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I quartieri popolari sono divenuti la «nuova questione sociale». Luoghi stigmatizzati dove vivono soggetti e gruppi maggiormente colpiti dai mutamenti degli assetti socio-economici. L’interazione tra processi di esclusione e segregazione spaziale alimenta un circolo vizioso che enfatizza una logica d’emergenza. In tali contesti la presenza di nuclei immigrati rappresenta un ulteriore fattore critico che rafforza l’idea di uno «spazio altro». La risposta dell’azione pubblica è di promuovere le cosiddette «area-based policies» focalizzate sull’assunto di ricostruire il legame sociale e una sorta di socialità positive. Gli effetti di queste politiche risultano deboli poiché non affrontano le cause strutturali della segregazione sociospaziale e, soprattutto, non riducono la distanza tra la periferia e il centro. Vi è, quindi, la necessità di creare nuove forme di cittadinanza attraverso il rinnovamento dell’azione amministrativa e il cambiamento delle periferie in autonomi spazi di dialogo per condividere l’innovazione delle politiche.
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Nell’articolo si presentano i principali risultati di una ricerca sui processi di cambiamento e sulle condizioni di vita degli abitanti dei quartieri storici della città di Cosenza. L’ipotesi interpretativa è quella della periferizzazione (Magatti, 2007), realizzatasi attraverso forme progressive di abbandono e di degrado per cui il centro storico appare, oggi, svuotato della popolazione residente, delle funzioni e delle relative strutture politicoamministrative, economiche e culturali. Una parte consistente della popolazione residente vive condizioni di disagio sociale e povertà, a fronte della carenza dei servizi pubblici e privati. L’agire delle élite politiche appare contraddistinto da una scarsa attenzione istituzionale ai quartieri storici e al loro vissuto, fatta eccezione per alcune fasi di vita politica della città. Nel complesso, è assente una strategia integrata di recupero (Vitale, 2009) e di contrasto ai processi di abbandono e di marginalità sociale.
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Mutamenti strutturali e recessione economica hanno impatti significativi sulle condizioni di vita, specie nei sistemi di welfare familisti dell’Europa del Sud comparativamente meno redistributivi e inclusivi. Tra le implicazioni più evidenti vi è una fatica crescente a mantenere l’alloggio di abitazione, l’incremento delle morosità in relazione sia agli affitti sia ai mutui, l’aumento e l’accelerazione delle procedure di sfratto. Chi perde la casa e non trova soluzioni nelle proprie reti primarie si rivolge ai servizi sociali dei Comuni. In assenza di soluzioni adeguate, questi ricorrono tipicamente a strutture ad alta intensità assistenziale (come Rsa e comunità) o a stanze d’albergo, soluzioni al tempo stesso costose e inappropriate. Per far fronte all’aumento dei bisogni nel quadro di risorse decrescenti, molti enti locali sperimentano – in ordine sparso – soluzioni innovative. Questo contributo analizza la recente sperimentazione di un programma di «Residenzialità sociale temporanea» promosso dal Comune di Milano, che, insieme a una riconversione e maggiore efficacia della spesa corrente, mira a configurare soluzioni residenziali più appropriate.
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I temi del territorio, dello sviluppo locale e della tutela delle condizioni di vita dei lavoratori e dei cittadini sono da sempre al centro dell’azione del sindacato milanese. Tale attenzione si è tradotta nel tempo in varie esperienze e pratiche sindacali all’interno del contenitore della contrattazione territoriale. In questo contesto, obiettivo dell’articolo è, in primo luogo, quello di analizzare il ruolo giocato dal sindacato milanese negli anni delle crisi e delle trasformazioni sociali, economiche e demografiche che l’hanno accompagnata. In particolare ci si concentrerà su alcune esperienze innovative per temi trattati, destinatari e modalità d’azione. In secondo luogo ci si chiederà se e in che modo la contrattazione territoriale può rappresentare una strada da seguire per rappresentare vecchi e nuovi bisogni sociali.
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Le aree militari nelle città italiane sono ormai da alcuni anni al centro di politiche contrastanti. Quattro ordini di tensioni permettono di rendere conto delle negoziazioni, dei disaccordi e dei frequenti fallimenti nel riuso di tali patrimoni pubblici: sull’oggetto di intervento, come attivi di bilancio o beni territoriali; sulle procedure, tra riforma costante e politica dello status quo; sugli obiettivi per le città, tra massimizzazione e redistribuzione della rendita fondiaria; e infine sulle risorse da mobilizzare per il riuso, legate all’aspettativa e all’assenza di un mercato per tali beni. Lo studio delle aree militari, riunendo analisi delle riforme dello Stato e economia politica delle città, permette di riflettere sui nodi della trasformazione della città pubblica in un’epoca di riforme di austerity, contrazione del pubblico e crisi economica.
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Livorno continua a essere una città decisiva per la storia d’Italia: la nascita del Partito comunista, l’imponente passato industriale, la mobilitazione operaia e adesso la ristrutturazione industriale e la rielaborazione identitaria. Tra cambiamento e persistenza, Livorno si pone come laboratorio per tutte le ex città industriali italiane, almeno su due piani: a livello strutturale, la città «esplode» la transizione dall’industria portuale e cantieristica alla rendita finanziaria e alla rigenerazione urbana, mentre – sul piano della governance – le rappresentanze della classe operaia (il partito, che a Livorno mantiene una linea di continuità ideale con l’epoca comunista, la Camera del Lavoro e le cooperative dei lavoratori) dismettono la conflittualità di classe e contribuiscono prima all’aumento della produttività, poi alla gestione dello sviluppo urbano nella città deindustrializzata. L’articolo riassume sessanta anni di storia livornese, tra economia, politica e società.
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Da almeno due decenni gli stadi europei hanno intrapreso la strada di una profonda trasformazione. Oltre che nelle esigenze del calcio contemporaneo, tale trasformazione ha radici anche nei cambiamenti in atto nel campo delle politiche urbane. Gli stadi moderni sono oggi assai più che un mero spazio all’interno del quale assistere alla partita. Sempre più essi divengono luoghi privati, costruiti come efficienti cash machine destinate a un ampio spettro di attività di consumo. Questi cambiamenti promuovono nuovi pubblici di clienti con ampie capacità di spesa, assai diversi dai tifosi tradizionali. Lo stadio è dunque un luogo entro cui si affermano dinamiche commerciali e di gentrification, in un quadro ben più ampio e generalizzato di mercificazione dello spazio pubblico comune a molte città contemporanee.
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L’Unione europea a 28 paesi membri è il maggior produttore di ricchezza del mondo: il più grande importatore e il più grande esportatore di beni e servizi. È un gigante economico inconsapevole (e un nano politico). Le politiche economiche fondate sulla «austerità accrescitiva» e il fiscal compact condannano l’Europa a una bassa crescita e a una disoccupazione strutturale. La specializzazione manifatturiera europea è progressivamente in competizione con quella asiatica (sia nella gamma alta della produzione che in quella bassa). Nel frattempo la crisi ha cambiato i bisogni sociali e ridotto gli investimenti sul welfare. L’assenza di politiche industriali di indirizzo e il contenimento della spesa pubblica hanno portato a un impoverimento progressivo del territorio: per crescita inquinamento e scarsità di manutenzione. L’Europa ha bisogno di un nuovo «modello di sviluppo» basato sulle sue caratteristiche e le sue vocazioni storico-economiche e orientato ai bisogni delle persone e dei territori (sostenibilità sociale e ambientale). Questo salto di politica non è realistico si compia a partire da decisioni top down. La nuova crescita nasce da risposte locali ai nuovi bisogni (delle persone e dei territori). Da questa domanda si creeranno nuovi mercati su cui orientare le produzioni innovative di merci e servizi. «La domanda locale determinerà l’offerta globale». Il sindacato può essere agente e protagonista di questa svolta con la contrattazione sociale territoriale e la microconcertazione con i governi locali, a partire dalle città.
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Per lungo tempo il tema del welfare contrattuale ha attraversato il dibattito interno alla Cgil, alimentando sospetti, reticenze, contraddizioni che non hanno consentito una riflessione approfondita sulla natura del fenomeno e sulle sue possibili evoluzioni, ritardando così l’elaborazione di una propria visione autonoma. Oggi il tema del welfare contrattuale è diventato centrale nel dibattito nazionale, tanto nelle azioni del governo, quanto nelle posizioni e nelle proposte dei soggetti di rappresentanza, innanzitutto di parte datoriale. In particolare, sul welfare aziendale la recente Legge di stabilità ha previsto ulteriori misure di sostegno e agevolazioni di natura fiscale. Solo un solido sistema di welfare pubblico e universale consente di sviluppare esperienze di welfare integrativo sostenibili anche in termini di costi e convenienze contrattuali. Anche per questo il welfare contrattuale (nazionale o aziendale) pur se rivolto solo ai lavoratori dipendenti e ai loro familiari deve contribuire a quello universale e in questo senso è decisivo il rapporto tra il welfare contrattuale/aziendale e il territorio dove opera l’impresa.
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In questi anni a fronte di una minore tutela offerta dal welfare pubblico, è cresciuto il peso del welfare aziendale e contrattuale, e con esso, anche il rischio di accrescere le distorsioni già esistenti, in particolare quelle distributive e territoriali. È stato invece poco esaminato il ruolo dello Stato sulla crescita del welfare contrattuale e aziendale, in particolare attraverso le misure fiscali. È questo il tema su cui si concentra l’articolo, analizzando in particolare le misure di agevolazione contributiva e fiscale, introdotte a partire dal 2007, con l’obiettivo di favorire la diffusione della contrattazione di secondo livello e la crescita della produttività. Con il recente intervento del Governo Renzi sono state inserite alcune modifiche in grado di generare anche effetti diretti sulla crescita del welfare aziendale e contrattuale. Dopo aver esaminato le caratteristiche di queste misure dal 2007 a oggi, le risorse stanziate e il loro possibile impatto sulla diffusione della contrattazione decentrata e sulla crescita del welfare contrattuale e aziendale, vengono messi in evidenza alcuni effetti negativi e si avanzano alcune proposte per favorire la crescita di un welfare aziendale e contrattuale più inclusivo.
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Il Denaro, il Debito e la Doppia Crisi, spiegati ai nostri nipoti è l’ultimo libro di Luciano Gallino, pubblicato circa un mese prima della sua scomparsa a novembre dello scorso anno1. Il motto che Gallino ha posto in esergo al libro (riprendendolo da Rosa Luxemburg) è questo: «Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario». «Ciò che è» Gallino vuole dirlo soprattutto ai giovani, rappresentati dai suoi nipoti, ai quali il libro è rivolto. E «ciò che è», nel mondo contemporaneo agli occhi di Gallino – non possiamo sorprendercene – ha i colori del grigio scuro, se non del nero. Però c’è anche quel che potrebbe essere e qui Gallino si sforza di vedere altri, più rasserenanti, colori; su di essi vuole attirare lo sguardo dei giovani. Questo indirizzamento dello sguardo verso nuovi orizzonti raggiungibili ha il valore di un messaggio speciale (non direi testamento, e non solo perché la parola non è tra quelle che preferisco) da parte di uno studioso per molti versi unico. A quel messaggio è bene prestare tutta l’attenzione che merita. Queste note sono un tentativo di farlo.
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Scopo di questo articolo è rileggere l’analisi che Luciano Gallino compie della crisi del capitalismo e del sistema ecologico alla luce del suo precedente lavoro teorico e di ricerca empirica. L’ipotesi è che lo sviluppo della sua prospettiva sociologica di analisi della crisi e la critica delle sue configurazioni istituzionali e culturali sia radicata nella teoria della società che l’autore ha elaborato nel corso della sua lunga carriera intellettuale ma prenda anche le distanze da precedenti rappresentazioni della struttura di classe e della lotta di classe. L’analisi di Gallino della finanziarizzazione della società e del modo in cui la sua logica è stata applicata alle relazioni sociali e politiche induce a un ripensamento della metodologia delle scienze sociali allo scopo di riconsegnare la sociologia alla sua originaria vocazione critica.