• La serie storica delle partenze degli italiani per l’estero dell’ultimo ventennio evidenzia chiaramente un ritorno alla crescita dell’emigrazione italiana che nel decennio della crisi assume i caratteri di un fenomeno emergente. La sua misurazione è una delle questioni cardine nell’analisi del fenomeno. L’articolo affronta questo problema ricorrendo alle statistiche in merito alle iscrizioni e alle cancellazioni dai registri dell’anagrafe comunale e ai dati dell’Aire. Queste informazioni sono poi comparate con i dati delle fonti statistiche dei paesi di destinazione in merito all’ingresso e al soggiorno dei cittadini stranieri.
  • I nuovi migranti si inseriscono in un mercato del lavoro trasformato rispetto ai flussi dei decenni passati. Attualmente nei principali paesi europei avanzano processi di de-regolamentazione e di precarizzazione della forza lavoro. I nuovi impieghi assumono la caratteristica prevalente della sotto-occupazione e vi è stata un’ampia diffusione di forme contrattuali atipiche: in Germania l’area dei nuovi occupati corrisponde quasi perfettamente all’aumento dei part-time, in Francia è per lo più a tempo determinato e nel Regno Unito in alcuni settori si sono estesi gli zero-hours contracts. L’intento dell’articolo è superare l’interpretazione delle attuali migrazioni interne all’Unione europea come causa di dumping sociale. Piuttosto si evidenzia come le fratture tra una parte più esposta alla precarietà e l’altra maggiormente garantita, seppur in diminuzione, avvengano all’interno delle stesse componenti nazionali. Il caso dei nuovi emigranti italiani mette in luce come le trasformazioni del mercato del lavoro dell’ultimo decennio abbiano inciso sul loro inserimento. I dati mostrano un rapido aumento degli italiani occupati, sia nelle attività del mercato del lavoro standard, sia in quello precario e atipico.
  • Il contributo propone un’analisi della recente immigrazione italiana nel Regno Unito. Si tratta di un’immigrazione di «nuova generazione» relativa al periodo che va dall’inizio degli anni duemila fino ai nostri giorni; periodo caratterizzato da forti cambiamenti economici, politici e sociali che sfociano, nel 2016, nell’inaspettato risultato referendario a favore della Brexit. L’analisi del voto pro-Brexit e in particolare di alcuni fattori fondamentali per il suo espletarsi – in primis le politiche migratorie nonché le strutture e il livello di regolazione del mercato del lavoro – forniscono il quadro congiunturale all’interno del quale spiegare i cambiamenti in termini quantitativi e qualitativi dell’immigrazione italiana nel paese.
  • La nuova emigrazione italiana ha perso i tratti distintivi conosciuti in passato: origine territoriale prevalente, matrice operaia e contadina, scolarità relativamente bassa, aggregazione in comunità di italiani regionali se non locali. I «cittadini mobili» hanno ben altre caratteristiche che sottendono nuove esigenze e nuovi bisogni. Il fenomeno della nuova migrazione viene spesso enfatizzato e, contestualmente, «governato». Lo stereotipo della «fuga dei cervelli» sovrasta la meno interessante «fuga delle braccia» che rappresenta, in ogni caso, la componente principale dell’odierno fenomeno. L’articolo, a partire dalla presentazione di alcune storie di casi rappresentativi, si sofferma sulle questioni che maggiormente interessano i nuovi migranti: lavoro, casa, sanità.
  • La nuova emigrazione riguarda tutte le regioni d’Italia con il paradosso che per molti anni nel decennio in corso la Lombardia è stata la principale regione di emigrazione all’estero. E ciò è dovuto alla complessità del quadro delle figure interessate e alle diverse motivazioni delle loro partenze. Ma le regioni del Mezzogiorno perdono popolazione non solo per l’emigrazione all’estero, ma anche per quella interna che è proseguita anche negli anni della crisi e della stagnazione. Ed è proprio la «fuga dalla crisi» che spiega l’emigrazione meridionale soprattutto per quel che riguarda i giovani. Questo esodo giovanile ha gravissimi effetti strutturali, tanto a livello demografico che di capitale umano, e può portare a una vera spoliazione del Mezzogiorno in termini di risorse umane valide, con effetti devastanti e forse definitivi per l’economia meridionale. A questo riguardo già il Rapporto Svimez 2011 faceva riferimento a un probabile tsunami demografico caratterizzato da un progressivo e rapido invecchiamento della popolazione residente nel Mezzogiorno che, con la riduzione della presenza al Sud di oltre due milioni di giovani al disotto dei trent’anni, perde la quota più giovanile e più fertile della popolazione. Per comprendere la spinta all’emigrazione e le conseguenze a livello di struttura demografica è necessario comprendere le linee di politica economica seguite negli ultimi decenni.
  • Quali sono le condizioni per «fare scienza» e fino a che punto un’esperienza di ricerca oltre i confini nazionali può contribuire al miglioramento del sistema scientifico in patria? Nella prima parte saranno discussi i risultati di una survey somministrata a un ampio campione di scienziati italiani – 528 risposte raccolte – che si trovano in Europa e che fanno capo alle hard sciences (matematica, ingegneria, fisica). Nella seconda parte, invece, saranno analizzate, con metodi qualitativi e quantitativi, interviste in profondità condotte su un insieme selezionato di 83 scienziati italiani che lavorano all’estero. La base su cui poggia l’analisi è la mappatura sistematica dei contenuti. I dati raccolti con i due strumenti hanno fornito le informazioni necessarie per ricostruire e interpretare gli aspetti rilevanti dell’esperienza degli scienziati. Questo ha consentito di portare alla luce: le caratteristiche e le condizioni più favorevoli per fare scienza in Europa; le critiche al sistema scientifico italiano (così come percepite da coloro che hanno intrapreso percorsi di mobilità); le proposte per il miglioramento del sistema italiano di alta formazione e ricerca.
  • A trent’anni dal varo del programma europeo Erasmus, il contributo si concentra sulle dinamiche e le destinazioni degli studenti che vi hanno partecipato. L’articolo parte dall’analisi della mobilità studentesca legata allo schema europeo, mettendo in luce come questo sia divenuto da un lato parte strutturale della formazione terziaria di migliaia di studenti europei e dall’altro una delle componenti significative della mobilità intraeuropea della popolazione dell’Unione. Non vi è dubbio che questo programma abbia rappresentato, e continui a farlo nella sua rinnovata veste Erasmus+, un modello di promozione dell’identità europea e di acquisizione di competenze linguistiche, sociali e culturali dei paesi ospitanti. Allo stesso tempo, in particolare per gli studenti dei paesi dell’area mediterranea, lo schema ha finito per rappresentare anche un trampolino per l’emigrazione verso mercati in grado di assorbire la loro offerta di lavoro. Le reti di relazioni e le competenze acquisite nel soggiorno di studio si sono rivelate, come documentato in molti studi e indagini recenti, un bagaglio indispensabile e abilitante l’emigrazione successiva alla fine degli studi.
  • Una delle conseguenze della crisi del 2008-2015 è la crescita esponenziale dell’emigrazione dei giovani italiani a più elevato livello di istruzione. L’articolo analizza questo fenomeno sotto il profilo sia della sua dimensione quantitativa, sia della stima dei costi economici per la società italiana nel suo complesso attribuibili all’emigrazione dei giovani laureati. Poiché questa situazione rischia di produrre conseguenze permanenti sulla società e sull’economia italiana, riducendo la base apicale del capitale umano del paese, questo contributo si spinge anche sul terreno di possibili policies di rientro.
  • l Rei è un provvedimento cruciale per il nostro paese, ma i passi da compiere sono ancora molti, se si vuole evitare che la riforma rimanga incompiuta. Innanzitutto c’è un problema di risorse, ancora insufficienti per raggiungere tutta la platea di persone in povertà assoluta e per rendere la misura adeguata, sia per quanto riguarda l’importo dei contributi economici erogati ai beneficiari, sia relativamente alla disponibilità di servizi. Gli importi stabiliti, infatti, non consentono ai beneficiari di raggiungere la soglia di povertà (l’importo di una misura contro la povertà si determina come la distanza tra la soglia di povertà e il reddito disponibile) e di soddisfare adeguatamente le proprie esigenze primarie. Da rafforzare anche i percorsi di inclusione sociale e lavorativa, ai quali deve essere assicurato un finanziamento appropriato, anche per potenziare le competenze tecnico-professionali incaricate di gestire tali processi.
  • Le disuguaglianze sono in crescita e le pratiche di welfare non riescono a contenerle. Il dibattito degli ultimi cinque anni si è concentrato sui trasferimenti monetari e sulla loro capacità di ridurre la povertà. I risultati non corrispondono alle aspettative e invece di ridurla è cresciuto l’assistenzialismo. È una grande criticità del welfare italiano, malgrado l’incremento delle risorse destinate a questo scopo. Prevale il materialismo metodologico fatto di tanti trasferimenti con pochi servizi, in un cronico deficit di infrastrutture e di capacità professionali per aiutare ad aiutarsi. Le probabilità che il Reddito di inclusione contribuisca a invertire questo andamento sono da scoprire, ma intanto conosciamo tutti i rischi di analoghe pratiche categoriali. La nuova misura non è esente da queste criticità e potrà contribuire alla duplicazione delle risposte, che già oggi si sovrappongono anche a vantaggio di chi non ne ha bisogno. Le analisi nelle regioni dove sono state anticipate azioni analoghe non sono incoraggianti. Per questo sono necessarie verifiche indipendenti e rigorose sui risultati di processo, di esito e di impatto sociale.
  • Più 142%: è stato questo l’incremento degli individui in povertà assoluta nel nostro paese tra il 2005 e il 2015, saliti dal 3,3% (1,9 milioni) sino al 7,6% del totale (4,6 milioni), con un parallelo aumento dei nuclei familiari coinvolti dal 3,6% (820 mila) al 6,1% (1,58 milioni). L’ampiezza della crescita quantitativa della povertà, però, rischia di distogliere l’attenzione dall’elemento di maggiore novità dell’ultimo decennio, cioè i cambiamenti distributivi che si sono accompagnati alla salita del tasso complessivo. In una prospettiva di medio-lungo periodo, infatti, emerge una profonda modificazione non solo nell’incidenza della povertà assoluta, ma anche nella sua distribuzione tra i diversi gruppi sociali interessati e, di conseguenza, nella composizione complessiva della popolazione colpita. Tuttavia, non sono stati ancora pubblicati – a conoscenza di chi scrive – lavori scientifici dedicati all’analisi delle trasformazioni menzionate. L’articolo intende contribuire a colmare questa lacuna.