte delle regioni richiede il possesso di un diploma di scuola media secondaria, mentre altre regioni (Sicilia, Veneto, Sardegna) impongono addirittura la titolarità  di un diploma di laurea in Lettere, Storia dell'arte o Archeologia. Inoltre, soltanto in sei regioni, in linea con quanto stabilito dalla Riforma Bersani, è previsto che i titolari di un diploma di laurea in Lettere con indirizzo in Storia dell'arte o in Archeologia o titolo equipollente siano esonerati dall'esame di abilitazione (Lazio, Friuli Venezia Giulia, Trento,Umbria, Valle d'Aosta, Veneto). Mentre, nessuna disciplina regionale esonera dal superamento dell'esame i titolari di diploma di scuola media superiore in materie artistiche. In alcune regioni, per l'ammissione all'esame, è richiesto lo svolgimento di periodi di tirocinio più o meno lunghi ovvero il superamento di test attitudinali (Piemonte, Sardegna). Talune regioni prevedono l'obbligo di residenza o domicilio (Abruzzo, Bolzano, Sicilia, Valle d'Aosta, Sardegna) e in altre viene richiesta anche la stipula di coperture assicurative (Valle d'Aosta), il possesso di autorizzazioni previste dal Tulps ovvero il rilascio di una licenza da parte del sindaco (Lazio), peraltro difformemente da quanto indicato dall'art. 10, comma 4, del citato decreto. L'Autorità  ha al riguardo osservato che, a fronte delle caratteristiche dell'attività  di guida turistica, considerato l'attuale contesto sociale e culturale, posto che le conoscenze tecniche sono comunque verificate in sede di esame, potrebbe essere richiesto per l'ammissione all'esame, tutt'al più, il conseguimento di un diploma di scuola media secondaria; ciò al fine di ampliare il più possibile il numero degli aspiranti allo svolgimento di tale attività  e favorire l'accesso ai giovani. Inoltre, l'Autorità  ha rilevato che dovrebbe essere previsto l'esonero dall'esame non soltanto per i titolari di un diploma di laurea in Lettere con indirizzo in Storia dell'arte o in Archeologia o titolo equipollente, come prevede l'art. 10, comma 4, del decreto «Bersani bis», ma anche per i titolari di un diploma di scuola secondaria in materie artistiche. Per le medesime considerazioni l'Autorità  non ritiene giustificabili periodi di tirocinio più o meno lunghi, oltre al superamento obbligatorio di test attitudinali per l'ammissione all'esame di abilitazione; né, a maggior ragione, ritiene proporzionate restrizioni, quali l'obbligo di residenza o domicilio nel comune, nella provincia o nella regione di riferimento, la stipula di coperture assicurative, il possesso di autorizzazioni previste dal Tulps, conformemente peraltro alla riforma del decreto «Bersani bis». La validità  territoriale dell'abilitazione è individuata dalla maggioranza delle regioni (Liguria,Veneto, Piemonte, Marche, Lazio, Bolzano, Sicilia, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Trento) a livello provinciale, simmetricamente alla gestione dell'esame di abilitazione organizzato e gestito a livello provinciale. A tal riguardo l'Autorità  ha ulteriormente osservato che una validità  cosà localizzata e ristretta appare volta a ripartire il mercato attraverso segmentazioni finalizzate a garantire a ciascun operatore un certo volume di clientela, potendo avere tale ripartizione territoriale lo scopo di limitare ingiustificatamente la concorrenza tra gli operatori. Pertanto, l'Autorità  ha auspicato che le discipline regionali siano modificate in modo che sia prevista una valenza territoriale almeno regionale dell'abilitazione; valenza regionale che dovrebbe in ogni caso essere mitigata dal riconoscimento semplificato delle abilitazioni conseguite in altre regioni d'Italia nei casi in cui una guida abilitata in una determinata regione intenda stabilire la propria attività  in una regione diversa, come sarà  più avanti illustrato. Infine in alcune discipline regionali (Abruzzo, Bolzano, Calabria, Campania, Liguria, Lombardia, Puglia, Sicilia, Veneto) non è prevista alcuna forma o modalità  di riconoscimento delle abilitazioni conseguite in altre regioni. L'Autorità  ha sottolineato l'opportunità  dal punto di vista concorrenziale che ciascuna regione preveda, in condizioni di reciprocità  e con una disciplina il più possibile uniforme, modalità  di riconoscimento dell'abilitazione per coloro che hanno superato un apposito esame presso un'altra regione. In tale ottica, tutt'al più possono essere previste forme per il riconoscimento parziale delle idoneità  conseguite altrove, in modo che l'oggetto del nuovo accertamento sia di tipo integrativo e quindi circoscritto alla conoscenza dei luoghi turistici compresi nel territorio regionale. Si tratta, in altri termini, di prevedere una verifica semplificata che integri l'abilitazione conseguita in altre regioni al fine di accertare la conoscenza del territorio. Con riferimento alla formazione di elenchi, albi o registri degli operatori che forniscono servizi di guida turistica e che risultano abilitati ai sensi di ciascun ordinamento regionale, l'Autorità  ha poi fatto presente che un numero significativo di regolamentazioni regionali (Abruzzo, Bolzano, Calabria, Lombardia, Molise, Sardegna, Sicilia, Veneto, Toscana, Trento, Umbria) affida alle amministrazioni locali la tenuta e la gestione di tali albi o elenchi e prevede l'obbligatorietà  dell'iscrizione. Poiché, in relazione all'attività  di guida turistica i problemi di asimmetria informativa non risultano cosà gravi da rendere necessaria l'introduzione di una regolamentazione rigida, la tutela del consumatore non può spingersi in tale settore fino a prevedere un'attività  di controllo sulle attività  svolte dagli operatori, come invece implicano le disposizioni che prevedono elenchi, albi o registri delle guide turistiche. In quasi la totalità  delle discipline regionali analizzate (Abruzzo, Bolzano, Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Sicilia, Umbria, Val d'Aosta) è ingiustificatamente prevista l'obbligatorietà  di tariffe minime, talvolta di riferimento, per la prestazione dei servizi di guida turistica. In considerazione delle suddette osservazioni, l'Autorità  ha auspicato che i legislatori regionali e delle due province autonome riesaminino il contenuto delle rispettive discipline in materia di guide turistiche e apportino le auspicate modifiche in conformità  alle indicazioni formulate.
Ordinamento della professione di guida alpina
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L'Autorità  ha segnalato distorsioni e compressioni della concorrenza derivanti da alcune previsioni della legge quadro 2 gennaio 1989, n. 6,recante «Ordinamento della professione di guida alpina». In particolare, la suddetta legge subordina l'esercizio della professione di guida alpina non solo al (necessario) superamento di un esame di abilitazione tecnica, ma anche all'obbligo di iscrizione ad un apposito albo. Al riguardo l'Autorità  ha rilevato che l'obbligatorietà  dell'iscrizione ad un albo professionale dovrebbe rivestire un carattere di eccezionalità , dovendo essere limitata alle professioni suscettibili di arrecare svantaggi di tale rilevanza per i consumatori da non consentire un regime di libero mercato o laddove vi sia uno specifico e pregnante interesse pubblico da salvaguardare. Inoltre la legge esaminata impone anche il requisito della residenza o dello stabile domicilio nella regione nella quale le guide intendono esercitare. Tali previsioni normative comportano, ad avviso del Garante, una rigida segmentazione territoriale e una restrizione dell'offerta che non sono giustificate da esigenze di carattere generale. La legge quadro sulle guide alpine prevede, inoltre, un sistema di determinazione di tariffe minime obbligatorie per gli iscritti al rispettivo albo professionale. L'Autorità  al riguardo ha rammentato il proprio orientamento contrario alla fissazione di tariffe minime, le quali non sono in ogni caso riconducibili al perseguimento di un interesse generale, cosà come non costituiscono né un parametro di riferimento per il cliente né un incentivo per il prestatore della relativa attività  professionale ad offrire servizi qualitativamente migliori rispetto a quelli offerti dai propri concorrenti. Infatti, se da un lato le tariffe minime non assicurano che ai livelli di prezzo fissati siano forniti servizi di qualità  adeguata, dall'altro, impediscono un'effettiva concorrenza tra gli operatori fondata sul prezzo della prestazione. L'Autorità , pertanto, ha auspicato una revisione di queste previsioni normative.
Differimento dello sciopero per precettazione e obbligo di ripetizione delle procedure di raffreddamento
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La Commissione ha disposto che in caso di differimento dello sciopero' a seguito di ordinanza di precettazione ex art. 8 legge n. 146/1990 ' ad una data in relazione alla quale risulta superato il periodo di validità  delle procedure di raffreddamento e conciliazione, la procedura non dovrà  essere ripetuta solo nel caso in cui lo sciopero differito possa considerarsi legittimo ' vale a dire senza che la sua proclamazione violi la disciplina legale o contrattuale del settore di riferimento ' e la fissazione della nuova data di effettuazione sia contestuale alla revoca.
Periodo di validità delle procedure di raffreddamento
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La Commissione, con la delibera n. 00/226, aveva disposto che l'esenzione dal preventivo esperimento delle procedure di raffreddamentoe conciliazione possa essere ammessa nel caso in cui nell'ambito della stessa vertenza venga proclamato uno sciopero a breve distanza di tempo dal primo (e sempre che non si siano verificate modificazioni nelle posizioni delle parti o dei termini del conflitto); non invece nel caso in cui la proclamazione di un nuovo sciopero «risulti separata dall'effettuazione dello sciopero precedente da un più ampio lasso di tempo». Con la delibera n. 03/35, cosà come integrata dalla delibera 03/116, la Commissione ha poi stabilito per i soli settori in cui manchino previsioni specifiche tale lasso temporale in novanta giorni dalla conclusione della precedente procedura, o dalla scadenza del termine entro il quale la medesima doveva essere portata a compimento. Poiché quest'ultima delibera non disciplinava espressamente la questione dell'efficacia nel tempo delle procedure di raffreddamento e conciliazione in mancanza della proclamazione di una prima azione di sciopero, la Commissione con delibera del 30 settembre 2004 ha assunto l'orientamento per cui «l'efficacia nel tempo delle procedure di raffreddamento e conciliazione riguarda sia la prima che le successive proclamazioni di sciopero nell'ambito della stessa vertenza». La Commissione ha da ultimo ritenuto opportuno formulare un analogo orientamento per i casi in cui, pur sussistendo un accordo di settore giudicato idoneo, manchino previsioni specifiche in ordine alla «efficacia » nel tempo delle procedure di raffreddamento e conciliazione in caso di proclamazione del primo sciopero. Anche in questi casi, secondo l'orientamento della Commissione, il periodo in questione è fissato in novanta giorni dalla conclusione della procedura o dalla scadenza del termine entro il quale la medesima doveva essere portata a compimento; per le azioni di sciopero successive alla prima, invece, continueranno ad applicarsi le specifiche previsioni contenute nelle regolamentazioni di settore.
Destinatari della comunicazione di revoca
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La Commissione ha chiarito che le revoche della proclamazione di scioperodevono essere inviate tempestivamente ai medesimi soggetti destinatari, ai sensi dell'art. 2, comma 1, della legge n. 146 del 1990 come modificata dalla legge n. 83 del 2000, della proclamazione di sciopero nonché, in caso di indicazione immediata o invito della Commissione, anche alla Commissione stessa.
Sanzioni in caso di astensioni spontanee dal lavoro senza l’individuazione di un soggetto promotore
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Prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili
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Non avendo provveduto alla corretta trasposizione nell'ordinamento italiano dell'art. 3, n. 1,della direttiva 92/57, riguardante le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava direttiva particolare ai sensi dell'articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/Cee), la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva medesima. In effetti, è contraria alle disposizioni della direttiva la previsione di deroghe all'obbligo di designare coordinatori in materia di sicurezza e di salute per i cantieri in cui operano più imprese. La Corte ha analizzato solo la disciplina vigente al momento dell'invio del parere motivato con il quale la Commissione contestava la mancata trasposizione della direttiva. Nelle more del giudizio è stato approvato il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 che ha modificato la disciplina in materia. Occorre segnalare che la Commissione ha dichiarato di ritenere che anche il decreto legislativo 81 non rispetti le disposizioni della direttiva 92/57.
Impieghi nella pubblica amministrazione – Capitani e ufficiali di navi - Attribuzione di poteri di imperio a bordo
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Regolamento 1408/71 – Artt. 39 e 42 Ce – Prestazione assicurativa per diminuita capacità lavorativa o invalidità
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Pensione di reversibilità – Discriminazione basata sull’età – Diritto comunitario
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Trasferimento del lavoratore – Tutela cautelare – Fumus boni iuris e periculum in mora – Insussistenza
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Dirigente – Retribuzione – Superminimo individuale – Condizioni per il riconoscimento
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Violazione dei doveri generali da parte del lavoratore - Omessa affissione del codice disciplinare – Irrilevanza
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Contestazione addebito disciplinare – Tardività – Sussistenza
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Mancato adempimento dell’obbligo di reintegra – Pagamento elementi variabili della retribuzione – Insussistenza
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Medici specializzandi – Formazione e subordinazione
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Contratto di appalto – Divieto di interposizione – Ipotesi di interposizione fittizia – Accertamento natura subordinata ra
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Consigliere di amministrazione di società di capitali – Configurabilità in astratto di rapporto subordinato di dirigente
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Licenziamento per superamento di comporto
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Dopo aver lavorato per quattro anni presso la stessa società , un lavoratore veniva riassunto(previa risoluzione del precedente rapporto) come operaio di terzo livello e computato ai fini della riserva, stante l'intervenuto accertamento dell'invalidità  civile, nelle categorie protette di cui alla legge n. 482/68 essendo stato riconosciuto invalido con una riduzione della capacità  lavorativa in misura superiore ai due terzi, pari all'85%. Con lettera 25 novembre 1999, a seguito di prolungate assenze per malattia, egli veniva licenziato per aver superato il periodo previsto dal Ccnl per la conservazione del posto pari a 12 mesi. Nella stessa lettera si aggiungeva: «È ovvio che la frequenza delle assenze rende non proficuamente utilizzabile la Sua prestazione, incidendo negativamente sull'organizzazione del lavoro e, pertanto, si rende ragionevolmente non presumibile un Suo utile reinserimento in futuro». Il licenziamento veniva impugnato avanti al Tribunale di Rimini assumendo il lavoratore che il licenziamento era da considerare nullo perché, nel suo caso, essendo le reiterate assenze riconducibili ad un unico evento morboso, il periodo di comporto a lui spettante era ' ai sensi dell'art. 13 lettera c del Ccnl ' pari a 14 mesi e non a 12 come erroneamente ritenuto dalla società  datrice di lavoro, con la conseguenza che, all'atto dell'intimazione del recesso, non aveva ancora superato il periodo di comporto. Il Tribunale di Rimini, recependo le conclusioni della disposta Ctu, accoglieva la domanda ritenendo che le prolungate assenze dal lavoro fossero tutte riconducibili alla medesima affezione (malattia da Hiv) ovvero a malattie concomitanti o complicanti riconducibili allo stesso quadro morboso, nonostante alcune imprecisioni nelle diagnosi riportate dal medico di base sui certificati di malattia. Il Tribunale aveva poi ritenuto che le motivazioni del licenziamento erano riconducibili esclusivamente al (preteso) superamento del comporto e che la società  avesse espresso, nell'ultimo capoverso della missiva, solo un giudizio conseguente alle ragioni poste alla base del recesso: d'altra parte l'invalido collocato obbligatoriamente al lavoro aveva diritto ad essere adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute, mentre la dedotta inidoneità  al lavoro proficuo non era stata preceduta dall'attivazione della Commissione medica di cui all'art. 4 della legge n. 104/92. A seguito di impugnazione da parte della società , la Corte d'appello di Bologna in primo luogo esaminava il contenuto della parte finale della lettera di licenziamento per verificare se la medesima contenesse o meno una diversa ed autonoma causa di recesso, arrivando ad escluderlo «non solo perché, sotto il profilo lessicale, [l'affermazione] è introdotta dall'espressione 'è ovvio, la quale lascia intendere l'esistenza di una ben precisa connessione con la decisione di risolvere il rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto, ma anche perché, come condivisibilmente puntualizzato dal primo giudice, la precisazione che la frequenza delle assenze per malattia rende la prestazione di lavoro non proficuamente utilizzabile perché incide in modo negativo sull'organizzazione del lavoro, non esprime un giudizio di non idoneità  del lavoratore in relazione a determinate mansioni, ma ha la mera funzione di giustificare la decisione di risolvere il rapporto di lavoro». Ne deduce la Corte che non può tenersi conto dell'ulteriore motivo di licenziamento (non proficua utilizzabilità  della prestazione a causa di assenze negativamente incidenti sulla organizzazione del lavoro) pena la violazione del consolidato principio della immutabilità  delle motivazioni espresse nell'atto di intimazione del recesso (v. Cass. n. 823/98; n. 2590/89; n. 11114/96; n. 1458/97; n. 8641/99; n.11256/00, n. 17604/07). In particolare ' rilevano i giudici di secondo grado ' il caso di specie appare assai simile a quello esaminato da Cass. n. 1458/97 secondo cui: «Un licenziamento intimato (esclusivamente) per superamento del periodo di comporto non può essere giudizialmente dichiarato illegittimo in relazione ad un'ipotizzabile (o anche effettivamente sopravvenuta) inidoneità  psico-fisica del lavoratore a svolgere le mansioni affidategli». D'altra parte la precisazione che la frequenza delle assenze per malattia inciderebbe negativamente sull'organizzazione del lavoro non esprime un giudizio di non idoneità  del lavoratore in relazione a determinate mansioni, ma ha la mera funzione di giustificare la decisione di risolvere il rapporto di lavoro: la valutazione della legittimità  del licenziamento non può quindi che essere condotta se non con specifico ed esclusivo riferimento alla questione relativa al superamento o meno del periodo di comporto. Ed a tale proposito la Corte, poiché le conclusioni del Ctu nominato in primo grado sono state ampiamente censurate dalla società  con l'atto d'appello, ha ritenuto utile disporre una nuova indagine medico legale. Le risultanze di quest'ultima hanno sostanzialmente confermato quelle già  acquisite al processo: il lavoratore, essendo affetto da Hiv in fase avanzata, avrebbe potuto presentare sintomi aspecifici quali febbre, tosse, gastropatia, broncopatia genericamente intesa, depressione e collagenosi, dovendosi anche considerare la complessa terapia che doveva seguire non priva di effetti collaterali; e che, quindi, non è possibile escludere che le malattie diagnosticate al lavoratore fossero correlate alla infezione da virus da immunodeficienza acquisita. La Corte quindi, attraverso una puntuale e circostanziata analisi di ciascuna malattia diagnosticata dal medico curante, respinge la tesi aziendale della non riconducibilità  delle plurime assenze ad un unico evento morboso basata sul rilievo ' peraltro meramente formale ' che nelle certificazioni di volta in volta rilasciate dal curante le diagnosi di malattia fanno riferimento a patologie diverse, la cui esistenza non sempre è provata, e tra loro non connesse; affermano infatti i giudici d'appello che: «Le imprecisioni terminologiche e diagnostiche riscontrabili nei certificati medici non possono essere sufficienti per escludere la riconducibilità  delle assenze dal lavoro ad un unico evento morboso» dovendo invece «presumersi [â?¦] che le manifestazioni morbose [â?¦] che avevano dato luogo alle assenze di cui trattasi, nella sostanza dipendessero dalla malattia principale ovvero da malattie concomitanti o complicanti riconducibili allo stesso stato morboso ovvero da complicazioni derivanti dalla terapia antivirale». Anche per quanto concerne l'asserita inidoneità  al lavoro la Corte conferma la sentenza di primo grado, censurando anche la legittimità  del trasferimento del lavoratore in un diverso reparto avvenuto poco prima del licenziamento senza che esso fosse preceduto dall'accertamento della compatibilità  tra le nuove mansioni assegnate con la natura ed il grado d'invalidità , ai sensi dell'art. 20, comma 5 della legge n. 482 del 1968.
Compenso per prestazione di collaborazione – Attività espletata a titolo gratuito
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Il sindacato firmatario un accordo gestionale non è legittimato a rivendicare i diritti sindacali della legislazione di sostegn
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Un'organizzazione sindacale non firmataria del contratto nazionale ma di un accordo gestionale sulla cassa integrazione adiva il Tribunale di Campobassoal fine di vedere riconosciuta la condotta antisindacale dell'azienda che non aveva riconosciuto all'associazione i diritti sindacali di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori. La domanda dell'associazione sindacale veniva respinta in tutte le fasi di giudizio promosse innanzi ai giudici di merito. La Suprema Corte nel respingere anche in sede di legittimità  il gravame dell'associazione ha ritenuto sussistere, in dichiarato contrasto con un proprio precedente, una distinta rilevanza sociale intercorrente tra un contratto gestionale ed un contratto normativo. Sulla base di tale distinzione, l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori deve essere interpretato nel senso che per associazioni sindacali firmatarie di accordi di lavoro applicati nell'unità  produttiva si devono ritenere le sole associazioni che abbiano stipulato contratti collettivi di qualsiasi livello ma necessariamente di natura normativa restando esclusi quelli di natura gestionale. Conclude, infatti, la Suprema Corte che l'accordo «gestionale», quindi, in alcuni casi è il risultato di una sorta di delega legislativa di un potere sostanzialmente regolamentare, cui non può applicarsi la nozione di «contratto» di cui all'art. 1322 cod. civ.; in altri termini ' afferma il Collegio ' l'accordo gestionale può anche essere un contratto, obbligando il datore di lavoro ad esercitare i suoi poteri con le modalità  concordate, ma certamente non è il contratto collettivo di cui all'art. 39 Cost., disposizione che concerne i soli contratti collettivi «normativi».
La Cassazione distingue tra imprevedibilità ed abnormità dell’evento al fine di escludere la responsabilità del datore di l
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La prassi aziendale richiede che la condotta sia generalizzata e protratta nel tempo
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Un lavoratore deducendo la sussistenza di una prassi aziendale che prevedeva un avanzamento di grado decorso un trienniorivendicava il proprio diritto alla promozione nel livello dirigenziale superiore. La domanda veniva tuttavia respinta nel corso dei giudizi di merito sul rilievo che la condotta aziendale si era limitata ad alcuni casi e non aveva riguardato la generalità  dei dipendenti che si trovavano nella medesima condizione del lavoratore ricorrente. La Corte di cassazione nel richiamare i principi in materia di uso negoziale ha quindi confermato la legittimità  della sentenza della Corte di appello di Genova affermando che correttamente il Collegio aveva escluso la sussistenza di un uso aziendale non avendo l'azienda applicato tale regola per la generalità  dei propri dirigenti. Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha quindi ricordato che l'uso, fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, presuppone non una semplice reiterazione di comportamenti ma uno specifico intento negoziale di regolare per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo che integra il contenuto dei singoli contratti individuali di lavoro. La generalità  dell'uso aziendale non richiede tuttavia una condotta nei confronti della totalità  dei lavoratori di un'azienda, ma richiede una pratica abitualmente seguita dal datore di lavoro all'interno dell'impresa nei confronti di tutti i lavoratori che si trovano nella situazione disciplinata. Quanto minore è il gruppo dei lavoratori regolati dalla prassi, tanto maggiore ' conclude la Cassazione ' il rigore della prova dell'indifferenziata estensione del comportamento.
La Cassazione esclude un obbligo di comunicazione dell’allontanamento dal domicilio in caso di assenza per malattia
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La Cassazione ribadisce la retribuibilità del tempo richiesto per indossare la divisa in azienda
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Alcuni lavoratori addetti alla manipolazione di alimenti all'interno di una catena di ristorazione autostradaleadivano il Tribunale di Milano al fine di vedere riconosciuto nell'orario di lavoro il tempo richiesto per la vestizione e svestizione della divisa aziendale che per norma contrattuale doveva avvenire nei locali aziendali rispettivamente prima e dopo la timbratura del cartellino. In sede di giudizio la società  deduceva che l'obbligo di indossare il copricapo derivava da una normativa sull'igiene alimentare e comunque rientrava tra le attività  prodromiche alla prestazione di lavoro. I giudici di merito nei due gradi di giudizio accoglievano le richieste dei dipendenti riconoscendo equitativamente un tempo di venti minuti osservando che la divisa consistente in un gonna, maglietta polo, grembiulino e cappellino rispondeva ad una precisa disposizione aziendale eccedente l'obbligo legale che richiedeva un tempo assai minore. La Cassazione nel confermare la decisione dei giudici di merito ha ricordato il proprio orientamento affermando che, ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito, assume rilevanza se sia data facoltà  al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo dove indossare la divisa. Solo in tale caso ' precisa la Corte di cassazione ' la relativa attività  fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attività . Diversamente ' concludono i giudici di legittimità  ' se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.
Non è retribuibile una prestazione lavorativa in presenza di una impossibilità aziendale di ottenere un concreto beneficio
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Nell'ambito di un'occupazione dei locali aziendali di una clinica che era impossibilitata a svolgere la propria attività per effetto dell'indisponibilità  temporanea dei locali, alcune lavoratrici addette a mansioni di pulizia effettuavano comunque la propria prestazione assicurando la pulizia di alcuni locali. A fronte del rifiuto dell'azienda di retribuire tale prestazione le lavoratrici adivano il magistrato del lavoro di Napoli che accoglieva la richiesta delle lavoratrici con decisione confermata anche in sede di appello. La Corte di cassazione nell'accogliere il gravame ha ritenuto che le lavoratrici in una situazione di sospensione dell'attività  derivante dall'occupazione dei locali non avevano offerto la propria prestazione determinando una mora accipiendi del datore di lavoro. La messa a disposizione ' afferma la Corte ' configura un atto giuridico in senso stretto a carattere ricettizio e deve essere indirizzata al datore di lavoro al fine di renderlo consapevole dell'offerta della prestazione. Laddove la situazione concreta impedisca al datore di lavoro di essere edotto dell'offerta della prestazione, il lavoro eventualmente effettuato ' conclude la Cassazione ' non dà  diritto alla retribuzione, non potendo affermarsi che il datore di lavoro abbia accettato una prestazione del cui svolgimento nulla sapeva né poteva sapere.
Licenziamento per giusta causa – L’irrilevanza del modico valore in caso di furto
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La saltuarietà della prestazione non esclude la subordinazione del rapporto
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All'esito di una verifica ispettiva l'Inps accertava l'esistenza di subordinazionenei confronti di alcuni lavoratori addetti al carico e scarico presso un magazzino. La società  destinataria del verbale di accertamento proponeva opposizione innanzi al Tribunale di Genova rilevando il carattere saltuario della prestazione dei lavoratori che non avevano alcun obbligo di rimanere a disposizione ed anzi potevano rifiutare la prestazione loro richiesta. Il giudice di primo grado rigettava l'opposizione con decisione confermata in sede di appello che aveva ritenuto il carattere subordinato delle prestazioni in considerazione del carattere esecutivo della mansione svolta, dell'obbligo di presentazione presso il magazzino ove il responsabile impartiva le opportune disposizioni e dall'utilizzo dei mezzi nella disponibilità  aziendale. La Corte di cassazione nel respingere il ricorso di legittimità  della società  ha confermato la decisione del giudice di appello affermando la correttezza dell'iter argomentativo del Collegio sul rilievo che il vincolo della subordinazione non ha tra i suoi tratti caratteristici indefettibili la permanenza nel tempo dell'obbligo del lavoratore di tenersi a disposizione del datore di lavoro. La Suprema Corte ha quindi ricordato il proprio costante orientamento in forza del quale la saltuarietà  delle prestazioni non consente di per sé la qualificazione in termini di lavoro autonomo dell'attività  lavorativa. In tale ottica è stata ritenuta congruamente motivata la decisione laddove ha ritenuto, viceversa, sussistere la subordinazione dalla messa a disposizione da parte dei lavoratori delle proprie energie lavorative e dall'obbligo di sottostare alle disposizioni impartite dal responsabile del magazzino e, quindi, dal loro inserimento nell'organizzazione aziendale.
Il lavoro domestico presume la subordinazione
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Una lavoratrice straniera dopo aver collaborato alcuni anni all'interno di un nucleo familiare con prestazioni di assistenza domesticaadiva il locale magistrato del lavoro al fine di vedere riconosciute le spettanze retributive dovutegli. Nel costituirsi in giudizio il datore di lavoro rilevava il carattere affettivo della prestazione e la gratuità  della stessa. La decisione del giudice di primo grado veniva riformata in sede di appello dalla Corte di appello di Palermo che escludeva la subordinazione in relazione alla mancata concreta dimostrazione di un rapporto di lavoro subordinato. La decisione è stata riformata dai giudici di legittimità  sul rilievo che per quanto attiene il lavoro domestico la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato può essere esclusa solo dall'accertamento in concreto di una situazione tale da configurare un diverso rapporto di lavoro tra le parti privo del carattere di onerosità . Ai fini di tale giudizio ' conclude la Cassazione ' non rileva ai fini della configurabilità  di un vincolo affettivo la circostanza che il lavoratore svolga altra attività  di per sé non incompatibile con il vincolo di subordinazione, quali nel caso in specie attività  sportive e scolastiche ovvero che sussistano attribuzioni economiche non strettamente connesse con la prestazione, quali la stipula di una polizza assicurativa sulla vita con indicazione della lavoratrice come beneficiaria.
L’assenza di una concreta organizzazione dei mezzi esclude l’autonomia della prestazione
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L’obbligo di repêchage si estende anche alle mansioni inferiori disponibili in azienda
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Revirement della Cassazione in tema di tempestività dell’impugnazione del licenziamento
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La scelta di sanzionare diversamente due identici comportamenti illeciti rende illegittimo il licenziamento per incoerenza
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Una società  di servizi di telefonia avendo riscontrato che un proprio lavoratore abusava del cellulare aziendalefornitogli per esigenze di servizio decideva, diversamente da quanto ritenuto in passato nei confronti di altri dipendenti responsabili di analoghi comportamenti, di irrogare un licenziamento disciplinare. Il Tribunale di Napoli, con decisione confermata in sede di appello, ritenuto rilevante il comportamento della società  che aveva in passato sanzionato in forma meno grave la condotta annullava il licenziamento disponendo la reintegra del dipendente nel posto di lavoro. La Corte di cassazione nel richiamare un precedente specifico e ritenendo di adeguarsi per il principio di fedeltà  ai precedenti ha rigettato il ricorso della società . La Suprema Corte ha quindi ritenuto che, pur non sussistendo un principio di parità  di trattamento sotto il profilo economico e normativo, il licenziamento deve rispondere a principi di coerenza. La condotta aziendale che sanziona diversamente identiche condotte illegittime attuate dai propri dipendenti senza una specifica ragione di diversificazione deve ritenersi incoerente con conseguente illegittimità  della sanzione risolutiva del rapporto.
Reversibilità Inail
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Le norme del d.P.R. n. 1124/1965 che disciplinano la reversibilità  sono sospettate di incostituzionalità sia per l'esclusione del convivente more uxorio superstite sia per la corresponsione del solo 20 per cento della retribuzione del deceduto al figlio naturale (in luogo del 40 per cento, come previsto per gli orfani di entrambi i genitori) in caso di genitore superstite convivente more uxorio. Ad avviso del giudice lombardo siamo di fronte alla lesione di un diritto fondamentale della persona, alla violazione del principio d'uguaglianza, del principio di tutela della famiglia e dei figli e di tutela del lavoratore e dei parenti a carico in caso di infortunio sul lavoro e malattie professionali. È da tener presente che lo stesso giudice, per lo stesso procedimento, ha sollevato anche una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia Ce.
Disciplina transitoria contratti a termine
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La norma prevede che «con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione»,in caso di violazione delle disposizioni in materia di contratti a termine (artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001), «il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità  di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità  dell'ultima retribuzione ». In sostanza: niente più trasformazione del contratto, ma solo un modesto risarcimento, per i lavoratori che abbiano promosso un giudizio in caso di mancanza delle ragioni giustificatrici dell'apposizione del termine. Tale disposizione, palesemente incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza, è stata impugnata dalla Corte d'appello di Bari con l'ordinanza sopra riportata. A parere dei giudici baresi «tale nuova normativa appare non infondatamente sospetta di violare il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. Ad alimentare tale sospetto basti pensare che, ove mai altro lavoratore nelle stesse identiche condizioni dell'odierna appellante (assunto cioè con contratto a tempo determinato di identico tenore dal 20 gennaio 2005 al 31 marzo 2005) facesse valere le stesse ragioni di illegittimità  con un giudizio introdotto ex novo in data odierna, e comunque dopo la data di entrata in vigore dell'art. 4-bis, quel lavoratore avrebbe diritto alla riassunzione e non già  all'indennità  sopra richiamata non essendo a lui applicabile la norma transitoria. Anzi, a ben vedere, la stessa odierna appellante se, invece di adire immediatamente il giudice del lavoro con il suo ricorso del 21 giugno 2005, avesse proposto la causa dopo l'entrata in vigore della norma transitoria di cui qui si discute, avrebbe pieno titolo per chiedere la riassunzione in servizio. Ne consegue che diverse persone, nella medesima situazione giuridica, si troverebbero a godere di una tutela dei propri diritti sensibilmente diversa (sicuramente meno intensa nel caso di coloro ai quali viene riconosciuto soltanto l'indennizzo) senza alcuna giustificazione se non quella di aver proposto la domanda giudiziale in tempi diversi pur nell'identità  del quadro normativo generale applicabile alle rispettive fattispecie. Tutto ciò con evidente violazione del principio di ragionevolezza. Senza dire che, per effetto della nuova norma, paradossalmente, verrebbe penalizzato proprio colui che per primo ha fatto ricorso al giudice, di modo che la norma appare, in un certo qual modo, irragionevolmente punitiva nei confronti di chi ha mostrato di voler reagire prontamente ad una violazione di legge. Sotto altro aspetto, la norma denunciata sembra in contrasto anche con il generale principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla certezza di sicurezza dell'ordinamento giuridico quale elemento essenziale dello Stato di diritto; principio più volte valorizzato dalla giurisprudenza costituzionale. In tale prospettiva, si deve rimarcare che la giurisprudenza più recente (cfr. ancora una volta Cass. 21 maggio 2008, n. 12985) non dubita che alla violazione dell'art. 1 del d.lgs. 368/2001 debba conseguire la sanzione della conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato per nullità  parziale della clausola appositiva del termine, con la conseguente instaurazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato».
Invalidi civili extracomunitari
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Invalidi civili extracomunitari privi di carta di soggiorno (ora permesso Ce):è illegittimo prevedere il requisito reddituale per l'ottenimento dell'indennità  di accompagnamento. A parere della Corte costituzionale, quindi, è manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale quale l'indennità  di accompagnamento ' i cui presupposti sono la totale disabilità  al lavoro, nonché l'incapacità  alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani della vita ' al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede per il suo rilascio la titolarità  di un reddito. Tale irragionevolezza incide sul diritto alla salute, inteso anche come diritto ai rimedi possibili e, come nel caso, parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza. Ne consegue il contrasto delle disposizioni censurate non soltanto con l'art. 3 Cost., ma anche con gli artt. 32 e 38 Cost., nonché ' tenuto conto che quello alla salute è diritto fondamentale della persona ' con l'art. 2 della Costituzione. Sotto tale profilo la normativa censurata viola l'art. 10, primo comma, della Costituzione, dal momento che tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità  politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato.
Decadenza per la pensione privilegiata
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Pensione privilegiata: il termine di cinque anni per la domanda decorre dalla manifestazione della malattia, non dalla data di cessazione dal servizio.È quindi incostituzionale l'art. 169 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che, allorché la malattia insorga dopo i cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine quinquennale di decadenza per l'inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità  o delle lesioni contratte, ai fini dell'ammissibilità  della domanda di trattamento privilegiato, decorra dalla manifestazione della malattia stessa. A sollevare il dubbio di costituzionalità  era stata la Corte dei conti della Liguria in relazione al caso di una vedova di un militare deceduto per mesotelioma pleurico la cui istanza di pensione privilegiata venne respinta dal ministero della Difesa in quanto prodotta decorso il termine quinquennale dalla cessazione del rapporto di lavoro, nonostante la Commissione medico-ospedaliera avesse riconosciuto l'infermità  dipendente dal servizio ancorché successivamente al suddetto quinquennio. Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si poneva in contrasto con l'art. 3 della Costituzione in quanto foriera di disparità  di trattamento tra lavoratori colpiti da malattia a decorso normale e quelli affetti da patologie a lunga latenza. Il dubbio di costituzionalità  scaturisce dalle attuali conoscenze mediche che hanno portato alla luce nuove malattie di origine lavorativa la cui manifestazione può avvenire dopo un lungo e non preventivabile periodo di latenza in assenza di alcuna specifica sintomatologia. La Corte costituzionale ha giudicato fondato il dubbio di legittimità  costituzionale: il nuovo dies a quo da cui far decorrere il termine decadenziale non sostituisce quello contemplato nella norma impugnata ma si applica limitatamente ai casi di forme morbose che insorgono dopo cinque anni dalla cessazione dal servizio. Ciò vuol dire che per l'ammissibilità  della domanda si deve far riferimento a due termini decadenziali, in ragione del momento il cui la malattia si è manifestata: per le patologie insorte entro cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine decadenziale decorre dalla data di cessazione dal servizio; per quelle insorte dopo cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine decadenziale decorre dalla data di manifestazione della malattia stessa.
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