Descrizione
Incostituzionalità parziale della norma che disciplina il termine di decadenza per la pensione privilegiata È irragionevole discriminare gli extracomunitari in regola nei requisiti per l’indennità di accompagnamento Dissenso «consapevole» in Cassazione sulla tempestività dell’impugnativa del licenziamento affidata all’ufficio postaleL’accertamento del danno da demansionamento può avvenire in base a giudizio probabilistico (Id quod plerumque accidit)
Il dipendente di un’organizzazione di tendenza licenziato per ritorsione deve essere reintegrato nel posto di lavoro
Il dirigente ha diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute se prova di non avere poteri di autoregolamentazione
Il licenziamento deve ritenersi tempestivamente impugnato con la spedizione di una lettera raccomandata al datore di lavoro
La sentenza è già stata presentata nella sezione lavoro (supra p. 8), ma vale la pena di approfondire il caso.G. L., dipendente della s.r.l. Cooperativa La Rosa Blu è
stato licenziato, con lettera pervenuta il 20 giugno 2000, per superamento del periodo di
comporto di malattia. Il 4 agosto 2000 egli ha spedito all'azienda una lettera raccomandata
di impugnazione del licenziamento, che, per ritardo del servizio postale, è stata ricevuta
dall'azienda dopo il 19 agosto 2000, ossia quando erano decorsi oltre sessanta giorni
dalla ricezione da parte del lavoratore, della comunicazione del recesso. G. L. ha chiesto
al Tribunale di Torino di dichiarare l'illegittimità del licenziamento, sostenendo di non
avere superato il periodo di comporto. L'azienda, costituitasi in giudizio, ha invocato l'art.
6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 secondo cui il licenziamento deve essere impugnato, a
pena di decadenza, con atto scritto, entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione.
Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Torino hanno ritenuto che il
lavoratore sia incorso nella decadenza prevista dall'art. 6 legge n. 604/66 perché l'azienda
ha ricevuto per posta la comunicazione dell'impugnazione, quando erano trascorsi oltre
sessanta giorni. G. L. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della
Corte di appello per avere ritenuto la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento
pur avendo il lavoratore impugnante spedito la relativa lettera quindici giorni prima
della scadenza del termine di sessanta giorni stabilito dall'art. 6 cit. Ad avviso del ricorrente
la non imputabilità a lui del ritardo nel recapito comportava la necessità di considerare
l'atto di impugnazione come non ricettizio, vale a dire di connettere l'effetto impeditivo
della decadenza all'emissione della dichiarazione di volontà invece che alla sua
ricezione da parte del destinatario.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. La questione della natura, ricettizia o no, dell'atto
di impugnazione del licenziamento, assoggettato al termine di decadenza di sessanta
giorni ' ha ricordato la Corte ' venne risolta in tempo non recente dalle Sezioni Unite della
Suprema Corte, in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza
18 ottobre 1982 n. 5395. Si trattava, più precisamente, di stabilire se l'impugnazione
giudiziale impedisse la decadenza attraverso il deposito in cancelleria del ricorso o se
questo dovesse anche essere notificato alla controparte entro sessanta giorni. Le Sezioni
Unite si espressero nel secondo senso onde «salvaguardare fondamentali esigenze di certezza
» e per «evitare l'insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti con le intuitive
difficoltà che ne conseguono in materia di prova per l'una e per l'altra parte». È però sopravvenuta
' ha osservato la Corte ' una dottrina che, nella materia della decadenza, segnala
l'opportunità di attribuire rilevanza agli ostacoli non imputabili al soggetto onerato
e propone rimedi, non soltanto de iure condendo, per le ipotesi in cui egli non abbia potuto,
senza colpa, esercitare un potere nell'imminenza della scadenza del termine. Questa
dottrina ha verosimilmente influito sulla giurisprudenza costituzionale la quale, in materia
di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, ha espresso
il principio generale, fondato sulla ragionevolezza e sul diritto di difesa (artt. 3 e
24 Cost.), secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato
dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per
il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza
è impedita attraverso la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario oppure all'agente postale,
poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento
di attività riferibili a soggetti diversi. Questo principio di rilievo costituzionale ' ha affermato
la Corte ' può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto
sostanziale e conduce a rimeditare la soluzione, a suo tempo adottata dalle Sezioni Unite;
anzi tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela
contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un atto che può privare il lavoratore
dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa
(art. 36, primo comma, Cost.). Per queste ragioni ' ha osservato la Corte ' l'art.
410, secondo comma, cod. proc. civ. (secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo
di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo
di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine
di decadenza) è stato interpretato in sede di legittimità nel senso che il termine di
decadenza per l'impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell'istanza
di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di
conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore,
il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro
la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).
Questa decisione ' ha affermato la Corte ' può essere generalizzata e può cosà enunciarsi
la massima secondo cui l'impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia
impedisce la decadenza di cui all'art. 6 legge n. 604/66, qualora la lettera raccomandata
sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all'ufficio postale ancorché
essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine.
La qualificazione come mobbing di un comportamento del datore di lavoro rientra nelle funzioni della Suprema Corte
E. F., dipendente della Spa Cap Gemini, con qualifica di dirigente, ha chiesto al Tribunale di Torino di condannare l'azienda al risarcimento del dannobiologico, morale,
esistenziale e patrimoniale, sostenendo di essere stata sottoposta, per circa sei mesi,
a mobbing da ravvisarsi in una serie di fatti, tra cui: la mancata attribuzione delle risorse
necessarie alla realizzazione di un progetto denominato «Compete», a lei affidato,
la successiva assegnazione di tale progetto ad altro dipendente, la sua sistemazione disagevole
e inadeguata, la sottrazione di arredi indispensabili, un immotivato trasferimento,
parole offensive rivoltele dal direttore di sede («mi hai rotto i coglioni, hai capito brutta
stronza che devi fare quello che dico io»), battute grossolane del medesimo che aveva
rivolto a un suo collega le parole («è inutile che ti inginocchi, tanto non te la dà »). Sia il Tribunale
che, in grado di appello, la Corte di Torino hanno ritenuto le domande prive di fondamento,
osservando, tra l'altro che dalla prova era emerso che il comportamento tenuto
dal direttore era connaturale al suo carattere, che questi si era scusato e che l'azienda aveva
fatto di tutto per trovare a E. F. un'adeguata collocazione. La dirigente ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il mobbing ' ha osservato la Corte ' è costituito da
una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore; esso configura inadempienza
all'obbligo stabilito dall'art. 2087 del cod. civ. per il datore di lavoro, di tutelare l'integrità
fisica e la personalità morale del dipendente; comportando la specificazione di un
precetto normativo, la sua classificazione è funzione del giudice di legittimità , mentre
compito riservato al giudice di merito è l'accertamento del fatto. Nel caso in esame ' ha
affermato la Corte ' alcuni elementi dedotti dalla lavoratrice non sono stati esaminati, ovvero,
pur accertati, non sono stati adeguatamente valutati in un quadro unitario.
Per quanto attiene alla protrazione nel tempo del comportamento mobbizzante, la Corte ha rilevato
che un periodo di sei mesi è più che sufficiente ad integrare l'idoneità lesiva della
condotta; né ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, quando (come nella specie)
il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica
rispetto alla vittima, può bastare un mero, tardivo, intervento pacificatore, non seguito da
concrete misure.
La Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame, alla Corte d'appello di Genova.
Il danno da dequalificazione subito dal chirurgo per il mancato esercizio della sua professione non necessita di prova
R. F. dipendente dell'Azienda sanitaria locale n. 1 di Avezzano, primario chirurgo dell'ospedale di Pescina, nel luglio del 1998,è stato trasferito all'ospedale di Avezzano
ove gli sono state assegnate le mansioni di primario di pronto soccorso. Egli ha ottenuto
dal Tribunale di Avezzano un provvedimento di urgenza con il quale è stato ordinato
all'Azienda di adibirlo alle mansioni di primario chirurgo. Il provvedimento è stato eseguito
nell'agosto del 1999. Nel successivo giudizio di merito egli ha chiesto, oltre alla dichiarazione
di illegittimità del mutamento di mansioni, la condanna dell'Azienda al risarcimento
del danno da dequalificazione. Il Tribunale ha accolto la domanda. La sentenza è
stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di L'Aquila che ha, tra l'altro rilevato la
mancanza di qualsiasi giustificazione per il trasferimento e ha motivato la condanna al risarcimento
del danno professionale affermando che la professionalità del chirurgo, come
quella dei musicisti e degli sportivi, notoriamente necessita di una continua pratica, la cui
mancanza per un certo periodo produce un danno, da risarcirsi in misura equitativamente
determinata. L'Azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione
della Corte abruzzese per avere fondato l'accertamento della dequalificazione su un fatto
erroneamente ritenuto notorio.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando che, in base all'art. 115, secondo comma,
cod. proc. civ., il giudice può, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione
le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. L'esistenza del fatto
notorio ' ha affermato la Corte ' non è provata dalle parti, ma è meramente affermata
dal giudice, il quale non ha l'obbligo di motivare, data la sua natura, ma si limita a constatare
che la conoscenza di un determinato dato di fatto (come ad esempio i tassi di interesse
praticati dalla banche, il requisito dimensionale delle Ferrovie dello Stato) appartiene
alla cultura media; trattandosi di un fatto, peraltro, è ammessa la prova contraria.
L'art. 115, comma 2, cod. proc. civ. ' ha osservato la Corte ' introduce nell'accertamento
dei fatti processualmente rilevanti un fatto non provato, distinguendosi in ciò sia
dai fatti acquisiti per effetto della non contestazione, che dipende dalla volontà defensionale
della parte, sia dagli altri mezzi di prova. Diversamente dalla prova testimoniale,
che viene udita dalle difese delle parti e consacrata in un verbale, dalla prova documentale,
contenuta in un documento, dagli altri elementi di prova (come l'assunzione di
informazioni ecc.), comunque oggettivati in un documento, verificabile e confrontabile
con altre risultanze processuali, e soggetti a critica intrinseca e comparativa ' ha affermato
la Corte ' il fatto notorio entra nell'accertamento processuale sulla base della mera
affermazione del giudice, derogando sia al principio dispositivo della prova, sia a quello
del contraddittorio. Per tale motivo la giurisprudenza di legittimità circonda il fatto notorio
di molte cautele verbali: esso deve essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto
acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non
quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Conseguentemente
' ha precisato la Corte ' per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo,
che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività ,
di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria
per riscontrarlo; il giudice ne constata l'esistenza e gli effetti, e lo valuta ai fini delle conseguenze
giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di
comune conoscenza, perché appartiene alla cultura media della collettività o perché le
sue ripercussioni sono tanto ampie e immediate che la collettività ne faccia esperienza
comune anche in vista dalla sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno
dei componenti della collettività stessa a conoscerlo.
Con queste perimetrazioni, la Corte ammette anche il fatto notorio locale, e cioè una conoscenza
diffusa ma circoscritta limitatamente al luogo ove esso è invocato; e quello tecnico,
sia pure a livelli semplicizzati. Quanto alle fonti di conoscenza del fatto notorio, essa
è costituita dalla cultura media cui appartiene il giudice, non solo scolastica ed accademica,
ma anche derivante dai moderni mezzi di comunicazione di massa o da altre forme
pubblicitarie. Ove il giudice di merito abbia posto a base della decisione un fatto, qualificandolo
come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono denunciabili alla Corte di
legittimità sotto il profilo della violazione dell'articolo 115, comma 2, cod. proc. civ. In tal
caso la Cassazione eserciterà il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo
dello stato di conoscenza collettiva, operato dal giudice di merito; alla luce di tali
criteri ' ha concluso la Corte ' risulta corretta l'affermazione del giudice di merito secondo
cui rientra nella comune esperienza, senza bisogno di prove (art. 115, comma 2, cod.
proc. civ.), che per l'attività del chirurgo è essenziale un'adeguata manualità , e che la relativa
professionalità decade nisi eam exerceas.
Nel caso che il dipendente sia sottoposto a processo penale, l’azienda può ritardare la contestazione dell’addebito discipl
La responsabilità del medico per errore di diagnosi sussiste anche se il paziente è affetto da male incurabile
E. B. essendo afflitta da forti dolori alla schiena e all'addome, è stata sottoposta il 25 gennaio 1996, presso l'Ospedale S. Eugenio di Roma,a visita medica da
parte di G. P., dirigente del servizio di gastroenterologia, e quindi ad immediata ecografia
epatica e addominale eseguita dalla dott.ssa D. M. sotto la supervisione della medesima
dirigente. In seguito all'ecografia la paziente è stata dimessa con la diagnosi di
semplici bolle d'aria di natura nervosa. Poiché i disturbi sono continuati, E. B. si è fatta
visitare il 23 febbraio 1996 da un medico privato che, all'esito di una TAC total body, le
ha diagnosticato una grave neoplasia al pancreas, in fase avanzata, con metastasi epatiche,
la cui esistenza è stata confermata da un successivo esame istologico. Poiché il tumore
aveva raggiunto dimensioni tali da occludere quasi tutta la cavità dello stomaco, si
è reso necessario un intervento chirurgico al fine di creare un by pass. In considerazione
di ciò E. B. ha convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma le dott.sse G. P. e D. M.
nonché la Usl RM/C chiedendo la dichiarazione della loro responsabilità per la mancata
tempestiva diagnosi di carcinoma epatico e la loro condanna al risarcimento dei danni.
Poco dopo l'inizio della causa E. B., nel marzo 1997, è deceduta. Il giudizio è stato proseguito
dal suo erede G. B. Il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica medico-
legale, ha rigettato la domanda, in quanto, pur essendovi la prova di un errore professionale
compiuto dalle due sanitarie, ha escluso che esso abbia avuto una concreta
incidenza sulle condizioni di salute della paziente e sulla sua morte, in quanto lo stadio
della malattia al momento dell'errore era già sviluppato. Questa decisione è stata confermata
dalla Corte d'appello di Roma. L'erede di E. B. ha proposto ricorso per cassazione
censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di
legge, osservando, tra l'altro, che essa aveva escluso senza alcuna motivazione l'idoneità
di una diagnosi tempestiva del tumore ad influire sulla qualità e sull'aspettativa di
vita della malata.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso. È innegabile ' ha osservato la Corte ' che, nel mese
di tempo fra la diagnosi errata e quella esatta, la malata ha visto perdurare il suo stato
di sofferenza fisica senza che ad esso potesse essere apportato un qualche pur minimo
beneficio, perché vi era stata quella diagnosi erronea, mentre se la diagnosi fosse
stata esatta la sua condizione di sofferenza avrebbe potuto essere alleviata, come poi lo
fu quando la diagnosi venne fatta in modo corretto; la perdita della qualità della vita che
gli interventi terapeutici avrebbero potuto assicurarle in quel lasso di tempo, integra certamente
un danno alla salute cagionato dall'accertata responsabilità delle sanitarie; la
tempestività della diagnosi e l'inizio della terapia in modo immediato avrebbero potuto
anche determinare effetti sulle conseguenze dell'evoluzione della malattia che portarono
al blocco gastrico, nel senso almeno che l'intervento, se pure fosse stato ineluttabile,
avrebbe potuto essere eseguito ' come la stessa sentenza dice ' in una situazione di minore
entità di esse, cioè in una situazione di diffusione minore delle metastasi occasionanti
l'occlusione e, quindi, tale da rendere l'intervento certamente di minore invasività .
Non è, poi, senza rilievo ' ha aggiunto la Corte ' che la sentenza impugnata, nell'escludere
il danno risarcibile, abbia totalmente omesso di considerare che da una diagnosi esatta
di una malattia ad esito ineluttabilmente infausto consegue che il paziente, oltre ad
essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, «che fare» nell'ambito
di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute
residua fino all'esito infausto, è anche messo in condizione di programmare il suo essere
persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche nel
che quell'essere si esprime, in vista di quell'esito; anche sotto tali profili la sentenza impugnata
ha errato nel non ravvisare la sussumibilità della fattispecie concreta nell'ambito
di un danno risarcibile alla persona. La paziente ' ha osservato la Corte ' a causa delle
ritardata diagnosi non ha potuto beneficiare prima dell'effetto di alleggerimento, pur
non risolutivo, degli interventi palliativi diretti soprattutto ad attenuare il dolore. Una diagnosi
non tempestiva di un processo morboso ineluttabile, sul quale si può intervenire
soltanto con un palliativo, determinando un ritardo della possibilità dell'intervento palliativo
' ha affermato la Corte ' cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che
nelle more non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare sulla
sua persona le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, che invece
avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione della patologia e senza evitarne l'aggravamento
progressivo, alleviare le sue sofferenze; la qualità di vita della persona nelle
sue proiezioni psico-fisiche ne risulta, pertanto, incisa sà che si configura un danno. La
Cassazione ha rilevato che la Corte di Roma ha disatteso l'orientamento espresso dalla
giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento del danno per la perdita di chances
ed ha enunciato i seguenti principi di diritto: «L'omissione della diagnosi di un processo
morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cd. palliativo,
determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona
al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire
del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso
e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo
avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le
sue sofferenze».
«L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, quando abbia determinato
la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico che normalmente sia da praticare per
evitare che l'esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo prima del suo
normale decorso, e risulti per effetto del ritardo, oltre alla verificazione dell'intervento in
termini più ampi, anche che sia andata in conseguenza perduta dal paziente la chance di
conservare durante quel decorso una migliore qualità di vita e la chance di vivere alcune
settimane o alcuni mesi di più rispetto a quelli poi vissuti, integra l'esistenza di un danno
risarcibile alla persona». «L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale,
in quanto nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni per scegliere, se
possibilità di scelta vi sia, 'che fare nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce
per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere
messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione
delle sue attitudini psico-fisiche nel che quell'essere si esprime, in vista e fino a
quell'esito, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona».
La Cassazione ha rinviato la causa per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'appello
di Roma con il compito di applicare i principi affermati al caso concreto e di provvedere
alla liquidazione del danno in via equitativa.
Corte d’appello di Bari - Questione di legittimità costituzionale della nuova normativa sui contratti di lavoro a termine
Discipline regionali in materia di guide turistiche
L'Autorità ha ritenuto di segnalare alcune previsioni distorsive della concorrenza dettate dalle discipline regionali in materia di guide turistiche.L'Autorità ha evidenziato, in primo luogo, che l'art. 10, comma 4, della legge 2 aprile 2007 n. 40 (decreto
«Bersani bis») ha introdotto principi di liberalizzazione in merito allo svolgimento dell'attività
di guida turistica. Principi che dovrebbero essere previsti uniformemente sul territorio
nazionale secondo quanto sancito anche nell'art. 10, comma 1, del medesimo decreto in cui
si ribadisce che la disciplina è volta «a garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni
di pari opportunità sul territorio nazionale e il corretto ed uniforme funzionamento del
mercato», oltre che «ad assicurare ai consumatori finali migliori condizioni di accessibilità all'acquisto
di prodotti e servizi sul territorio nazionale, in conformità al principio comunitario
della concorrenza e alle regole sancite dagli articoli 81, 82 e 86 del Trattato istitutivo della
Comunità europea». In sintesi, il decreto «Bersani bis», all'art. 10, comma 4, ha ribadito il superamento
del procedimento autorizzatorio di cui all'art. 123 del Tulps, peraltro già abrogato
dall'art. 46, d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112, ma ancora previsto in alcune normative regionali;
ha sancito il divieto di istituire il numero chiuso e di prevedere obblighi di residenza o domicilio;
ha previsto l'esonero per i soggetti titolari di laurea in Lettere con indirizzo in Storia
dell'arte o in Archeologia o titolo equipollente dal superamento dell'esame abilitante o di altre
prove selettive, fatta eccezione della verifica delle conoscenze linguistiche e del territorio
di riferimento; ha introdotto sistemi di accreditamento non vincolanti per guide turistiche
specializzate in particolari siti o località e, infine, ha riconosciuto che i soggetti abilitati allo
svolgimento dell'attività di guida turistica nell'ambito dell'ordinamento giuridico del Paese
comunitario di appartenenza, tra cui vanno ricompresi anche i cittadini italiani, operano in
regime di libera prestazione di servizi senza necessità di alcuna autorizzazione né abilitazione
generale o specifica. Dall'analisi delle discipline regionali vigenti sono invece emersi
problemi di natura concorrenziale con riguardo alla regolamentazione dell'accesso dell'attività
in parola, la frequenza dell'esame, la validità territoriale dell'abilitazione, i limitati riconoscimenti
dell'abilitazione conseguita presso un'altra regione italiana o un diverso Stato
membro, l'esistenza di albi o elenchi, la previsione di tariffari per i servizi in parola. Con riferimento
ai caratteri essenziali dell'esame di abilitazione l'Autorità ha rilevato che in alcune
discipline regionali (Lazio, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Umbria, Bolzano, Emilia Romagna, Toscana)
non è sancito alcun obbligo di bandire l'esame con un certa frequenza; in nessuna regolamentazione
regionale è previsto che l'esame di abilitazione sia bandito con cadenza annuale
(quasi sempre è prevista una cadenza biennale); non sono stati istituiti sistemi di controllo
circa l'effettivo svolgimento dell'esame. Peraltro, è risultato che le amministrazioni territoriali
di fatto provvedono a bandire l'esame con una frequenza inferiore a quella prevista
dalle rispettive discipline. L'Autorità ha ribadito che, in considerazione della necessità di prevedere
una regolamentazione minima e proporzionata per lo svolgimento dell'attività di guida
turistica e al fine di non consentire la costituzione di ingiustificate barriere per lo svolgimento
di tale attività , l'esame di abilitazione dovrebbe essere organizzato e gestito in concreto
in modo da non introdurre, anche indirettamente, limiti quantitativi all'accesso alla
professione, volti cioè a contenere il numero delle guide turistiche abilitate. Ciò significa che
l'esame dovrebbe essere bandito con regolarità almeno una volta l'anno dandone adeguata
pubblicizzazione. Dovrebbe essere posta adeguata attenzione alla composizione delle
commissioni di esame che dovrebbero essere formate preferibilmente da esperti in materia
che non si trovino in conflitto di interessi con gli esaminati. L'Autorità ha sottolineato, infine,
l'importanza che l'esame di abilitazione sia finalizzato esclusivamente alla verifica delle conoscenze
del territorio regionale e dei più importanti monumenti e opere d'arte presenti nel
territorio di riferimento, al fine di garantire al consumatore uno standard di qualità minimo
della prestazione e di assicurare che il patrimonio culturale, archeologico o artistico sia valorizzato
adeguatamente. Per quanto riguarda l'individuazione dei requisiti per l'ammissione
all'esame di abilitazione, la maggior parte delle regioni richiede il possesso di un diploma
di scuola media secondaria, mentre altre regioni (Sicilia, Veneto, Sardegna) impongono
addirittura la titolarità di un diploma di laurea in Lettere, Storia dell'arte o Archeologia. Inoltre,
soltanto in sei regioni, in linea con quanto stabilito dalla Riforma Bersani, è previsto che
i titolari di un diploma di laurea in Lettere con indirizzo in Storia dell'arte o in Archeologia o
titolo equipollente siano esonerati dall'esame di abilitazione (Lazio, Friuli Venezia Giulia,
Trento,Umbria, Valle d'Aosta, Veneto). Mentre, nessuna disciplina regionale esonera dal superamento
dell'esame i titolari di diploma di scuola media superiore in materie artistiche. In
alcune regioni, per l'ammissione all'esame, è richiesto lo svolgimento di periodi di tirocinio
più o meno lunghi ovvero il superamento di test attitudinali (Piemonte, Sardegna). Talune
regioni prevedono l'obbligo di residenza o domicilio (Abruzzo, Bolzano, Sicilia, Valle d'Aosta,
Sardegna) e in altre viene richiesta anche la stipula di coperture assicurative (Valle d'Aosta),
il possesso di autorizzazioni previste dal Tulps ovvero il rilascio di una licenza da parte del
sindaco (Lazio), peraltro difformemente da quanto indicato dall'art. 10, comma 4, del citato
decreto. L'Autorità ha al riguardo osservato che, a fronte delle caratteristiche dell'attività di
guida turistica, considerato l'attuale contesto sociale e culturale, posto che le conoscenze
tecniche sono comunque verificate in sede di esame, potrebbe essere richiesto per l'ammissione
all'esame, tutt'al più, il conseguimento di un diploma di scuola media secondaria;
ciò al fine di ampliare il più possibile il numero degli aspiranti allo svolgimento di tale attività
e favorire l'accesso ai giovani. Inoltre, l'Autorità ha rilevato che dovrebbe essere previsto l'esonero
dall'esame non soltanto per i titolari di un diploma di laurea in Lettere con indirizzo
in Storia dell'arte o in Archeologia o titolo equipollente, come prevede l'art. 10, comma 4, del
decreto «Bersani bis», ma anche per i titolari di un diploma di scuola secondaria in materie
artistiche. Per le medesime considerazioni l'Autorità non ritiene giustificabili periodi di tirocinio
più o meno lunghi, oltre al superamento obbligatorio di test attitudinali per l'ammissione
all'esame di abilitazione; né, a maggior ragione, ritiene proporzionate restrizioni, quali
l'obbligo di residenza o domicilio nel comune, nella provincia o nella regione di riferimento,
la stipula di coperture assicurative, il possesso di autorizzazioni previste dal Tulps,
conformemente peraltro alla riforma del decreto «Bersani bis». La validità territoriale dell'abilitazione
è individuata dalla maggioranza delle regioni (Liguria,Veneto, Piemonte, Marche,
Lazio, Bolzano, Sicilia, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Trento) a livello provinciale,
simmetricamente alla gestione dell'esame di abilitazione organizzato e gestito a livello provinciale.
A tal riguardo l'Autorità ha ulteriormente osservato che una validità cosà localizzata
e ristretta appare volta a ripartire il mercato attraverso segmentazioni finalizzate a garantire
a ciascun operatore un certo volume di clientela, potendo avere tale ripartizione territoriale
lo scopo di limitare ingiustificatamente la concorrenza tra gli operatori. Pertanto, l'Autorità
ha auspicato che le discipline regionali siano modificate in modo che sia prevista una valenza
territoriale almeno regionale dell'abilitazione; valenza regionale che dovrebbe in ogni
caso essere mitigata dal riconoscimento semplificato delle abilitazioni conseguite in altre regioni
d'Italia nei casi in cui una guida abilitata in una determinata regione intenda stabilire
la propria attività in una regione diversa, come sarà più avanti illustrato. Infine in alcune discipline
regionali (Abruzzo, Bolzano, Calabria, Campania, Liguria, Lombardia, Puglia, Sicilia,
Veneto) non è prevista alcuna forma o modalità di riconoscimento delle abilitazioni conseguite
in altre regioni. L'Autorità ha sottolineato l'opportunità dal punto di vista concorrenziale che ciascuna regione preveda, in condizioni di reciprocità e con una disciplina il più possibile
uniforme, modalità di riconoscimento dell'abilitazione per coloro che hanno superato
un apposito esame presso un'altra regione. In tale ottica, tutt'al più possono essere previste
forme per il riconoscimento parziale delle idoneità conseguite altrove, in modo che l'oggetto
del nuovo accertamento sia di tipo integrativo e quindi circoscritto alla conoscenza dei
luoghi turistici compresi nel territorio regionale. Si tratta, in altri termini, di prevedere una verifica
semplificata che integri l'abilitazione conseguita in altre regioni al fine di accertare la
conoscenza del territorio. Con riferimento alla formazione di elenchi, albi o registri degli operatori
che forniscono servizi di guida turistica e che risultano abilitati ai sensi di ciascun ordinamento
regionale, l'Autorità ha poi fatto presente che un numero significativo di regolamentazioni
regionali (Abruzzo, Bolzano, Calabria, Lombardia, Molise, Sardegna, Sicilia, Veneto,
Toscana, Trento, Umbria) affida alle amministrazioni locali la tenuta e la gestione di tali
albi o elenchi e prevede l'obbligatorietà dell'iscrizione. Poiché, in relazione all'attività di
guida turistica i problemi di asimmetria informativa non risultano cosà gravi da rendere necessaria
l'introduzione di una regolamentazione rigida, la tutela del consumatore non può
spingersi in tale settore fino a prevedere un'attività di controllo sulle attività svolte dagli operatori,
come invece implicano le disposizioni che prevedono elenchi, albi o registri delle
guide turistiche. In quasi la totalità delle discipline regionali analizzate (Abruzzo, Bolzano,
Calabria, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Marche, Molise, Sicilia,
Umbria, Val d'Aosta) è ingiustificatamente prevista l'obbligatorietà di tariffe minime,
talvolta di riferimento, per la prestazione dei servizi di guida turistica. In considerazione delle
suddette osservazioni, l'Autorità ha auspicato che i legislatori regionali e delle due province
autonome riesaminino il contenuto delle rispettive discipline in materia di guide turistiche
e apportino le auspicate modifiche in conformità alle indicazioni formulate.
Ordinamento della professione di guida alpina
L'Autorità ha segnalato distorsioni e compressioni della concorrenza derivanti da alcune previsioni della legge quadro 2 gennaio 1989, n. 6,recante «Ordinamento
della professione di guida alpina». In particolare, la suddetta legge subordina l'esercizio
della professione di guida alpina non solo al (necessario) superamento di un esame di
abilitazione tecnica, ma anche all'obbligo di iscrizione ad un apposito albo. Al riguardo
l'Autorità ha rilevato che l'obbligatorietà dell'iscrizione ad un albo professionale dovrebbe
rivestire un carattere di eccezionalità , dovendo essere limitata alle professioni suscettibili
di arrecare svantaggi di tale rilevanza per i consumatori da non consentire un regime
di libero mercato o laddove vi sia uno specifico e pregnante interesse pubblico da salvaguardare.
Inoltre la legge esaminata impone anche il requisito della residenza o dello stabile
domicilio nella regione nella quale le guide intendono esercitare. Tali previsioni normative
comportano, ad avviso del Garante, una rigida segmentazione territoriale e una restrizione
dell'offerta che non sono giustificate da esigenze di carattere generale. La legge
quadro sulle guide alpine prevede, inoltre, un sistema di determinazione di tariffe minime
obbligatorie per gli iscritti al rispettivo albo professionale. L'Autorità al riguardo ha rammentato
il proprio orientamento contrario alla fissazione di tariffe minime, le quali non sono
in ogni caso riconducibili al perseguimento di un interesse generale, cosà come non costituiscono
né un parametro di riferimento per il cliente né un incentivo per il prestatore
della relativa attività professionale ad offrire servizi qualitativamente migliori rispetto a
quelli offerti dai propri concorrenti. Infatti, se da un lato le tariffe minime non assicurano
che ai livelli di prezzo fissati siano forniti servizi di qualità adeguata, dall'altro, impediscono
un'effettiva concorrenza tra gli operatori fondata sul prezzo della prestazione. L'Autorità ,
pertanto, ha auspicato una revisione di queste previsioni normative.
Differimento dello sciopero per precettazione e obbligo di ripetizione delle procedure di raffreddamento
La Commissione ha disposto che in caso di differimento dello sciopero' a seguito di ordinanza di precettazione ex art. 8 legge n. 146/1990 ' ad una data in relazione alla
quale risulta superato il periodo di validità delle procedure di raffreddamento e conciliazione,
la procedura non dovrà essere ripetuta solo nel caso in cui lo sciopero differito
possa considerarsi legittimo ' vale a dire senza che la sua proclamazione violi la disciplina
legale o contrattuale del settore di riferimento ' e la fissazione della nuova data di effettuazione
sia contestuale alla revoca.
Periodo di validità delle procedure di raffreddamento
La Commissione, con la delibera n. 00/226, aveva disposto che l'esenzione dal preventivo esperimento delle procedure di raffreddamentoe conciliazione possa
essere ammessa nel caso in cui nell'ambito della stessa vertenza venga proclamato uno
sciopero a breve distanza di tempo dal primo (e sempre che non si siano verificate modificazioni
nelle posizioni delle parti o dei termini del conflitto); non invece nel caso in cui la
proclamazione di un nuovo sciopero «risulti separata dall'effettuazione dello sciopero
precedente da un più ampio lasso di tempo». Con la delibera n. 03/35, cosà come integrata
dalla delibera 03/116, la Commissione ha poi stabilito per i soli settori in cui manchino
previsioni specifiche tale lasso temporale in novanta giorni dalla conclusione della
precedente procedura, o dalla scadenza del termine entro il quale la medesima doveva essere
portata a compimento. Poiché quest'ultima delibera non disciplinava espressamente
la questione dell'efficacia nel tempo delle procedure di raffreddamento e conciliazione
in mancanza della proclamazione di una prima azione di sciopero, la Commissione con delibera
del 30 settembre 2004 ha assunto l'orientamento per cui «l'efficacia nel tempo delle
procedure di raffreddamento e conciliazione riguarda sia la prima che le successive proclamazioni
di sciopero nell'ambito della stessa vertenza». La Commissione ha da ultimo
ritenuto opportuno formulare un analogo orientamento per i casi in cui, pur sussistendo
un accordo di settore giudicato idoneo, manchino previsioni specifiche in ordine alla «efficacia
» nel tempo delle procedure di raffreddamento e conciliazione in caso di proclamazione
del primo sciopero. Anche in questi casi, secondo l'orientamento della Commissione,
il periodo in questione è fissato in novanta giorni dalla conclusione della procedura o
dalla scadenza del termine entro il quale la medesima doveva essere portata a compimento;
per le azioni di sciopero successive alla prima, invece, continueranno ad applicarsi
le specifiche previsioni contenute nelle regolamentazioni di settore.
Destinatari della comunicazione di revoca
La Commissione ha chiarito che le revoche della proclamazione di scioperodevono essere inviate tempestivamente ai medesimi soggetti destinatari, ai sensi dell'art.
2, comma 1, della legge n. 146 del 1990 come modificata dalla legge n. 83 del
2000, della proclamazione di sciopero nonché, in caso di indicazione immediata o invito
della Commissione, anche alla Commissione stessa.
Prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili
Non avendo provveduto alla corretta trasposizione nell'ordinamento italiano dell'art. 3, n. 1,della direttiva 92/57, riguardante le prescrizioni minime di sicurezza
e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili (ottava direttiva particolare
ai sensi dell'articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/Cee), la Repubblica italiana
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva medesima.
In effetti, è contraria alle disposizioni della direttiva la previsione di deroghe all'obbligo
di designare coordinatori in materia di sicurezza e di salute per i cantieri in
cui operano più imprese.
La Corte ha analizzato solo la disciplina vigente al momento dell'invio del parere motivato
con il quale la Commissione contestava la mancata trasposizione della direttiva.
Nelle more del giudizio è stato approvato il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 che
ha modificato la disciplina in materia. Occorre segnalare che la Commissione ha dichiarato
di ritenere che anche il decreto legislativo 81 non rispetti le disposizioni della
direttiva 92/57.
Impieghi nella pubblica amministrazione – Capitani e ufficiali di navi - Attribuzione di poteri di imperio a bordo
Regolamento 1408/71 – Artt. 39 e 42 Ce – Prestazione assicurativa per diminuita capacità lavorativa o invalidità
Trasferimento del lavoratore – Tutela cautelare – Fumus boni iuris e periculum in mora – Insussistenza
Violazione dei doveri generali da parte del lavoratore - Omessa affissione del codice disciplinare – Irrilevanza
Mancato adempimento dell’obbligo di reintegra – Pagamento elementi variabili della retribuzione – Insussistenza
Contratto di appalto – Divieto di interposizione – Ipotesi di interposizione fittizia – Accertamento natura subordinata ra
Consigliere di amministrazione di società di capitali – Configurabilità in astratto di rapporto subordinato di dirigente
Licenziamento per superamento di comporto
Dopo aver lavorato per quattro anni presso la stessa società , un lavoratore veniva riassunto(previa risoluzione del precedente rapporto) come operaio di terzo
livello e computato ai fini della riserva, stante l'intervenuto accertamento dell'invalidità
civile, nelle categorie protette di cui alla legge n. 482/68 essendo stato riconosciuto
invalido con una riduzione della capacità lavorativa in misura superiore ai due
terzi, pari all'85%. Con lettera 25 novembre 1999, a seguito di prolungate assenze per
malattia, egli veniva licenziato per aver superato il periodo previsto dal Ccnl per la conservazione
del posto pari a 12 mesi. Nella stessa lettera si aggiungeva: «È ovvio che la
frequenza delle assenze rende non proficuamente utilizzabile la Sua prestazione, incidendo
negativamente sull'organizzazione del lavoro e, pertanto, si rende ragionevolmente
non presumibile un Suo utile reinserimento in futuro». Il licenziamento veniva
impugnato avanti al Tribunale di Rimini assumendo il lavoratore che il licenziamento
era da considerare nullo perché, nel suo caso, essendo le reiterate assenze riconducibili
ad un unico evento morboso, il periodo di comporto a lui spettante era ' ai sensi
dell'art. 13 lettera c del Ccnl ' pari a 14 mesi e non a 12 come erroneamente ritenuto
dalla società datrice di lavoro, con la conseguenza che, all'atto dell'intimazione del recesso,
non aveva ancora superato il periodo di comporto. Il Tribunale di Rimini, recependo
le conclusioni della disposta Ctu, accoglieva la domanda ritenendo che le prolungate
assenze dal lavoro fossero tutte riconducibili alla medesima affezione (malattia
da Hiv) ovvero a malattie concomitanti o complicanti riconducibili allo stesso quadro
morboso, nonostante alcune imprecisioni nelle diagnosi riportate dal medico di
base sui certificati di malattia. Il Tribunale aveva poi ritenuto che le motivazioni del licenziamento
erano riconducibili esclusivamente al (preteso) superamento del comporto
e che la società avesse espresso, nell'ultimo capoverso della missiva, solo un
giudizio conseguente alle ragioni poste alla base del recesso: d'altra parte l'invalido
collocato obbligatoriamente al lavoro aveva diritto ad essere adibito a mansioni compatibili
con il suo stato di salute, mentre la dedotta inidoneità al lavoro proficuo non
era stata preceduta dall'attivazione della Commissione medica di cui all'art. 4 della
legge n. 104/92. A seguito di impugnazione da parte della società , la Corte d'appello
di Bologna in primo luogo esaminava il contenuto della parte finale della lettera di licenziamento
per verificare se la medesima contenesse o meno una diversa ed autonoma
causa di recesso, arrivando ad escluderlo «non solo perché, sotto il profilo lessicale,
[l'affermazione] è introdotta dall'espressione 'è ovvio, la quale lascia intendere
l'esistenza di una ben precisa connessione con la decisione di risolvere il rapporto
di lavoro per superamento del periodo di comporto, ma anche perché, come condivisibilmente
puntualizzato dal primo giudice, la precisazione che la frequenza delle assenze
per malattia rende la prestazione di lavoro non proficuamente utilizzabile perché
incide in modo negativo sull'organizzazione del lavoro, non esprime un giudizio di non idoneità del lavoratore in relazione a determinate mansioni, ma ha la mera funzione
di giustificare la decisione di risolvere il rapporto di lavoro». Ne deduce la Corte
che non può tenersi conto dell'ulteriore motivo di licenziamento (non proficua utilizzabilità
della prestazione a causa di assenze negativamente incidenti sulla organizzazione
del lavoro) pena la violazione del consolidato principio della immutabilità delle
motivazioni espresse nell'atto di intimazione del recesso (v. Cass. n. 823/98; n.
2590/89; n. 11114/96; n. 1458/97; n. 8641/99; n.11256/00, n. 17604/07). In particolare
' rilevano i giudici di secondo grado ' il caso di specie appare assai simile a quello
esaminato da Cass. n. 1458/97 secondo cui: «Un licenziamento intimato (esclusivamente)
per superamento del periodo di comporto non può essere giudizialmente dichiarato
illegittimo in relazione ad un'ipotizzabile (o anche effettivamente sopravvenuta)
inidoneità psico-fisica del lavoratore a svolgere le mansioni affidategli». D'altra
parte la precisazione che la frequenza delle assenze per malattia inciderebbe negativamente
sull'organizzazione del lavoro non esprime un giudizio di non idoneità del lavoratore
in relazione a determinate mansioni, ma ha la mera funzione di giustificare la
decisione di risolvere il rapporto di lavoro: la valutazione della legittimità del licenziamento
non può quindi che essere condotta se non con specifico ed esclusivo riferimento
alla questione relativa al superamento o meno del periodo di comporto. Ed a tale
proposito la Corte, poiché le conclusioni del Ctu nominato in primo grado sono state
ampiamente censurate dalla società con l'atto d'appello, ha ritenuto utile disporre
una nuova indagine medico legale.
Le risultanze di quest'ultima hanno sostanzialmente confermato quelle già acquisite al
processo: il lavoratore, essendo affetto da Hiv in fase avanzata, avrebbe potuto presentare
sintomi aspecifici quali febbre, tosse, gastropatia, broncopatia genericamente
intesa, depressione e collagenosi, dovendosi anche considerare la complessa terapia
che doveva seguire non priva di effetti collaterali; e che, quindi, non è possibile escludere
che le malattie diagnosticate al lavoratore fossero correlate alla infezione da
virus da immunodeficienza acquisita. La Corte quindi, attraverso una puntuale e circostanziata
analisi di ciascuna malattia diagnosticata dal medico curante, respinge la tesi
aziendale della non riconducibilità delle plurime assenze ad un unico evento morboso
basata sul rilievo ' peraltro meramente formale ' che nelle certificazioni di volta
in volta rilasciate dal curante le diagnosi di malattia fanno riferimento a patologie diverse,
la cui esistenza non sempre è provata, e tra loro non connesse; affermano infatti
i giudici d'appello che: «Le imprecisioni terminologiche e diagnostiche riscontrabili nei
certificati medici non possono essere sufficienti per escludere la riconducibilità delle
assenze dal lavoro ad un unico evento morboso» dovendo invece «presumersi [â?¦] che
le manifestazioni morbose [â?¦] che avevano dato luogo alle assenze di cui trattasi, nella
sostanza dipendessero dalla malattia principale ovvero da malattie concomitanti o
complicanti riconducibili allo stesso stato morboso ovvero da complicazioni derivanti
dalla terapia antivirale». Anche per quanto concerne l'asserita inidoneità al lavoro la
Corte conferma la sentenza di primo grado, censurando anche la legittimità del trasferimento
del lavoratore in un diverso reparto avvenuto poco prima del licenziamento
senza che esso fosse preceduto dall'accertamento della compatibilità tra le nuove
mansioni assegnate con la natura ed il grado d'invalidità , ai sensi dell'art. 20, comma
5 della legge n. 482 del 1968.
Il sindacato firmatario un accordo gestionale non è legittimato a rivendicare i diritti sindacali della legislazione di sostegn
Un'organizzazione sindacale non firmataria del contratto nazionale ma di un accordo gestionale sulla cassa integrazione adiva il Tribunale di Campobassoal fine di vedere riconosciuta la condotta antisindacale dell'azienda che non aveva riconosciuto
all'associazione i diritti sindacali di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori.
La domanda dell'associazione sindacale veniva respinta in tutte le fasi di giudizio
promosse innanzi ai giudici di merito. La Suprema Corte nel respingere anche in sede
di legittimità il gravame dell'associazione ha ritenuto sussistere, in dichiarato contrasto
con un proprio precedente, una distinta rilevanza sociale intercorrente tra un contratto
gestionale ed un contratto normativo. Sulla base di tale distinzione, l'art. 19 dello
Statuto dei lavoratori deve essere interpretato nel senso che per associazioni sindacali
firmatarie di accordi di lavoro applicati nell'unità produttiva si devono ritenere le sole associazioni che abbiano stipulato contratti collettivi di qualsiasi livello ma necessariamente
di natura normativa restando esclusi quelli di natura gestionale. Conclude,
infatti, la Suprema Corte che l'accordo «gestionale», quindi, in alcuni casi è il risultato
di una sorta di delega legislativa di un potere sostanzialmente regolamentare,
cui non può applicarsi la nozione di «contratto» di cui all'art. 1322 cod. civ.; in altri termini
' afferma il Collegio ' l'accordo gestionale può anche essere un contratto, obbligando
il datore di lavoro ad esercitare i suoi poteri con le modalità concordate, ma certamente
non è il contratto collettivo di cui all'art. 39 Cost., disposizione che concerne
i soli contratti collettivi «normativi».
La Cassazione distingue tra imprevedibilità ed abnormità dell’evento al fine di escludere la responsabilità del datore di l
La prassi aziendale richiede che la condotta sia generalizzata e protratta nel tempo
Un lavoratore deducendo la sussistenza di una prassi aziendale che prevedeva un avanzamento di grado decorso un trienniorivendicava il proprio diritto alla
promozione nel livello dirigenziale superiore. La domanda veniva tuttavia respinta nel
corso dei giudizi di merito sul rilievo che la condotta aziendale si era limitata ad alcuni
casi e non aveva riguardato la generalità dei dipendenti che si trovavano nella medesima
condizione del lavoratore ricorrente. La Corte di cassazione nel richiamare i
principi in materia di uso negoziale ha quindi confermato la legittimità della sentenza
della Corte di appello di Genova affermando che correttamente il Collegio aveva escluso
la sussistenza di un uso aziendale non avendo l'azienda applicato tale regola
per la generalità dei propri dirigenti. Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha
quindi ricordato che l'uso, fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo, presuppone
non una semplice reiterazione di comportamenti ma uno specifico intento negoziale
di regolare per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo che integra
il contenuto dei singoli contratti individuali di lavoro. La generalità dell'uso aziendale
non richiede tuttavia una condotta nei confronti della totalità dei lavoratori di un'azienda,
ma richiede una pratica abitualmente seguita dal datore di lavoro all'interno
dell'impresa nei confronti di tutti i lavoratori che si trovano nella situazione disciplinata.
Quanto minore è il gruppo dei lavoratori regolati dalla prassi, tanto maggiore ' conclude
la Cassazione ' il rigore della prova dell'indifferenziata estensione del comportamento.
La Cassazione esclude un obbligo di comunicazione dell’allontanamento dal domicilio in caso di assenza per malattia
La Cassazione ribadisce la retribuibilità del tempo richiesto per indossare la divisa in azienda
Alcuni lavoratori addetti alla manipolazione di alimenti all'interno di una catena di ristorazione autostradaleadivano il Tribunale di Milano al fine di vedere
riconosciuto nell'orario di lavoro il tempo richiesto per la vestizione e svestizione della
divisa aziendale che per norma contrattuale doveva avvenire nei locali aziendali rispettivamente
prima e dopo la timbratura del cartellino. In sede di giudizio la società
deduceva che l'obbligo di indossare il copricapo derivava da una normativa sull'igiene
alimentare e comunque rientrava tra le attività prodromiche alla prestazione di lavoro.
I giudici di merito nei due gradi di giudizio accoglievano le richieste dei dipendenti riconoscendo
equitativamente un tempo di venti minuti osservando che la divisa consistente
in un gonna, maglietta polo, grembiulino e cappellino rispondeva ad una precisa
disposizione aziendale eccedente l'obbligo legale che richiedeva un tempo assai
minore. La Cassazione nel confermare la decisione dei giudici di merito ha ricordato il
proprio orientamento affermando che, ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare
la divisa aziendale debba essere retribuito, assume rilevanza se sia data facoltà
al lavoratore di scegliere il tempo ed il luogo dove indossare la divisa. Solo in tale
caso ' precisa la Corte di cassazione ' la relativa attività fa parte degli atti di diligenza
preparatoria allo svolgimento dell'attività . Diversamente ' concludono i giudici
di legittimità ' se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo
ed il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad
essa necessario deve essere retribuito.
Non è retribuibile una prestazione lavorativa in presenza di una impossibilità aziendale di ottenere un concreto beneficio
Nell'ambito di un'occupazione dei locali aziendali di una clinica che era impossibilitata a svolgere la propria attività per effetto dell'indisponibilità temporanea
dei locali, alcune lavoratrici addette a mansioni di pulizia effettuavano comunque
la propria prestazione assicurando la pulizia di alcuni locali. A fronte del rifiuto
dell'azienda di retribuire tale prestazione le lavoratrici adivano il magistrato del lavoro
di Napoli che accoglieva la richiesta delle lavoratrici con decisione confermata anche
in sede di appello. La Corte di cassazione nell'accogliere il gravame ha ritenuto che
le lavoratrici in una situazione di sospensione dell'attività derivante dall'occupazione
dei locali non avevano offerto la propria prestazione determinando una mora accipiendi
del datore di lavoro. La messa a disposizione ' afferma la Corte ' configura un
atto giuridico in senso stretto a carattere ricettizio e deve essere indirizzata al datore
di lavoro al fine di renderlo consapevole dell'offerta della prestazione. Laddove la situazione concreta impedisca al datore di lavoro di essere edotto dell'offerta della prestazione,
il lavoro eventualmente effettuato ' conclude la Cassazione ' non dà diritto
alla retribuzione, non potendo affermarsi che il datore di lavoro abbia accettato una
prestazione del cui svolgimento nulla sapeva né poteva sapere.
La saltuarietà della prestazione non esclude la subordinazione del rapporto
All'esito di una verifica ispettiva l'Inps accertava l'esistenza di subordinazionenei confronti di alcuni lavoratori addetti al carico e scarico presso un magazzino.
La società destinataria del verbale di accertamento proponeva opposizione innanzi
al Tribunale di Genova rilevando il carattere saltuario della prestazione dei lavoratori
che non avevano alcun obbligo di rimanere a disposizione ed anzi potevano rifiutare
la prestazione loro richiesta. Il giudice di primo grado rigettava l'opposizione con
decisione confermata in sede di appello che aveva ritenuto il carattere subordinato
delle prestazioni in considerazione del carattere esecutivo della mansione svolta, dell'obbligo
di presentazione presso il magazzino ove il responsabile impartiva le opportune
disposizioni e dall'utilizzo dei mezzi nella disponibilità aziendale. La Corte di cassazione
nel respingere il ricorso di legittimità della società ha confermato la decisione
del giudice di appello affermando la correttezza dell'iter argomentativo del Collegio
sul rilievo che il vincolo della subordinazione non ha tra i suoi tratti caratteristici indefettibili
la permanenza nel tempo dell'obbligo del lavoratore di tenersi a disposizione
del datore di lavoro. La Suprema Corte ha quindi ricordato il proprio costante orientamento
in forza del quale la saltuarietà delle prestazioni non consente di per sé la qualificazione
in termini di lavoro autonomo dell'attività lavorativa. In tale ottica è stata ritenuta
congruamente motivata la decisione laddove ha ritenuto, viceversa, sussistere
la subordinazione dalla messa a disposizione da parte dei lavoratori delle proprie energie
lavorative e dall'obbligo di sottostare alle disposizioni impartite dal responsabile
del magazzino e, quindi, dal loro inserimento nell'organizzazione aziendale.
Il lavoro domestico presume la subordinazione
Una lavoratrice straniera dopo aver collaborato alcuni anni all'interno di un nucleo familiare con prestazioni di assistenza domesticaadiva il locale magistrato
del lavoro al fine di vedere riconosciute le spettanze retributive dovutegli. Nel
costituirsi in giudizio il datore di lavoro rilevava il carattere affettivo della prestazione
e la gratuità della stessa. La decisione del giudice di primo grado veniva riformata in
sede di appello dalla Corte di appello di Palermo che escludeva la subordinazione in
relazione alla mancata concreta dimostrazione di un rapporto di lavoro subordinato.
La decisione è stata riformata dai giudici di legittimità sul rilievo che per quanto attiene
il lavoro domestico la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato può essere
esclusa solo dall'accertamento in concreto di una situazione tale da configurare un diverso
rapporto di lavoro tra le parti privo del carattere di onerosità . Ai fini di tale giudizio
' conclude la Cassazione ' non rileva ai fini della configurabilità di un vincolo affettivo la circostanza che il lavoratore svolga altra attività di per sé non incompatibile
con il vincolo di subordinazione, quali nel caso in specie attività sportive e scolastiche
ovvero che sussistano attribuzioni economiche non strettamente connesse con la prestazione,
quali la stipula di una polizza assicurativa sulla vita con indicazione della lavoratrice
come beneficiaria.
La scelta di sanzionare diversamente due identici comportamenti illeciti rende illegittimo il licenziamento per incoerenza
Una società di servizi di telefonia avendo riscontrato che un proprio lavoratore abusava del cellulare aziendalefornitogli per esigenze di servizio decideva,
diversamente da quanto ritenuto in passato nei confronti di altri dipendenti responsabili
di analoghi comportamenti, di irrogare un licenziamento disciplinare. Il Tribunale
di Napoli, con decisione confermata in sede di appello, ritenuto rilevante il comportamento
della società che aveva in passato sanzionato in forma meno grave la condotta
annullava il licenziamento disponendo la reintegra del dipendente nel posto di lavoro.
La Corte di cassazione nel richiamare un precedente specifico e ritenendo di adeguarsi
per il principio di fedeltà ai precedenti ha rigettato il ricorso della società . La Suprema
Corte ha quindi ritenuto che, pur non sussistendo un principio di parità di trattamento
sotto il profilo economico e normativo, il licenziamento deve rispondere a principi
di coerenza. La condotta aziendale che sanziona diversamente identiche condotte
illegittime attuate dai propri dipendenti senza una specifica ragione di diversificazione
deve ritenersi incoerente con conseguente illegittimità della sanzione risolutiva del
rapporto.
Reversibilità Inail
Le norme del d.P.R. n. 1124/1965 che disciplinano la reversibilità sono sospettate di incostituzionalità sia per l'esclusione del convivente more uxorio superstite
sia per la corresponsione del solo 20 per cento della retribuzione del deceduto al figlio naturale (in luogo del 40 per cento, come previsto per gli orfani di entrambi i genitori)
in caso di genitore superstite convivente more uxorio. Ad avviso del giudice
lombardo siamo di fronte alla lesione di un diritto fondamentale della persona, alla
violazione del principio d'uguaglianza, del principio di tutela della famiglia e dei figli e
di tutela del lavoratore e dei parenti a carico in caso di infortunio sul lavoro e malattie
professionali. È da tener presente che lo stesso giudice, per lo stesso procedimento,
ha sollevato anche una questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia Ce.
Disciplina transitoria contratti a termine
La norma prevede che «con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione»,in caso di violazione delle disposizioni
in materia di contratti a termine (artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001), «il datore di
lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di
importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione
». In sostanza: niente più trasformazione del contratto, ma solo un modesto
risarcimento, per i lavoratori che abbiano promosso un giudizio in caso di mancanza
delle ragioni giustificatrici dell'apposizione del termine. Tale disposizione, palesemente
incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza, è stata impugnata dalla
Corte d'appello di Bari con l'ordinanza sopra riportata. A parere dei giudici baresi «tale
nuova normativa appare non infondatamente sospetta di violare il principio di eguaglianza
di cui all'art. 3 Cost. Ad alimentare tale sospetto basti pensare che, ove mai altro
lavoratore nelle stesse identiche condizioni dell'odierna appellante (assunto cioè
con contratto a tempo determinato di identico tenore dal 20 gennaio 2005 al 31 marzo
2005) facesse valere le stesse ragioni di illegittimità con un giudizio introdotto ex novo
in data odierna, e comunque dopo la data di entrata in vigore dell'art. 4-bis, quel lavoratore
avrebbe diritto alla riassunzione e non già all'indennità sopra richiamata non essendo
a lui applicabile la norma transitoria. Anzi, a ben vedere, la stessa odierna appellante
se, invece di adire immediatamente il giudice del lavoro con il suo ricorso del
21 giugno 2005, avesse proposto la causa dopo l'entrata in vigore della norma transitoria
di cui qui si discute, avrebbe pieno titolo per chiedere la riassunzione in servizio.
Ne consegue che diverse persone, nella medesima situazione giuridica, si troverebbero
a godere di una tutela dei propri diritti sensibilmente diversa (sicuramente meno intensa
nel caso di coloro ai quali viene riconosciuto soltanto l'indennizzo) senza alcuna
giustificazione se non quella di aver proposto la domanda giudiziale in tempi diversi pur
nell'identità del quadro normativo generale applicabile alle rispettive fattispecie. Tutto
ciò con evidente violazione del principio di ragionevolezza. Senza dire che, per effetto
della nuova norma, paradossalmente, verrebbe penalizzato proprio colui che per primo
ha fatto ricorso al giudice, di modo che la norma appare, in un certo qual modo, irragionevolmente
punitiva nei confronti di chi ha mostrato di voler reagire prontamente ad
una violazione di legge. Sotto altro aspetto, la norma denunciata sembra in contrasto
anche con il generale principio dell'affidamento legittimamente posto dal cittadino sulla
certezza di sicurezza dell'ordinamento giuridico quale elemento essenziale dello Stato
di diritto; principio più volte valorizzato dalla giurisprudenza costituzionale. In tale
prospettiva, si deve rimarcare che la giurisprudenza più recente (cfr. ancora una volta
Cass. 21 maggio 2008, n. 12985) non dubita che alla violazione dell'art. 1 del d.lgs.
368/2001 debba conseguire la sanzione della conversione del rapporto di lavoro in rapporto
a tempo indeterminato per nullità parziale della clausola appositiva del termine,
con la conseguente instaurazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato».
Invalidi civili extracomunitari
Invalidi civili extracomunitari privi di carta di soggiorno (ora permesso Ce):è illegittimo prevedere il requisito reddituale per l'ottenimento dell'indennità di accompagnamento.
A parere della Corte costituzionale, quindi, è manifestamente irragionevole
subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale quale l'indennità
di accompagnamento ' i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro, nonché l'incapacità
alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani
della vita ' al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in
Italia che richiede per il suo rilascio la titolarità di un reddito. Tale irragionevolezza incide
sul diritto alla salute, inteso anche come diritto ai rimedi possibili e, come nel caso,
parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza. Ne consegue
il contrasto delle disposizioni censurate non soltanto con l'art. 3 Cost., ma anche
con gli artt. 32 e 38 Cost., nonché ' tenuto conto che quello alla salute è diritto fondamentale
della persona ' con l'art. 2 della Costituzione. Sotto tale profilo la normativa
censurata viola l'art. 10, primo comma, della Costituzione, dal momento che tra le
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel
garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a
determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente
soggiornanti nel territorio dello Stato.
Decadenza per la pensione privilegiata
Pensione privilegiata: il termine di cinque anni per la domanda decorre dalla manifestazione della malattia, non dalla data di cessazione dal servizio.È quindi incostituzionale l'art. 169 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, nella parte in cui non prevede che, allorché la malattia insorga dopo i cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine quinquennale di decadenza per l'inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte, ai fini dell'ammissibilità della domanda di trattamento privilegiato, decorra dalla manifestazione della malattia stessa. A sollevare il dubbio di costituzionalità era stata la Corte dei conti della Liguria in relazione al caso di una vedova di un militare deceduto per mesotelioma pleurico la cui istanza di pensione privilegiata venne respinta dal ministero della Difesa in quanto prodotta
decorso il termine quinquennale dalla cessazione del rapporto di lavoro, nonostante la Commissione medico-ospedaliera avesse riconosciuto l'infermità dipendente dal servizio ancorché successivamente al suddetto quinquennio. Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata si poneva in contrasto con l'art. 3 della Costituzione in quanto foriera di disparità di trattamento tra lavoratori colpiti da malattia a decorso normale e quelli affetti da patologie a lunga latenza. Il dubbio di costituzionalità scaturisce dalle attuali conoscenze mediche che hanno portato alla luce nuove malattie di origine lavorativa la cui manifestazione può avvenire dopo un lungo e non preventivabile periodo di latenza in assenza di alcuna specifica sintomatologia. La Corte costituzionale ha giudicato fondato il dubbio di legittimità costituzionale: il nuovo dies a quo da cui far decorrere il termine decadenziale non sostituisce quello contemplato nella norma impugnata ma si applica limitatamente ai casi di forme morbose che insorgono dopo cinque anni dalla cessazione dal servizio. Ciò vuol dire che per l'ammissibilità della domanda si deve far riferimento a due termini decadenziali, in ragione del momento il cui la malattia si è manifestata: per le patologie insorte entro cinque anni dalla cessazione dal servizio,
il termine decadenziale decorre dalla data di cessazione dal servizio; per quelle insorte dopo cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine decadenziale decorre dalla data di manifestazione della malattia stessa.