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In questo articolo ci si interroga su come dare maggiore incisività alla governance dell’Agenda sociale europea e maggiore «socializzazione» all’attuale strategia verso gli obiettivi di Europa 2020. Le autrici sostengono che le carenze del Metodo aperto di coordinamento europeo sono legate alla vaghezza del legame tra obiettivi e politiche degli Stati membri. In questo quadro il coordinamento sociale europeo si riduce a programmi di lavoro tecnici senza un fattivo collegamento con gli input delle politiche. Come primo passo in questa direzione la proposta delle autrici è quella di integrare i cosiddetti «indicatori ausiliari di risultato (output)» con i relativi «indicatori di input». L’inserimento di input di questo tipo consentirebbe alla governance europea di emanare raccomandazioni più equilibrate e coerenti, sostenendo gli sforzi dei paesi membri nell’elevare gli standard delle politiche di contrasto della povertà.
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RPS Reddito minimo nel Sud Europa. Quali sviluppi con la Grande Recessione? Marcello Natili Tradizionalmente gli schemi di reddito minimo costituivano gli strumenti di politica sociale meno sviluppati tra i paesi appartenenti al cosiddetto modello Sud europeo di welfare. La Grande Recessione ha tuttavia portato con sé riforme che hanno contribuito a modificare – e in alcuni casi a erodere drasticamente – i sistemi di protezione sociale in questi paesi. Il presente contributo mira a verificare se questi eventi sono seguiti da un rafforzamento delle reti di sicurezza di ultima istanza, e se questo sia avvenuto in maniera simile in Grecia, Italia, Portogallo e Spagna.
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Il presente articolo lega la drastica e diffusa diminuzione dell’investimento pubblico al «nuovo consenso» che in economia si è imposto a partire dagli anni ottanta, centrato sull’efficienza dei mercati e su un ruolo limitato della politica economica. Il consenso ha influito in particolare sulle politiche condotte in Europa, dove ha anche plasmato le istituzioni per la governance economica. La crisi del consenso consente di riflettere su riforme che permettano alla politica economica di riprendere il ruolo di motore dello sviluppo di lungo periodo che aveva nel secondo dopoguerra. Si propone una «regola d’oro aumentata» di bilancio che consenta ai governi e alle istituzioni europee di coordinarsi su investimenti (materiali e immateriali) forieri di sviluppo economico a lungo termine. Tale regola consentirebbe di recuperare una «politica industriale» europea, troppo a lungo assente, e di riaffermare la democraticità del processo decisionale.
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L’articolo si focalizza sugli strumenti di finanziamento a lungo termine per le infrastrutture sociali. Nel quadro di una riorganizzazione generale delle leve di finanza pubblica per le infrastrutture e in ragione del rilancio degli investimenti per la crescita vengono passate in rassegna alcune tra le principali alternative di finanziamento non pubblico per il welfare, con una particolare attenzione alla finanza di progetto (Ppp). Nella seconda parte l’articolo concentra la sua attenzione sul ruolo degli investitori istituzionali e dello Stato all’interno di piani di investimento a lungo termine per le infrastrutture sociali. Alla luce dell’analisi svolta, nella parte finale vengono avanzate proposte di rilancio degli investimenti, pubblici e privati, a sostegno dell’Agenda sociale europea.
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Dopo anni di politiche di austerity in Europa, che hanno prodotto effetti negativi sull’occupazione e sugli standard del lavoro e sociali, è evidente la necessità di rilanciare il modello sociale europeo, nonché di imprimere un cambio di marcia e di impostazione nel campo delle politiche sociali e della contrattazione collettiva e dei salari. L’occasione per farlo è offerta dalla procedura di aggiornamento del Pilastro europeo dei diritti sociali promosso dalla Commissione europea. L’articolo dà conto della posizione assunta dalla Confederazione europea dei sindacati che, insieme alle organizzazioni sindacali nazionali, è impegnata in una iniziativa di pressione sui governi e di stimolo verso la Commissione. L’azione sul Pilastro permetterà di verificare se esso diventerà effettivamente un punto di partenza per far avanzare l’Agenda sociale dell’Unione europea, oppure se resterà un catalogo di buone intenzioni senza la forza di invertire le politiche seguite nel corso degli ultimi anni.
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L’articolo affronta in termini generali il tema delle possibili riforme fiscali attuabili nel nostro paese in tempi di crisi e, a maggior ragione, di ripresa della crescita. Si sofferma, in particolare, sulle linee di riforma dell’Irpef e dell’Ires e sulla possibilità di compensare la riduzione di tali imposte con l’istituzione di altri tipi di prelievo gravanti su nuove forme di ricchezza. Si sottolinea, altresì, la necessità, allo stato attuale, di mettere comunque a punto un sistema tributario che garantisca il finanziamento dello Stato sociale e, nel contempo, consenta di ridurre le forti disuguaglianze. Il rilancio della produttività dovrebbe, invece, essere perseguito soprattutto attraverso la spesa per investimenti pubblici.
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La politica economica dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni in Italia si è orientata a un taglio delle imposte accompagnato da politiche di contenimento della spesa come ricetta per far ripartire la crescita economica. La direzione di marcia – sostenuta anche da proposte radicali di riforma portate avanti da think-tank privati – sembra essere dunque quella verso un modello di welfare state con meno Stato e un po’ più mercato. L’articolo si sofferma sulle opzioni per l’organizzazione delle politiche sociali, su cosa stiano facendo gli altri paesi, su come conciliare la visione di un welfare «assicurativo» con quella di un welfare «redistributivo», nonché sui vincoli aggiuntivi alla riforma dovuta di un modello corporativo datato per il nostro paese.
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L’articolo si propone di dialogare con il volume curato da Mazzucato e Jacobs (2017), la cui intenzione è quella di ripensare la teoria economica, nella sua essenziale dimensione anche politicoeconomica. La crisi del neoliberismo è vista come l’occasione per discutere cosa sia necessario fare per «salvare» il capitalismo, instaurando una economia socialmente ed ecologicamente «sostenibile» e meno diseguale. Il merito del volume risiede nella intersezione tra l’approccio macro-monetario post keynesiano e la visione neo-schumpeteriana ed evolutiva dell’innovazione, entrambe aggiornate per una migliore comprensione del capitalismo odierno. Alcune problematicità presenti nei saggi dei diversi autori sono qui messe in rilievo e, soprattutto, viene sottoposta a scrutinio la proposta che attraversa tutto il volume, sino a porsi il quesito: la socializzazione dell’investimento comporta salvare il capitalismo o uscire dal capitalismo?
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L’articolo riassume, nella prima parte, il volume di Mazzucato e Jacobs (2017) seguendo la ricostruzione fatta dai curatori nell’introduzione. Nella seconda parte sintetizza e analizza riticamente il saggio di Lazonick mettendo in evidenza il limite di un concetto di innovazione senza una direzione, ben presentata da altri contributi, in particolar modo quello di Mazzucato. Viene, infine, criticata l’idea che sia possibile un processo di trasformazione sociale basato sulla contrapposizione tra aziende innovative e no. Il carattere sistemico e interconnesso del capitalismo, infatti, richiede politiche radicali di sistema come sostenuto da molti dei contributi del volume.
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Il populismo oggi appare, ancor prima che un’ideologia precisa, un repertorio di stili di azione e di comunicazione a cui è difficile per qualunque soggetto politico non fare ricorso. Anche perché, nelle diverse democrazie occidentali, diventa sempre più significativa la linea di frattura che oppone la classe politica tradizionale alla protesta anti-establishment. Una frattura che si intreccia con i temi della globalizzazione neoliberale, per cui se da una parte ci sono i «globalisti», ovvero i sostenitori delle élite (politiche, economiche, culturali, mediatiche) che ne governano i processi, dall’altra monta la rabbia dei «perdenti della globalizzazione», ovvero di quegli strati sociali che hanno maturato un distacco sempre più ampio rispetto alle élite, al loro linguaggio e alle loro politiche, incapaci di porre rimedio all’impoverimento dei ceti medi e all’aumento delle diseguaglianze. Si tratta di cambiamenti che incidono profondamente nel modificare «l’offerta» politica in senso, appunto, populista. In questa chiave è interessante chiedersi quale incontro si possa verificare tra offerta e domanda, in particolare rispetto a un segmento specifico della domanda, ovvero i giovani, che rappresentano l’avanguardia del cambiamento sociale. Obiettivo di questo contributo è quindi quello di rintracciare possibili contiguità e differenziazioni tra questione populista e cultura politica dei giovani.
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L’articolo analizza l’importanza dello Stato rispetto all’innovazione sociale concentrandosi su due temi collegati: il rapporto fra innovazione e conoscenza e il ruolo dello Stato come istituzione per la conoscenza pubblica. Innovazione sociale è un quasi-concetto, dai contorni e dai significati vaghi. Ciò lo rende malleabile e adattabile a punti di vista differenti e al tempo stesso sfuggente e ambiguo. In effetti la realtà empirica dell’innovazione è caratterizzata da un’elevata eterogeneità. Dopo aver messo in evidenza in che modo le istituzioni e lo Stato intervengono in questo quadro, il saggio discute la dimensione conoscitiva e ideazionale dell’innovazione sociale. L’obiettivo è delineare il profilo di uno Stato innovatore e i problemi che esso incontra alla luce dei cambiamenti dell’azione pubblica in atto negli ultimi decenni. Oltre che supportare processi di upscaling e far fronte al rischio dell’incertezza, questo profilo implicherebbe: mediare e redistribuire poteri ideazionali; sostenere le capacità sociali di configurare nuove connessioni fra problemi e soluzioni; aprire alla discussione pubblica le basi informative delle decisioni.
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