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L’obiettivo di questo articolo è fornire evidenza empirica aggiornata sull’andamento della disuguaglianza economica in Italia e nei principali paesi occidentali, ragionando sui meccanismi alla base della crescita delle disuguaglianze registrata pressoché ovunque a partire dagli anni ottanta dello scorso secolo. Si mostra, in particolare, come il mercato del lavoro tenda a produrre disuguaglianze sempre più marcate e, quando nell’analisi si incorpora anche il rischio di scivolare in disoccupazione, risulta evidente come nel nostro paese tale tendenza si sia acuita negli anni della crisi.
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In reazione alla crisi economica è emerso un nuovo sistema europeo di governance economica. Come parte di una politica volta a intensificare il coordinamento della politica economica, salari e contrattazione collettiva sono stati messi al centro dell’agenda politica dell’Unione europea. Nuove forme di interventismo diretto nel campo delle istituzioni e degli esiti della contrattazione collettiva nazionale ambiscono ora ad accrescere la flessibilità verso il basso dei salari, con l’intento di aiutare i cosiddetti paesi in deficit e migliorare la loro competitività nei riguardi dei cosiddetti paesi in surplus. Di conseguenza, i salari dovrebbero divenire la principale variabile di aggiustamento al fine di aggredire gli squilibri economici esistenti. Tale interventismo consiste in tre strumenti principali: le Raccomandazioni rivolte specificamente a singoli paesi nell’ambito del semestre europeo; i Memorandum fra la cosiddetta troika e i paesi che necessitano di assistenza finanziaria internazionale; l’acquisto di buoni del tesoro tramite la Banca Centrale Europea. In conseguenza di ciò, molti paesi europei stanno facendo i conti con tagli e congelamenti salariali (specie nel settore pubblico), politiche salariali restrittive e con un radicale decentramento della contrattazione collettiva, che mina la sua antica vocazione ad essere multi-datoriale, interconfederale e/o settoriale.
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Fra le ricette che compongono la nuova governance economica europea, la revisione dei sistemi contrattuali ricopre un ruolo di forte preminenza. Grazie a essa, è l’assunto, i paesi più colpiti dalla crisi potrebbero recuperare quote di competitività, agendo sulla leva dei prezzi, e dunque dei costi del lavoro. Nella severa cornice dei Trattati, e sotto la vigile regia del Semestre europeo, le istituzioni europee hanno letteralmente dettato l’elenco delle riforme da adottarsi in tema di lavoro e relazioni industriali. L’obiettivo è quello di dotare le aziende della facoltà di determinare flessibilmente le condizioni salariali e di lavoro dei propri dipendenti. Ciò ha richiesto l’allentamento della tradizionale gerarchia delle fonti, ampliando le prerogative del contratto aziendale, congelando le procedure di estensione erga omnes e/o i salari minimi legali, dove vigenti, bloccando la contrattazione del settore pubblico. Fra i paesi che più hanno patito il combinato disposto di queste misure vi sono Spagna, Portogallo e Italia, storicamente accomunati da certo grado di coordinamento della contrattazione, e oggi costretti a fare i conti con una spinta al decentramento, inedita anche per il carattere unilaterale e non concertato dell’interventismo pubblico. L’articolo ne ricostruisce tappe, contenuti e criticità, rilevandone analogie e divergenze, sotto il profilo dei risultati e del diverso rapporto fra Stato e autonomia collettiva.
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Fra le ricette che compongono la nuova governance economica europea, la revisione dei sistemi contrattuali ricopre un ruolo di forte preminenza. Grazie a essa, è l’assunto, i paesi più colpiti dalla crisi potrebbero recuperare quote di competitività, agendo sulla leva dei prezzi, e dunque dei costi del lavoro. Nella severa cornice dei Trattati, e sotto la vigile regia del Semestre europeo, le istituzioni europee hanno letteralmente dettato l’elenco delle riforme da adottarsi in tema di lavoro e relazioni industriali. L’obiettivo è quello di dotare le aziende della facoltà di determinare flessibilmente le condizioni salariali e di lavoro dei propri dipendenti. Ciò ha richiesto l’allentamento della tradizionale gerarchia delle fonti, ampliando le prerogative del contratto aziendale, congelando le procedure di estensione erga omnes e/o i salari minimi legali, dove vigenti, bloccando la contrattazione del settore pubblico. Fra i paesi che più hanno patito il combinato disposto di queste misure vi sono Spagna, Portogallo e Italia, storicamente accomunati da certo grado di coordinamento della contrattazione, e oggi costretti a fare i conti con una spinta al decentramento, inedita anche per il carattere unilaterale e non concertato dell’interventismo pubblico. L’articolo ne ricostruisce tappe, contenuti e criticità, rilevandone analogie e divergenze, sotto il profilo dei risultati e del diverso rapporto fra Stato e autonomia collettiva.
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Come conseguenza di una fecondità stabilmente al di sotto del livello di sostituzione (2,1 figli per donna), gli interventi in tema di politiche familiari, allo scopo di aumentare il numero delle nascite, sono molto cresciuti in Europa negli ultimi anni. Nel 2001 solo un terzo dei paesi europei dichiarava di avere politiche in questa direzione, nel 2009 erano diventati la metà e nel 2016, secondo l’ultima rilevazione delle Nazioni Unite, la percentuale è arrivata al 66%. Il presente contributo intende fornire una panoramica degli studi disponibili sulla valutazione degli effetti delle politiche familiari sulla fecondità in Europa, offrendo un breve focus sull’Italia. Dopo un inquadramento complessivo della fecondità in Europa, vengono illustrati gli studi disponibili sulla materia, i quali prendono in esame sia i trasferimenti in denaro sia le politiche legate al lavoro (ad esempio, i congedi parentali e l’assistenza all’infanzia). In entrambi i casi, gli studi esaminati sono classificati in base all’utilizzo di dati macro (a livello aggregato) o micro (a livello individuale).
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Sullo sfondo di processi di internazionalizzazione le organizzazioni sindacali devono fare i conti con la loro limitata capacità di azione che è principalmente circoscritta entro i confini nazionali. Alla luce delle possibilità limitate di fissare delle norme giuridiche a livello transnazionale, l’opzione più incisiva a disposizione per creare un quadro di riferimento di diritti e standard di lavoro sembra consistere nelle forme di auto-regolamentazione attraverso la conclusione di Accordi aziendali transnazionali (Aat). Per comprendere meglio l’impatto effettivo di questi accordi sulle relazioni industriali nazionali è necessario cercare di capire se e in quale modo gli Aat siano stati applicati a livello nazionale. In questo articolo analizzeremo l’implementazione della Carta globale dei rapporti di lavoro firmata nel 2009 nel Gruppo Volkswagen. Lo studio di caso suggerisce che ciò che conta nel processo di implementazione è il coinvolgimento attivo dei diversi attori ai vari livelli.
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La necessità di tornare a indagare il lavoro sia dal punto di vista empirico sia dal punto di vista teorico, in rapporto ai mutamenti del lavoro e delle problematiche legate alla sua organizzazione. Il valore dell'inchiesta per il lavoro del sindacato, nella testimonianza del Segretario di una Camera del lavoro.