Descrizione
La Corte Costituzionale e la prescrizione dei crediti del personale navigante Le Sezioni Unite indicano i criteri di validità di una clausola collettiva che preveda ipotesi di fungibilità tra mansioni Suggestivi «arresti» della Cassazione sull'individuazione di elementi presuntivi del danno da dequalificazioneL'organizzazione di tendenza non è esente dall'applicazione dell'art. 18 quando si avvale di una struttura imprenditoriale
La sentenza è già stata presa brevemente in esame nel n. 5/2006 di q. Riv., p. 6; è opportuno però soffermarcisi ancora.Luciano F., dipendente della Società San Paolo come operaio addetto a macchine per l'allestimento di libri,
è stato licenziato per ritenuta inidoneità fisica all'esercizio delle mansioni a causa delle crisi asmatiche
dalla quali veniva colpito. Egli ha chiesto al Pretore di Roma l'annullamento del licenziamento nonché
la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno in base all'art. 18 Stat.
lav. La società si è difesa sostenendo l'impossibilità di utilizzare il lavoratore e comunque
l'inapplicabilità nei suoi confronti dell'art. 18 Stat. lav. essendo essa un'impresa di tendenza
impegnata nella divulgazione della fede e della morale cristiana. Sia il Pretore che,
in grado di appello, il Tribunale di Roma hanno ritenuto illegittimo il licenziamento, in
quanto hanno escluso l'inidoneità fisica del lavoratore sulla base di due consulenze tecniche,
secondo cui le crisi asmatiche potevano essere fortemente ridotte utilizzando mezzi
di protezione individuale. I giudici del merito hanno ritenuto inoltre applicabile l'art. 18
Stat. lav., avendo ravvisato l'esistenza di un'attività imprenditoriale e hanno pertanto affermato
il diritto del lavoratore alla reintegrazione e al risarcimento del danno. La società
ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale di Roma per vizi
di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20442 del 21 settembre 2006, Pres. Lamorgese,
Rel. Cellerino) ha rigettato il ricorso, affermando in primo luogo che il Tribunale di Roma
ha adeguatamente motivato l'esclusione della inidoneità fisica sulla base delle relazioni
dei consulenti tecnici. Essa inoltre ha affermato che il Tribunale, avendo accertato che la
società disponeva, nel settore tipografico, di un'organizzazione imprenditoriale con un
giro di affari annuo di circa un miliardo e mezzo di lire, ha correttamente affermato l'applicabilità
dell'art. 18 Stat. lav. D'altra parte ' ha osservato la Corte ' fermo restando che
caposaldo fondamentale dell'attività economica è l'organizzazione, da parte di taluno,
con rischio proprio, dei fattori della produzione tra cui primeggiano il capitale e il lavoro
destinati all'esecuzione di beni e/o servizi ex art. 2195 cod. civ., nel caso delle organizzazioni
di tendenza, dove l'assenza della finalità di lucro ha un significato evidentemente
rafforzativo dell'esclusione d'imprenditorialità , essendo quest'ultimo elemento di per
sé connaturale alla «area di non applicazione» dell'art. 18 Stat. lav., il dato dirimente per
l'ammissione al beneficio di legge consiste nel fatto che, dal punto di vista lavorativo,
l'attività , per come prestata e, a vario titolo, respinta dal datore di lavoro che intenda avvalersi
del beneficio d'esclusione, deve innestarsi e realizzare direttamente le finalità politiche,
sindacali, culturali, d'istruzione, di religione o culto, come si è verificato nei casi
scrutinati dalle sentenze Cass. nn. 12634/03, 12349/01, 8195/00; in tali casi, è stato provato
dal datore che la ricaduta dell'attività del lavoratore si compenetrava e attuava immediatamente
i fini dell'ente, senza il diaframma operativo neutrale costituito dall'intrinseca
valenza aziendalistica della prestazione. Per questo ' ha affermato la Corte ' la
giurisprudenza più avveduta riconosce l'esistenza di un'attività imprenditoriale, estranea
all'area di attuazione dell'art. 4, cit., in base al solo criterio della mera economicità
di gestione, funzionalmente diretta all'equilibrio tra costi e ricavi, senza la necessità di
includere il fine di lucro, che, come detto, giustifica l'esclusione dell'applicazione dell'art.
18 Stat. lav. nel momento in cui non si evidenzia una consistenza imprenditoriale nell'attività
esercitata.
L'Inpgi può richiedere il pagamento dei contributi previdenziali per un giornalista praticante senza provarne la subordinazione
L'Inpgi ha ottenuto dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti della Spa Edisud per il pagamento della somma di circa venti milioni di lirea titolo
di contributi e sanzioni dovuti per il periodo di praticantato giornalistico svolto da Francesco
G., dal marzo 1993 al gennaio 1994, presso il quotidiano «La Gazzetta del Mezzogiorno
». La società editrice ha proposto opposizione sostenendo che non era stata provata
l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Il Tribunale ha rigettato l'opposizione.
In seguito a impugnazione proposta dalla Edisud, la Corte d'Appello di Roma, in riforma
della sentenza di primo grado, ha accolto l'opposizione, revocando il decreto ingiuntivo.
La Corte ha motivato la sua decisione osservando che l'attività del praticante giornalista,
iscritto nell'apposito albo, si differenzia da quella del giornalista redattore professionista
perché tende, come qualsiasi tirocinio, all'acquisizione della preparazione tecnicopratica
e della qualificazione necessaria per l'esercizio della professione, senza che ciò
comporti automaticamente l'instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, che l'Inpgi
avrebbe dovuto provare per fondare la pretesa; essa ha aggiunto che, essendo l'iscrizione
nel Registro dei praticanti rimessa alla discrezionale valutazione del Consiglio dell'ordine,
il datore di lavoro può far valere davanti al giudice ordinario, a tutela di propri diritti,
l'effettiva natura dell'attività svolta dal lavoratore, o la mancanza dei presupposti per
l'iscrizione all'albo. L'Inpgi ha proposto ricorso per cassazione, rilevando da un lato,
che l'ammissione, in primo grado, della soc. Edisud circa la continuità ed esclusività
del rapporto di praticantato di Francesco G. e la sua sottoposizione al potere gerarchico,
avevano «reso superflua la prova, articolata dall'Inpgi tendente a dimostrare la
sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato», posto che l'iscrizione all'albo, «fornisce
un serio principio di prova dello svolgimento di mansioni a contenuto giornalistico,
[â?¦] concorrente a comprovare l'esercizio di un'attività subordinata di praticantato
», e, dall'altro, che l'appello della società , fondato sullo svolgimento del praticantato
in «assoluta autonomia e indipendenza», era contraddetto dall'affermazione contraria,
contenuta nel ricorso in opposizione al decreto ingiuntivo della Edisud, la quale
aveva sostenuto che l'attività di Francesco G., svolta in esclusiva presso la «Gazzetta
del Mezzogiorno», dov'era stato assunto come praticante presso la redazione centrale,
era stata coordinata e sottoposta al controllo del capo servizio Delle Foglie, tenuto
a curarne l'apprendimento professionale.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20080 del 18 settembre 2006, Pres. Mileo, Rel. Cellerino)
ha accolto il ricorso. In base all'art. 26 della legge n. 67/87 ' ha ricordato la Corte
' l'Inpgi gestisce in regime di sostitutività le forme di previdenza obbligatoria nei confronti
dei giornalisti professionisti e provvede ad analoga gestione anche per i giornalisti
praticanti di cui all'art. 33 della legge 3 febbraio 1963, n. 69; in altre parole, la struttura
del praticantato, cui l'Inpgi è tenuto a estendere ex lege la gestione delle forme di previdenza
obbligatoria già assicurata ai giornalisti professionisti, elimina, per l'inserimento
del praticante nell'organizzazione del multiforme lavoro giornalistico, la possibilità di
un'astrazione contrattuale, ancor oggi supposta dall'editore Edisud. Ciò significa ' ha osservato
la Corte ' che non è tanto l'Inpgi, estraneo al rapporto contrattuale interpersonale,
a dover provare l'esistenza della subordinazione del praticante nei confronti dell'editore,
quanto questa parte a doverne dimostrare la fittizietà o, comunque, la sottoposizione
a un diverso regime contrattuale, dovendosi rifiutare la possibilità di un rapporto
di natura autonomo o di natura non giornalistica del praticante tout court impegnato in
attività giornalistica, come riconosciuto in questa fattispecie in sede di opposizione a decreto
ingiuntivo. Ha errato, quindi, la Corte d'Appello, conformandosi alla tesi della società
editrice ' ha concluso la Cassazione ' nell'attribuire all'Inpgi l'onere della prova
della subordinazione in una situazione di praticantato, quale emerge dagli atti processuali,
sovvertendo la regola dell'allegazione e incorrendo, di conseguenza, nella violazione
del principio della disponibilità delle prove (art. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione
all'art. 2697 cod. civ.).
Può escludersi che meriti il licenziamento il lavoratore privo di precedenti disciplinari che occulti la vendita di 4 biglietti
Bruno V. ha lavorato alle dipendenze della Spa Compagnia Tirrenia di Navigazione con la qualifica di guardiano notturno alberghiero.Oltre a svolgere le mansioni
proprie di tale qualifica egli è stato impiegato come cassiere e operatore cinematografico
su una nave, alternandosi con un collega. Egli è stato sottoposto a procedimento disciplinare
e licenziato con l'addebito di non avere consegnato a quattro spettatori entrati
nel cinema i biglietti da loro pagati, occultandone la vendita. Sia il Tribunale che la Corte
di Appello di Napoli hanno ritenuto illegittimo il licenziamento, osservando che la responsabilità
del lavoratore non era rimasta pienamente provata, sussistendo il dubbio che l'irregolarità
fosse stata commessa dal suo collega e che comunque il danno arrecato alla datrice
di lavoro, corrispondente al prezzo di quattro biglietti, non era tanto grave da giustificare
il licenziamento, neppure sotto il profilo della lesione del vincolo fiduciario necessariamente
sottostante al rapporto di lavoro, considerando che le mansioni di cassiere erano
accessorie a quelle di guardiano notturno e che in trent'anni di lavoro Bruno V. non
aveva subito sanzioni disciplinari. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando
la decisione della Corte di Appello per non avere ritenuto pienamente provata la responsabilità
del lavoratore e comunque per avere escluso che il comportamento di quest'ultimo
fosse stato di gravità tale da meritare la sanzione del licenziamento a termini dell'art.
2119 cod. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 19491 del 12 settembre 2006, Pres. Ciciretti, Rel. Roselli)
ha rigettato il ricorso, prendendo in esame, per primo, il motivo attinente alla valutazione
di gravità del fatto e giudicandolo privo di fondamento. Non è dubbio che il comportamento
illecito ascritto al prestatore di lavoro, considerandolo come pienamente provato
nei suoi elementi oggettivi e soggettivi ' ha osservato la Corte ' sia degno di sanzione
disciplinare; tuttavia la questione sottoposta ai giudici di merito era se, nella graduata
pluralità di sanzioni possibili, dovesse nella specie ritenersi proporzionata, e quindi legittima,
quella più grave ossia la sanzione espulsiva, la quale è idonea a privare il lavoratore
e la sua famiglia dei mezzi necessari a un'esistenza libera e dignitosa (cfr. art. 36, primo
comma, Cost.). Alla questione ' ha rilevato la Corte ' ha dato risposta negativa la Corte
di Appello, la quale non ha negato l'attitudine di un danno patrimoniale tenue a interrompere
il suddetto vincolo fiduciario, ma ha escluso che quest'attitudine possa essersi
in concreto realizzata, considerando che le mansioni di cassiere, pur stabili, erano accessorie
mentre principali erano quelle di guardiano notturno e che in trent'anni di lavoro
Bruno V. non aveva ricevuto sanzioni disciplinari. Questa decisione ' ha affermato la Suprema
Corte ' non è infirmata da alcuno dei denunciati errori di diritto, giacché il datore
di lavoro, colpito nei suoi interessi materiali o morali da un comportamento illecito del
prestatore, deve valutare la possibilità di una reazione sanzionatoria effettivamente proporzionata
ossia non corrispondente necessariamente al licenziamento. Gli altri motivi sono
stati ritenuti assorbiti.
Promozione automatica dell'aiuto a primario per lo svolgimento delle mansioni di qualifica superiore
Crescenzo M., medico alle dipendenze dell'ospedale pediatrico Bambino Gesù, con qualifica di «aiuto»,ha svolto nel 1993 per circa un anno, senza formale incarico,
le mansioni di primario della divisione Ematologia, il cui titolare era stato collocato
in pensione. Egli ha chiesto al pretore di Roma il riconoscimento della qualifica di
primario, in base all'art. 2103 cod. civ., per avere svolto le relative mansioni per oltre
tre mesi. l'ospedale si è difeso sostenendo, tra l'altro, che dopo la collocazione in pensione
del precedente primario, la responsabilità della divisione Ematologia era stata
attribuita a interim al prof. D., titolare della divisione Oncologia, fino all'espletamento
del concorso per la copertura del posto resosi vacante. Il Pretore ha accolto la domanda,
in quanto ha accertato che, nonostante l'interim formalmente assegnato al titolare
di altra divisione, Crescenzo M. aveva di fatto svolto le mansioni di primario della divisione Ematologia.
Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale
di Roma, che ha ritenuto decisiva la circostanza della formale attribuzione ad altro
primario della responsabilità a interim della divisione Ematologia, indipendentemente
dalla effettiva presenza o meno di quest'ultimo in tale divisione; il Tribunale ha
altresà ritenuto che la sostituzione del primario rientrasse nelle mansioni dell'aiuto.
Crescenzo M. ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione del Tribunale
di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21021 del 28 settembre 2006, Pres. Ciciretti, Rel.
Cuoco) ha accolto il ricorso, affermando che la promozione automatica per svolgimento
di mansioni superiori è esclusa, in base all'art. 2103 cod. civ., soltanto in caso di sostituzione
di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto (per malattia,
servizio militare, ecc.); tale esclusione non opera nel caso in cui il posto di livello superiore
sia rimasto scoperto per mancanza del titolare dell'incarico. La formale assegnazione
dell'interim per il posto rimasto scoperto ad altra persona che eserciti stabilmente
altre funzioni ' ha affermato la Corte ' non impedisce la promozione automatica
di chi di fatto svolge le mansioni superiori in luogo dell'incaricato interinale; inoltre
il principio che, quando tra le mansioni tipiche della qualifica di appartenenza
del lavoratore siano compresi compiti di sostituzione del dipendente di grado più elevato,
la sostituzione di questo superiore non attribuisce al primo alcun diritto ex art.
2103 cod. civ., vale sempreché si tratti di sostituzione occasionale, in relazione a impedimenti
temporanei, non nel caso in cui la funzione vicaria sia travalicata in ragione
del carattere permanente della sostituzione e della persistenza solo formale della titolarità
in capo al superiore delle mansioni proprie della relativa qualifica, per effetto
d'una stabile scelta organizzativa del datore. Questi principi ' ha affermato la Corte '
non sono stati applicati dal Tribunale di Roma allorché ha dato rilievo determinante alla
formale nomina del primario a interim, ritenendo irrilevante la sua effettiva presenza
nella Divisione, e affermando nel contempo che l'attività di sostituzione (svolta dall'aiuto)
rientrava nelle funzioni vicarie indipendentemente dalla relativa intensità e
prevalenza. La Suprema Corte ha rinviato la causa, per nuovo esame alla Corte di Appello
di Roma.
Per un dirigente esautorato e mantenuto in totale inattività il danno da demansionamento può accertarsi presuntivamente
Pietro S., già dipendente della Spa Centro Sviluppo Materiali, ha chiesto, tra l'altro, al Pretore di Genova, nel maggio del 1995, di condannare l'ex datrice di lavoroal risarcimento del danno da demansionamento, sostenendo di essere stato mantenuto,
nell'ultima fase del rapporto, in condizioni di forzata inoperosità , in violazione dell'art.
2103 cod. civ. Questa domanda è stata rigettata dal Pretore e invece accolta, in grado
di appello, dal Tribunale di Genova che ha condannato l'azienda al risarcimento del
danno da demansionamento in misura pari alle retribuzioni relative al periodo dal 1 gennaio
al 15 settembre 1994. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che
il Tribunale aveva erroneamente ravvisato, nel demansionamento, un danno «in sé» mentre,
avrebbe dovuto accertare se effettivamente tale danno si fosse verificato, ponendo a
carico del lavoratore il relativo onere probatorio. Queste censure sono state ritenute fondate
dalla Suprema Corte che, con sentenza n. 9628 del luglio 2000, ha cassato sul punto
la decisione del Tribunale di Genova e ha rinviato la causa, per nuovo esame, al Tribunale
di Savona, enunciando, per il giudice del rinvio, il principio che «il danno da demansionamento
non si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo
del datore di lavoro, ma deve essere oggetto di allegazione e prova secondo i principi
generali di cui all'art. 2697 cod. civ.» (principio recentemente ribadito dalle Sezioni Unite
con la sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006). Il Tribunale di Savona, in grado di rinvio, con
sentenza del febbraio 2003, ha accertato ricorrendo a presunzioni, il danno da demansionamento
subito dal dirigente e ha condannato l'ex datrice di lavoro al risarcimento del relativo
danno. In proposito il Tribunale ha cosà motivato la sua decisione: «In applicazione
del principio di diritto sancito dalla Corte, secondo cui il danno da demansionamento non
si pone come conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro
ma deve essere oggetto di allegazione e di prova secondo i principi generali di cui all'art.
2697 cod. civ., ritiene il Collegio che tale prova sia stata effettivamente raggiunta,
quantomeno in via presuntiva, sulla base del complesso univoco e convergente delle risultanze
acquisite in merito alla natura, alla portata e alla durata della dequalificazione
subita nonché alle specifiche caratteristiche soggettive del lavoratore (Cass. 15868/2002,
Cass. 13580/2002). È un dato infatti ormai incontrovertibile che Pietro S., all'epoca quarantatreenne
titolare di una posizione dirigenziale di vertice all'interno della società quale
responsabile dell'Ente attuazione progetti speciali e già responsabile sino a pochi mesi
prima anche dell'Ente sistemi di funzionamento che operava alle dirette dipendenze
dell'amministratore delegato, professionalmente stimato e apprezzato da tutti (cfr. teste
P.P., amministratore della C.S.M. dal 1989 all'aprile 1993), a partire dall'inizio del 1994
venne di fatto esautorato dall'incarico e posto in una condizione di totale inattività prima
di essere licenziato in data 15 settembre 1994. Il carattere totale («rimase senza far nulla
») e repentino della privazione di qualsiasi mansione nei confronti di un dirigente in posizione
di vertice e nel pieno della carriera professionale ' privazione protrattasi per oltre
otto mesi e tale da paralizzare totalmente l'esercizio dei poteri e delle competenze sino a
quel momento impiegati nello svolgimento dell'attività lavorativa, in patente violazione
dei doveri di tutela della professionalità di cui all'art. 2103 cod. civ. ' non può non avere
cagionato al lavoratore, secondo l'id quod plerumque accidit, un'apprezzabile lesione al
prestigio professionale di grado elevato inerente la posizione dirigenziale rivestita all'interno
dell'ambiente di lavoro e alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza umana di
manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (Cass. 10/2002, 1443/2002) esigenza
assolutamente frustrata nel caso di specie. Sulla scorta degli elementi evidenziati deve
dunque ritenersi accertata la sussistenza di un danno da demansionamento nella componente
lesiva di un danno alla professionalità , quale bene immateriale inerente all'esplicazione
dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, dovendo invece essere esclusa
la ricorrenza di distinte componenti di carattere immediatamente patrimoniale, quali la
perdita di concrete chances di progressione lavorativa e di concorrenzialità sul mercato
del lavoro, che, al pari delle ulteriori lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore, avrebbero
dovuto essere specificamente provate dal lavoratore». L'azienda ha proposto ricorso
per cassazione sostenendo che il Tribunale di Savona si era discostato dal principio
stabilito dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9628 del 2000, avendo raggiunto la prova
del danno in base a considerazioni di carattere generale.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20616 del 22 settembre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Celentano)
ha rigettato il ricorso, rilevando che il Tribunale di Savona ha applicato correttamente
i principi stabiliti da Cass. n. 9628/2000. I giudici di rinvio ' ha osservato la Corte '
hanno affermato che la condizione di inattività lavorativa, nella quale era stato posto Pietro
S., non poteva non avere cagionato al lavoratore, secondo l'id quod plerumque accidit,
un'apprezzabile lesione al prestigio professionale inerente la posizione dirigenziale rivestita
e alla dignità del lavoratore, intesa come esigenza di manifestare la propria utilità nel
contesto lavorativo; hanno quindi ricavato la sussistenza del danno al prestigio professionale
e alla dignità del lavoratore da una ritenuta regolarità causale fra demansionamento,
nella specie particolarmente rilevante, e conseguenze dello stesso in ambito lavorativo per
quanto concerne, appunto, prestigio professionale e dignità . Questa motivazione ' ha affermato
la Corte ' è corretta e tiene conto dei principi di diritto affermati nella sentenza rescindente;
né sussiste contraddizione fra l'affermazione di un danno da demansionamento,
nella componente lesiva di danno alla professionalità , quale bene immateriale inerente
all'esplicazione dei diritti della personalità sul luogo di lavoro, e l'esclusione di altri danni,
come la perdita di chances di progressione lavorativa o di concorrenzialità sul mercato del
lavoro, o altre e diverse lesioni alla integrità psicofisica del lavoratore.
Il responsabile di atti di bossing può essere condannato alla reclusione per violenza privata
Il Tribunale penale di Taranto, con sentenza del febbraio 2001, ha ritenuto colpevoli del reato di violenza privata, tentata e consumata,condannandoli alla
pena della reclusione, alcuni dirigenti e impiegati direttivi della società Ilva, per avere
richiesto a diversi dipendenti di accettare una novazione del loro rapporto di lavoro,
con declassamento da impiegati a operai, minacciandoli che, in caso di mancata
accettazione, essi sarebbero stati trasferiti nel reparto «palazzina Laf» e ivi mantenuti
del tutto inoperosi in un ambiente indecoroso (il che si era poi verificato per alcuni lavoratori
in seguito alla loro mancata adesione alla proposta novazione). Secondo l'art.
610 cod. pen. si rende responsabile del reato di violenza privata chiunque, con violenza
o minaccia, costringa altri a fare, tollerare o omettere qualche cosa. Sia il Tribunale
che la Corte di Appello hanno ritenuto che ai lavoratori sia stato minacciato un male ingiusto
da ravvisarsi nella «sottoposizione a un regime lavorativo umiliante e peggiorativo
rispetto alle loro legittime aspirazioni, regime consistente nella mancata assegnazione
di qualunque tipo di incarico e attività operativa, sà da dovere trascorrere, peraltro
in un ambiente non decoroso e trascurato, le ore prescritte in una situazione di
assoluta inerzia, lesiva della dignità dei lavoratori, con ciò determinando, da un lato, il
prevedibile e inevitabile peggioramento delle loro capacità professionali e, dall'altro,
l'avvilimento del loro legittimo diritto a espletare un'attività lavorativa decorosa». Gli
imputati hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro che la Corte
d'Appello li aveva ritenuti responsabili di mobbing, comportamento non previsto dalla
legge come reato.
La Suprema Corte (sezione VI penale n. 31413 del 21 settembre 2006, Pres. Legnasi,
Rel. Rotundo) ha rigettato il ricorso, affermando che gli atti di mobbing possono configurare
reati. Sul punto la decisione è stata già motivata: «In primo luogo, la Corte di
merito si è limitata a rilevare che la singolare vicenda oggetto del processo «si innestava
nell'ambito» del fenomeno sociale generalmente noto come mobbing (più specificamente:
bossing), fenomeno non ancora previsto in modo specifico né nella nostra
legislazione né nella contrattazione collettiva, ma, tuttavia, già esaminato dalla giurisprudenza
di merito e legittimità e consistente in «atti e comportamenti (violenza, persecuzione
psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore
al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con carattere sistematico
e duraturo». Proprio questa giurisprudenza ' ha sottolineato la Corte di Appello
' implicava chiaramente «la possibilità del travalicamento dei confini meramente civilistici
o giuslavoristici della condotta di mobbing con la integrazione di ipotesi di reato
». In realtà la giurisprudenza ha già acquisito che può esservi condotta molesta e
vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che,
simmetricamente, non ogni demansionamento cosà come non ogni altro atto illegittimo
dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell'atto
emerga come l'espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno
vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte,
alcune o tutte di per sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente
e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del
lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e
distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato».
Un emolumento denominato Compenso forfetario per straordinario può ritenersi componente irriducibile della normale retribuzione
Aldo V. e altri dipendenti della società Metro Italia con qualifica di capo reparto hanno percepito per circa venti anni,in aggiunta alla retribuzione prevista dal contratto
collettivo, un emolumento denominato «compenso forfetario per eventuale straordinario»
che era incluso anche nelle mensilità aggiuntive. Nel maggio 2000 l'azienda ha
deciso di cessare l'erogazione di questo compenso. Due anni dopo i lavoratori hanno chiesto
al Tribunale di Torino di dichiarare l'illegittimità di questa decisione e di condannare
l'azienda a ripristinare il compenso soppresso, nonché a pagare le somme non corrisposte
dal maggio 2000. L'azienda si è difesa sostenendo che il compenso forfetario, per la
sua finalità , poteva essere soppresso e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna dei
lavoratori a restituire quanto da loro percepito per l'incidenza dell'emolumento sulle mensilità
aggiuntive. Il Tribunale ha accolto la domanda proposta dai lavoratori in quanto ha
ritenuto che il compenso forfetario, corrisposto in misura diversa a ciascun lavoratore, costituisse
in realtà un superminimo, come tale intangibile. La Corte di Appello di Torino ha
confermato questa decisione, rilevando, tra l'altro, che in base al contratto collettivo i lavoratori,
per la loro qualifica di capo reparto, non avevano diritto a compensi per lavoro
straordinario e che il comportamento tenuto dell'azienda per oltre venti anni confermava
l'inclusione del «forfait» nella retribuzione ordinaria, come tale irriducibile. L'azienda ha
proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di
motivazione e violazione di legge; in particolare essa ha rilevato che nella lettera istitutiva
del compenso si faceva espresso riferimento al lavoro straordinario e che essa avrebbe
dovuto essere interpretata in base al criterio testuale.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22050 del 13 ottobre 2006, Pres. Lamorgese, Rel.
Monaci) ha rigettato il ricorso. Il criterio utilizzato dal giudice del merito, di fare riferimento
nell'interpretazione del contratto al comportamento complessivo delle parti, anche posteriore
all'istituzione del compenso forfetario ' ha affermato la Corte ' non è certo arbitrario
o improprio, ma è del tutto lecito perché previsto espressamente dall'art. 1362 cod.
civ., che precisa, al secondo comma, che «per determinare la comune intenzione delle
parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione
del contratto». Non va dimenticato, d'altra parte ' ha aggiunto la Corte ' che quelli
che intercorrevano (o che intercorrono tuttora) tra le parti erano contratti di lavoro a tempo
indeterminato, destinati per loro natura a proseguire nel tempo, e che, anzi, in concreto
avevano già avuto una lunga durata, spesso più che ventennale; proprio la lunga durata
di questi rapporti costituiva una ragione aggiuntiva per privilegiare in sede interpretativa
il comportamento concreto delle parti rispetto a un testo ormai risalente nel tempo.
Quando un rapporto negoziale a tempo indeterminato (non soltanto di lavoro, ma anche
di altro genere) si prolunga, come in questi casi, per un lasso di tempo rilevante ' ha affermato
la Corte ' il suo contenuto non è più costituito soltanto dalle pattuizioni originarie,
ma anche da quelle successive, nonché, più ampiamente, da tutte le modificazioni avvenute,
anche in via orale, anche per fatti concludenti, durante il corso del rapporto stesso;
in questa prospettiva può avvenire che un'attribuzione patrimoniale, che nell'equilibrio
originario delle posizioni delle parti assolveva a una determinata funzione, assuma
col tempo, e con il modificarsi delle circostanze, una funzione diversa, in sostanza che muti,
in tutto o in parte, la ragione dell'attribuzione.
La dequalificazione è legittima se attuata anche per iniziativa dell’azienda al fine di evitare il licenziamento del lavorato
La definizione della qualifica di quadro non prevede il requisito della capacità di impegnare l’azienda nei rapporti con i te
Autonomia professionale-flessibilità oraria-inesistenza di sanzioni disciplinari non escludono il rapporto di lavoro subordinat
Si approfondisce qui la sentenza già presa in considerazione alla p. XX di questo numero della rivista.P. B. ha lavorato per la società in accomandita semplice Ispec Puglia
dell'ing. A.S. & C. dall'ottobre 1991 al marzo 2001 come addetto allo svolgimento di
prove geologiche e geotermiche in laboratorio, senza essere inquadrato come dipendente.
Quando l'azienda ha cessato di impiegarlo, egli ha chiesto al Tribunale di Bari di accertare
l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità del licenziamento.
Egli ha fatto presente di avere lavorato ininterrottamente per oltre dieci anni, di aver osservato
un orario predeterminato, di essere stato sempre retribuito mensilmente in misura
fissa, di avere ricevuto disposizioni dal datore di lavoro, di non avere mai gestito con
autonoma organizzazione alcuna attività per conto dell'Ispec e di essere stato privo di
qualsiasi struttura imprenditoriale, anche minima; ha precisato inoltre che doveva avvisare
il datore di lavoro quando non era in grado di presentarsi in azienda e che era inserito
nell'organizzazione aziendale tanto da essere presentato, nei rapporti con enti pubblici,
come dipendente. Il Tribunale ha accolto la domanda, ma la sua decisione è stata riformata
dalla Corte d'Appello di Bari, che ha escluso l'esistenza della subordinazione. La Corte
ha motivato la sua decisione rilevando che P. B. svolgeva il suo lavoro in piena autonomia,
non aveva un orario fisso, si recava in azienda in media 3-4 volte alla settimana,
non aveva una scrivania propria in ufficio. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione,
censurando la decisione della Corte di Bari per vizi di motivazione e violazione dell'art.
2094 cod. civ.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21646 del 9 ottobre 2006, Pres. Ianniruberto, Rel. Monaci)
ha accolto il ricorso. Nessuno degli elementi sui cui la Corte di Bari ha fondato la sua
decisione ' ha osservato la Suprema Corte ' né il loro complesso, appare decisivo: innanzi
tutto, il fatto che il ricorrente svolgesse autonomamente la propria prestazione non è significativo
perché può spiegarsi agevolmente con il contenuto tecnico professionale della
prestazione stessa, che per questo non poteva che essere autonoma per gli aspetti tecnico
professionali; né può considerarsi significativa la flessibilità dell'orario di lavoro, perché
un rapporto può essere part-time, e lo svolgimento effettivo della prestazione va correlata
al contenuto di essa; altrettanto vale per la continuità della presenza fisica in azienda, che
è strettamente connessa con la flessibilità dell'orario, e costituisce sostanzialmente un aspetto
di essa. Anche il fatto che l'orario di lavoro svolto dal signor P. B. potesse essere flessibile
e non continuativo ' ha osservato la Cassazione ' può essere spiegato agevolmente
con il contenuto tecnico e professionale della sua prestazione; appare del tutto irrilevante,
infine, il fatto che il ricorrente avesse a disposizione, o meno, una propria autonoma scrivania
presso gli uffici della ditta; non sussiste nessun rapporto logico tra una circostanza
di questo genere, e il carattere autonomo o subordinato della prestazione di un collaboratore.
Infine ' ha affermato la Cassazione ' la circostanza, valorizzata dal giudice del merito,
sulla mancanza di provvedimenti disciplinari non appare significativa; i provvedimenti
disciplinari vengono adottati soltanto quando vi siano mancanze da censurare; un dipendente
può non averne ricevuti semplicemente perché non ha commesso illeciti disciplinari
da sanzionare; anzi questo è quanto si verifica nella normalità dei casi. Sussistono invece,
in particolare ' ha osservato la Corte ' (almeno) tre circostanze essenziali che necessitano
di un esame e di una valutazione più approfonditi; la prima di esse è costituita dall'inserimento,
o meno, del signor P. B. all'interno della struttura organizzativa dell'impresa; è necessario
verificare se la sua prestazione fosse, o meno, essenziale per lo svolgimento dell'attività
aziendale, se, cioè, questa ultima si sarebbe potuta svolgere ugualmente anche
senza di essa. La seconda circostanza di fatto da accertare ' ha aggiunto la Corte ' è se il
signor P. B. fosse in possesso, o meno, di una propria autonoma struttura organizzativa,
oppure invece effettuasse la propria prestazione all'interno dell'azienda (e non in locali
propri, o, comunque altrove); è necessario accertare, infine, se la prestazione del signor P.
B. assicurasse, o meno, un risultato importante per l'azienda. La Cassazione ha rinviato la
causa, per nuovo esame, alla Corte di Appello di Lecce.
L’esecuzione del contratto di formazione e lavoro è sospesa in caso di aspettativa per l’esercizio della funzione di sindac
La lunga durata del demansionamento può essere ritenuta sufficiente a provare l’esistenza di un danno professionale
Per ottenere il risarcimento del danno da licenziamento bisogna dimostrare che esso sia stato accompagnato da un fatto ingiusto
Anna Maria G. ha chiesto al Pretore di Catania di condannare Bartolomeo D., suo ex datore di lavoro, al risarcimento del danno per licenziamento ingiustificato,in misura di sei mensilità della retribuzione. Il Pretore, essendo risultato che la lavoratrice
non aveva impugnato il licenziamento nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione,
previsto dall'art. 6 della legge n. 604/66, ha rigettato la domanda. La lavoratrice
ha proposto appello sostenendo che il termine stabilito dalla legge n. 604 del 1966
non era applicabile poiché ella aveva proposto una normale azione risarcitoria da fatto
illecito e non aveva chiesto la specifica tutela prevista dalla normativa sui licenziamenti.
La Corte di Appello di Roma ha rigettato l'impugnazione, affermando che ove si verifichi
decadenza per mancato rispetto del termine previsto dall'art. 6 legge n. 604/66, non è
possibile impugnare il licenziamento e quindi ottenere l'accertamento della sua illegittimità ,
che costituisce il presupposto per il risarcimento del danno. La lavoratrice ha proposto
ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 21833 del 12 ottobre 2006, Pres. Mattone, Rel. Di
Nubila) ha rigettato il ricorso. L'attrice ' ha osservato la Corte ' non ha esperito la normale
azione risarcitoria in base ai principi generali, ma un'azione la quale, previo accertamento
dell'illegittimità del recesso, doveva mettere capo, in difetto dei presupposti
per la tutela reale, al risarcimento del danno nella misura di sei mensilità della
retribuzione. L'accoglimento della domanda ' ha affermato la Corte ' presuppone l'accertamento
della mancanza di giusta causa o di giustificato motivo del recesso; ma tale
accertamento è precluso dalla decadenza dell'impugnazione. L'art. 8 della Legge n.
604/1966 prevede il risarcimento del danno da licenziamento ingiustificato nella misura
massima di sei mensilità di retribuzione; l'art. 6 della stessa legge prevede che il
licenziamento debba essere impugnato entro sessanta giorni dalla sua comunicazione,
a pena di decadenza; dal combinato disposto delle due norme ' ha osservato la
Corte ' si ricava che, ove si verifichi decadenza, non è possibile impugnare il licenziamento,
e quindi ottenere l'accertamento della sua illegittimità , il quale costituisce a
sua volta il presupposto per il risarcimento del danno. La normale azione risarcitoria
da fatto illecito, secondo i principi generali ' ha affermato la Corte ' richiede anzitutto
l'indicazione e l'allegazione del fatto ingiusto il quale si sia accompagnato al licenziamento:
a titolo di esempio, può citarsi il licenziamento ingiurioso, il licenziamento come
atto finale di un mobbing, il licenziamento pubblicizzato al di fuori dell'azienda con
la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore. In altri termini ' ha concluso
la Corte ' perché possa riconoscersi il diritto al risarcimento del danno da fatto
illecito, in base alla normativa generale, al licenziamento intrinsecamente ingiustificato
deve accompagnarsi un fatto ingiusto secondo i principi generali.
Il generico riferimento a criteri di scelta non basta al rispetto degli obblighi di informazione per il licenziamento collettivo
Domenico D., dipendente della Spa Nuovo Pignone come impiegato di settimo livello, è stato collocato in mobilità nell'ottobre 1998,nell'ambito di una procedura
di riduzione di personale e con riferimento a un accordo sindacale del luglio 1998. Egli
ha chiesto al Tribunale di Bari di dichiarare illegittimo il licenziamento sostenendo, tra l'altro,
che l'azienda non aveva rispettato l'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991, secondo
cui, al termine della procedura, l'azienda deve dare comunicazione delle specifiche
modalità di attuazione dei criteri di scelta, concordati con le organizzazioni sindacali, per
l'individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità . Il Tribunale ha accolto la domanda,
condannando l'azienda a reintegrare Domenico D. e a risarcirgli il danno in base all'art. 18
Stat. lav. La Corte di Appello di Bari ha confermato questa decisione osservando, tra l'altro:
a) che l'accordo sindacale del luglio 1998 prevedeva l'individuazione dei dipendenti
da licenziare in base alle esigenze tecnico produttive indicate nel piano industriale dell'azienda,
distinguendoli in due categorie (lavoratori che operavano in posizioni di lavoro
che il programma di ristrutturazione prevede di sopprimere; lavoratori la cui professionalità
risulti non funzionale alla nuova struttura organizzativa); b) che la comunicazione fatta
dall'azienda con riferimento all'art. 4, comma 9, della legge n. 223 del 1991 era del seguente
tenore: «l'individuazione dei lavoratori collocati in mobilità è avvenuta nel rispetto
dei criteri di scelta ' esigenze tecnico produttive ' previsti dall'accordo sottoscritto in
data 23 luglio 1998»; c) che tale comunicazione non adempiva all'obbligo di esternare
«puntualmente» il percorso logico seguito, in ragione delle proprie esigenze tecnico-produttive,
nel dare applicazione ai criteri di scelta definiti con le Organizzazioni sindacali,
dando conto in sostanza dei motivi per i quali erano stati posti in mobilità alcuni e non altri
lavoratori tra quelli interessati al piano industriale di ristrutturazione. L'azienda ha proposto
ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte di Bari per vizi di motivazione
e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22706 del 23 ottobre 2006, Pres. Sciarelli, Rel. Nobile)
ha rigettato il ricorso, richiamando il suo costante orientamento giurisprudenziale secondo
cui nella materia dei licenziamenti regolati dalla legge 23 luglio 1991 n. 223, la comunicazione
di cui all'art. 4 comma 9, che fa obbligo di indicare «puntualmente» le modalità
con le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata
a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi
di controllare la correttezza dell'operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti;
a tal fine non è sufficiente la trasmissione dell'elenco dei lavoratori licenziati e la
comunicazione dei criteri di scelta concordati con le organizzazioni sindacali, né la predisposizione
di un meccanismo di applicazione in via successiva dei vari criteri, poiché vi è
necessità di controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti siano stati inseriti
nella categoria da scrutinare e, in secondo luogo, nel caso in cui i dipendenti siano
in numero superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri
di valutazione comparativa per la individuazione dei dipendenti da licenziare.
Peraltro ' ha rilevato la Corte, ricordando la sua sentenza n. 15377 del 2004 ' la prescritta
puntuale indicazione comporta che anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore
di lavoro deve provvedere a specificare nella comunicazione le sue modalità applicative,
in modo che la stessa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado
il lavoratore di percepire perché lui ' e non altri dipendenti ' sia stato destinatario del
collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente
contestare l'illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato
criterio di selezione, altri lavoratori ' e non lui ' avrebbero dovuto essere collocati in
mobilità o licenziati.
In sostanza ' ha aggiunto la Corte, richiamando la sua sentenza n. 11886 del 2006 ' per
valutare compiutamente la presenza dei caratteri di certezza e trasparenza, cui deve rispondere
la comunicazione prevista dall'art. 4 della legge n. 223 del 1991 ' ai fini di garantire
al singolo lavoratore la conoscibilità e la razionalità delle scelte operate dal datore
di lavoro ' bisogna tener conto anche dell'ambito applicativo dei criteri di scelta di riduzione
del personale, e più precisamente delle modalità attraverso le quali deve attuarsi
la riorganizzazione aziendale e la specifica area della struttura imprenditoriale interessata
' sulla base degli accordi sindacali ' da detta ristrutturazione nonché delle categorie
dei dipendenti che ' sempre a seguito di preventivi accordi tra le parti sociali ' risultino
destinatarie della messa in mobilità o della riduzione di personale. La motivazione della
Corte di Appello di Bari ' ha affermato la Cassazione ' incentrata sulla evidente mancanza
nella comunicazione de qua proprio dell'ambito applicativo, ovvero delle modalità di
attuazione dei criteri di scelta concordati, appare senz'altro aderente ai principi sopra richiamati,
oltre che congrua e logicamente corretta.
Il direttore di un giornale deve evitare la commistione tra informazione e pubblicità – In base alla legge e al ccnl
Leva militare professionale
Il decreto modifica e integra il d.lgs n. 215/2001, inerente la trasformazione progressiva dello strumento militare in professionale,come disposto dall'art. 22 della
legge n. 204/2004. Si dispone cosà che il Ministero della difesa sovrintende alle operazioni
di riattivazione della leva obbligatoria nei casi di cui all'art. 2, comma 1, lettera f) della
legge n. 331/2000, e cioè nel caso in cui il personale in servizio sia insufficiente e non
sia possibile colmare le vacanze di organico mediante il richiamo in servizio di personale
militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni, qualora sia deliberato lo
stato di guerra ai sensi dell'articolo 78 della Costituzione o una grave crisi internazionale
nella quale l'Italia sia coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza a una organizzazione
internazionale giustifichi un aumento della consistenza numerica delle Forze
armate. Si disciplina altresà che su istanza degli interessati, per gli appartenente alla
classe 1985 precedenti, i comandi di regione militare territorialmente competenti definiscono
le posizioni rimaste in sospeso, concernenti l'accertamento dell'idoneità al servizio
militare incondizionato e provvedono alla compilazione e consegna dei fogli di congedo
per fine ferma e dei fogli matricolari agli arruolati con visita e senza visita.
(Gazzetta ufficiale n. 258 del 6 novembre 2006)
Consegna al lavoratore di comunicazioni personali in busta aperta
Un assistente di volo in servizio presso l'Alitalia, ha lamentato aver rinvenuto nel «casellario» degli assistenti di volo,nel comparto a lui destinato, una busta aperta
nella quale era contenuta una lettera con la quale la società , stante la sua «ripetuta
e frequente indisponibilità » dimostrata nei ventiquattro mesi precedenti, gli aveva revocato
l'autorizzazione a usufruire «della concessione di titoli di viaggio aziendali», nonché
a interrogare il «sistema Ips» con riferimento alla propria persona. In tal modo, secondo il
ricorrente, l'azienda avrebbe illegittimamente consentito che le valutazioni della propria
prestazione lavorativa, nonché le informazioni idonee a rivelare il proprio stato di salute,
fossero conoscibili non solo dall'incaricato della consegna della corrispondenza, ma anche
da una pluralità di soggetti non autorizzati. Il Garante ha ritenuto che, contrariamente
a quanto sostenuto dal ricorrente, tutti i suoi dati personali trattati nella vicenda sono
dati personali comuni, non potendo il riferimento all'«indisponibilità » contenuto nella lettera
in questione essere considerato di per se stesso alla stregua di un dato sensibile attinente
allo stato di salute; inoltre, che il trattamento dei dati in questione risulta effettuato
dalla azienda resistente in modo lecito attraverso le competenti strutture aziendali
per finalità relative al rapporto di lavoro in essere tra le parti. Tuttavia il Garante ha rilevato
che la consegna della corrispondenza al dipendente in busta aperta non risulta idonea
ai fini della riservatezza dei dati delle persone interessate, che, pur se non sensibili,
richiedono comunque idonee cautele protettive, specie quando attengono a valutazioni di
prestazioni professionali, stati di servizio, notizie sull'attività lavorativa. Il Garante ha
quindi accolto il ricorso limitatamente all'opposizione al trattamento, ordinando all'azienda
di adottare ogni ulteriore misura idonea a mantenere riservati i dati del ricorrente inseriti
nel «casellario» naviganti (es. consegna in busta chiusa, comunicazioni spillate in
modo da non consentire la visione, anche accidentale, da parte del personale che le consegna
e di terzi non autorizzati, invio per posta elettronica).
Privacy, indagini e contestazioni disciplinari
Un dipendente di una banca, licenziato per giusta causa, è ricorso al Garantelamentando
che l'indagine interna condotta sul proprio operato a partire dal dicembre 1996
da parte degli ispettori della banca datrice sarebbe stata dettata da motivi di «ritorsione»
in quanto, quattro giorni prima dell'inizio di tale indagine, egli aveva portato all'attenzione
del proprio superiore alcune operazioni ritenute «sospette» effettuate da un gruppo di aziende
clienti, affinché venissero segnalate formalmente alle autorità competenti ai sensi
della legge n. 197/1991 (c.d. normativa antiriciclaggio) segnalazione cui non sarebbe stato
dato corso. Il ricorrente ha quindi contestato la liceità e la correttezza del trattamento di dati
relativi al ricorrente (da parte della banca presso cui lo stesso prestava servizio) contenuti
nella lettera di contestazione disciplinare prodromica al licenziamento per giusta causa,
nonché al loro utilizzo nell'ambito delle controversie giuslavoristiche e penali attinenti
alla vicenda oggetto di ricorso. Il Garante ha ritenuto il ricorso infondato. Per quanto riguarda
il trattamento di dati acquisiti in occasione della citata ispezione interna e utilizzati
ai fini della contestazione degli addebiti disciplinari il Garante ha rilevato che lo stesso trattamento
risulta pertinente e non eccedente rispetto alle finalità per le quali i dati stessi sono
stati raccolti e successivamente trattati, in quanto tali informazioni risultano utilizzate
dalla banca resistente nell'esercizio del potere disciplinare proprio del datore di lavoro. La
contestazione degli addebiti deve soddisfare il requisito della specificità ; il successivo accertamento
della lesione dell'elemento fiduciario ai fini del licenziamento per giusta causa
deve essere parimenti effettuato con riferimento a profili concreti e specifici attinenti alla
natura e alla qualità del singolo rapporto di lavoro, nonché al grado di affidamento richiesto
dalle specifiche mansioni del dipendente, oltre che alle circostanze particolari degli episodi
contestati (Cass. 28 aprile 2003, n. 6609; Cass. 13 aprile 2002, n. 5332 e Cass. 14 luglio
2001, n. 9576). Ne deriva che, ai fini del corretto accertamento della condotta del lavoratore,
il datore di lavoro poteva procedere a proprie indagini anziché attendere l'esito degli
accertamenti in sede penale. Il trattamento dei dati in questione, che deve rispettare anche
le pertinenti disposizioni dello «Statuto dei lavoratori», è inoltre stato effettuato dal titolare
per soddisfare la legittima esigenza di far valere i propri diritti ai fini della loro tutela
in sede giudiziaria, acquisendo il materiale probatorio a tal fine necessario. Si tratta dunque
di fattispecie che è contemplata dal codice il quale prevede che in tali casi il trattamento
sia lecito anche senza il consenso dell'interessato, ferma restando la necessità che
i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario
al loro perseguimento (art. 24, comma 1, lett. f). Tali limiti non risultano violati, ad avviso
del Garante, neanche in relazione al successivo trattamento effettuato dalla banca resistente
a fini di difesa in procedimenti giudiziari successivamente instaurati. In relazione al
monitoraggio delle movimentazioni transitate sui conti correnti, sul libretto di risparmio e
sul dossier titoli intestati al ricorrente, il Garante ha ritenuto che tale monitoraggio sia stato
effettuato dalla banca resistente in ottemperanza agli obblighi di controllo cui sono tenuti
gli istituti di credito ai sensi della normativa antiriciclaggio (legge n. 197/1991), in particolare
ai fini della prescritta segnalazione delle c.d. attività sospette.
Anticipo finanziaria
La legge converte e modifica il decreto-legge n. 262/2006 contenente misure urgenti in materia tributaria e finanziaria.In particolare si fa notare che la legge di conversione ha soppresso dall'art. 3 all'art. 47 del decreto-legge, compreso quindi quanto riportato nelle novità legislative del fascicolo n. 5 del 2006.
(Gazzetta ufficiale n. 277 del 28 novembre 2006)
Previdenza complementare
Il decreto legge, modificando l'art. 23 del d.lgs n. 252/2005, stabilisce che tutte le forme pensionistiche devono adeguarsi,secondo le direttive della Covip, al d.lgs n.
252/2005, entro il 31 dicembre 2006. Entro la stessa data, le imprese di assicurazione, per
le forme pensionistiche individuali attuate prima di tale data mediante contratti di assicurazione,
devono predisporre l'adeguamento del regolamento al d.lgs n. 252/2005. Entro il
31 marzo 2007, le imprese di assicurazione, per le forme pensionistiche individuali attuate
prima di tale data mediante contratti di assicurazione, devono costituire il «patrimonio autonomo
e separato con l'individuazione degli attivi posti a copertura dei relativi impegni secondo
criteri di proporzionalità dei valori e delle tipologie degli attivi stessi». Le disposizioni
in materia di responsabile della forma pensionistica e dell'organismo di sorveglianza di
cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs n. 252/2005, si applicano, per i fondi pensione aperti e per le
forme pensionistiche individuali, dal 1° luglio 2007. Le forme pensionistiche complementari
che dal 1° gennaio 2007 che daranno comunicazione alla Covip dei suddetti adeguamenti
al d.lgs n. 252/2005, «possono ricevere nuove adesioni anche con riferimento al finanziamento
tramite conferimento del Tfr». Con riferimento a tali adesioni, le forme pensionistiche
che entro il 30 giugno 2007, abbiano ricevuto l'autorizzazione dalla Covip, anche con il
silenzio-assenso, riceveranno, dal 1° luglio 2007, il versamento del Tfr e dei contributi previsti,
anche con riferimento al periodo 1° gennaio 2007 ' 30 giugno 2007. Per i lavoratori
che abbiano la prima iscrizione obbligatoria antecedente al 29 aprile 1993, «il predetto differimento
si applica relativamente al versamento del residuo Tfr». Qualora la forma pensionistica
non abbia ricevuto la predetta autorizzazione/assenso dalla Covip, «l'aderente è
consentito a trasferire l'intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica
complementare, anche in mancanza del periodo minimo di partecipazione di due anni».
(Gazzetta ufficiale n. 265 del 14 novembre 2006)
Regolamentazione provvisoria e sciopero dei farmacisti
La Federfarma ha indetto un'astensione collettiva dal servizio per tutte le farmacie private da tenersi a partire da venerdà 28 luglio 2006,fino a martedà 1° agosto
2006, per protesta contro l'emanazione del d.l. 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani).
La Commissione, rilevato preliminarmente che il servizio erogato dalle farmacie private
rientra pacificamente nel campo di applicazione delle disposizioni della legge n.
146/1990, in virtù dell'estensione del campo di applicazione soggettivo disposta dalla legge
n. 83 del 2000, e che in tale settore di attività è altresà applicabile la Regolamentazione
provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia con deliberazione n. 03/169 del 17 dicembre
2003, ha sanzionato la Federfarma per il mancato rispetto del preavviso e del limite
di durata dello sciopero. La Commissione ha ritenuto irrilevante la questione sollevata
dalla Federfarma con riguardo alla effettiva applicabilità della regolamentazione di settore
impugnata dinanzi al giudice amministrativo; ad avviso della Commissione il pendente giudizio
amministrativo non incide sulla efficacia del provvedimento. Né è stata ritenuta accoglibile
la tesi della riconducibilità dello sciopero in oggetto alla fattispecie di cui all'art. 2,
comma 7, legge 146/1990; la Commissione ha più volte chiarito che tale fattispecie riferibile
a «situazioni di eccezionale gravità tali da mettere in pericolo le istituzioni democratiche
» (delibera n. 337 dell'8 maggio 1997), e che la norma in questione fa «principale riferimento
a ipotesi di sovvertimento violento ' o pericolo di sovvertimento violento ' dell'ordinamento
statale da parte di poteri o soggetti usurpatori» (delibera n. 78 dell'11 febbraio
1999); ipotesi che non ricorrono nel caso della protesta avverso il decreto Bersani.
Rarefazione soggettiva e oggettiva nel trasporto ferroviario
Il punto 3.3.4. dell'accordo nazionale del 23 novembre 1999 sui servizi minimi essenziali da garantire in caso di sciopero nel settore del trasporto ferroviarioprevede che «l'intervallo tra un'azione di sciopero e la proclamazione della successiva, proclamate
dallo stesso soggetto, non potrà essere comunque inferiore a tre giorni». Il successivo
punto 3.3.5. prevede invece che «al fine di rispettare il principio di rarefazione delle
azioni conflittuali e tenendo conto del carattere sistemico del servizio ferroviario, tra l'effettuazione
di uno sciopero e la proclamazione del successivo, incidente sul medesimo bacino
di utenza, non potrà intercorrere un intervallo inferiore a un giorno, indipendentemente
dalle motivazioni dello sciopero, dal soggetto e dal livello sindacale che lo proclama
». Poiché sono emerse talune difficoltà interpretative e applicative di questa disciplina
la Commissione ha ritenuto di adottare una delibera di revisione della precedente delibera
n. 4/233 del 1° aprile 2004 in tema di rarefazione e ha dettato i seguenti criteri applicativi:
«1) la regola dell'intervallo 'soggettivo di tre giorni tra effettuazione di uno sciopero e
proclamazione del successivo è applicabile qualora le singole azioni di sciopero siano proclamate
dallo stesso soggetto e dallo stesso livello sindacale, nelle seguenti ipotesi:
a) tra diversi scioperi nazionali;
b) tra diversi scioperi locali incidenti sullo stesso ambito territoriale;
2) nelle ipotesi in cui le singole azioni di sciopero sono, invece, proclamate da diversi livelli
della stessa sigla sindacale, trova applicazione la regola della rarefazione 'oggettiva,
nei termini di cui al successivo punto 3);
3) la regola della rarefazione 'oggettiva di un giorno tra effettuazione di uno sciopero e
proclamazione del successivo è applicabile qualora le singole azioni di sciopero siano proclamate
da sigle sindacali diverse, nelle seguenti ipotesi:
a) tra diversi scioperi nazionali;
b) tra diversi scioperi locali incidenti sullo stesso ambito territoriale;
c) tra sciopero nazionale e sciopero locale, idoneo, per la sua collocazione ovvero per le strutture
e/o i soggetti coinvolti (personale addetto al movimento stazioni, personale addetto alla circolazione
di macchina e viaggiante, rientrante nelle direzioni compartimentali movimento nonché il personale
delle sale operative centrali e territoriali e personale addetto ai servizi del settore trasporto
ferroviario collegati da nesso di strumentalità tecnica od organizzativa con la circolazione dei treni),
a provocare effetti sul sistema ferroviario nazionale;
d) tra diversi scioperi locali di rilevanza nazionale, nei termini di cui al precedente punto c);
4) la previsione della necessaria proclamazione dello sciopero soltanto dopo l'effettuazione
del precedente, con riguardo sia all'intervallo 'soggettivo che a quello 'oggettivo,
non è, invece, applicabile (fermo restando il rispetto dell'obbligo di preavviso):
a) tra scioperi locali incidenti su diversi ambiti territoriali;
b) tra sciopero nazionale e sciopero a carattere esclusivamente locale, o comunque incidente
sul solo traffico locale (ai fini della esatta qualificazione dello sciopero come 'a carattere
esclusivamente locale, o comunque incidente sul solo traffico locale si dovrà intendere
quello sciopero che non sia idoneo, per la sua collocazione ovvero per le strutture
e/o i soggetti coinvolti (personale addetto al movimento stazioni, personale addetto alla
circolazione di macchina e viaggiante, rientrante nelle direzioni compartimentali movimento
nonché il personale delle sale operative centrali e territoriali e personale addetto ai servizi
del settore trasporto ferroviario collegati da nesso di strumentalità tecnica od organizzativa
con la circolazione dei treni), a provocare effetti sul sistema ferroviario nazionale;
5) in ogni caso, nella predetta ipotesi di cui al precedente punto 4 b), al fine di garantire il
contemperamento tra diritto di sciopero e diritti della persona costituzionalmente tutelati,
si farà riferimento all'intervallo di dieci giorni tra le date di effettuazione degli scioperi
(termine desumibile dalla ratio dell'art. 2, comma 2, della legge n. 146/1990, nonché dalla
lettura combinata delle disposizioni in tema di preavviso e di rarefazione oggettiva, di
cui ai punti 3.1. e 3.3.5. dell'accordo citato);
6) i giorni che devono intercorrere tra effettuazione e proclamazione non vengono considerati
liberi, con la conseguenza che in caso di previsto intervallo di tre giorni, lo sciopero
potrà essere proclamato il terzo giorno successivo a quello della effettuazione della
precedente astensione, e nel caso del minore intervallo di un giorno in quello immediatamente
successivo;
7) ai fini dell'esatta qualificazione dello sciopero come 'a carattere esclusivamente locale,
o comunque 'incidente sul solo traffico locale, le Oo.Ss. sono tenute a indicare, ai
sensi dell'art. 2, comma 1, legge n. 146/1990, le modalità dello sciopero precisando nell'atto
di proclamazione, tutte le informazioni necessarie con riferimento alla incidenza territoriale,
alle strutture e ai soggetti coinvolti: personale addetto al movimento stazioni,
personale addetto alla circolazione di macchina e viaggiante, personale rientrante nelle
direzioni compartimentali movimento nonché il personale delle sale operative centrali e
territoriali e personale addetto ai servizi del settore trasporto ferroviario collegati da nesso
di strumentalità tecnica e organizzativa con la circolazione dei treni».
Conflitto di interessi del medico nella prescrizione dei farmaci
L'Autorità garante ha segnalato alcune distorsioni che emergono a livello nazionale nel finanziamento, da parte delle imprese farmaceutiche,delle spese di
viaggio e di ospitalità in occasione di corsi, convegni, congressi e visite ai laboratori e ai
centri di ricerca aziendali, di cui al d.lgs 24 aprile 2006, n. 219. L'Autorità , pur considerando
meritorie queste iniziative volte a neutralizzare le conseguenze del conflitto di interessi
del medico tentato di favorire con le sue prescrizioni l'impresa farmaceutica che si offre
di finanziare le sue spese di viaggio e di ospitalità in occasione di corsi, convegni, congressi,
ritiene che per incrementare la concorrenza tra cause farmaceutiche e contenere il
costo dei farmaci sarebbe assai più incisivo un intervento legislativo volto a introdurre nella
normativa farmaceutica l'obbligo per il medico di prescrivere o il principio attivo ovvero
di indicare nella prescrizione la facoltà di acquistare un farmaco a più basso prezzo sostituibile
a quello prescritto (restando la possibilità per il medico di specificare, per motivi clinici,
la non sostituibilità del farmaco). In tal modo, la scelta del farmaco, che attualmente
ricade sul medico, sarebbe trasferita al farmacista e al consumatore finale che ne
verrebbe consigliato.
Previdenza sociale lavoratori emigranti – Assegno per i lavoratori esposti all’amianto – Calcolo delle prestazioni in dena
Lavoro a tempo determinato – Inizio precedente alla stipula del contratto e mancata prova della causale
Comunicazione sindacale di libertà degli iscritti di aderire a uno sciopero indetto da altre Oo.Ss.
La Fast-Confsal ha proclamato uno sciopero per tutto il settore dei Trasporti, da effettuarsi in data 27 settembre 2006.Dopo la segnalazione della Commissione
che tale sciopero avrebbe violato la regola dell'intervallo minimo di dieci giorni,
la Fast-Confsal ha «ritirato» l'azione di sciopero proclamata e ha comunicato che per il
settore del trasporto aereo avrebbe fatto confluire la propria astensione su quella indetta
dalle Segreterie nazionali Sult, Sincobas, Cnl, Anpac, Anpav, Avia, Atm-Pp (Anpcat-
Licta-Cila Av-Sacta) per il giorno 18 settembre 2006. Sebbene secondo l'orientamento
della Commissione la proclamazione si risolve in un invito rivolto ai lavoratori a
scioperare e può aversi adesione allo sciopero proclamato da altra organizzazione sindacale
«non solo in caso di adesione formale, ma anche quando, in assenza di adesione
formale, nella condotta della organizzazione sindacale sia ravvisabile, in considerazione
delle circostanze del caso concreto, un invito a scioperare» (delibera n.
05/127), nel caso di specie la Commissione ha ritenuto che non possa ravvisarsi una
proclamazione di uno sciopero (irrispettosa dei termini di preavviso) in quanto l'associazione
sindacale si sarebbe limitata a lasciare libertà ai propri iscritti di aderire allo
sciopero del 18 settembre 2006 indetto da altre sigle sindacali, senza dare alcuna pubblicità
alla relativa comunicazione. Per questo motivo la Commissione ha concluso che
in questo caso non sussistano i presupposti per una valutazione negativa nei confronti
della Segreteria generale Fast-Confsal.
Prestazione concessa alle vittime di guerra civili
L'art. 18, n. 1, Ce dev'essere interpretato nel senso che osta a una disciplina di uno Stato membroai sensi della quale quest'ultimo nega a un suo cittadino l'assegnazione
di un'indennità a favore di vittime di guerra civili esclusivamente in ragione
del fatto che l'interessato, alla data di presentazione della domanda, non risiedeva nel
territorio del detto Stato membro, bensà nel territorio di un altro Stato membro.
Politica sociale – Principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile
Computo del preavviso e delle franchigie nel settore del trasporto aereo
L'art. 5 della Regolamentazione provvisoria sul trasporto aereo del 19 luglio 2001 (del. 01/92) dispone che il preavviso non può essere superiore a 45 giornie
i periodi di franchigia sospendono il decorso del termine (dal 24 aprile al 2 maggio; dal 27
al 30 maggio per franchigia elettorale; dal 10 al 13 giugno per eventuale turno del ballottaggio;
dal 22 giugno al 4 luglio per franchigia consultazione referendaria nazionale e
franchigia estiva). Il periodo intercorrente tra la data di proclamazione di uno sciopero da
parte delle Organizzazioni sindacali Filt Cgil e Fit Cisl e dell'Associazione professionale Anpav
avverso la società Meridiana e la sua effettuazione è stato interessato da diversi periodi
di franchigia, ivi compreso un periodo di franchigia relativo alle elezioni amministrative
del 28 e 29 maggio 2006. A seguito della segnalazione da parte della Commissione
della violazione della legge n. 146/90 per mancato rispetto del periodo di preavviso computato
con riguardo ai periodi di franchigia da rispettare nel periodo intercorrente tra la
proclamazione e l'effettuazione dello sciopero, le Oo.Ss. hanno lamentato che non vi fosse
chiarezza circa i criteri di computo di detti periodi di franchigia, tanto che anche la Commissione
di Garanzia aveva rivisto e corretto le tabelle dei periodi di franchigia pubblicate
sul proprio sito web. In particolare le Oo.Ss. hanno dedotto di aver tenuto conto di
quanto attestato dal Ministero dell'interno e diffuso dall'Osservatorio sui conflitti presso
il Ministero dei trasporti, circa la percentuale di popolazione interessata alle consultazioni
amministrative del 28 e 29 maggio 2006 che, nel caso di specie, è risultata essere superiore
al 20%; hanno dunque inteso in buona fede che simile indicazione consentisse di
ricondurre tali consultazioni al penultimo capoverso dell'art. 8 della Regolamentazione
provvisoria (con un periodo di franchigia pari quindi a otto giorni, in luogo di quattro giorni).
Considerato che nel caso in esame lo «sforamento» dello sciopero rispetto al periodo
di preavviso risultasse pari a soli due giorni, le Oo.Ss. proclamanti hanno invocato la loro
«palese buona fede». La Commissione, valutata l'effettiva sussistenza di problemi interpretativi
sulla sospensione del decorso del termine di preavviso durante le elezioni amministrative
e la buona fede delle Oo.Ss. proclamanti, ha dunque concluso per l'insussistenza
dei presupposti per una valutazione negativa.
Subordinazione concessione indennità di disoccupazione al compimento di un periodo di occupazione nello Stato membro competente
Gli artt. 39, n. 2, Ce e 3, n. 1, regolamento (Cee) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408/71, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza socialeai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all'interno della
Comunità , cosà come modificato e aggiornato dal regolamento (Ce) del Consiglio 2 dicembre
1996, n. 118/97, devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa
nazionale in forza della quale l'istituzione competente dello Stato membro di
residenza rifiuta a un cittadino di un altro Stato membro il diritto all'indennità di disoccupazione
con la motivazione che, alla data di deposito della domanda d'indennità ,
l'interessato non aveva compiuto un periodo determinato di lavoro sul territorio del
detto Stato membro di residenza, anche se una tale condizione non è prevista per i cittadini
dello Stato membro in questione.
Svolgimento mansioni superiori per sostituire lavoratori assenti, lavoratori da considerare assenti con conservazione del posto
Il ricorrente appartiene a un impianto in cui il «fabbisogno» è completo, ma non sono previsti agenti che possono svolgere le funzioni di «scorta».Come conseguenza
il ricorrente era stato adibito unicamente a sostituire lavoratori inquadrati in categoria
superiore che si trovavano in congedo o assenti per riposo settimanale. Il lavoratore
in questione ha chiesto e ottenuto l'accertamento del diritto a essere inquadrato in categoria
superiore. L'accoglimento della domanda si basa su alcuni punti che possono essere
cosà sintetizzati. Non può esser considerato agente con diritto alla conservazione del
posto colui che non riprenderà alla fine di un lungo periodo di ferie il lavoro per porsi in
quiescenza. Non può considerarsi altresà agente con diritto alla conservazione del posto
colui che gode del riposo settimanale o dei congedi ordinari o straordinari. Le giornate di
sostituzione di lavoratori che si sono trovati in tali situazioni sono rilevanti ai fini del conteggio
dei tre mesi utili per il conseguimento del diritto alla categoria superiore. La sentenza
commentata inoltre ha ritenuto che il datore di lavoro il quale richieda la sostituzione
di lavoratori assenti debba precisare in maniera dettagliata la ragione dell'assenza dell'agente
sostituito, non essendo da considerare sufficiente la mera indicazione nei documenti
giustificativi che trattasi di «lavoratore avente diritto alla conservazione del posto».
Mobbing – Giornalista – Malattia depressiva – Visite fiscali persistenti e vessatorie finalizzate alle dimissioni del dipe
Licenziamento plurimo per giustificato motivo oggettivo
In conseguenza della decisione aziendale di ridurre a una sola unità il «team» incaricato di svolgere un determinato progetto,gli altri due ingegneri informatici addetti
a quel progetto venivano ritenti esuberanti e conseguentemente licenziati. Il Tribunale
del lavoro di Bologna, avanti al quale venivano impugnati i licenziamenti, constatando
che i lavoratori erano stati assunti sulla base di un particolare titolo di studio e di uno
specifico profilo professionale, ritiene «intuitivo» che la loro competenza, e il conseguente
ambito potenziale di impiego, non potesse considerarsi limitato a un singolo progetto
informatico, e per di più marginale rispetto al core business dell'impresa. Inoltre il giudice
constata che in sede di interrogatorio la stessa società ha riconosciuto l'esistenza di
possibilità di «sovrapposizione almeno parziale tra le persone che sono state licenziate e
persone occupate in altri ambiti lavorativi» e che quantomeno uno dei lavoratori lavorò
per qualche tempo a un altro progetto. Se ciò è vero ' conclude il Tribunale ' l'impresa
che si trovi nella condizione di dover ridurre il personale «non può esimersi da una approfondita
valutazione comparativa di tutti i dipendenti, individuando criteri obiettivi e razionali
di scelta che pongano sullo stesso piano quei lavoratori che abbiano una qualifica
e un profilo professionale omogeneo. La maggiore comodità che all'impresa deriva dal licenziamento
di lavoratori che sono temporaneamente addetti a un progetto che si ritiene
di sacrificare, o di posporre ad altri, non può costituire criterio unico di selezione, essendo
ciò contrario alla buona fede contrattuale; perché l'oggetto della prestazione lavorativa
dedotta in contratto è definito dalla combinazione delle declaratorie contrattuali relative
alle qualifiche e ai profili professionali; e è in relazione alla posizione lavorativa cosà
individuata che va verificata la possibilità di impiego del lavoratore in comparazione con
quella degli altri dipendenti collocati nella medesima posizione». In applicazione di tali
principi il giudice dichiara illegittimi i licenziamenti e ordina la reintegrazione dei ricorrenti
nel posto di lavoro precedentemente occupato.
Assegno mensile di assistenza – Iscrizione negli elenchi del collocamento obbligatorio – Età pensionabile
Contratto di formazione-lavoro – Omessa formazione teorico-pratica - Svolgimento mansioni diverse – Onere probatorio
Farmacista collaboratrice in regime di impresa familiare – Diritto all’indennità di maternità per le libere professioniste
Inottemperanza a ordine di reintegra nel posto di lavoro – Ricorso al giudice perché ne determini l’attuazione
Lavoro straordinario fisso e continuativo – Non previsione dalla contrattazione collettiva tra le voci da calcolare nel tfr
Visita fiscale – Assenza del lavoratore – Giustificato motivo – Diritto al trattamento economico – Sussiste
Impresa di telecomunicazione – Lavoratore turnista – Diritto alla maggiorazione per riposo settimanale goduto in giorno fest
Revoca di un incarico dirigenziale – Diritto a un incarico equivalente – Insussistenza – Tutela giudiziale costitutiva
Il divario tra vecchie e nuove mansioni può essere valida presunzione per la prova del sussistere di danno da dequalificazione
Il Tribunale di Roma in accoglimento della domanda di un lavoratore che era stato per lungo tempo privato di qualsiasi ruolo e responsabilità ,condannava la società
convenuta al risarcimento del danno. La sentenza veniva confermata anche in sede di
gravame su appello della società soccombente che censurava la mancata prova di un concreto
pregiudizio. In sede di discussione del giudizio di legittimità la difesa della società richiamava
il recente orientamento delle Sezioni Unite che hanno escluso la risarcibilità ex
se della dequalificazione professionale. Il ricorso è stato respinto dalla Corte sul rilievo che
il danno da dequalificazione può essere desunto da elementi presuntivi quali la qualità e
quantità dell'attività lavorativa svolta prima dell'intervenuto demansionamento, i tipo e la
natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova
collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. Sulla base dei principi
richiamati, ritenuti validi anche dopo la decisione delle Sezioni Unite, la Cassazione ha
ritenuto conforme ai principi enunciati la sentenza della locale corte di merito allorché aveva
ritenuto provata l'effettiva sussistenza del danno conseguente alla dequalificazione
subita sulla base di presunzioni, tenuto conto, in particolare, dell'ampiezza del divario tra
le mansioni precedenti e quelle conferite in relazione al demansionamento.
La Cassazione privilegia il criterio dell’inserimento organico ai fini della qualificazione del lavoro subordinato
La decadenza dall’azione di impugnativa del licenziamento non impedisce un’azione risarcitoria per fatto ingiusto
La durata di una dequalificazione costituisce elemento presuntivo per valutare la sussistenza di un danno
Nel corso di un giudizio di legittimità in cui il relatore non è stato il successivo estensore della motivazione della decisionecurata dal presidente del Collegio una
società di telecomunicazioni lamentava l'illegittimità della sentenza che aveva ritenuto la
sussistenza di un danno in capo ai lavoratori nonostante la mancanza di una concreta prova
sul punto. La Corte di Cassazione, nel respingere lo specifico motivo di ricorso, ha ritenuto
la correttezza della decisione dei giudici di merito che dopo aver accertato che la dequalificazione
si era protratta per oltre tre anni, avevano ritenuto in via presuntiva sussistere
un concreto danno professionale. La Corte di Cassazione ha, infatti, osservato che la
dequalificazione protratta ben può costituire un danno patrimoniale derivante dalla conseguente
perdita di valore sul mercato del lavoro. La congruità logica del ragionamento si fonda
' ad avviso della Corte ' sulla presunzione che lo svolgimento di attività meno qualificata
faccia venir meno o comunque diminuisca l'attitudine a mansioni più qualificate e che
il valore di mercato di una lavoratore si fonda sul suo curriculum professionale (cfr. pure
Cass. 12 ottobre 2006, n. 21826: infra, p. 31).
Il disvalore nell’ambiente lavorativo di un comportamento costituisce parametro per valutare la legittimità di un licenziamen
Il disabile extracomunitario non ha diritto a iscriversi nelle liste di collocamento obbligatorio della pubblica amministrazione
Un lavoratore albanese affetto da una grave invalidità richiedeva all'amministrazione provinciale di essere iscritto nelle liste speciali di collocamentoper la pubblica amministrazione. A fronte del rifiuto dell'amministrazione il lavoratore adiva il locale
magistrato con l'azione speciale per la repressione delle discriminazioni. La domanda veniva
accolta in prime cure e avverso l'ordinanza di accoglimento l'amministrazione proponeva
reclamo che veniva accolto. Il lavoratore adiva, quindi, la Suprema Corte che rigettava il ricorso
all'esito di una ampia digressione sulla normativa in materia di immigrazione. Nel respingere
la richiesta di cassazione della decisione dei giudici di appello la Suprema Corte ha
affermato che il requisito della cittadinanza italiana richiesto per accedere al lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni dall'art. 2 d.p.r. 487/94 norma legificata dall'art.
70 comma 13 d.lgs 165/2001 ' e dal quale si prescinde in parte, solo per gli stranieri comunitari,
nonché per casi particolari (art. 38 d.lgs 165/2001; art. 22 d.lgs 286/98) ', si inserisce
nel complesso delle disposizioni che regolano la materia particolare dell'impiego pubblico.
Il lavoro pubblico prosegue, infine la Corte, rappresenta una materia fatta salva dal d.lgs
286/98, che in attuazione della convenzione Oil n. 175/75, resa esecutiva con legge 158/81,
sancisce in generale, parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari
rispetto ai lavoratori italiani; né l'esclusione dello straniero non comunitario
dall'accesso al lavoro pubblico (al di fuori delle eccezioni previste) è sospettabile di legittimità
costituzionale, atteso che si esula dall'area dei diritti fondamentali e che la scelta del
legislatore è giustificata dalle stesse norme costituzionali (art. 51, art. 97 e art. 98 Cost).
Le Sezioni Unite affermano i criteri di validità di una clausola collettiva di fungibilità fra mansioni
Una lavoratrice assunta dalla società Poste italiane dopo aver svolto mansioni di addetta di sportello veniva adibita a svolgere attività di recapitosulla base di una
previsione del contratto collettivo aziendale che rendeva possibile una fungibilità tra
mansioni della medesima area. Ritenuta la nuova attività dequalificante rispetto alle mansioni
in precedenza svolte la lavoratrice adiva il locale Tribunale di Brescia al fine di vedere
accertata la dequalificazione professionale subita e la nullità della clausola collettiva. La
Corte di Appello riformava la decisione del giudice di primo grado che aveva accolto parzialmente
le ragioni della lavoratrice. Avverso la decisione dei giudici di secondo grado la lavoratrice
proponeva a sua volta ricorso di legittimità ribadendo l'erroneità della sentenza
che non aveva rilevato nullità della clausola collettiva per violazione dell'art. 2103 cod. civ.
In considerazione della rilevanza della questione la controversia veniva assegnata alle Sezioni
Unite che rigettavano il ricorso della lavoratrice. Valorizzando la dimensione collettiva
della previsione e il perseguimento di interessi collettivi la Suprema Corte ha, infatti, ritenuto
che la contrattazione collettiva può legittimamente prevedere e disciplinare meccanismi
di scambio o avvicendamento compatibili con il disposto dell'art, 2103 cod. civ. Le Sezioni
Unite hanno, infatti, ritenuto che la contrattazione collettiva, se da una parte deve
muoversi all'interno, e quindi nel rispetto della prescrizione posta dal primo comma dell'art.
2103 cod. civ. che fa divieto di una indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in
concreto una diversa professionalità pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale
e quindi pur essendo riconducibili alla matrice comune che connota la qualifica secondo
la declaratoria contrattuale ' è però autorizzata a porre meccanismi convenzionali di
mobilità orizzontale prevedendo con apposita clausola la fungibilità funzionale tra esse per
sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la valorizzazione della professionalità
potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica senza per questo incorrere
nella sanzione di nullità del secondo comma della medesima disposizione.
L’opzione può essere esercitata contestualmente al giudizio di accertamento dell’illegittimità del licenziamento
Indennizzo legge 210/92
Legittimo il termine di tre anni per richiedere l'indennizzo per danni da epatiti post-trasfusionali.La Corte costituzionale ha quindi rigettato la questione sollevata
dal Tribunale di Modica nella parte in cui la norma, sostituendo l'articolo 33, comma 1, della
legge 210/92, ha stabilito che, ai fini del conseguimento dell'indennizzo, coloro che presentino
danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali devono presentare la domanda amministrativa
entro il termine perentorio di tre anni (termine che decorre dal momento in
cui l'interessato viene a conoscenza della menomazione). La Corte ha chiarito che la determinazione
del contenuto e delle modalità di realizzazione di un tale intervento di natura
solidaristica è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Quest'ultimo, del resto, «nel
ragionevole bilanciamento dei diversi interessi costituzionalmente rilevanti coinvolti, può
subordinare l'attribuzione delle provvidenze alla presentazione della relativa domanda
entro un dato termine». In effetti, «il termine di tre anni fissato dall'articolo 1, comma 9,
della legge 238/97, decorrente dal momento dell'acquisita conoscenza dell'esito dannoso
dell'intervento terapeutico, non appare talmente breve da frustrare la possibilità di esercizio
del diritto alla prestazione e vanificare la previsione dell'indennizzo». Quanto «alla
disparità di trattamento rispetto alla situazione dei soggetti affetti da epatiti che si siano
avvalsi della disciplina di cui al previgente articolo 3, comma 1, della legge 210/92 '
hanno concluso i giudici delle leggi ' non contrasta di per sé con il principio di eguaglianza
un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti
diversi nel tempo, poiché proprio il fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore
delle situazioni giuridiche».
Procedure esecutive
Il creditore che intende sottoporre a espropriazione crediti di enti e istituti di previdenza e assistenza obbligatoria su base territorialedeve agire, anche in qualità di interveniente, davanti al giudice che ha emesso il provvedimento. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato non fondata la questione di legittimità sollevata dal Tribunale
di Roma nella parte in cui la norma «non prevede che anche l'intervento, ai sensi dell'articolo
551 del cod. proc. civ., del creditore di enti e istituti esercenti forme di previdenza
e assistenza obbligatoria organizzati su base territoriale sia proposto, a pena d'improcedibilità
rilevabile d'ufficio, esclusivamente nei processi esecutivi per espropriazione di
crediti ex articolo 543 del cod. proc. civ. pendenti innanzi al giudice dell'esecuzione della
sede principale del tribunale nel cui circondario ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso
il provvedimento posto a fondamento dell'intervento». Ad avviso della Corte, la norma
censurata deve essere interpretata «nel senso che il creditore, il quale intenda sottoporre
a espropriazione forzata crediti di enti e istituti esercenti forme di previdenza e assistenza
obbligatorie organizzati su base territoriale, deve agire esecutivamente, a pena di
improcedibilità , anche in qualità di interveniente, innanzi al giudice dell'esecuzione della
sede principale del tribunale nella cui circoscrizione ha sede l'ufficio giudiziario che ha emesso
il provvedimento in forza del quale agisce».
Mancata rivalutazione della buonuscita per i postali
È costituzionalmente legittimo non prevedere alcuna forma di rivalutazione monetaria per l'indennità di buonuscitache i dipendenti delle Poste Italiane Spa hanno
maturato fino al 28 febbraio 1998, data di trasformazione dell'Ente Poste in Società per azioni,
e che gli stessi dipendenti, alla data in cui si risolverà il loro rapporto di lavoro, potranno
percepire unitamente al Tfr (trattamento di fine rapporto) maturato dal 1° marzo
1998 fino alla cessazione dal servizio. Ad avviso del Tribunale di Roma, la mancata previsione
di un meccanismo di rivalutazione dell'indennità di buonuscita, si pone in contrasto
con l'articolo 3 della Costituzione perché determina una disparità di trattamento ai danni
dei ricorrenti rispetto, sia alla generalità dei lavoratori privati che fruiscono del Tfr i cui accantonamenti
sono rivalutati anno dopo anno, sia di quei dipendenti postali che, dopo il
28 febbraio 1998, andando in pensione prima degli altri fruiscono di un valore della buonuscita
superiore a quello di cui potranno fruire coloro che cesseranno dopo un periodo
più lungo a partire da quella data. La Corte Costituzionale, in primo luogo, ha osservato
che la trasformazione del rapporto di lavoro da pubblico a privato e la correlata distinzione
del trattamento globale di fine rapporto in due elementi quali l'indennità di buonuscita
e il Tfr, connotano una condizione peculiare ai soli dipendenti postali che non consente
di dedurre che il trattamento riservato ai postali sia ingiustificatamente deteriore rispetto
al Tfr stabilito per la generalità dei lavoratori privati. Inoltre, il lamentato contrasto
con l'articolo 3 della Costituzione, denunciato con riguardo alla disparità di trattamento
che si verificherebbe in relazione ai diversi tempi di cessazione dei rapporti di lavoro e
quindi di percezione della buonuscita, non sussiste neppure all'interno della disciplina
propria dei lavoratori postali perché, tra l'altro, quanto più lungo sarà il periodo intercorrente
tra la determinazione della buonuscita e il pagamento del Tfr, tanto minore sarà l'incidenza
della prima sull'entità globale del trattamento erogato alla cessazione del rapporto
di lavoro. La Corte Costituzionale ha riconosciuto che l'affermazione secondo cui
tutti i trattamenti di fine rapporto hanno natura di retribuzione differita e che a essi si estende
la tutela dell'articolo 36 della Costituzione con la salvaguardia del potere d'acquisto
secondo idonee discipline, è corretta. Tuttavia ha ritenuto che nelle ipotesi come quella
di specie di trattamento globale costituito da più componenti, il rispetto dello stesso articolo
36 della Costituzione va valutato non con riguardo a ciascun elemento, ma con riferimento
alla totalità dell'emolumento.
Riscatto dei periodi di studio nel settore privato
È legittimo escludere, nel settore privato, la riscattabilità presso il Fondo pensioni lavoratori dipendenti dei periodi di studio presso l'accademia di belle arti.La Corte costituzionale ha quindi dichiarato infondata la questione di legittimità delle norme
impugnate rigettando la prospettata discriminazione tra lavoratori pubblici (per i quali
tali periodi di studio sono riscattabili) e lavoratori privati. In effetti, sostiene la Corte,
mentre il nesso di strumentalità tra titolo di studio e attività lavorativa è essenziale nell'impiego
presso le P.A. (per la tutela dell'art. 97 Cost.), ciò non accade per il settore privato.
In questo ambito, quindi, gli unici periodi di studio riscattabili sono quelli previsti
dalla normativa afferente l'Inps e non è possibile estenderli, analogicamente, ad altri casi
(come quello in esame).
Neo assunti dalle ex Ipab e Ccnl applicabile
La scelta del contratto collettivo applicabile ai rapporti di lavoro con i neo-assunti dalle ex Ipab non va concordato con i sindacati del pubblico impiego.La Corte
costituzionale ha dichiarato l'illegittimità della seconda parte del comma 13 dell'art. 18
della legge della Regione Lombardia n. 1/2003 per violazione dell'art. 117, comma 2, lett.
l), Cost., nella parte in cui prevede che la scelta del contratto collettivo applicabile ai lavoratori
assunti dopo la trasformazione delle Ipab in enti di diritto privato sia concordata
a livello decentrato dagli enti stessi con le Oo.Ss. La questione di costituzionalità della
suddetta norma regionale era stata sollevata sia dal Tribunale di Lecco (ord. 27 luglio
2004) sia dal Tribunale di Mantova. Con ord. 3 giugno 2005 (Fondazione Isabella Gonzaga
c. Funzione pubblica Cgil), quest'ultimo ha affermato che: a) la materia oggetto della
norma regionale censurata (ossia la regolamentazione delle modalità di applicazione dei
contratti collettivi ai singoli rapporti) «rientra nella competenza esclusiva dello Stato ex
art. 117, comma 2, lett. l), Cost., cosà come novellato dalla legge cost. n. 1/2001 e quindi
non può essere oggetto di attività legislativa da parte delle regioni»; b) la norma regionale
appare lesiva della libertà sindacale dei datori di lavoro (riguardante anche l'organizzazione
dell'attività di produzione contrattuale) tutelata dall'art. 39 Cost., nella misura in cui
«obbliga il datore ad applicare un contratto anche diverso da quello dell'associazione cui
aderisce proprio perché la scelta deve essere concordata con il sindacato, cosà come lo obbliga
ad applicare comunque un contratto collettivo, fra quelli esistenti, pur se non aderisce
ad alcuna organizzazione collettiva»; c) la norma stessa è manifestamente irragionevole
(art. 3 Cost.) in quanto nulla prevede per il «caso in cui [â?¦] le parti non trovino un accordo
su quale contratto collettivo applicare». I giudici costituzionali, nel dichiarare inammissibile
la questione sollevata dal Trib. di Lecco, hanno invece ritenuto fondata quella
sollevata dal Trib. di Mantova. E invero ' secondo i giudici ' la norma censurata attiene alla
materia dell'ordinamento civile (di competenza esclusiva della legislazione statale), in
quanto «crea un procedimento negoziale ' al quale il datore di lavoro è obbligato a partecipare
prima di poter scegliere il contratto collettivo da applicare ' le cui controparti (le
Oo.Ss. del pubblico impiego) sono autoritativamente individuate. La circostanza che l'inosservanza
di tale obbligo ' di contrattare con quelle controparti ' sia sanzionabile come
lesivo della libertà sindacale ai sensi dell'art. 28 dello Statuto [â?¦] conferma la natura
dell'obbligazione in tal modo creata in capo al datore».
Illegittimità del rito camerale per le controversie dei lavoratori
La scelta del legislatore in favore del rito camerale per la trattazione delle controversie civili nascenti dalle prestazioni lavorative dei detenutiè illegittima in quanto non assicura un nucleo minimo di contraddittorio e di difesa. I giudici
costituzionali hanno dichiarato l'illegittimità delle norme impugnate nella parte in cui impongono
la competenza del magistrato di sorveglianza, e quindi il procedimento camerale di cui
all'art. 14-ter della legge 354, per tutte le controversie civili nascenti dalle prestazioni lavorative
dei detenuti (attribuzione della qualifica lavorativa, retribuzione, svolgimento
delle attività di tirocinio e di lavoro, assicurazioni sociali, ecc.). I giudici costituzionali, nel
dichiarare fondata la questione di costituzionalità sollevata dal magistrato di sorveglianza
di Pisa (ord. 17 novembre 2005), hanno affermato che la procedura camerale, tipica dei
giudizi davanti al magistrato di sorveglianza esclusivamente competente per le controversie
in discorso, «non assicura al detenuto lavoratore una difesa nei suoi tratti essenziali
equivalente a quella offerta dall'ordinamento a tutti i lavoratori, giacché è consentito
un contraddittorio, puramente cartolare, che esclude la diretta partecipazione del lavoratore-
detenuto al processo. Per altro verso, la disposizione non assicura adeguata tutela al
datore di lavoro, posto che [â?¦] il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore
(come nel caso di specie) resta addirittura escluso dal contraddittorio, pur essendo
destinato in ogni caso a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti
spettanti al detenuto lavoratore, se accertata da una decisione del magistrato di sorveglianza.
Il procedimento di cui all'art. 14-ter legge n. 354 del 1975 [â?¦] comprime dunque in
maniera notevole le garanzie giurisdizionali essenziali riconosciute a tutti i cittadini. La irragionevolezza
di tale compressione viene in rilievo anche per l'assenza di esigenze specifiche
di limitazione legate alla corretta esecuzione della pena».
Prescrizione dei crediti del personale navigante
La prescrizione biennale dei crediti di lavoro per il personale di volo e della navigazione decorre dal giorno dello sbarco nel luogo di assunzione,in seguito alla
cessazione o alla risoluzione del contratto. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato
legittimi gli articoli 373 e 937 del Regio decreto 327/1942 sulla «Approvazione del testo
definitivo del codice della navigazione». A sollevare la questione erano stati i tribunali di
Roma e Venezia nella parte in cui le norme non prevedono che, in caso di rapporto di lavoro
del personale di volo e a bordo delle navi, la prescrizione dei crediti di lavoro decorra
in costanza di attività . Inoltre, i giudici censuravano anche la parte delle norme in cui si
prevede il termine di prescrizione biennale. La Consulta nel dichiarare non fondata la questione,
ha sottolineato che, grazie alle sentenze 63/1996 e 174/72, «la prescrizione dei
crediti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dal codice civile inizia a decorrere in
corso di rapporto, eccetto che nei casi in cui al datore di lavoro non incombe alcun obbligo
di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato». In tal caso quest'ultima
decorre dalla cessazione del rapporto stesso. Il regime differenziato della decorrenza della
prescrizione dipende, dunque, per i lavoratori comuni, dall'esistenza o meno di una
condizione di stabilità del loro rapporto di lavoro. Nei rapporti di lavoro regolati dal codice
della navigazione, invece, «la non decorrenza della prescrizione dei crediti in costanza
di rapporto rappresenta la regola generale: opera sempre e comunque». Inoltre, il termine
di prescrizione è in ogni caso biennale. Tuttavia, hanno spiegato i giudici, «con la disposizione
sulla decorrenza della prescrizione, il legislatore del 1942 ha inteso dare rilievo
a una situazione o di vera e propria impossibilità (per i rapporti a viaggio) o di particolare
difficoltà (nel rapporto a più viaggi, in quello a tempo determinato e in quelli a tempo
indeterminato) di esercizio del diritto, connesse alla fisica lontananza dal foro competente,
in ciò non discostandosi dalla regola generale dell'articolo 2935 Cc». Motivazioni, queste
ultime, che sono alla base delle norme dettate sia in tema di lavoro con il personale di
volo (articolo 937 codice della navigazione), sia per il contratto di arruolamento (articolo
373 codice della navigazione). Ne deriva, quindi, che «la specificità del fondamento razionale
delle norme, non influenzata dall'evoluzione della tutela normativa e giurisprudenziale,
giustifica la diversità di regime rispetto al lavoro comune».
Dirigenti provincia di Bolzano
Il concorso pubblico rappresenta la forma ordinaria di reclutamento del personale statale.Cosà la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 1 comma 3
della legge della Provincia autonoma di Bolzano 3/2005 nella parte in cui la norma prevede
che il personale dirigente nominato a tempo indeterminato per chiamata all'esterno,
qualora abbia prestato servizio per almeno sei anni, svolgendolo «con particolare successo»,
possa essere iscritto, con delibera della Giunta provinciale, nella sezione A dell'albo
degli aspiranti dirigenti. Tale iscrizione comporta la costituzione di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato con inquadramento nella qualifica funzionale corrispondente
al titolo di studio richiesto per l'incarico dirigenziale ricoperto. La Consulta nel dichiarare
fondata la questione ha spiegato che la norma censurata dispone una inammissibile
deroga al principio del pubblico concorso che costituisce la forma ordinaria di reclutamento
per le pubbliche amministrazioni. Un principio posto a presidio delle esigenze
di imparzialità e di efficienza dell'azione amministrativa. Del resto, le eccezioni a tale
regola sono consentite dall'articolo 97 della Costituzione a condizione, però, che rispondano
a «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico».
Avvocati part-time nella P.A.
I dipendenti pubblici a part-time non possono iscriversi all'Albo degli avvocati.La Corte ha quindi dichiarato infondate le questioni sollevate dai tribunali di Napoli
e di Cuneo che dubitavano della legittimità della legge nella parte in cui non consente
ai dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale di iscriversi all'Albo degli
avvocati. In particolare, il tribunale di Cuneo aveva osservato come la legge crei «una
disparità di trattamento ancor più accentuata, ove si ponga mente alla normativa comunitaria,
e in particolare agli articoli 2 e 5, comma 1, della direttiva 98/5/CE, in quanto
l'avvocato straniero che sia pubblico dipendente può esercitare in Italia» mentre l'omologo
italiano, non potendo iscriversi all'albo degli avvocati italiani, «non può esercitare
la professione di avvocato neppure negli altri Stati membri». Tale censura, a parere
della Corte, «è priva di consistenza, dal momento che trascura il disposto dell'articolo
8 della direttiva, a norma del quale l'avvocato iscritto nello Stato membro ospitante
con il titolo professionale di origine può esercitare la professione come lavoratore subordinato
[â?¦] di un ente pubblico o privato, qualora lo Stato membro ospitante lo consenta
agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia».
Apprendistato e competenze regionali
Contratto di apprendistato: la disciplina delle regole per la formazione da impartire all'interno delle aziende spetta allo Stato,mentre la disciplina esterna
rientra nelle competenze delle Regioni. La Corte costituzionale ha dichiarato non
fondata la questione di legittimità della legge della Regione Toscana 20/2005 sulle
«Modifiche alla legge regionale 32/2002 ' Testo unico della normativa della Regione
Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale
e lavoro». A sollevare la questione era stata la presidenza del Consiglio dei ministri
nella parte in cui la norma prevede come compiti riservati alla Regione la valorizzazione
e la certificazione dei profili formativi dei contratti di apprendistato e l'individuazione
dei criteri e requisiti di riferimento per la capacità formativa delle imprese. La
Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la questione, ha affermato che «mentre
la formazione da impartire all'interno delle aziende attiene precipuamente all'ordinamento
civile, la disciplina di quella esterna rientra nella competenza regionale in
materia di istruzione professionale, con interferenze però con altre materie, in particolare
con l'istruzione, per la quale lo Stato ha varie attribuzioni: norme generali, determinazione
dei principi fondamentali».
Disciplina delle professioni e legislazione regionale
Illegittima l'istituzione con legge regionale della figura professionale del musicoterapeuta.La Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le previsioni della legge
della Regione Campania 18/2005 aventi a oggetto «Norme sulla musicoterapia e riconoscimento
della figura professionale di musicoterapista». In una materia oggetto di legislazione
concorrente, spiega la Corte, l'individuazione delle figure professionali e la disciplina
dei titoli necessari all'esercizio sono riservate al legislatore statale. Del resto, ha concluso
il giudice delle leggi «è evidente che la legge impugnata definisce un nuovo profilo
professionale in materia sanitaria». Stessa sorte è stata riservata alla legge della Provincia
di Bolzano n. 8/2005 nella parte in cui dispone che il maestro odontotecnico è autorizzato
a esercitare la relativa attività . In questo secondo caso la Corte, nel dichiarare fondata
la questione, ha affermato che lo statuto speciale della Provincia autonoma di Bolzano
non prevede una competenza legislativa ad hoc in materia professionale. In effetti,
l'articolo 117 della Costituzione inserisce le professioni tra le materie di competenza legislativa
concorrente. Tuttavia, ha concluso la Corte, sono riservate allo Stato sia l'individuazione
delle figure professionali, con i relativi profili e ordinamenti didattici, sia la disciplina
dei titoli necessari per l'esercizio delle professioni.