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Il lavoro ricostruisce sul piano storico-analitico le politiche di reddito minimo in Italia dell’ultimo ventennio. Delle varie misure introdotte si analizzano le caratteristiche distintive, mettendone in rilievo i pro e i contro. Il lavoro si conclude con un esame sintetico delle principali questioni che il consolidamento di una misura di reddito minimo pone all’attenzione del policy maker, anche alla luce dell’accelerazione che il governo Conte intende dare a tali politiche con il progettato reddito di cittadinanza.
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L’articolo presenta un’analisi critica dei cambiamenti che hanno interessato le politiche educative italiane negli ultimi due decenni alla luce delle spinte provenienti dall’approccio comunitario europeo in direzione del potenziamento degli investimenti in educazione e life-long learning come leva strategica di sostegno ai fattori di competitività e di contrasto alle disuguaglianze sociali. Il sistema di welfare italiano si trova lontano da una prospettiva di questo genere, per il basso livello della spesa dedicata, per l’assenza di coerenti scelte di policy, troppo spesso orientate a tradurre «retoriche» del mutamento senza conseguenti piani per l’effettiva implementazione delle innovazioni, e infine per il problema della grande varietà interna, anch’esso da riferire non solo a una questione di risorse economiche ma anche a profonde differenze nella capacità amministrativa regionale e locale. Di questi vari differenziali si occupa il presente articolo, cercando di rintracciare continuità e rotture che hanno segnato il cammino delle riforme scolastiche in Italia.
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Il contributo si articola in tre parti: l’analisi dei principali modelli di welfare o «famiglie di nazioni» presenti in Europa, ripercorrendo il dibattito politico e sociologico parallelo ai processi di mutamento di questi sistemi di welfare; l’esame dell’andamento delle spese destinate alla voce famiglia-infanzia sul totale della spesa sociale; la rassegna delle principali politiche familiari distinte in misure economiche dirette e indirette, analizzandone le caratteristiche in termini di numero, di tipo, di ammontare delle prestazioni, di forma di finanziamento e di struttura organizzativa delle prestazioni.
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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è al centro dell’attenzione ormai da qualche tempo. Originaria-mente redatto dal precedente governo, il Conte II, la versione attuale è il risultato dell’intervento del nuovo esecutivo, guidato da Mario Draghi. Il piano è piaciuto a Bruxelles, che ha consegnato al governo Italiano una vera e propria pagella con un voto molto positivo. La calda accoglienza riservata al piano di un paese in genere indisciplinato come l’Italia non deve sorprendere – né deve essere attribuita al potere taumaturgico di Draghi. Il piano presenta infatti delle differenze rispetto alle versioni precedenti, ma con il medesimo impianto. Si tratta di un massiccio piano di in-vestimenti che, a parere di chi scrive, va nella direzione di contribuire al percorso di ristrutturazione delle catene del valore europee iniziato già da qualche decennio, con l’Italia a ricoprire il ruolo di sub-fornitore di catene aventi la propria testa nel centro manifatturiero del continente – vale a dire in Germania e Francia. In quanto segue, ci con-centreremo sugli aspetti puramente industriali, e tralasceremo completamente il tema delle condizionalità. Queste ul-time, ne siamo ben consapevoli, ci sono e sono anche piuttosto pesanti. Meriterebbero tuttavia una trattazione a parte, e ci porterebbero lontano dalla tesi che intendiamo sostenere in queste poche pagine.
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