• L’articolo presenta l’analisi della mobilità dei redditi disponibili e di mercato in quattro paesi europei (Italia, Francia, Germania e Danimarca) nei quadrienni precedente e successivo alla crisi economica del 2008. Obiettivo dello studio è proporre una misura per risolvere la discordanza esistente tra i risultati delle classiche misure di disuguaglianza, non aumentate dopo la crisi, e gli indici di percezione delle condizioni di vita, che al contrario registrano un forte peggioramento. A tale scopo, si analizza se la mobilità intra-generazionale sia uno strumento più accurato e sensibile, rispetto alle misure tradizionali di disuguaglianza, a rilevare la volatilità dei redditi e la vulnerabilità familiare, intesa come maggiore insicurezza nelle disponibilità familiari rispetto al passato. L’analisi evidenzia come, mentre il macro-confronto tra paesi europei non rivela una sostanziale modifica nella struttura complessiva della mobilità dopo la crisi, lo studio disaggregato per regioni italiane suggerisce un aumento nella volatilità dei redditi delle famiglie meridionali a basso reddito, validando l’opportunità di utilizzare gli indicatori di mobilità quale indice di vulnerabilità delle fasce più basse del reddito.
  • Obiettivo principale dell’articolo è quello di esaminare quali sono state le strategie e i modelli di rappresentanza adottati dalla Cgil per rappresentare i lavoratori non standard. Si evidenzia come sia possibile migliorare la comprensione delle diverse e molteplici strategie, a partire dall’analisi dei fattori interni al sindacato, identificando quali siano gli attori sindacali e i rapporti di forza tra questi esistenti. L’articolo si conclude con alcune riflessioni sullo studio delle strategie dei sindacati nei diversi paesi.
  • A partire dalla ricostruzione che Burroni (2016) opera sul piano storico ed empirico di quattro modelli di capitalismo, il contributo riflette sulla drammatica esigenza di una «riforma del capitalismo». Ridare legittimità al dibattito sui vari «tipi di capitalismo» consente di portare l’attenzione alle caratteristiche di strutture economiche alternative e di contrastare l’idea di una ineluttabile convergenza verso un unico modello economico. Il contributo si sofferma sulla questione cruciale della riformabilità del capitalismo di cui si confermano assi fondamentali occupazione e investimenti. Al centro debbono, quindi, tornare le domande sul ruolo del «lavoro» e sui «fini» di un «nuovo modello di sviluppo» che rilanci la piena e buona occupazione, soddisfi bisogni trascurati, produca beni pubblici, beni comuni, beni sociali, nella consapevolezza che tali beni sono fragili e hanno bisogno di istituzioni che se ne prendano cura.
  • Il presente contributo illustra i principali risultati del progetto di ricerca europeo Decoba mettendo in evidenza i più recenti cambiamenti delle relazioni industriali all’interno del settore retail in cinque diversi paesi (Germania, Belgio, Francia, Spagna e Italia). In tutti i paesi esaminati la contrattazione collettiva presenta un assetto multilivello, teso a regolare il settore a livello nazionale e a livello decentrato (con accordi aziendali e/o territoriali). In tutti i paesi nel settore del retail la contrattazione collettiva non riesce più a produrre come esito una attenuazione degli effetti negativi generati dal mercato e i sindacati non riescono più ad arginare o contrastare le tendenze verso un peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Tale processo si verifica in tutti i paesi esaminati, nonostante ciascuno presenti un proprio e diverso sistema nazionale di relazioni industriali e di regolazione del lavoro. L’obiettivo è quello di contribuire a una migliore comprensione di tale fenomeno mettendo in evidenza l’importanza non solo dei fattori e delle trasformazioni strutturali avvenute e ancora in corso nel settore, ma anche la centralità delle dinamiche (e dei mutamenti nei rapporti di forza) nelle relazioni tra le organizzazioni sindacali e datoriali all’interno del retail.
  • Il lavoro propone un’analisi storico-economica del ruolo dell’applicazione incompleta e di- storta del modello contrattuale del Protocollo ’93 nel declino dell’economia italiana. Oltre all’abbandono del primo pilastro (la concertazione della politica economica) e alla totale di- sapplicazione del quarto (la modernizzazione delle imprese e il potenziamento del lavoro), il mancato sviluppo della contrattazione decentrata ha comportato la sistematica rottura della «regola d’oro» dei salari (crescita dei salari reali nella stessa misura della produttività del lavoro), costituendo un’insostenibile tutela de facto dei profitti al di là dei meriti di mercato, che ha frenato i consumi delle famiglie e rallentato l’ammodernamento delle im- prese. Una quantificazione controfattuale della redistribuzione dai salari ai profitti operata dal «Protocollo più che dimezzato» stima in 1.069 miliardi di euro a prezzi 2005 l’importo totale del flusso dal 1993 al 2012. Da allora le parti sociali, e soprattutto il sindacato con- federale, hanno fatto significativi passi avanti per recuperare alle relazioni industriali un ruolo propulsivo dello sviluppo, ma sono necessarie ancora importanti riforme in linea con il documento sindacale unitario del 25 gennaio 2016. Anzitutto ristabilire una forma di coordinamento tra la contrattazione e gli obiettivi di politica economica del governo; poi contrattare l’ammodernamento e riorganizzare i luoghi di lavoro; programmare obiettivi di crescita del valore aggiunto e dei salari reali; contrattare l’entità della quota del lavoro nel valore aggiunto; diffondere la contrattazione decentrata, soprattutto sviluppando la contrat- tazione territoriale.
  • Dalla formulazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs) delle Nazioni Unite, la que-stione ambientale è entrata saldamente nell’agenda delle politiche pubbliche. Diversi livelli di governo stanno mettendo in atto misure e programmi per guidare le scelte di amministratori, imprese e cittadini verso il raggiungimento degli Sdgs. In ogni paese le politiche ambientali sono state strutturate sulla base di tre strumenti: la definizione degli obiettivi da raggiungere, l’in-dividuazione di sistemi normativi per vincolare l’azione degli attori pubblici e privati ed evitare che i loro comportamenti causino danni ambientali, la determinazione di incentivi economici per incoraggiare gli attori ad adottare comportamenti ecologici. Questo sistema di obiettivi, incentivi e regole si inserisce in un modo dominante di costruire le politiche di transizione, che si concentra sul mercato e sulla regolazione. È nel mercato che si formano le preferenze per le tecnologie e le pratiche sostenibili, ed è attraverso la regolamentazione che si interviene laddove il mercato non fornisce sufficienti benefici ambientali. Chiamiamo questo modo di strutturare le politiche ambientali «progetto di modernizzazione ecologica», un modello politico che non tiene conto delle diversità sociali e territoriali. Questa cecità alle diversità sociali e territoriali riproduce e genera nuove disuguaglianze, perché l’accesso e la reazione a incentivi e vincoli è diverso a seconda delle condizioni sociali e territoriali. Anche per questo, nelle scienze sociali, una vasta letteratura sta analizzando il rapporto tra transizione ecologica e disuguaglianza. È in questo insieme di lavori che si colloca il nostro contributo
  • Sulla scia della Grande Recessione, l’Europa di oggi è caratterizzata da una polarizzazione economica e politica che si riflette anche nella crescente divergenza delle traiettorie sindacali. Tenendo conto di questo scenario, il saggio traccia un quadro di massima delle tendenze relative alle risorse di potere strutturali, organizzative, istituzionali dei sindacati a partire dai primi anni duemila, nonché alla loro capacità di incidere nel dibattito corrente. Il turbolento panorama sindacale europeo fa emergere in particolare un elemento. Nei decenni passati la maggior parte dei sindacati poteva contare su risorse di potere istituzionali, che contribuivano in misura più o meno sensibile a compensare la perdita di potere organizzativo e strutturale. Di recente, tuttavia, le risorse di potere istituzionali di lungo periodo sono soggette a rischi crescenti di annullamento, di svuotamento o di perdita di efficacia. Così ai sindacati viene richiesto sempre più spesso di trasformarsi in attori politici dotati di maggiore autonomia. E ciò comporta la necessità strategica di sviluppare le loro risorse di potere societale. Questo contributo trae spunto dal volume di S. Lehndorff, H. Dribbusch, T. Schulten (a cura di), Rough Waters. European Trade Unions in a Time of Crises, Etui (Istituto sindacale europeo), Bruxelles, 2018.
  • Il mondo delle donne attraversa e s’incrocia con la realtà del sindacato, ma si tratta di una presenza per molti aspetti sommersa, sia sul piano dell’identità collettiva che nel fitto intreccio dei percorsi individuali. Le donne hanno contribuito in maniera forte, anche se non sempre visibile, a sancire diritti e cittadinanza per tutti i lavoratori, uomini e donne. C’è poi una tradizione di lotte che rimanda alla specifica condizione femminile sul lavoro e allo sviluppo del welfare state. Ma, soprattutto, emerge il nodo problematico dell’autonomia del mondo femminile nel sindacato, che ha, tradizionalmente una configurazione fortemente maschile. Indagare tale aspetto vuol dire analizzare se e come la cultura delle donne sia riuscita a ridisegnare strategie, obiettivi e pratiche politiche del sindacato. Ed infine si indaga sul confronto, in differenti stagioni storiche, con i movimenti delle donne e con le culture sottese: l’emancipazionismo e, in tempi assai più recenti, la cultura della differenza.
  • Nel Novecento italiano le classi lavoratici hanno espresso - a partire da concrete condizioni di vita e di lavoro - specifici patrimoni culturali, e cioè insiemi di idee, di valori e di giudizi sugli uomini e sulle cose. In particolare, hanno dato vita a culture del lavoro e a culture sindacali e politiche che sono diventate parte costitutiva del bagaglio ideologico del movimento dei lavoratori e dei partiti della sinistra, influenzandone fortemente scelte e strategie. Questo gioco di influenze non è naturalmente stato a senso unico, perché a loro volta i quadri e i dirigenti sindacali hanno consapevolmente o meno legittimato alcuni tratti (e non altri) del profilo sociale e culturale delle classi lavoratrici di riferimento. Ciò spiega, ad esempio, la relativa variabilità interna e persino i profili contraddittori della cultura politica dei sindacati e del movimento operaio, che fanno riferimento ora all’una ora all’altra delle anime costitutive della loro tradizione. Il volume offre una serie importante di contributi su questo versante poco esplorato, mettendo in campo studi, ricerche e interpretazioni di diversa provenienza disciplinare, dalla storia sociale all’antropologia culturale, dalla sociologia alla medicina del lavoro, e facendo riferimento a differenti metodologie di ricerca, dalla storia orale alle autobiografie, dalla documentazione grigia ai materiali audiovisivi. Le analisi sui tre fronti che stanno al centro di questo libro (culture operaie e del lavoro, identità sindacali, culture territoriali e politiche) alimentano poi un ricco e serrato confronto finale sulla modernità, guardando alle esperienze di questo viaggio mirato nell’Italia del Novecento per valutare il presente e il futuro del lavoro e il suo complesso e mutante significato sociale.